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II. La «costituzione odierna del mondo»: Friedrich Schiller als Universalhistoriker

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Seconda dissertazione

II. La «costituzione odierna del mondo»: Friedrich Schiller als Universalhistoriker

Introduzione:

In un'epoca di separazioni, di divisione delle occupazioni, dell'assoluto e inarrestabile processo di specializzazione del lavoro, tanto materiale quanto intellettuale, ogni contributo dato in questo senso non farebbe che ingrandire «la restante collezione di mummie e l'universale accumulo delle accidentalità»1, garantendo da un lato quella pluralità di punti di vista che costituisce la specifica ricchezza pedagogica per lo spirito eclettico di un uomo contemporaneo – in quanto membro, per disciplina o rango, della classe che ha accesso alle creazioni spirituali o che può beneficiare facilmente di quelle materiali – ; dall'altro lato, un fondo di merci continuamente rinnovato e pronto ad esporre tutta l'estensione dei prodotti del fare umano latu sensu. In quell'epoca che è stata l'epoca dell'emersione storica della «società civile», era già «un punto in sé non indegno di domandare se la filosofia pura non pretenda per ogni sua parte il suo speciale uomo, e se non andrebbe meglio nell'intera industria del conoscere[...]»2, così procedendo. Il Kant della Prefazione alla Fondazione

della metafisica dei costumi si chiede, conseguentemente, se anche in fatto di studi sulla

morale e sull'etica non sia giunto il tempo di uno «speciale uomo», in grado di determinare il supremo principio della moralità e così di fondare e costruire una critica della ragione pura pratica. Fondare e costruire, certo, secondo il canone architettonico definito nella prima critica e in analogia al modello di scientificità newtoniano.

1 G.W.F. Hegel, Differenza fra il sistema di Fichte e di Schelling in rapporto ai contributi di Reinhold per un più

agevole quadro sinottico dello stato della filosofia all'inizio del diciannovesimo secolo, in G.W.F. Hegel, Primi scritti critici, tr.it. e cura di Remo Bodei, Mursia, Milano 2013, p.10.

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È interessante notare che, in sede di esposizione del suo progetto teorico e come chiusa alla Prefazione, Kant riesca a conciliarsi con il punto di vista smithiano del vantaggio della suddivisione dei lavori, parlando del suo metodo come di un «risalire analiticamente dalla coscienza comune alla determinazione del suo supremo principio», e di un «discendere di nuovo indietro, sinteticamente, dalla prova di questo principio e dalle sue fonti alla conoscenza comune»3. In questo risalire e discendere la ragione pura pratica fissa i suoi segnavia teoretici e li rappresenta come una successione di tre passaggi – le tre sezioni in cui è ripartito il testo kantiano. In questo cammino, come esito, il critico esige che la filosofia indichi l'unità delle diverse disposizioni umane in un principio comune, «perché infine può trattarsi solo di un'unica e medesima ragione, che deve essere distinta semplicemente nell'applicazione»4.

È interessante notarlo perché anche in Schiller questo procedere verso l'unità, quale specifica attività della ragione, viene espresso come un salire e scendere della coscienza del filosofo. Un cammino che avrà tutt'altri fondamenti e che della teleologia morale kantiana conserverà soltanto il principio teleologico, diversamente applicato.

Nella Prolusione accademica che Schiller tiene nel maggio del 1789 a Jena, con cui dà inizio al suo corso sul significato e il fine della storia universale5, non si tratta più di concepire un'adeguata destinazione dell'uomo, o almeno non soltanto e non esclusivamente, ma di comprendere il presente come processo della sua propria formazione, di concepire il presente come storia.

3 Ivi, p.13.

4 Ivi, pp.11-13.

5 F. Schiller, Che cosa significa storia universale e per quale fine la si studia? Una prolusione accademica, in F. Schiller, Lezioni di filosofia della storia, introduzione traduzione e cura di Lorenzo Calabi, ETS, Pisa 2012. Per la ricostruzione del contesto in cui si svolse quella lezione inaugurale che fu la Prolusione, come per le notizie relative al luogo e alla precisa collocazione temporale di questa come delle due lezioni di filosofia della storia che seguono, ovvero La prima società unama secondo il filo conduttore del documento mosaico e La Missione di Mosè, si rimanda a Il sentiero della ragione e il tribunale del mondo. Introduzione, di Lorenzo Calabi, in F. Schiller, Lezioni

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Posta l'uguaglianza della natura umana e il variare delle condizioni esterne, assunto un intero spaziale come una totalità temporale, ovvero come corso della storia del genere umano, intesa la destinazione come l'origine congetturale di un essere razionale che è chiamato a realizzare la sua storia come storia della libertà, e, infine, stabiliti i principi di una mathesis della natura umana, l'idea sotto la quale Schiller raccoglie il materiale intero della storia degli uomini non è più stabilita secondo l'analogia della natura. Il filo conduttore seguito è quello tracciato dai fatti, guardando al grado di influenza che questi assumono rispetto alla configurazione odierna del mondo, ovvero in relazione ad un qui ed ora che il filosofo della storia pone come un noto che deve essere conosciuto.

Questa storia è certamente il campo di una teleologia morale, il campo dell'ucronia kantiana che supera il conflitto delle facoltà attraverso la sacralizzazione del diritto pubblico, con l'istituzione di quell'ordinamento mondano il più adeguato possibile a preparare su questa terra la predizione filosofica di una pace perpetua, perché si realizzino le disposizioni specifiche del genere umano. L'immenso campo della storia universale è, tuttavia, anche la storia non conciliata e scissa di un Ferguson, come storia della «società civile»6

. È, in breve,

anche la storia di uno Schiller che arriva a Jena indirizzato alla vita pratica dal teatro, temprato dallo studio e dalla scrittura di «storie speciali», «abbastanza medico»7 da poter mettere in questione, non retoricamente, il senso specifico che si deve attribuire nuovamente allo studio della storia universale.

Come si presenta la storia a una testa filosofica: è questo il tema. Tanto più se quella testa ha fatto esperienza del dimidiarsi spirituale del dotto dalla sua professione, e inserisce nell'ordine delle sue considerazioni una storia che è già storia della società civile e una

6 Cfr. A. Ferguson, Saggio sulla storia della società civile, tr. it. e c. di Alessandra Attanasio, Editori Laterza, Bari 1999.

7 Cfr. Th. Mann, Saggio su Schiller, tr.it. di E. Pocar, in Nobiltà dello spirito e altri saggi, a c. di A. Landolfi, Mondadori, Milano1997, pp. 424-425.

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filosofia che è il sistema della ragion pura teorizzato da Kant.

Questo sembra essere il contesto della Prolusione, l'epoca che apre all'epoca dei massimi problemi dello spirito, in quanto la stessa categoria di umanità che costituisce il senso profondo e il contenuto specifico dell'universale della storia schilleriano, dilegua dinanzi all'esigenza e alla contingenza della sussistenza economica, separata dal riferimento a un possibile orizzonte universale, che sia politico, etico o spirituale. È tutt'altro che retorico, dunque, uno Schiller che si interroga sulla possibilità di educare gli uomini a essere uomini8, sul fine e sul significato di un discorso filosofico che è volto alla ri-costruzione del senso di un'integrale esperienza storica, di un presente che sia la storia della sua formazione.

Seguendo l'argomentazione schilleriana, dalla posizione – nella Prolusione – del concetto di odierna configurazione del mondo e dalla definizione del punto di vista da cui muove e per cui opera lo storico universale, l'analisi si sposta poi verso le specifiche determinazioni che la categoria di universale assume nelle due Lezioni che a questa seguono. Quindi: di che cosa si tratta quando ci si riferisce alla Storia Universale teorizzata da Schiller a Jena, e del come si può parlare dell'universale schilleriano in sé e per sé, ovvero in relazione al concepimento filosofico della storia e alla rilevanza teorica che questo concepire schilleriano conserva anche in prospettiva futura, rappresentano le parti secondo cui dispongo questa seconda dissertazione.

Il primo blocco di paragrafi è determinato dal modo della ricerca. Secondo il modo della ricerca vuol dire che la messa a fuoco dell'oggetto del discorso schilleriano, la ricostruzione del contesto in cui si iscrive, l'analisi dei temi e della prospettiva della

Prolusione, diventano i presupposti da sviluppare successivamente sul piano della

8 Cfr. F. Schiller, Che cosa significa storia universale e per quale fine la si studia? Una prolusione accademica, cit., p.48.

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esposizione.

