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Capitolo 1 L’immagine del senza fissa dimora

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(1)

Capitolo 1

L’immagine del senza fissa dimora

1.1

G

LI STEREOTIPI NELLA STORIA

:

LO SCIOPERATO E IL BARBONE ROMANTICO

Le persone senza dimora costituiscono un dato sociale in forte aumento, tipico dei paesi ricchi, tra cui il nostro. Questo fenomeno rientra in quello più generale dell’esclusione abitativa (homelessness), che comprende oltre ai senza dimora, anche i nomadi, immigrati, parte dei malati psichici e chiunque non veda soddisfatto il diritto ad avere una casa.

Il fenomeno delle persone senza fissa dimora ha la caratteristica di non avere respiro locale, ma internazionale, e d’essere molto complesso, così come complesse risultano essere le storie di vita di tali persone. Per comprendere meglio di chi intendiamo parlare, risulta interessante ripercorrere l’immagine che del senza fissa dimora, del vagabondo, del “barbone”, del clochard, del sans abri si è data nella storia.

(2)

Il vagabondo compare come l’uomo che non conosce dimora, che non è in grado di spiegare al tribunale dove abita, che pratica il vagare come il suo costante modo di vivere e quasi il suo mestiere. La caratteristica principale del vagabondo è la ripugnanza al lavoro, l’incapacità organica ad un’occupazione continua e metodica, la deficienza nei poteri inibitori della volontà1.

Due autori torinesi, alla fine del secolo scorso, riportarono alcune relazioni inglesi sulla vita dei tamps (vagabondi) risalenti al 1866, dove si dice che: “molti di loro, durante tutta la loro vita, non hanno dato una settimana di seguito al lavoro; e quando non sono nelle workhouses (ospizi) traggono l’esistenza mendicando o rubando. Il 15% dei vagrants (mendicanti) non lavorano mai. Quando si tratta di lavorare i vagabondi rifiutano persino il soccorso2.

Secondo questa descrizione, i vagabondi sarebbero persone che rifiutano volontariamente la civiltà moderna e che portano avanti una vita caratterizzata dall’inerzia e dal disimpegno.

E’ forse utile ricordare come il “rifiuto del lavoro” sia invece portato dalla difficoltà di riqualificare le proprie capacità lavorative. Molte storie di “non lavoro”, e lo stesso “rifiuto al lavoro”, spesse volte sono date dalla convinzione di non poterlo raggiungere.

Nei dizionari della lingua italiana si legge: “vagabondo è colui che non ha sede fissa ed erra di luogo in luogo. Persona senza fissa dimora, fannullone, scioperato”3.

Risulta evidente che nell’era dell’industrializzazione nascente, in un contesto in cui il lavoro era posto al centro per la sua importanza, non collocarsi all’interno di un ruolo produttivo poneva i “disertori” (per qualsiasi ragione) in cattiva luce. E’ il “far nulla” che, nell’epoca di reinterpretazione del rapporto tra l’uomo e il lavoro portata dalla rivoluzione industriale, è divenuto parametro di svalutazione di colui che si sottrae al dovere di contribuire al progresso sociale4.

Nel testo “English Poor Law History in the last hundred years” si legge: “(questi individui si trovano) durante mesi e mesi di cronica disoccupazione tutti insieme

1

M. Pellegrino e V. Verzieri (a cura di), Né tetto né legge: l’emarginazione grave, le nuove

povertà, i “senza fissa dimora”, ed. Gruppo Abele, Torino, 1991.

2

P. Camporesi, Il libro dei vagabondi, Milano, Garzanti, 2003.

3

M. Niccoli, G. Martelloti, Dizionario Enciclopedico Universale, Sansoni, Firenze, 1966.

4

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sottoposti ad una atmosfera di sbornie, mendicità, servilismo e menzogne, ad indicibili tentazioni, alle quali è praticamente inevitabile che, in diverso grado, soccombano restando irrimediabilmente perduta ogni forza e purezza di carattere”5.

Il non-lavoro trascina in una sorta di colpevolezza o quantomeno di inferiorità spirituale anche l’esser povero: entrambe le condizioni si miscelano nei soggetti che alla gente “normale” appaiono “inevitabilmente fuori” dal modo corretto di vivere.

Nel 1943, il Dizionario di criminologia di Florian, Niceforo e Pende recitava: “sono pericolosi per la società non solo coloro che violano l’ordinamento giuridico penale (i delinquenti), ma anche quelli che non integrano, in sé, alcuna figura di reato. Così gli oziosi e i vagabondi, pur non commettendo con la loro condotta antisociale un reato d’oziosità e vagabondaggio (che non è previsto nella nostra legislazione positiva), si trovano in condizioni che sono di incentivo al delinquere. Sono in una parola dei candidati al delitto; e lecito è il sospetto che essi traggano mezzi di vita da una attività delittuosa, o almeno immorale. Rappresentano per la società e per lo Stato delle forze negative, un peso morto6. Essi sono ritenuti responsabili del loro stato di povertà perché si sottraggono al “dovere” del lavoro e si adagiano in permanente attesa di interventi assistenziali7. Vi è una questione che immediatamente corre alla mente di chi osservi coloro che appaiono tanto “separati e diversi” dal modo comune di vivere: si tratta di scelta o di necessità?