Presupposto del discorso schilleriano è sicuramente il confronto con la filosofia della storia kantiana. Confronto che, tuttavia, deve essere inquadrato, così come deve essere determinato il modo del richiamarsi a questo particolare momento della riflessione schilleriana. Come sappiamo, già nel 1787, durante un primo soggiorno a Jena, le conversazioni con Karl Leonhard Reinhold, da poco chiamato come professore nella locale università, aveva indotto Schiller alla lettura di alcuni saggi kantiani apparsi sulla «Berlinische Monatsschrift». Tra questi in particolare fu l' Idea per una storia universale dal

punto di vista cosmopolitico a suscitargli un certo interesse9. Interesse che ha lasciato tracce

evidenti nella prolusione sulla storia universale pronunciata a Jena. L' universale che qualifica l' «immenso campo della storia» che Schiller si accinge a percorrere proprio con il suo discorso inaugurale, corrisponde all'universale del titolo di Kant, e comunque si potrebbe chiedere se la «cittadina immortale di tutte le nazioni e tutti i tempi»10, la storia, appunto, non corrisponda anche alla ʻcittadinanza del mondoʼ, alla prospettiva intenzionale nella quale e dalla quale Kant elabora la sua Idea11. Inoltre esiste una lettera indirizzata all'amico giurista Körner che ne giustifica l'interesse e, probabilmente, anche la forte ispirazione e l'orientamento tematico12: questa circostanza, se non autorizza, almeno sollecita un confronto fra l' Idea e la Prolusione.

Dopo aver analizzato il testo kantiano nella prima dissertazione, mi limito qui, nel confronto, a presentare la diversità dei punti di vista e dell'oggetto, del diverso apporto concettuale nella concezione filosofica della storia che sussiste tra i due scritti, e a mostrare

9 Cfr. G. Pinna, Introduzione a Schiller, Laterza, Bari 2012, p. 30.

10 F. Schiller, Che cosa significa storia universale e per quale fine la si studia? Una prolusione accademica, cit., p. 74.

11 Così come ha sostenuto e ha chiesto Lorenzo Calabi nel saggio, Filosofia della storia in Kant e Schiller. Riflessioni

su di un confronto, in Schiller lettore di Kant, a c. Di Alberto L. Siani e Gabriele Tomasi, ETS, Pisa 2013, p. 254.

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come nel rimando necessario che tra questi testi si instaura, nella buona illustrazione dell'intendimento della filosofia, e della filosofia della storia in specie, quale apprensione della propria epoca in pensieri, che questi stessi testi si rappresenta, il diverso modo dell'esposizione in Kant e in Schiller sia l'espressione di un differente stile di pensiero, di un diverso modo del congetturare. E, infatti, se la prima e la seconda delle Lezioni di Jena sono anch'esse dei tratti di storia congetturale, tuttavia lo sono di una storia redatta secondo l'idea non dell'analogia della natura, bensì, appunto, secondo il concetto dell'assetto attuale del mondo. È in questi termini che si determina il diverso modo del concepire e dell'esporre in Kant e in Schiller; una diversità che per le premesse formali da cui discende e per gli sviluppi contenutistici che dischiude si discosta da una semplice diversità di stile letterario.

Il «nocciolo dello scostamento»13 tra i due autori appare chiaramente nella prima lezione, quando cioè si tratta di mostrare come nella prima società umana il sottrarsi dell'uomo all'obbedienza della «voce di Dio» è subito – nell'argomentazione schilleriana – il primo passo sulla scala che conduce al dominio di sé: è subito l'inserimento di una mediazione tra il desiderio e la sua soddisfazione, è subito l'inserimento della riflessione, dell'assiduità e della fatica. È, in breve, subito il lavoro. Allo stesso scostamento ci si può richiamare quando si guarda alla seconda lezione, ovvero quando Schiller tratta della forma della fondazione dello Stato mosaico, della definizione della nazione ebraica quale popolo «storico-universale», a partire dall'influsso che la religione mosaica ha avuto su gran parte dell'illuminismo del quale l'Europa prerivoluzionaria si rallegrava.

Presupposti, dicevo, ma anche la possibilità di esibire la validità teorica che la

Prolusione e le Lezioni conservano in prospettiva futura. Sul piano dell'esposizione, allora,

la questione diventa: rispetto alla Prolusione, al modo della ricerca dello storico universale

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che qui viene esposto, al suo fissare momenti essenziali per lo sviluppo della situazione attuale – essenzialità di cui si predica l'universalità in relazione al contesto di una integrale esperienza storica che si tenta di ricostruire – si apre la possibilità di un confronto con la

Differenza hegeliana del 1801, con l'idea della filosofia come sistema che qui viene

teorizzata e del principio dell'autentica speculazione in rapporto al concetto di scissione: che si parli di scissione – come elemento che più rappresenta il nocciolo dello scostamento dal punto di vista intenzionale di Kant – di quale scissione si parli e, quindi, a quale ʻinterezzaʼ si faccia riferimento nei due testi jenesi, è il tema che ho scelto di trattare a partire dal confronto di questi due testi.

In un primo momento mi rivolgo al capitolo di apertura della Differenza per mostrare il processo dialettico attraverso cui Hegel arriva a teorizzare il bisogno di una conoscenza sistematica; successivamente confronto quelle acquisizioni concettuali con la categoria schilleriana della odierna costituzione del mondo e col punto di vista della Prolusione, in quanto, nel discorso sulla storia universale che ne discende, Schiller sembra già proporre in termini formali un metodo di concettualizzazione del tempo in antitesi diretta alla concezione hegeliana della storia mondiale quale «esposizione dello spirito nel tempo».

In relazione alla prima lezione, poi, il discorso non potrà non riguardare quell'effettiva ʻconcretezzaʼ di cui si ricerca la prima derivazione: la scissione è un fattore di vita e assunto nella forma della riflessione può condurre alla filosofia, come all'idea di una conoscenza sistematica; ma la scissione si dà nel corso della storia del mondo come determinazione della concretezza dell'uomo, dipendente dal carattere di mediazione che questo inserisce in ogni suo atto, e che costituisce il primo passo verso il lavoro quale nesso necessario della prima società, come di ogni altra società umana. È in questa concretezza dischiusa dall'emersione storica della società civile, di cui ora se ne può ricercare l' inizio, che proviene l'annuncio di

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forme di scissione che si aggiungono, per la riflessione filosofica, alla scissione da cui si origina il bisogno della filosofia.

Infine, in relazione alla seconda lezione, ovvero all'analisi della determinazione dell'elemento di universalità che si deve attribuire alla missione di Mosè, tento un confronto con l'ambito di problematicità dischiuso dal metodo freudiano applicato al problema storico-politico della ʻquestione ebraicaʼ. Ma, si chiederà, perché proprio Freud? Intanto perché anche in Freud – il Freud dei Saggi su Mosè – il problema è quello del giusto intendimento della missione del fondatore dello Stato ebraico. Ma Freud non è stato certo l'unico ad aver ragionato e scritto sull'argomento. Tuttavia, la sua autorità e la posizione che gli spetta nella storia del pensiero, ovvero quella di fondatore di una disciplina e di un metodo di analisi, mi ha offerto la possibilità di un valido confronto teorico, un confronto che in prima facie può essere interpretato come un puro esercizio speculativo. Evidentemente, però, non può trattarsi soltanto di un espediente posto a caso. Ciò che più avvicina – al di là della prossimità tematica, analoga al ʻse non autorizza, almeno sollecitaʼ con il quale si è detto di Kant – il Freud dei Saggi allo Schiller della Prolusione e della seconda lezione è che, in primo luogo, anche nello scritto freudiano si fanno i conti con un particolare modo del

congetturare; poi, e ciò ha sicuramente determinato in maniera preponderante il mio

disporre un confronto con i Saggi, dall'ambito di problematicità aperto dal metodo freudiano, e soprattutto dalla possibilità che dichiara di spiegare anche la genesi di fenomeni collettivi quali l'emersione di forme spirituali latu sensu, proviene la critica contro ogni

sistema di filosofia della storia. Critica che non smette di provenire neanche in tempi più

recenti. Ed è proprio nel confrontare l'elemento congetturale del romanzo storico freudiano con la specifica determinazione dell'universale schilleriano in relazione al popolo ebraico quale popolo «storico-universale» che provo a mostrare come una rappresentazione

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sistematica della storia, anche e solo se risponde alle esclusive esigenze di un punto di vista filosofico, conserva una specifica validità nella determinazione del senso e del significato di un'intera configurazione del mondo.

Sviluppando ulteriormente l'esposizione, infine, mi rivolgo agli esiti del discorso schilleriano, ovvero ai temi e alle profonde conseguenze formali contenute nelle lettere

sull'educazione estetica.

Ma intanto, andiamo per gradi: per sviluppare la mia argomentazione nella forma che ho scelto, prima dei confronti e prima degli esiti, serve che io ponga l'oggetto del discorso. Bisogna allora che io mi rivolga direttamente al testo della Prolusione di Schiller, per presentarne i temi e le acquisizioni formali che qui vengono presentati, e che sono al contempo un appello a ciò «che quest'uomo volle con l'impeto dell'oratore, con l'entusiasmo del poeta, cioè l'universale, il puramente umano [...]»14.

II.1. Più che al genere umano, a Schiller parve «una gioia e un onore» destinare quel suo discorso a un genere vario di uomini: «allo studioso», «all'uomo di mondo», «al filosofo»15, e a tutti quei signori tanto formati dalla storia universale quanto diversamente collocati dalla destinazione che li attendeva nella società civile.

Dispongo l'esposizione dei temi e dei concetti che Schiller tratta in quell'unico fluire di parole che è stata la Prolusione accademica, secondo quattro momenti fondamentali. Ogni momento corrisponderebbe a una parte del discorso schilleriano, spero, non troppo arbitrariamente scomposto.

Il primo momento fa riferimento alla definizione del punto di vista da cui procedere per

14 Th. Mann, Saggio su Schiller, cit., pp.497-498.

15 Cfr. F. Schiller, Che cosa significa storia universale e per quale fine la si studia? Una prolusione accademica, cit., p.47.

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la costituzione di un sapere che voglia presentarsi come scienza, ovvero il tema della dignità teorica e pratica di una testa filosofica, contrapposta al disciplinamento dottrinario che vive il dotto per il pane. Stabilito l'angolo visuale sistematico di uno spirito filosofico, nel secondo momento si tratterà di analizzare la determinazione del concetto di storia universale schilleriano. Lì dove il filosofo si trova, lì la scienza trova il suo cominciamento. Applicando il principio teleologico come guida delle proprie considerazioni, lo storico universale riesce a concepire il presente come un esito, come un risultato, sebbene sia un risultato transitorio. Il concetto della storia universale è in Schiller immediatamente il fondamento di una filosofia della storia, in quanto determinazione del senso di un'integrale esperienza storica a partire dalla sua fine. Chiarito il dominio problematico in cui la storia universale è legislatrice del pensiero come degli oggetti che studia, nel terzo momento ci sofferiamo sul tipo di discorso specifico di un Universalhistoriker, il suo specifico modo di operare. Lo storico universale dispone fatti ed eventi lungo una linea del tempo che ha un inizio sconosciuto e una fine indeterminabile, ma su cui egli può fissare un punto massimente conoscibile: il momento presente. Partendo da questo lo storico universale risale il corso della storia, nel pensiero, e di nuovo discende il sentiero che ha creato e diviso in tappe fondamentali per restituire il senso integrale dell'esperienza attuale. Esposta l'idea del conoscere di una testa filosofica, il concetto e l'ambito disciplinare della storia universale, il soggetto che può e sa operare il tal senso, nell'ultimo momento si tratta di mostrare il fine e il motivo per cui si studia la storia universale.

«L'immenso campo della storia universale»16è l'insieme delle manifestazioni concrete di quella rappresentazione che chiamiamo uomo. Questo insieme costituisce il fecondo e

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vasto campo della storia univerale: «nel suo cerchio sta tutto il mondo morale»17. Un intento fondamentale percorre queste prime pagine della Prolusione e, necessariamente, accompagna tutto il discorso di Schiller: mostrare come l'aspetto di maggiore dignità della storia del mondo consista nella possibilità che questa offre al ricercatore filosofico di tracciare un collegamento tra le creazioni dell'assiduità e della continuità dello spirito e le differenziazioni determinate dai diversi studi e dai diversi scopi dei membri della società civile. Ma prima di riunire, uno spirito filosofico deve concepire la scissione e giustificare la sua attività a partire da questa. Deve definire una fondamentale opposizione: del tempo che forma e che educa ad essere uomini, il tempo della storia universale, ovvero l'oggetto che si disegna la testa filosofica, di contro alla condotta di vita e al piano di studi che disegna per sé il dotto per il pane.

Possiamo immaginare come il purgatorio attraverso cui è costretto a passare lo speranzoso candidato alla burocrazia tedesca – in quanto ci riferiamo a un discorso jenese, ma che è certo generalizzabile – , l'abitatore perfetto del Mittlestand, renda quell'uomo una persona dal senso della vita alquanto ristretto. Eppure, come dirà Schiller più avanti, nella benefica classe media possiamo trovare l'intero sistema di norme e conoscenze da cui dipende la creazione di tutta la nostra civiltà18. Un discorso che arriva a tematizzare un'antinomia tale per cui, essendo ogni economia al fondo economia di tempo, l'uomo utile alla costruzione di un apparato statale, in un'epoca che è quella della formazione del capitale come sistema di produzione, è lo stesso uomo che conserva poco tempo per la costruzione di sé, che «nel regno della libertà più perfetta si porta dentro un'anima da schiavo»19 – si potrebbe osservare – è un discorso già frutto del considerare di un critico dell'economia

17 Ivi, p.48.

18 Cfr. F. Schiller, Che cosa significa storia universale e per quale fine la si studia? Una prolusione accademica, cit., p.64.

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politica. Ma riprendiamo il filo dell'argomentazione di Schiller.

Soltanto ciò che può renderlo capace di un ufficio e partecipe dei suoi vantaggi attiva le energie spirituali del dotto per il pane: egli ha una scala valoriale fondata sull'idea della

fatica, ma non in un senso generale. È pur sempre la sua fatica a farsi criterio di giudizio e

misura del lavoro degl'altri come del suo proprio. Tutta la vita che conduce è un far provviste per la professione. «La sua più grande preoccupazione è adesso mettere in mostra i tesori accumulati nella memoria, e, sì, evitare che essi diminuiscano di valore»20. L'unico scopo perseguito con assiduità ed interesse è la rendita. Che sia un giurista o, e non è un caso, un medico, il giovane di genio – e verrebbe da dire neanche qui si tratta di casualità, ricordando un passo del Saggio di Mann21 ̶ presto sarà disgustato dal suo sapere professionale in quanto gli appare come un sapere frammentario. E, ancora, «il suo genio si rivolterà contro la sua destinazione»22, egli non può proprio sopportare questa mancanza di fini. A una compitezza intuita per differenza si oppone la sua posizione: «egli si sente fatto a pezzi, strappato dal nesso delle cose, perché ha trascurato di raccordare la propria attività con la grande totalità del mondo»23.

Dopo aver delineato il profilo del dotto per il pane, il suo sistema deontologico più che etico di riferimento che è già un sistema politico ben strutturato e che determina ogni sua apparizione pubblica, sembra che Schiller, per segnare il passaggio alla definizione dell'operare di una testa filosofica, utilizzi uno scorcio di autobiografia come artificio

20 Ivi, p.49.

21 Cfr. Th. Mann, Saggio su Schiller, cit., pp.426-429, in particolare il passo che cito in cui Mann si riferisce alla stesura dei Masnadieri che coivolse uno Schiller diciannovenne, già in rivolta con la sua destinazione, potremmo dire, raccogliendo una suggestione che proviene dalle stesse pagine della Prolusione che stiamo commentando: «Egli vi si accinse a diciannove anni, vittima dell'albagia educativa d'un principe, alunno maltrattato, conculcato, tiranneggiato con i sistemi militari, assetato di libertà e di ardimentosa umanità, e nalla sua personale angustia e indignazione si concentra come in una lente ustoria tutto quanto il secolo e una società falsa possono offrire di indegno e di rivoltante. Egli sfrutta la sua costituzione delicata per rimanere di frequente in camera e scrivere in segreto il suo dramma restando a letto, dove, per ogni eventuale sorpresa, tiene pronto un manuale di medicina». 22 F. Schiller, Che cosa significa storia universale e per quale fine la si studia? Una prolusione accademica, cit., p.51. 23 Ibid.