Oltre al rapporto tra vagabondo e non-lavoro, esiste anche l’immagine del barbone romantico, che è sulla strada per scelta, secondo uno stile di vita all’insegna della libertà, dell’anticonformismo, della rinuncia ai modelli di vita prevalenti: colui che sa vivere degli avanzi di un mondo opulento ed egoista, una sorta di ribelle vittorioso.

Il vagabondo era il flagello della prima modernità: era senza padroni, e l’essere senza padroni era una situazione che la modernità non riusciva a tollerare. Ciò che

5

G. e B. Webb, English Poor Law History in the last hundred years, London, 1929.

6

L. Gui (a cura di), op. cit

7

U. Sessa, Sotto la soglia dell’intervento consolidato, in: P. Guidigini e G. Pieretti (a cura di), I

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dava fastidio del vagabondo era la sua apparente libertà di muoversi e quindi di sfuggire alla rete di controllo locale, soprattutto perché i movimenti del vagabondo non sono prevedibili, poiché non ha alcuna destinazione. Ogni posto per il vagabondo è luogo di sosta8.

Così “fare il barbone” diviene una scelta come un’altra, se non addirittura un’astuta comodità: il mito della scelta di rompere gli schemi di una vita borghese fatta di obbligazioni e costrizioni rispetto ad un sistema di regole nelle quali le persone si costringono a stare rinunciando ad esprimere un'istanza superiore di libertà. “Non era iscritto all’ufficio delle tasse, all’anagrafe del Comune. Non poteva prendere contravvenzioni senza macchina. Non produceva e non consumava… Non aveva preoccupazione d’esser derubato. Tutto quanto possedeva era con sé. Del resto non rubava, perché non aveva bisogno di niente. E soprattutto non si preoccupava di ciò di cui avrebbe potuto aver bisogno domani”9.

L’attribuzione di questa dimensione “mitica” ricade per lo più sulla figura classica del barbone, quella più emarginata. Per questo soggetto, l’amore per la libertà, l’indipendenza, l’urgente necessità di vivere senza altre regole che non siano le proprie, sarebbero scelte irrinunciabili. Egli non chiede mai, rovista tra i bidoni dei rifiuti, passa le sue giornate girovagando nelle zone del centro storico trascinandosi dietro tutto ciò che ha: vive un po’ come una chiocciola con tutta la sua casa dentro, le cose che per lui hanno valore; poi non ha niente10.

Tuttavia, chi vive accanto alle persone senza fissa dimora sa che questa immagine non corrisponde affatto alla verità. Questo equivoco, che si trasforma in pregiudizio, ha riferimenti culturali, concettuali e letterari che si rifanno al clochardismo dei ponti di Parigi e agli esempi storici di altre epoche.

Quindi, contrariamente a quanti si dicono convinti che ci sia una libera autodeterminazione e una certa stravaganza, l’immagine del barbone romantico sarebbe assai riduttiva se si considera che queste persone hanno pressanti

8

Z. Bauman, La società dell’incertezza, Il Mulino, 1999.

9

V. Andreoli, Dentro un barbone, Sonda, Torino, 1989.

10

(5)

problemi nel soddisfacimento dei loro bisogni primari. Quasi sempre si tratta di un precipitato di eventi traumatici, di fronte ai quali un individuo soccombe11.

1.2

-

C

ARATTERISTICHE ATTUALI DEI SENZA FISSA DIMORA

Anche nei nostri giorni si incontrano persone che vivono la condizione di senza fissa dimora. E’ importante allora cominciare a dare una definizione di persona senza dimora. Luigi Gui sottolinea che è necessario operare alcune precisazioni col termine “dimora”: questo vocabolo italiano potrebbe essere assimilato alla parola inglese “home”, rispetto invece al vocabolo italiano “casa” che nell’equivalente inglese risulta essere “house”; nel primo caso prevale la componente psicologico affettiva sull’aspetto meramente fisico e materiale, che è invece riferibile al secondo caso. Per “dimora”, quindi, possiamo intendere il luogo, ma anche il momento del proprio riferimento di identità relazionale, il punto da cui partire e a cui tornare ogni giorno, lo spazio in cui proteggere e ricostruire quotidianamente se stessi, il minimo terreno geografico del proprio potere e il luogo per una condivisione scelta. In altri termini, non si tratta solo di non avere una casa, intesa come struttura fisica, ma anche e soprattutto aver perso con essa il requisito minimale di appartenenza alla cultura e alla cittadinanza occidentale.

Possiamo affermare che il senza dimora non è uno che sceglie la vita per strada, né uno che non ha voglia di lavorare. Ci si trova sicuramente di fronte a un fenomeno complesso che interessa e colpisce individui in cui la caratteristica comune è, paradossalmente, l’eterogeneità delle problematiche. Le definizioni sui senza dimora devono essere focalizzate sui loro bisogni che non sempre vengono espressi. Nelle persone che vivono per la strada è facile individuare tutta una serie di bisogni materiali che si legano alla prima sopravvivenza, come l’esigenza di una casa o di un luogo al riparo dove dormire, il bisogno di mangiare, l’igiene personale, il vestiario, la salute. Ma vi sono altri bisogni che

11

(6)

sono forse i più sentiti, spesso inespressi, che non vengono soddisfatti con una semplice donazione e con un atto materiale: sono i bisogni inerenti alla sfera relazionale della persona, ossia i rapporti con la famiglia, con la comunità in cui la persona vive e con la società in generale.

Quest’ultima tipologia di bisogni non colpisce solo i gruppi marginali, ma invade l’intero corpo sociale. Tuttavia, la specificità dei senza dimora è la cronicità con cui si presentano i bisogni relazionali e affettivi. Si assiste in molti casi ad una definitiva rottura dai propri mondi vitali, dalla sfera del lavoro e dal sistema socio-culturale. Se la natura di questi bisogni è la stessa in tutte le fasce sociali, diverse sono l’intensità e le modalità con cui questi si presentano. E’ necessario aggiungere che nella pratica questa dicotomia dei bisogni non è così netta come a prima vista potrebbe sembrare; spesso la mancanza di un bene di cui tutti godono è già di per sé causa di impossibilità di inserirsi nella società e di relazionarsi “naturalmente” con gli altri. Ad esempio, la mancanza di una casa porta, oltre ad evidenti disagi materiali, anche alla perdita di identità del soggetto, che si trova come un estraneo sul territorio, emarginato dai processi di evoluzione sociale e lavorativa che interessano il territorio stesso.

Le persone senza fissa dimora vivono una condizione di forte vulnerabilità, concetto che sta ad indicare le situazioni in cui i costi necessari per ripristinare un equilibrio (minacciato o perduto) si fanno troppo alti.

Chi da anni vive questa situazione di senza fissa dimora è immerso in un circuito dal quale è difficilissimo uscire. La persona ha costruito nel tempo una barriera sempre più resistente tra se stessa e una realtà che percepisce come minacciosa, e vive in un equilibrio precario che si regge su abitudini consolidate che non sono altro che meccanismi estremi di difesa. Il cambiamento è quindi vissuto con forte senso di angoscia che porta ad atteggiamenti di rifiuto che possono dare l’impressione che la persona non soltanto non soffra molto della sua situazione di disagio, ma ci stia addirittura abbastanza bene12.

La persona senza dimora struttura il proprio quotidiano in relazione agli obblighi imposti dallo spazio pubblico urbano in cui trascorre gran parte del

12

O. Bortolotti Kauffmann, Emergenza alla stazione centrale di Milano, in “TRA”, Trimestrale della federazione FIO.psd, Brescia, anno I, n. 3.

(7)

proprio tempo. La perdita del domicilio rappresenta infatti una svolta nella biografia del soggetto che lo colloca in un mondo “a parte”, il cui funzionamento impone un rapporto specifico con il tempo e lo spazio urbano. Ciò che il “cittadino” percepisce come degrado del proprio luogo di vita, rappresenta per l’uomo sulla strada la sola possibilità di sopravvivenza di fronte ad una situazione estrema di deprivazione. I senza fissa dimora, avendo perso lo spazio dell’intimità, tentano faticosamente di ricostruirlo laddove questa possibilità è data loro: nella strada13.

Può darsi che un equilibrio faticosamente raggiunto, magari in condizioni che ad altri appaiono invivibili, venga difeso vedendo come troppo alti i costi necessari per raggiungere un qualche altro tipo di equilibrio. Ciò va compreso tenendo presenti le storie che queste persone hanno alle spalle e le strategie esistenziali che hanno adottato14.

Gli interventi di assistenza e promozione sociale delle persone in condizione di emarginazione grave sono per definizione “interventi di caso”. E’ infatti la specificità delle condizioni soggettive ad imporre strategie altrettanto differenziate e personalizzate, centrate sulle particolarità individuali e dirette alla ricostruzione delle singole biografie15.

A partire da queste osservazioni, dare una definizione del senza fissa dimora appare un compito arduo e forse anche inutile; quello che a noi interessa è cercare di delineare meglio le tipologie, le caratteristiche ricorrenti, quegli aspetti che ritroviamo prevalentemente, dato che ognuno di noi è unico, così come unica è la propria storia personale.