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retorico. Infatti può affermare: «come affatto diverso è il comportamento della testa filosofica»24, dove il dotto per il pane separa questa si sente in dovere di riunire. Il suo

mestiere è quello di ristabilire il legame tra le scienze e le attività, di assumere i confini che

l'intelletto astraente descrive come limiti di un concreto che è la storia dell'uomo, e che il filosofo rappresenta come i termini del suo discorso, non come barriere concettuali invalicabili. L'assiduità del suo spirito lo apre al rischio: «anzi, quando nessun colpo smonta dall'esterno l'edificio delle sue idee, è egli stesso, costretto da un sempre attivo impulso al miglioramento, è egli stesso il primo che, insoddisfatto, lo smonta, per fabbricarlo di nuovo più perfetto»25.

Ciò che distingue una testa filosofica non è tanto, allora, ciò che fa, ma il come: dovunque sia e operi, uno spirito filosofico si pone al centro di tutto. La sua condotta di vita, come strutturazione metodica dell'esperienza comune, è il modello di un ricercare scientifico che è volto alla costruzione del senso di un'integrale esperienza storica. È certamente un'attività di pensiero, è certamente un porre questioni di senso e di significato. È un parlare di storia universale.

«Chiarito con loro il punto di vista dal quale si può determinare il valore di una scienza, posso accostarmi al concetto della storia universale»26. Il concetto di storia universale si costruisce in relazione a un così eravamo noi e a un che cosa siamo adesso?27, in rapporto all'intero corso delle vicende umane, secondo l'attuale configurazione del mondo: «[...] dall'insocevole abitatore di caverne» al «pensatore ricco di spirito»28, così come «Lo stesso fatto di trovarci noi – e questa volta con un senso da dare al "noi" più ristretto, in quanto in

24 Ivi, p.52. 25 Ivi, p.53. 26 Ivi, p.55. 27 Cfr. ivi, p.57. 28 Cfr. ivi, p.61.

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questo luogo Schiller si rivolge proprio alla platea interamente tedesca degli intervenuti alla sua lezione inaugurale – qui raccolti in questo momento, noi con questo grado di civiltà nazionale, con questa lingua, con questi costumi, questi vantaggi civili, questa misura di libertà di coscienza [...]»29, di tutto ciò la storia universale deve dar conto.

La deduzione di un'intera esperienza storica, perché si vuol fare la scienza della realtà storica presente e non solo opera di storiografia, è affidata alla capacità dello storico universale di fissare il momento presente come un risultato ricco di presupposti, di configurare il tempo presente come un posto. Il concetto della storia universale di Schiller è immediatamente il concetto di una storia filosofica, in quanto si costruisce come una teleologia per restituire il senso integrale del corso storico a partire da un momento che esso assume quale risultato e fine. Come a raccogliere una suggestione rousseauniana, le occasioni del vizio come i motivi di virtù, tutto essa lega alla sua catena di eventi, disposti secondo rapporti di causalità.

Sembrerebbe, allora, che anche per Schiller valga l'ammonimento di Voltaire, che in questo ricostruire «tutto è ingranaggio, puleggia, corda, molla, in questa immensa macchina»30. Così come accade nell'ordine fisico, così come Newton ha reso determinato. Da ciò che si è detto, invece, risulta evidente l'opposizione di un concetto di storia universale che non è affatto una teodicea, secondo cui gli avvenimenti presenti, di anello in anello, sono i figli legittimi di tutti gli avvenimenti passati. La storia universale, questo tratto di storia universale schilleriana, è piuttosto la teorizzazione di un'opera del pensiero che non discende la catena del tempo da un origine congetturata e coerente con l'idea di una natura umana, ma risale questa stessa catena dal suo momento più concreto, guidata dal concetto dell'attuale

29 Ivi, p. 63.

30 Voltaire, Dizionario filosofico, v. la voce Catena degli avvenimenti, a cura di Mario Bonfantini, Einaudi, Torino 2011, p.107.

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configurazione del mondo. Il criterio di deducibilità viene stabilito non in analogia al modello meccanico delle forze newtoniano. La natura non è più il filo conduttore. Il criterio è dedotto dai fatti e le relazioni attuali che tra questi intercorrono costituiscono il filo conduttore.

In quanto ricostruzione, la storia universale non può risalire oltre un tempo in cui non trova materiale utile al suo scopo. Tutti gli avvenimenti che non hanno lasciato tracce tangibili ed interpretabili, ovvero tutti i fatti di cui non abbiamo documenti, sono fatti che valgono come perduti. Il documentabile, la scrittura, è questo il terminus a quo della storia universale. Lo storico universale sa che la maggior parte degli eventi passati appartiene a un mondo non scritto, appartiene al corso di un mondo di cui egli non può riscrivere, in una storia, il corso. Tanta diffidenza quanta filosofia: è l'imperativo che guida la ʻgaiaʼ scienza dello storico universale, il quale «si desta davanti al monumento storico più antico» come «davanti a una cronaca dei nostri giorni»31. Le sue considerazioni sono rivolte a una «esigua somma» di accadimenti. Lo storico annota quelli che hanno avuto un influsso essenziale sulla costituzione attuale del mondo: risale, nel pensiero, il corso di questa storia e lascia i suoi segnavia, per poi discendere quel sentiero suddiviso in tappe. Questa è la storia del mondo e il suo cominciamento è opposto rispetto al cominciamento del corso del mondo.

La storia universale è, dunque, la storia di un esperire: dell'esperienza di una coscienza, anche se si trattasse solo della singola coscienza di un filosofo. È, primariamente, l'esperienza di una sproporzione tra il sapere che si vuol costruire e l'eccedenza del suo oggetto. «[...] la nostra storia del mondo non sarebbe mai qualcosa di diverso da un aggregato di frammenti e non meriterebbe mai il nome di scienza»32 se lo storico universale

31 Cfr. ivi, p. 68. 32 Ivi, p. 70.

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non agisse introducendo elementi connettivi artificiali ed elevasse una contrapposizione di frammenti a sistema, nonostante l'irriducibilità di quella sproporzione. Il metodo del salire e scendere il sentiero della ragione per dar conto di un intero razionalmente connesso è il metodo del dedurre secondo l'idea del conoscere conformemente alla conoscenza, ovvero secondo l'idea di sistema.

Questo metodo rappresenta la condizione di possibilità teorica di un sapere della storia che voglia presentarsi come scienza. L'impulso alla concordanza che anima lo storico universale può tuttavia spingersi fino al punto in cui la sua ricostruzione si converta in una manipolazione dei fatti, fino al punto in cui costituisce spiritualmente come mezzi e intenti ciò che in un primo momento collegava come cause ed effetti. Questo impulso spinge la coscienza del filosofo a scambiare principi di spiegazione per fatti di realtà, a confondere le regole che guidano l'intelletto filosofico e che porta a trascurare la vicinanza tra scienza ed immaginazione33. Esercitare metodicamente il giudizio sui fatti della storia universale, definiti non a caso come segnavia, significa invece riferirsi costantemente al tempo presente, ed essere consapevoli che tutto ciò che lo storico universale può fissare sulla linea del tempo, egli lo determina nella sua rappresentazione e per mezzo del suo rappresentare.

È però un rischio che deve correre, in quanto «[...] risolvere il problema dell'ordinamento odierno del mondo e [...] incontrare lo spirito supremo nel suo effetto più bello»34rimangono l'oggetto più alto di ogni aspirazione umana. Questo tentare, proprio di una testa filosofica, esprime il senso di una pratica conoscitiva concepita per lo spirito in quanto spirito. «Abituando l'uomo a comprendersi con l'intero passato e a precorrersi con le sue conclusioni nel lontano futuro»35, la storia universale estende come in una «illusione

33 Cfr. Lorenzo Calabi, Il sentiero della ragione e il tribunale del mondo. Introduzione, in F. Schiller, Lezioni di

filosofia della storia, cit., p. 20.

34 F. Schiller, Che cosa significa storia universale e per quale fine la si studia? Una prolusione accademica, cit., p.73. 35 Ibid.

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ottica» la vita individuale nella vita del genere umano, storicamente determinato. La storia, questa storia schilleriana, è il risultato di un'indagine condotta a partire da una determinata attualità, di cui è parte lo stesso modo del rappresentare dello storico universale, e realmente si pone come tribunale del mondo: solo che il criterio del giudizio che definisce chi vi entra come imputato o come giudice è dedotto a partire dai rapporti e dalle relazioni che fanno del presente una configurazione concreta e ricca di determinazioni. È la storia di queste determinazioni e delle leggi del loro determinarsi che fa da contenuto alla sistematica prodotta dall'Universalhistoriker. E questa consente propriamente un'educazione a conoscersi e a riconoscersi. Per questo motivo e per questo fine la si studia.