La condizione del senza fissa dimora è una condizione acuta di sofferenza, riguarda soggetti che provengono, in modo trasversale, da ogni livello della nostra stratificazione sociale. Tale condizione si rappresenta sotto la forma di una radicale rottura rispetto all’appartenenza territoriale e alle reti sociali.

13

M. Bergamaschi, Il nome del barbone. Vite di strada e povertà estreme in Italia, in “TRA”, Trimestrale della federazione FIO.psd, Brescia, anno XV, n. 3, 2001.

14

Gui (a cura di), op. cit.

15

G. De Pietro, Il modello STIEGA, in: M. Pellegrino e G. Tomei, Articolo 28. Povertà estrema,

(8)

Spesso si tratta di una persona che ha alle spalle fenomeni di disgregazione familiare: si percepisce sulla base di una serie di traumi passati.

L’essere senza fissa dimora sembra essere il risultato di una serie di fattori, per ognuno diversi, che hanno portato a una situazione di grossa conflittualità all’interno della persona stessa ed alla conseguente impossibilità per essa di rimanere dentro la normale struttura sociale ed affettiva.

Molto raramente si tratta di uno stile di vita accettato con serenità, né, allo stesso modo, chi lo incarna riesce a trovare motivi di gratitudine per la maggior parte delle persone da cui riceve aiuto.

Si presenta, come abbiamo già accennato, come un disagio complesso, che aggrega una molteplicità di fattori problematici, non in rapporto di causalità tra loro. Se tale condizione viene lasciata progredire nel tempo, subisce una evoluzione a carattere degenerativo: infatti, gli itinerari di autoesclusione segnalano una gamma di condizioni favorevoli allo scivolamento progressivo verso il degrado, verso la rinuncia a vivere in maniera “normale”.

Una persona senza dimora si manifesta spesso come una persona incapace da sola di emanciparsi in una condizione di maggior benessere, anche se viene messa in contatto con valide opportunità. Nelle forme più acute, questo stato compromette, per stadi progressivi, la capacità della persona di soddisfare livelli sempre più profondi nella scala dei bisogni: la condizione di sofferenza estrema può condurre alla morte.

E’ possibile definire una persona senza dimora come un soggetto in stato di povertà materiale ed immateriale, portatore di un disagio complesso, dinamico e multiforme16.

All’apertura del convegno di Bologna del 1991 “Degrado urbano e povertà”, Paolo Guidicini ha affermato che occorre fare particolare attenzione allo specifico grido di allarme che da qualche tempo e da più parti va levandosi sul

16

Cfr http://www.fiopsd.org. La FIO.psd, Federazione Italiana degli Organismi per le persone senza dimora, è una associazione che persegue finalità di solidarietà sociale nell'ambito della grave emarginazione adulta e delle persone senza dimora. Trae la sua origine, nel 1985, dall'aggregazione spontanea e informale di alcuni operatori sociali di servizi e organismi che si occupano di persone senza dimora; nel 1990 si costituisce formalmente in associazione con il nome di FIO.psd - Federazione Italiana degli Organismi per le persone senza dimora. Aderiscono alla FIO.psd Enti e/o Organismi, appartenenti sia alla Pubblica amministrazione che al privato sociale, che si occupano di grave emarginazione adulta e di persone senza dimora.

(9)

pericoloso processo di impoverimento delle nostre città: il nuovo percorso di degrado urbano è ricollegabile con il concetto di povertà vera e propria, intesa come disuguaglianza eccessiva delle opportunità che la società offre, povertà come esclusione ed espulsione da una normalità sempre meno raggiungibile. Oggi i fattori che possono generare i sintomi della povertà si sono differenziati e moltiplicati17.

1.3

-

L

E DIMENSIONI DELLA POVERTÀ

La povertà può essere ritenuta una condizione presente in numerose società umane, può presentarsi come un fenomeno di massa in circostanze legate a mancanza di risorse collettive, ma più spesso riguarda individui e gruppi sociali in situazione di ineguaglianza rispetto agli altri18.

La presenza delle persone senza dimora costituisce la punta maggiormente visibile e toccante della povertà. La quantità e le caratteristiche delle persone costrette ad una vita in strada sta infatti a rappresentare il livello di rottura che la povertà introduce nella vita sociale delle comunità e l’asprezza che tale salto impone alle sue vittime19.

La povertà, nella storia dell’umanità, è sempre esistita e, di fatto, è sempre stata accettata: ciò che è cambiato sono stati piuttosto gli atteggiamenti che verso di essa si sono via via succeduti nel tempo.

Il vissuto deviante ed isolato che si lega alla condizione delle persone senza dimora spinge al permanere, come si è visto, nella condizione di disagio e di mancato accesso alle risorse. Per tale ragione, l’abbinamento del fenomeno delle persone senza dimora alla condizione di povertà è pienamente giustificato pur non potendovisi attribuire un necessario rapporto di causa/ effetto.

17

N. Negri, Paradigmi delle nuove povertà, in: M. Pellegrino e V. Verzieri (a cura di), I volti della

povertà urbana, FrancoAngeli, Milano, 1991.