II.2. Nella lezione Sulla prima società umana secondo il filo conduttore del documento

mosaico36, intanto, si tratta di indagare una primitività originaria dell'uomo guardando, come

aveva fatto Kant, alla narrazione contenuta ne Il libro. Le prime pagine sembrano esser state composte pedissequamente al testo dell'Inizio37kantiano. «Il maestro di scuola» espone la sua idea di una caduta morale che dischiude al primo uomo, e così al genere tutto, la responsabilità della scelta, nella dimensione agonica della sua interiorità appena scoperta. Questo debutto dell'uomo come ente di natura morale ha certo portato nella creazione il male morale, e Kant ha ragione a chiamarla una caduta. Al contempo questo evento determina la possibilità che l'uomo persegua ciò a cui è per natura chiamato ad attuare: il bene morale, il bene voluto e consaputo di una coscienza morale. Afferma Schiller: «[...] da questo momento data la sua libertà, qui furono poste le prime remote fondamenta della sua

36 F.Schiller, La prima società umana secondo il filo conduttore del documento mosaico, in F.Schiller, Lezioni di

filsofia della storia, cit., pp. 77-102.

37 Cfr. I. Kant, Inizio congetturale della storia degli uomini (1786), in I.Kant, Scritti di storia politica e diritto, cit., pp. 103-116.

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moralità»38.

L'inizio del mondo, allora, è propriamente il bene; l'inizio della storia dell'uomo, invece, è il principio del male, ma anche un passo da gigante verso l'umanità compiuto dal primo uomo. In questa sua secessione dalla voce dell'istinto, l'uomo diventò un «essere etico, e con questo passo mise il primo piede sulla scala che nel corso di molti millenni lo conduce al dominio di sé»39. La lotta che l'uomo ingaggiò non fu quella tra due principi della sua coscienza: «dovette combattere con l'uomo per la propria esistenza, una lotta lunga, penosa e non ancora finita»40. Soltanto per mezzo di questa lotta, però, il primo uomo poteva formare la propria ragione e la propria eticità.

In Schiller, dunque, possiamo dire che non si tratta tanto di conciliarsi con il male, quanto più di rendere determinata quella nobiltà d'animo che è la condizione di possibilità dell'autonomia morale dell'uomo e suo risultato, della capacità di dirigere la propria storia verso il raffinamento e la civilizzazione, e, insieme, verso la produzione di sempre nuovi strumenti della sua rovina41.

È possibile riferirci a quella disobbedienza originaria più che come a una caduta, come a una uscita42: non solo l'uomo fece la scoperta di una facoltà che può estendersi al di là dei limiti entro i quali sono costretti tutti gli animali, come suo tratto differenziale; il documento mosaico mostra, insieme, come la presunta disobbedienza dell'uomo a quel comandamento divino non sia altro che una secessione dall'istinto, un andare oltre la stretta cerchia della sua «calma voluttuosa» per farsi egli stesso il creatore della propria felicità. Di una felicità, cioè, che sia propria di un libero agente morale: non più frutto di un immediato appagamento,

38 F.Schiller, La prima società umana secondo il filo conduttore del documento mosaico, cit., p.80. 39 Ibid.

40 Ivi, p.82.

41 Rigurdo alla possibilità di intendere cosa qui significhi rovina, si rimanda a Lorenzo Calabi, Filosofia della storia

in Kant e Schiller. Riflessioni su di un confronto, cit., p. 257.

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bensì in quanto risultato della riflessione, dell'assiduità e della fatica che l'uomo ha inserito tra il desiderio e l'appagamento.

Se all'inizio bastava stendere una mano, ora l'uomo ha dinanzi una via più lunga da percorrere, la via della mediazione: dal primo passo compiuto il lavoro diventa necessità. Ormai l'uomo è diventato davvero troppo nobile per restare in un paradiso di indolenza: ridestato dall'impulso alla sua propria attività, «avrebbe trasformato il paradiso in un deserto e poi fatto di quel deserto un paradiso»43.

Il libro è così il documento che attesta un primo inizio: è il documento della formazione

della prima società umana, in cui la facoltà del lavorare diventa l'elemento concreto che segna il passaggio dell'uomo alla sua umanità, al riconoscimento effettuale della sua libertà.

Il lavoro, la mediazione che iscrive nella vita singolare come in quella comunitaria, il suo apporto fondamentale di eticità, è un'uscita e una vera liberazione e già la condizione dell'emersione dell'antagonismo tra le diverse occupazioni. È la posizione di un rapporto tanto più differenziante i soggetti quanto creatore di una sempre maggior dipendenza tra questi. Il povero e il debole impararono a servire e a ricevere, così come il ricco e il forte a dare e a oziare. La prima distinzione degli stati fu un importante passo del raffinamento verso il peggioramento della condizione umana in società. La cessata uguaglianza e l'impellenza di uno stato di necessità spinsero gli uomini della prima società a vivere o come

signore o come servo di un signore. Questo regno della necessità si organizza secondo la

diversità delle condizioni in cui è dato agli uomini rendersi più o meno sopportabile il peso della sussistenza. In questo regno risiede il vero principio di distinzione degli stati, della divisione e della dipendenza degli uomini. Il regno della necessità è il regno che svela nei suoi meccanismi la vera natura dell'autorità e del potere, perché, infine, in quanto regno

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della necessità, è il regno dell'autorità e del potere.

«Alla fine questo imponentesi disordine nella prima società si sarebbe verosimilmente concluso in un ordine e l'ormai superata uguaglianza fra gli uomini avrebbe portato dal regime patriarcale alla monarchia»44. Fuori dai confini della vita domestica, l'astrazione del «primo re» diviene il modello di costituzione di un potere che proviene interamente dai rapporti che si stabiliscono nel campo più esteso della società, l'esito a cui questa tende, non per natura ma perché conformata dall'eticità del lavoro. Analizzando alcuni luoghi della scrittura, le tradizioni popolari più antiche espresse in miti e leggende, in particolare dei greci e dei primi popoli germanici, Schiller definisce una categoria storico-politica universale, quella di un primo re che dovette sollevarsi sul corpo di una società non ancora formata politicamente, come un usurpatore. Solo così poteva sorgere il primo potere politico, solo così la prima società poteva costituirsi come corpo politico.

II.3. La storia universale si è potuta concepire perché si è potuto costruirne il soggetto, ovvero il genere umano. «Ma anche universale si dice in molti sensi»45. Schiller, abbiamo visto, non si pone il problema di fondare l'idea della storia del genere umano in una oggettività esterna, in analogia a un presupposto oggettivo quale è la natura. Egli propone un sapere filosofico della storia che è in senso proprio una filosofia della storia: non si riferisce alla storia come al campo in cui si manifesta la storia di un altro soggetto, che sia la libertà, la mente o lo spirito. Non parla della storia di questi soggetti come della storia universale.

Il concetto di storia universale teorizzato da Schiller a Jena è il concetto di un sistema di storia in cui sono da ricercare quella stessa libertà, mente o spirito secondo le

44 Ivi, p. 97.

45 L. Calabi, Filosofia della storia in Kant e Schiller. Riflessioni su di un confronto, in Schiller lettore di Kant, cit., p.254.

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determinazioni che di volta in volta ne costituiscono la configurazione attuale, come chiave d'accesso alla loro essenza, alla verità del loro attuarsi. Per concepire questa storia come

storia progressiva, allora, non è costretto a porre fuori dal suo dominio l'uomo e a segnarne

il debutto come se si trattasse di una caduta morale. Sebbene l'oggettività ora risulti parimenti in-compresa nella e dalla progettualità dei singoli come del genere, l'oggettività della natura non costituisce più il filo conduttore o l'idea sotto cui sussumere il fare e il non fare degli uomini. L'oggettività è l'oggettività della storia quale corso del mondo, rispetto a una oggettività che il filosofo costruisce mediante lo strumento della ragione: una oggettività che lo storico universale ri-produce come storia del corso del mondo, nel pensiero, e che dunque riproduce come oggettività del pensiero, a partire dall'esperienza di una configurazione attuale del mondo. Ed è questa esperienza a costituire il filo conduttore per concepire fatti ed eventi del corso del mondo nella loro propria temporalità, secondo, cioè, la loro significatività e capacità esplicativa in relazione al tempo presente.