18

F. Martinelli, Poveri senza ambiente. La sociologia della povertà e della miseria. La condizione

dei senzacasa a Roma, Napoli, Liguori Editore, 1995.

19

(10)

Al termine povertà corrispondono molteplici definizioni e significati ed è importante riuscire a capire dove si colloca la povertà per fare maggior chiarezza, per metterla in relazione con quello che è un altro termine, il disagio adulto grave20, di cui parleremo in modo più approfondito nel prossimo paragrafo.

La dimensione economica della povertà è stata assunta fin dalle prime storiche ricerche sul tema come parametro di riferimento sintetico ed al tempo stesso emblematico dei molteplici fattori di fragilizzazione sociale21.

Ci sono due grandi modi di intendere la povertà: povertà relativa e assoluta. Il concetto di povertà relativa si esprime molto bene con una frase: povero non è colui che ha poco, ma colui che ha molto meno. Essere poveri non significa essere privi di risorse, ma averne in quantità ridotta rispetto agli altri in mezzo ai quali si vive. Possiamo qualificare la povertà relativa come la condizione di coloro che si trovano in una posizione che è consistentemente inferiore a quella media della società nella quale vivono. Per individuare la povertà relativa bisogna prima di tutto determinare la situazione media e definire lo scarto da essa che oltrepassa una diversità accettabile. Occorre quindi trovare una media che si riferisca ad un ambiente sociale di riferimento: questo è molto importante perché, se ci confrontiamo ad esempio con il Terzo Mondo, sarà ben difficile sostenere che in Italia ci sono dei poveri.

La povertà assume concretezza nel confronto fra i bisogni percepiti e le risorse disponibili. I bisogni, in quanto prodotto sociale, emergono nell’ambiente nel quale si vive e vengono poi interiorizzati dalle persone. La povertà aumenta o diminuisce quando variano risorse e bisogni.

Secondo Sarpellon, un aumento della ricchezza produce un aumento di risorse; ma quando aumentano le risorse disponibili, aumentano normalmente anche i bisogni. Sarpellon sostiene che questi due processi non vanno però parallelamente, nel senso che mentre la ricchezza ha una sua distribuzione nella società, i bisogni tendono ad allargarsi su tutta la collettività. In questo modo, se aumentano i bisogni di tutti mentre aumenta la ricchezza solo di alcuni, crescerà il numero di

20

G. Sarpellon, Povertà ed emarginazione, in “TRA”, Trimestrale della federazione FIO.psd, anno XV, n. 1, 2001.

21

G. Carbonaro (a cura di), Studi sulla povertà. Problemi di misura e analisi comparative, FrancoAngeli, Milano, 2002.

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coloro che non riescono a soddisfare i propri bisogni e si troveranno quindi in situazione di povertà. L’aumento della ricchezza provoca certamente un aumento del benessere medio, ma può provocare anche un aumento della povertà. E qui ci troviamo di fronte ad un paradosso: l’aumento della ricchezza può provocare l’aumento della povertà, pur portando all’aumento del benessere.

Infatti, noi oggi abbiamo un benessere enormemente più alto di quello di 50 anni fa, ma non per questo abbiamo eliminato la povertà: la povertà coesiste con l’aumento del benessere.

Sempre secondo Sarpellon, benessere e ricchezza sono le conseguenze dello sviluppo economico che, sostanzialmente, è un processo di cambiamento nel corso del quale si inventano nuove soluzioni produttive che si aggiungono e si sostituiscono a quelle, meno efficienti, già in essere. Ma lo sviluppo è una competizione che premia i migliori e che, fatalmente, lascia indietro gli altri. Lo sviluppo crea disuguaglianza anche se, nel complesso, esso genera anche benessere. Più intenso è il ritmo dello sviluppo, maggiore è la disuguaglianza che si produce. E dalla disuguaglianza deriva la povertà.

Il riferimento alla povertà assoluta, invece, si collega al concetto di sopravvivenza, ossia al livello di condizioni di vita minimo accettabile. Questa è la definizione di povertà che viene implicitamente posta alla base delle politiche assistenziali le quali, almeno teoricamente, dovrebbero garantire alle persone di non scendere al di sotto di un certo livello considerato, appunto, minimo. In questo senso, il povero non è colui che ha meno degli altri, ma colui che non ha il minimo22.

Il lavoro delle Commissioni di indagine sulla povertà dirette negli anni ’80, prima da Sarpellon e poi da Gorrieri hanno ampliamente fatto riferimento a questo approccio, nella convinzione (fondata) che il riferimento allo spazio delle disponibilità economiche (reddito e/o consumo) fosse l’unico a consentire una misura attendibile del fenomeno ed a valutarne empiricamente la consistenza all’interno delle società a capitalismo avanzato23.

Il concetto di povertà assoluta è eliminabile per definizione, perché essa individua una soglia che, con adeguati interventi di ridistribuzione, può essere superata.

22

G. Sarpellon, op. cit.

23

(12)

Tuttavia, la definizione del minimo accettabile è anch’essa una definizione che si determina tenendo conto delle condizioni medie di vita: oggi, essendo enormemente aumentato il benessere, è aumentata di conseguenza anche la soglia della povertà assoluta.

Per quanto entrambi questi approcci riconoscano il rilievo della dimensione soggettiva nella definibilità del concetto, tuttavia tendono ad eludere tale riferimento dalle loro definizioni operative che generalmente puntano a costruire misure della povertà fondate o sul reddito disponibili (a livello di individuo o di gruppo familiare), nel caso della povertà assoluta, o sulla tipologia e sul livello dei consumi, come nel caso della povertà relativa.

Anche per questo motivo, negli ultimi anni ha trovato spazio anche nel nostro paese l’approccio soggettivo alla misura della povertà, che considera poveri gli individui (o le famiglie) che si dichiarano tali, nel confronto che essi stessi fanno in termini di benessere percepito con gli appartenenti alla stessa società24.

Esiste così una povertà “soggettiva”, che è la situazione di coloro che, nella percezione che hanno nelle proprie condizioni di vita, si sentono poveri. Se una persona si sente povera, non posso ignorare il suo problema semplicemente perché la sua condizione non può rientrare nelle mie statistiche. Il benessere e la sofferenza sono anche stati d’animo, oltre che condizioni materiali. Infatti, è possibile trovare persone che oggettivamente rientrano nell’area della povertà e che non si sentono per niente tali (anziani contadini, per esempio), mentre altri non-poveri possono soffrire per la loro condizione di inferiorità rispetto agli altri (giovani adulti urbani, per esempio).

In presenza di redditi molto bassi, la quantità diventa qualità perché l’assenza (o grave insufficienza) di reddito esclude dalla partecipazione ai normali modi di vivere e, paradossalmente, impedisce anche di usufruire di quell’insieme di servizi e provvidenze che lo stato sociale mette a disposizione di tutti i cittadini.

La povertà “estrema” è qualificabile come la condizione umana nella quale la grave insufficienza di reddito economico si abbina ad una serie di elementi negativi tra loro correlati, quali la mancanza di salute, di famiglia, di lavoro, di casa, di conoscenze, di sicurezza, che collocano di fatto la persona ai margini

24

D. Mendola, Approcci, metodologie e dati per le analisi di povertà, in: G. Carbonaro (a cura di),

(13)

della società e ne rendono molto problematica l’integrazione25; è in questo ambito che possono collocarsi le persone senza fissa dimora, persone che si trovano in una condizione di grave emarginazione. La povertà estrema non è soltanto una povertà più intensa delle altre, ma è una povertà diversa perché porta all’esclusione sociale. In essa si compatta quel processo di causazione circolare cumulativa (il circolo vizioso della povertà) per cui non si sa mai da quale parte intervenire perché non c’è una causa principale, uno specifico problema che, una volta risolto, permetta di avviare un percorso di uscita dalla povertà. Essendo tutti legati fra loro, i fattori dell’emarginazione grave si rafforzano a vicenda in una spirale che è ben arduo spezzare.

Ecco allora che coloro che operano in questo settore, complesso e diversificato, si trovano di fronte ad un fenomeno diverso: il disagio sociale26.

Da almeno un decennio, tutti gli studi sulla povertà in Italia segnalano come questo fenomeno abbia ormai raggiunto livelli di elevata complessità, determinata in larga misura dal fatto che esso risulti sempre più spesso l’esito di una biografia (ma anche di una socialità) sulla quale pesa l’effetto congiunto e combinato di molteplici e distinti fattori, materiali e non, personali e collettivi. Le dimensioni della povertà, infatti, si dispiegano su uno scenario più ampio di quello delle “sole” difficoltà di ordine economico. La letteratura specialistica ha dimostrato che oltre ai fattori di impoverimento materiale che caratterizzano la condizione di chi non dispone di redditi sufficienti a garantire la propria sussistenza fisica (povertà assoluta), a soddisfare i principali bisogni fondamentali in sé e per la propria famiglia (povertà relativa), o ad acquisire beni relazionali indispensabili per un soddisfacente livello di inclusione sociale, il disagio appare ormai correlato con almeno altre tre dimensioni più tipicamente connesse con la qualità della vita e dei servizi: la lontananza, fisica e/o culturale, dalle opportunità della società moderna, anche per inadeguatezza o diseguale distribuzione dei servizi civili, sociali e sanitari; la cattiva qualità dell’ambiente sociale locale; la disfunzionalità

25

G. Pasini, Le povertà estreme: introduzione allo studio di alcuni casi concreti, in: Commissione di indagine sulla povertà e l’emarginazione, Secondo rapporto sulla povertà in Italia, Milano, FrancoAngeli, 1992.