Nel rispondere a che cosa significhi Storia Universale occorre, dunque, essere rigorosi: la storia universale è propriamente una costruzione della ragione, frutto dell'opera dell'Universalhistoriker, il quale percorre la freccia del tempo in entrambi i versi della sua direzione, a partire dalla situazione più recente, per restituire il significato della configurazione attuale del mondo. La storia universale è, dunque, ancora una storia pensata in un universo di discorso teleologico: è una storia pensata a partire da un esito. E l'esito coincide con il qui ed ora da cui comincia la ricerca dello storico universale, il suo fissare

segnavia lungo il sentiero della storia in relazione al tempo presente, in relazione

all'esperienza di una concreta configurazione del mondo.

Concepire il tempo presente, il tempo della odierna configurazione del mondo, significa concepire che il tempo presente è propriamente il tempo in cui il «massimo problema» posto

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da Kant, che definisce l'ambito di problematicità dell'emersione di una eticità adeguata alla costituzione della società civile, è un problema che non si supera applicando il principio della destinazione morale dell'uomo, sviluppato a partire dalla critica della ragione. Porre la storia nei termini di una derivazione e non nei termini di una deduzione, come, appunto, è avvenuto in Kant – riguardo, cioè, al passato e a un presente che si costituisce a partire da questo, e non nei riguardi di una storia predittiva, la quale di certo si qualifica come

deduttiva in senso proprio, ma anche qui, deduttiva in quanto si rappresenta relativamente al

principio morale che trascende la storia stessa – significa non poter fornire alcuna critica della storia stessa. La filosofia trascendentale, infatti, consente di risalire fino alla fonte della conoscenza pura come al modo della conoscenza e in nessun caso alla cosa in sè: e una critica della storia sarebbe apparsa come una critica della natura, del piano che cela e che meglio si determina a ogni battuta d'arresto.

In Schiller, invece, il metodo del salire e scendere il sentiero della storia è un conoscere la storia in quanto tale, un assumere il problema che nella configurazione presente del mondo si sviluppa non come un ostacolo al dispiegarsi della destinazione di un legno così storto, quale è l'uomo, bensì nei termini di una determinazione. E il problema, il nuovo «massimo problema» per il genere umano, è l'annuncio di forme di scissione che si aggiungono, per la riflessione filosofica, alla scissione dalla quale si origina il bisogno stesso di filosofia.

Ora, risolvere il problema dell'ordinamento odierno del mondo, in quanto rimane l'oggetto più alto di ogni aspirazione umana, dipende dall'esatta deduzione della categoria dell'universale storico. Risolvere, in questa prospettiva, nella prospettiva della Prolusione, significa riuscire a concepire il proprio tempo nel pensiero come un risultato – transitorio – di presupposti, per costruire un sistema di conoscenza storica, e per mezzo di questo

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mostrare come nel suo cerchio stia tutto il mondo morale. Ciò per cui agli uomini è data la possibilità di conoscersi e di riconoscersi come genere, ovvero la possibilità di educarsi a essere uomini. E, allora, a partire dal discorso tenuto a Jena da Schiller, e dalla specifica determinazione della categora di universale in relazione alla formazione della prima società umana e della costituzione del primo potere politico, la questione non è più tanto quella della costituzione del soggetto come risultato del metodo risolutivo-componente, così come, appunto, il problema non è più tanto quello di conciliarsi con il male morale.

Assumendo l'angolo visuale della costituzione del soggetto della storia e del modello di scientificità, infatti, abbiamo potuto riferirci alla filosofia della storia di Kant, esponendo l'idea della conoscenza storica fondante quel particolare genere di discorso. Discorso che abbiamo definito come teleologico dal punto di vista morale: tanto risolutivo su un piano trascendentale quanto aporetico se si avanza l'idea di una critica che si rivolga direttamente alla storia. Nella Prolusione accademica di Schiller l'aporeticità dell'oggettività di un progetto, quello della natura, che rappresenta come in-compreso la sviluppo concreto delle individualità come del genere in un tempo che è il tempo della società civile, è assunta non come confine intellettuale da superare e adeguare all'imperativo morale della ragione, ma in quanto termine fondamentale del discorso sulla storia. L'uomo viene sempre meglio determinato come mondo dell'uomo, e il compito della storia universale nella prima lezione di Schiller è ormai quello di ristabilire la verità della concretezza di quella rappresentazione che pure uomo abbiamo imparato a chiamare e che non si fonda soltanto sulla considerazione della sua essenza, ma concepisce le universali determinazioni umane a partire dal concetto dell'attuale configurazione del mondo.

E, allora, se è stato possibile concepire la storia universale perché si è potuto costituirne il soggetto, rivolgendosi a questo stesso soggetto secondo un diverso punto di vista, non si

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poteva che determinare un diverso senso di storia universale. Se il cominciamento è rappresentato dalla odierna configurazione del mondo, e l'odierna configurazione del mondo è il tempo della divisione delle occupazioni nella forma della separatezza delle professioni intellettuali, della fissata divisione dei saperi, è il tempo in cui si mostra come proprio là dove sono implicati la medesima capacità di pensare e di creare – lo spirito –, gli stessi domini dell'intuita compiutezza e della limpida visione – l'arte e la scienza –, lo stesso fine – la verità –, è stato dimesso l'universale, il raccordo con la «grande totalità del mondo»46. Ma è proprio per questo particolare cominciamento che il tempo della odierna configurazione del mondo è anche il tempo in cui è possibile ribellarsi alla frammentarietà, il tempo della rivolta di un «giovane di genio», il tempo in cui può cominciare l'opera di una testa

filosofica, volta a ri-stabilire la verità della concretezza dell'uomo nella ʻtotalitàʼ della sua

espressione, ovvero nel suo svolgimento storico-universale.

II.4. È noto che l'esigenza di pensare la totalità dello spirito come concreta totalità, e, dunque, di non fermarsi al concetto di essa, al suo schema logico, è stata affermata da Hegel con una acutezza e con una complessità non raggiunta da alcun pensatore prima di lui. Da questo punto di vista potremmo dire che nella Fenomenologia dello Spirito, cercando di appagare questa esigenza, Hegel abbia mostrato la molteplicità delle forme spirituali preparando quel terreno e quella via che poi avrebbe percorso con la sua logica speculativa. Per ricca e multiforme che sia nel suo contenuto, la molteplicità delle forme spirituali presuppone l'essenziale manifestatività dello Spirito, che è il vero soggetto che si compie e si realizza secondo la legge unica della dialettica. L'esito di questo movimento dialettico è il

46 Riguardo al senso che si deve attribuire alle espressioni di «spirito», di «arte e la scienza», di «verità», si guardi, per esempio, F. Schiller, Che cosa significa storia universale e per quale fine la si studia? Una prolusione accademica, cit., pp. 49-53.

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sapere assoluto nel quale lo Spirito raggiunge l'elemento puro della sua esistenza, ovvero

risulta compiutamente adeguato al suo concetto. Secondo il ritmo sempre uguale di tale adeguarsi, ciascuno stadio viene superato e abbassato a puro momento del farsi dello Spirito. Il concetto, allora, non è soltanto il mezzo attraverso cui si manifesta la vita necessaria dello Spirito, ma è il vero elemento sostanziale, e, nella filosofia hegeliana, l'autentico elemento reale. Soltanto in vista del riferimento che la molteplicità instaura con l'unità assoluta dello Spirito si può comprendere il profondo valore e il peculiare significato di ogni elemento. È in questo supremo accentramento delle forme spirituali che, dal nostro punto di vista, potrebbe essere rinvenuto il principio fondamentale dell'idealismo filosofico. L'unità, l'elemento di identità di ogni forma, è l'elemento che giustifica dialetticamente la rigorosa sistematica delle forme dello Spirito.

La filosofia, potremmo dire con Franz Rosenzweig, non tanto in relazione ai presupposti de La stella della redenzione, quanto in riferimento alla sua Introduzione, e cioè alla «possibilità di conoscere tutto»47, ha assolto il compito che si era proposta: pervenire alla conoscenza pensante del Tutto. Di una conclusione vera e propria si deve parlare, infatti, guardando all'inclusione della storia della filosofia all'interno del sistema, operata da Hegel, e per la quale la filosofia si è posta come quel sapere che non abbraccia soltanto il suo oggetto, il Tutto, ma attinge esaustivamente anche se stesso. Comprendendo se stessa nella

sua storia, la filosofia ha determinato il suo carattere autocosciente come propria radice

metodica. Giunta al termine del suo compito, ha attestato questo suo esser giunta al temine con la costruzione del sistema idealistico che si celava al fondo sin dall'inizio, ma che in questo memento, ovvero nella filosofia hegeliana, è diventato maturo per la propria

47 Cfr. Franz Rosenzweig, La stella della redenzione, tr. it. e cura di Gianfranco Bonola, Marietti, Casale Monferrato 1985.

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manifestazione. In breve: nel sistema hegeliano l'idealismo filosofico ha trovato espressione adeguata e compiuta.

La prassi consolidata prescriverebbe di riferirsi, nel caso di un tentativo di confronto tra la filosofia hegeliana e i contributi filosofici di Schiller, alla visione più diffusa e tradizionale, la quale si deve allo stesso Hegel. Prescriverebbe, cioè, di riferirci al celebre passo, tratto dalla rielaborazione per la stampa che Heinrich Gustav Hotho preparò delle lezioni di estetica hegeliane, secondo cui fu «il senso artistico di uno spirito profondo e insieme filosofico a richiedere ed esprimere, prima che la filosofia lo riconoscesse, la totalità e la conciliazione, di fronte a quell'astratta infinità di pensiero, a quel dovere per il dovere, a quell'amorfo intelletto, che concepisce e trova di contro la natura e la realtà, il senso ed il sentire solo come barriera, come qualcosa di assolutamente ostile»48. Il merito di Schiller consisterebbe allora nell'aver infranto il soggettivismo e l'astrazione del pensiero propri della filosofia trascendentale, nel suo peculiare tentativo di superare le separazioni imposte alla ragione, e in quello di concepire concettualmente l'unità e la conciliazione come il vero.

Partendo dalla interpretazione hegeliana, certo, Schiller è un eminente kantiano che è andato oltre Kant, nel suo difendere certi dualismi e nel suo attaccarne degli altri, aprendo così la strada a una conciliazione non solo soggettiva ed ipotetica – quale era, ad esempio, quella proposta da Kant attraverso il come se (als ob). La conciliazione estetica viene teorizzata e, potremmo dire, esibita praticamente da Schiller nel percorso di formazione filosofica, e cioè soprattutto nel periodo della sua «svolta kantiana»49. È a questo periodo che

48 Cfr. G.W.F. Hegel, Estetica, a c. di N. Merker e N. Vaccaro, Einaudi, 1997, pp. 72-73 (tomo primo). Su questo tema, e, in particolare, sulla possibilità di problematizzare proprio questa prassi e tradizione interpretativa, si guardi al saggio di Leonardo Amoroso, Schiller interprete di Kant, in Schiller lettore di Kant, cit., pp. 11-29, come al saggio di uno dei curatori dello stesso testo, ovvero allo scritto di Alberto L. Siani, Kant, Schiller, Hegel e la

parabola dell'estetica, pp.147-164.

49 Sulla «svolta kantiana» di Schiller cfr. G. Pinna, Introduzione a Schiller, Laterza, 2012, pp. 30-58 e 151-174 (dove si ricostruisce la storia della critica anche in relazione a questo punto decisivo della riflessione di Schiller).

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si deve far risalire il confronto diretto con le opere di Kant: in particolare, dopo la lettura dei testi di filosofia della storia di Kant – come si legge nella lettera del 29 agosto 1787 indirizzata a Körner – è il confronto con la terza Critica kantiana – segnalata ancora all'amico Körner nella lettera del 3 marzo 1791 – a rappresentare il nucleo problematico da cui discenderà l'elaborazione e la scrittura dei testi teorici più importanti di tutta la produzione filosofica di Schiller50.

Il primo frutto di questo confronto avrebbe dovuto essere un dialogo, intitolato Kallias, scritto per fondare, oltre Kant, un concetto oggettivo di bellezza che potesse fungere anche da principio oggettivo del gusto. Ma il tentativo si interrompe per la difficoltà di esibire una deduzione rigorosa e interamente a priori del concetto di bellezza. Ancora in dialogo con Kant, Schiller trova nella bellezza stessa l'elemento di intelligibilità, l'esempio di quella causalità secondo libertà che apre al dominio morale e che in Kant, a differenza di quanto sta determinando Schiller, presuppone una esperienza soltanto soggettiva. La bellezza è per Schiller «libertà nel fenomeno» (Freiheit in der Erscheinung) e nell'accentuazione del nesso fra bellezza e libertà, l'interpretazione della bellezza come analogon della libertà morale, è espresso, già in questo primo abbozzo, l'ideale estetico-morale di Schiller. Il saggio successivo, ovvero il saggio su Grazia e dignità, è infatti diretto proprio alla fondazione e alla definizione, nei termini dell' «anima bella», di tale ideale. Ideale la cui espressione nel fenomeno è appunto la grazia. Ma quest'ideale è appunto un ideale: nella realtà non è sempre possibile un accordo, che sia un accordo bello, nel fenomeno. Ci sono casi in cui non si potrà che avere un disaccordo tra bellezza e libertà. L'espressione estetica di questi casi è non bella, ma sublime, e consiste nella dignità. Così dicendo Schiller si avvicina certo a Kant sul piano della morale: si avvicina al concetto di dovere e al sentimento di rispetto

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ispirato dalla maestà della legge morale. Il sostanziale accordo a livello dei principi venne riconosciuto, infatti, da Kant stesso, e reso esplicito in una nota aggiunta alla seconda edizione de La relgione (1794)51. Tale riconoscimento, però, significa al contempo, soprattutto per uno Schiller lusingatissimo dell'attenzione di Kant e che non nascose il sostanziale influsso del critico della ragione sulle sue speculazioni, il programma di una distinzione concettuale e di una contrapposizione filosofica, in rapporto all'idea di natura umana e di bellezza in quanto tale, che guidò Schiller ad attaccare, come si legge in alcune pagine del saggio su Grazia e dignità, il «temperamento da certosino» e l'aspetto «draconiano» della filosofia estetica e morale di Kant52. È sulla spinta di questo attacco che Schiller concepisce il saggio sul sublime e sul patetico che cronologicamente e anche logicamente precede il fondamentale scritto pubblicato nel 1795. Lo spostamento d'accento rispetto a Kant in questo saggio consiste nell'assegnare al sublime derivante dal patetico, dunque all'arte tragica, un valore preminente rispetto al sublime naturale privilegiato da Kant nella terza Critica.

Il programma di determinazione delle categorie estetiche e di apprensione estetica del reale confluisce, dunque, nel testo del 1795 su citato, ovvero nelle lettere sull'educazione

estetica. All' «educazione estetica dell'uomo», appunto, è dedicata la più importante opera

filosofica di Schiller. È in questo testo centrale della sua produzione teorica che l'autore di cui ci stiamo occupando segna definitivamente il passaggio dal dover essere al mondo dell'essere, e in questo passaggio mostra il suo principale elemento di merito.

Seguendo la linea interpretativa che muove da Hegel e che guarda retrospettivamente al corso del pensiero come a un approssimarsi necessario verso la filosofia hegeliana, il

51 Cfr. I. Kant, La religione entro i limiti della sola ragione, tr. it. di Alfredo Poggi e a c. di Marco Olivetti, Laterza, Bari , la nota a pp. 21-22.

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«merito» di Schiller troverebbe poi come immediato contraltare un'altra categoria interpretativa del pensiero schilleriano, elevata successivamente a concetto stesso della filosofia politica dell'autore: nella sua apprensione estetica del reale, Schiller resterebbe collocato tra il merito storico di aver superato Kant e aperto a Hegel, e il «progetto filosofico» di una educazione estetica del genere umano. Un progetto che, tuttavia, nella sua nobiltà e grandiosità si dimostra inattuabile ed impotente nei riguardi della fattualità storico-politica.

Ora, ripensare complessivamente il senso e il significato della filosofia schilleriana non è certo il compito che mi sono prefisso, come pure non è mia intenzione chiarire il modo in cui l'autonomia teorica e la discontinuità schilleriana, rispetto a una visione che invece è ancora legata al cliché che vede in Schiller l'anello di congiunzione tra Kant e l'idealismo, si sia determinata nel corso completo della sua formazione filosofica.

Scelgo, invece, di rivolgermi ad alcuni passi della Differenza hegeliana e di confrontarli con la Prolusione, in quanto i termini del discorso posti da Schiller nella loro forma verbale – e indicarlo non è solo questione di filologia, ma al fondo sussiste l'ipotesi di una archeologia del sapere sulla storia che sta fissando il suo lessico come il suo metodo – ci danno la possibilità di interrogare assieme i due testi jenesi. Faccio riferimento, in particolare, a quel «il medico si scinde [entweiet sich] dalla sua professione»53, e all'idea che proprio nel superamento dei confini professionali una testa filosofica possa porre la questione del significato e del senso di una vicenda a essa stessa contemporanea, per farne qualcosa di diverso da un aggregato di frammenti, ovvero, per farne un sistema.