26

(14)

e la cattiva qualità del contesto fisico ambientale e delle infrastrutture entro il suo habitat27.

La povertà non è certamente un attributo che caratterizza un individuo in termini di presenza o assenza, ma è piuttosto un predicato vago che si manifesta con diversità di grado e di sfumature28.

Disagio sociale e povertà si presentano come due fenomeni diversi, anche se certamente legati fra loro, nel senso che ciascuno può derivare dall’altro, ma anche esserne causa. Anche se solo a livello di comprensione concettuale, mantenere la separazione fra le due categorie di fenomeni può esser utile per impostare un’efficace politica di intervento: per non dare, per esempio, soldi a chi invece ha bisogno di ricostruirsi un ambiente sociale nel quale vivere29.

1.4

D

ISAGIO PSICO

-

SOCIALE ED ESCLUSIONE SOCIALE

I senza fissa dimora presentano, in modo manifesto le caratteristiche della povertà estrema, definita come l’insieme di quelle aree di privazione, di disagio e di esclusione, che occupano i gradini più bassi della stratificazione sociale e che non usufruiscono se non in minima parte della protezione legislativa e delle prestazioni dello stato sociale30.

Le persone senza fissa dimora vivono in uno stato di disagio e una prima grande categoria che ci aiuta a definire il disagio di persone adulte che hanno nella strada lo stadio di arrivo del loro percorso di marginalità è quella di disagio

psico-sociale.

27

A. Ardigò, Un approccio pluridimensionale alla valutazione della povertà: oltre il post –

moderno, in: M. Palumbo (a cura di), Classi, disuguaglianze e povertà. Problemi di analisi,

FrancoAngeli, 1993.

28

D. Mendola, op. cit.

29

G. Sarpellon, op. cit.

30

Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione d’indagine sulla povertà e sull’emarginazione, Terzo rapporto sulla povertà in Italia, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma, 1993.

(15)

Per disagio psico-sociale si intende la condizione di un soggetto privo di risorse sociali, che contemporaneamente si trova nella condizione di incapacità di utilizzarle in funzione di una autonomia individuale.

L’offerta di soli strumenti di tipo sociale ha come effetto, come si è potuto osservare altre volte nell’esperienza concreta degli operatori che lavorano in tale settore, una tendenziale cronicizzazione del problema e di conseguenza un aggravarsi della condizione individuale. Non si tratta quindi solo di essere dentro o fuori (esclusione) dal sistema sociale, ma anche l’essere in condizioni di possibilità di partecipazione o di sofferenza che rende incapaci alla fruizione delle risorse.

Diverse e molteplici possono essere le cause che portano la persona in una condizione di disagio grave. La crisi di situazioni appartenenti alla normalità, il loro modo di combinarsi e la crescente incapacità del soggetto di posizionarsi di fronte alle crisi e il conseguente disorientamento diventano l’ambito in cui si costruiscono le storie di disagio grave31.

Le persone senza fissa dimora, che vivono questa situazione di disagio, esperiscono una condizione di esclusione sociale, ossia uno stato di isolamento rispetto alle principali connessioni con il sistema economico, politico-normativo, sociale e culturale in cui vivono.

Sebbene la questione su come si definisca l’esclusione sociale (la cui manifestazione estrema è la povertà) sia alquanto complessa ed articolata, gli scienziati sociali concordano nell’affermare che essa debba essere intesa sempre di più come processo multifattoriale e multidimensionale. Un processo determinato in modo interattivo e cumulativo da diversi fattori che evolvono nel tempo: “l’esito di un percorso che implica l’esclusione da parte di istituzioni e soggetti: esclusione da risorse materiali, dalla possibilità di acquisire capacità, al limite dalla possibilità di agire ed essere riconosciuto come cittadino32”.

Le diverse condizioni di fragilità, che possono portare il singolo individuo a trovarsi in una situazione di esclusione sociale, sono così riassumibili:

31

G. Invernizzi, Quale modello del disagio adulto grave, in “TRA”, Trimestrale della federazione FIO.psd, anno XV, n. 2, 2001.

32

C. Saraceno, Bisogni emergenti e nuove povertà, Atto del convegno internazionale su: “Bisogni emergenti e nuove povertà: situazioni e politiche sociali a confronto”, tenutosi presso la Società Umanitaria di Milano il 22-23 aprile 1999.

(16)

impossibilità di mantenere un lavoro e un’abitazione stabili nel tempo; alcune caratteristiche personali (originarie o subentrate); distacco, instabilità o mancanza delle reti sociali primarie (primary social networks); inesistenza o impossibilità di accesso ai servizi di Welfare.

Il sopraggiungere di una di queste condizioni, di solito difficilmente prevedibili dal soggetto, attira o provoca spesso l’emergere delle altre, innescando così un circolo vizioso. Questo circolo vizioso allontana il singolo individuo sempre più dal suo stato di equilibrio socio-economico, psichico e affettivo. Equilibrio che, con il passare del tempo, diventa sempre più arduo da riconquistare.