Il tema di una conciliazione reale, nei termini come negli esiti del discorso, sebbene

53 F. Schiller, Che cosa significa storia universale e per quale fine la si studia? Una prolusione accademica,cit., p. 52, così pure si rimanda alla Nota alla traduzione del curatore e traduttore, in particolare le pagine 44 e 45.

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ancora nella forma di un educazione del genere umano, è già posto nello Schiller della

Prolusione e delle Lezioni, e viene sviluppato a partire dalla deduzione di un nuovo senso di universale da assegnare alla storia.

Se sia una conciliazione possibile nei modi di un costituirsi dell'assoluto in quanto

identità assoluta di soggetto e oggetto, di una identità posta nello stesso tempo nella

manifestazione, ciò che rappresenta per Hegel il «concetto smarrito dell'autentica speculazione»54, o se si tratta di un costruire che tiene conto di una configurazione storica concepita come l'assoluto in quanto ʻconcretoʼ, ciò a cui sembra tendere Schiller, e ciò che intendo chiarire nella mia esposizione. In questa esposizione, cioè, è ancora e soltanto una questione formale: in analogia al modo dell'esposizione della Differenza, si tratta ancora di un «esame storico di sistemi filosofici» e non dell'esposizione del sistema stesso. Tanto più se si tiene presente che l' assoluto della Differenza non è ancora lo Spirito della

Fenomenologia; né quest'ultimo può coincidere con lo «spirito» della Prolusione.

II.5. «Quando la potenza dell'unificazione scompare dalla vita degli uomini e le opposizioni perdono il loro rapporto vitale e la loro azione reciproca e guadagnano l'indipendenza, allora sorge il bisogno della filosofia»55. Per quanto la coscienza si faccia trovare impigliata nelle particolarità, e per quanto possa risultare orientata e determinata aprioristicamente, la ragione «diviene speculazione filosofica unicamente perché si innalza a se stessa, si affida unicamente a se stessa»56. In questo caso, allora, la ragione si riconosce come il presupposto e in quanto presupposto assume se stessa come oggetto «per costruire l'assoluto nella coscienza»57. In questa costruzione è massimamente coinvolto l'intelletto

54 G.W.F. Hegel, Differenza fra il sistema di Fichte e di Schelling,cit., p.39 55 Ivi, p.15.

56 Ivi, p.12. 57 Ibid.

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astrente che «pone tra gli uomini e l'assoluto tutto ciò che per l'uomo è prezioso e sacro [...] tutte le potenze della natura e dei talenti»58. Tutto, infatti, si può ritrovare nell'intero sistema delle separazioni intellettuali fuorché l'assoluto stesso.

In questo suo determinare l'intelletto allontana da sé la possibilità di una reale conciliazione tra le condizioni trascendentali del conoscere e, come dice Hegel nella

Premessa riferendosi a Kant, «un immenso regno empirico della sensibilità e della

percezione, un'assoluta aposteriorità, per la quale non è indicata alcuna apriorità, solo una massima soggettiva del Giudizio riflettente»59.

Ora, ammesso che si faccia professione di filosofia, il bisogno che deriva dalla perdita di interezza, la cui istituzione è il prodotto dell'intelletto astraente, è nient'altro che il suo presupposto e lo è in un duplice senso. In primo luogo perché l'assoluto come totalità oggettiva sussiste da sempre e costituisce lo scopo; in secondo luogo in quanto l'intelletto nel suo progredire fa esperienza di una eccedenza, di un al di là come di un

essere-emerso-fuori60 della coscienza dalla totalità. Da questo fondo verrebbero fuori le categorie che

determinano la diversa e multiforme peculiarità dei punti di vista e dei saperi che qui traggono i loro differenti oggetti e piani di studio. Un tale modo di rappresentare, quando consapevole, pone un puro nulla come principio del conoscere, dal quale emerge ogni essere ed ogni molteplicità del finito. Il compito della filosofia consisterebbe, allora, nel riconciliare quella duplicità di senso, nel togliere la loro opposizione, e, seguendo la fraseologia hegeliana, nel porre essere e non-essere nel concetto del divenire, la scissione come manifestazione dell'assoluto, il finito e l'infinito nell'idea di vita.

Questo togliere e levare è il risultato della speculazione filosofica che assume come

58 Ivi, p.13. 59 Ivi, p.4. 60 Cfr. ivi, p.17.

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proprio presupposto il punto di vista della scissione e ne tenta una conciliazione per mezzo della riflessione. Come fattore reale della vita e fonte della filosofia, il sentimento della scissione rappresenta un primum per la ragione che riflessivamente si riconosce come

ragione, ovvero come soggetto della conoscenza e non soltanto come facoltà dell'unità pura

dell'intelletto. Il superamento e l'inveramento della scissione è ciò che interessa alla ragione, la quale trova nella riflessione il suo proprio strumento, e per mezzo di questo è in grado di ricostituire l'identità tra l'assoluto e le determinazioni dell'intelletto: un'identità che sia la conciliazione dell'identità e della non-identità.

Ora: i prodotti della riflessione, a loro volta, non sono altro che delle limitazioni, degli opposti, e l'assoluto così posto, in realtà, è un tolto perché viene rappresentato tramite una formula, un nome che non significa nulla, una pura notazione posizionale all'interno di una periodare raziocinante. Nella lotta che ingaggia con l'intelletto astraente «la ragione si espone come forma dell'Assoluto negativo, quindi come assoluto negare»61. La mediazione della contraddizione sussistente tra la positività assoluta dell'intelletto e questo annientare assoluto della ragione è l'opera specifica della riflessione, di quella che più tardi sarà definita come la legge della dialettica. «La riflessione isolata, in quanto porre di opposti, sarebbe un togliere assoluto; essa è la facoltà dell'essere e delle limitazioni. Ma la riflessione ha, in quanto ragione, rapporto con l'assoluto ed è ragione unicamente mediante tale rapporto»62.

Dunque: l'in-finito posto dall'intelletto come un non-finito è il negare stesso della possibilità di un vero infinito. La procedura definitoria e affermativa dell'intelletto, che avanza per differenze e ripetizioni, prospetta per sé un campo di ricerca non determinabile. Non che questo costituisca direttamente un problema, anzi: il problema sussiste quando

61 Ivi, p.18. 62 Ibid.

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l'intelletto cerca di imitare la ragione e, nel farlo, inevitabilmente «si prende gioco di sé». Dal punto di vista dell'intelletto questo suo in-finito si costituisce come prodotto esclusivo di una strategia conoscitiva: il principio fondamentale che legittima il porre, di volta in volta, concetti e categorie è quindi completamente trascendentale e dal suo punto di vista non c'è opposizione assoluta del soggettivo e dell'oggettivo. Ma con ciò la manifestazione dell'assoluto, dice Hegel, è un'opposizione, perché l'assoluto non è nella sua manifestazione, «la manifestazione non è identità»63.

In un primo momento la ragione può superare questa infinita oggettività di separazioni istituita dall'intelletto solo secondo il modo dell'intelletto: opponendo a questa figura quella di una infinità soggettiva. E, infatti, Hegel può dire: «Questo annientare ossia il puro porre della ragione senza opporre, sarebbe, se essa è opposta all'infinità oggettiva, l'infinità soggettiva: il regno della libertà opposto al mondo oggettivo»64.

Tuttavia, anche questa libertà è sorta come una non-necessità, come un opposto. La ragione deve annientare ogni opposto che sussiste in autonomia per togliere assolutamente l'opposizione. In questo modo gli opposti sussisterebbero entrambi, ma non più autonomamente, bensì solo in quanto posti dalla riflessione in relazione con l'assoluto, cioè come identità. Dice Hegel: «questa identità cosciente del finito e dell'infinito, l'unificazione dei due mondi, sensibile ed intelligibile, necessario e libero, è nella coscienza, il sapere»65. Il sapere della coscienza è la forma del sapere o sapere in quanto tale, dal punto di vista della ragione. È quel tipo di conoscenza, cioè, che può concepire la scissione come manifestazione della vitalità dello spirito, l'infinito e il finito come vita, l'essere e il non-essere come divenire.

63 Cfr. ivi, p. 36. 64 Ivi, p.19. 65 Ivi, p.20.

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