Ad esempio, la perdita inaspettata di un lavoro da parte dell’unica componente lavoratrice di una famiglia mono-reddito con due figli a carico, può provocare l’incapacità di garantire alla stessa un’abitazione. È probabile, infatti, che il nucleo familiare non possa più pagare l’affitto o il mutuo della casa. Se, in questa situazione, si aggiunge la lontananza o l’assenza delle famiglie d’origine e delle reti di reciprocità, che potrebbero fornire un aiuto prezioso, diretto o indiretto, sia nella ricerca di un'altra opportunità lavorativa che nel far fronte all’emergenza economica, è facile immaginare come la situazione possa precipitare in tempi brevi. A maggior ragione se i debiti accumulati incrementano velocemente33. La vulnerabilità rappresenta l’esposizione degli individui e dei gruppi al rischio di scivolare verso dinamiche di esclusione sociale, per effetto dell’intensificarsi di fattori di fragilizzazione che “normalmente” sono presenti ed operano nei circuiti della socialità, soprattutto con riferimento al grado di stabilità con cui gli individui sono inseriti all’interno dei sistemi di integrazione sociale: il lavoro, il welfare e la famiglia34.

La malattia, la disoccupazione o comunque la precarietà lavorativa, il basso livello di istruzione, le fratture familiari e le stesse difficoltà economiche non sono infatti fattori portatori di esclusione sociale in sé. Tuttavia, possono diventarlo (e quindi sono elementi di vulnerabilità) nella misura in cui i tre sopraccitati sistemi

33

S. Greco, L’esclusione sociale in Italia, in: http://www.gla.ac.uk/wg/synth_it.htm

34

R. Ciucci, Rischio, vulnerabilità, sicurezza, in: F. Cazzola, A. Coluccia, F. Ruggeri (a cura di),

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di integrazione sociale non si dimostrino più in grado si sostenere, o mediare, gli effetti prodotti da uno o più di questi fattori sulla esperienza individuale35.

Il termine stesso di “esclusione” richiama una separazione tra coloro che partecipano pienamente alla società e coloro che invece si trovano privati di un ruolo riconosciuto, oltre ad avere spesso a disposizione una quantità insufficiente di risorse, il che li rende poveri. L’esclusione sociale coinvolge il livello relazionale, per cui il venir meno di reti da cui attingere risorse materiali e simboliche (affetto, sostegno, identità, appartenenza) crea un pericoloso isolamento in caso di instabilità o di necessità di fronteggiare eventi gravi nel corso della vita; l’esclusione sociale, inoltre, riguarda l’esclusione dal mondo del lavoro e dall’accesso ai consumi, aspetti che entrambi contribuiscono a costruire un ruolo e un’immagine sociale dell’individuo che, se negativi, determinano la cronicizzazione della disoccupazione e la non appartenenza al resto della comunità36.

L’esclusione dalla disponibilità di un alloggio sembra sempre di più configurarsi, a diverso titolo, come un’esclusione dalla società: il problema abitativo non riguarda coloro che sono collocati ai gradini più bassi della scala sociale in relazione al loro reddito, quanto coloro che sono “a lato” della scala e che sono del tutto privi di proventi economici e di risorse.

Le ragioni dell’esclusione sono molteplici, come si è visto, ma l’elemento significativo è che la perdita dell’alloggio o l’impossibilità di trovarne uno sono, al tempo stesso, la causa e la conseguenza di un processo di esclusione.

L’assenza dell’accesso a un alloggio decente è a sua volta decisiva: anche senza famiglia, senza lavoro, si è ancora qualcuno fino a che si dispone di uno spazio di dignità, di sicurezza e di autonomia. Il giorno in cui lo si perde, tutto si sovverte. Inversamente, l’accesso ad un alloggio decente non è che uno degli elementi di un processo globale di inserimento, ma può rivelarsi decisivo.

Le politiche di intervento in questo settore debbono far fronte a diversi ostacoli: poiché le cause dell’esclusione sono molteplici, gli interventi non possono essere frutto di una politica uniforme; d’altra parte il moltiplicarsi e il differenziarsi degli interventi rischiano di rinforzare l’esclusione.

35

M. Pellegrino, G. Tomei, op. cit.

36

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L’esclusione fa passare dallo status di persona allo status di non-persona e la perdita, o l’assenza, dell’abitazione costituisce una tappa decisiva di questo passaggio. Ogni percorso di reinserimento consiste nel favorire il percorso contrario, presuppone che l’escluso sia considerato come il soggetto e non come l’oggetto di un intervento e che ritrovi una capacità progettuale a titolo individuale, ma collettivamente riconosciuta37.

37

A. Gazzola, Gli abitanti dei nonluoghi. I “senza fissa dimora” a Genova, Bulzoni Editore, Roma, 1997.

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