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III. Alcune letture

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III. Alcune letture

Introduzione

Per affrontare correttamente un’analisi dell’opera La fine della

morte del Trionfo, composto dall’artista nel 2002, quale ultimo

tassello della trilogia inaugurata nel 1997 con Tupac Amauta -

primo canto e proseguita nel 1999 con Gramsciategui, ou les poesimistes –secondo grido, ho ripercorso quelle che sembrano

essere state le letture che hanno ispirato l’artista per la composizione di quest’opera ed ho analizzato alcuni testi, pubblicati successivamente all’uscita del video, che hanno affrontato in modo originale il tema da cui lo stesso video ha preso spunto.

Il materiale che ho analizzato, proprio per l’originalità del soggetto ispiratore del video: il ciclo di affreschi de il Trionfo

della Morte del Camposanto Monumentale di Pisa, si è

dimostrato, a causa degli studi interdisciplinari che, nel tempo, si sono avvicendati sull’opera pittorica , eterogeneo ed articolato. Il mio primo approccio all’opera pittorica pisana, approccio che è stato anche dell’artista romano, è stato condizionato da un testo di carattere storico artistico dal titolo Il Camposanto di Pisa206 a

cura di Clara Baracchini ed Enrico Castelnuovo, in cui alcuni critici della storia dell’arte pisana del secolo, tra cui Antonino

206 Baracchini Clara e Castelnuovo Enrico, Il Camposanto di Pisa, Torino, Einaudi, 1996,

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Caleca, ripercorrono le tappe di realizzazione dell’opera pittorica e ne fanno una descrizione attenta e puntuale. Naturalmente lungi da me la possibilità di ripercorrere quanto illustrato da queste ricerche, anche perché il campo della mia analisi è funzionale alla realizzazione dell’opera di Gianni Toti; cercherò di fornire, innanzitutto, una descrizione personale dell’opera pisana con il supporto del testo in precedenza citato e di altri due testi di fondamentale importanza: il testo Dal Maestro di San Torpè al

Trionfo della Morte207di Enzo Carli e il testo Buffalmacco e il

trionfo della morte208di Luciano Bellosi.

Chiaramente per descrivere l’opera ho visitato Il Camposanto di

Pisa.

207 Carli Enzo, Dal Maestro di San Torpè al Trionfo della Morte, 1° volume dell’opera:

Pittura pisana del Trecento (2 vol), Aldo Martello, Milano 1958-1961, 86 p., ill.

208 Bellosi Luciano, Buffalmacco e il trionfo della morte, 5Continents, Milano 2003, 140 p., ill..

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III.1. La prima decorazione del Camposanto di Pisa

La costruzione del Camposanto è stata condotta per cantieri successivi e la sua decorazione è avvenuta durante l’innalzamento delle vaste pareti perimetrali.

In posizione di snodo rispetto alla prima porzione di struttura, e precisamente all’angolo sud est, fu dipinta la Crocifissione, gigantesco dossale d'altare commissionato probabilmente verso il 1332-33, raccordo delle scene post mortem che, fiancheggiandola sulla stessa parete, si aprivano con il ciclo detto del Trionfo della

Morte, che, a sua volta, si stendeva sulla parete Sud.

Il Cristo, raffigurato in croce tra i due ladroni, sovrastante, a destra, un corteo di soldati e, a sinistra, un gruppo di donne, offre, infatti, alla vista dei fedeli l'esempio del suo sacrificio, e rafforza nelle scene a fianco, con l'esibizione delle stimmate, la paziente sopportazione proposta dalle allegorie del Trionfo. Infine con gli esempi della Resurrezione e dell’Ascensione conforta gli stessi fedeli sull'esito finale della lotta contro le tentazioni della vita terrena.

Si tratta dunque di una trama iconografica complessa, di cui è stato riconosciuto autore il pisano Domenico Cavalca,209autorevole domenicano protagonista della vita culturale del momento, le cui prediche fungono da glossa per recuperare il significato delle figurazioni. Mentre in Buonamico

209 Cavalca, Domenico (Vicopisano, 1270 circa – Pisa, 1342) è stato uno scrittore italiano,

appartenente all'Ordine dei Frati Predicatori Domenicani. Uomo di santi costumi, scrisse opere di argomento religioso od ascetico, in parte originali, in parte tradotte dal latino; inoltre fu docente di teologia a Pisa. Si dedicò all'educazione morale delle donne e, nel 1342, poco prima della sua morte, fondò il convento di Santa Marta a Pisa.

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di Martino detto Buffalmacco210è stato identificato, dopo secoli di controversie attributive, il pittore dell’intero ciclo ad eccezione della Crocifissione. Ciclo che si caratterizza per il suo crudo realismo, per un’espressività tipicamente duecentesca ma anche per l’utilizzo, proprio della scuola giottesca, di figure sistemate ai margini, così da indirizzare sapientemente lo sguardo dello spettatore verso l'episodio cruciale.

La Crocifissione, diversa anche per tecnica di esecuzione, è stata invece attribuita al pisano Francesco Traini,211cui spettò, come diretto collaboratore di Simone Martini212e di Lippo Memmi213 nei loro soggiorni pisani, anche l'avvio della decorazione del Camposanto.214

Elenco delle scene

1 Crocifissione, Francesco Traini, 2 Resurrezione, Bonamico Buffalmacco , 3 Incredulità di San Tommaso, Bonamico Buffalmacco , 4 Ascensione, Bonamico Buffalmacco, 5 Trionfo

della Morte, Bonamico Buffalmacco, 6 Giudizio Universale,

Bonamico Buffalmacco, 7 Inferno, Bonamico Buffalmacco, 8

Storie dei Santi Padri, Bonamico Buffalmacco e 9 Vergine Assunta, Stefano da Firenze

210 Di Martino, Buonamico detto Buffalmacco (Firenze....- 1340) è stato un pittore

fiorentino attivo nella prima metà del XIV secolo fu rappresentante di primo piano della pittura gotica in Toscana.

211 Traini, Francesco (... – ...) è stato un pittore toscano attivo a Pisa dal 1315 al 1348 circa,

si formò nell'ambito di una bottega pisana attenta agli sviluppi della coeva pittura senese.

212 Martini, Simone, indicato talvolta anche come Simone Senese (Siena, 1284 circa –

Avignone, 1344), è stato un pittore e miniatore toscano, considerato indiscutibilmente uno dei maestri della scuola senese e sicuramente uno dei maggiori e più influenti artisti del Trecento italiano, l'unico in grado di contendere lo scettro a Giotto. La sua formazione avvenne, probabilmente, nella bottega di Duccio di Buoninsegna.

213 Memmi, Lippo (Siena, nono decennio del XIII secolo – Siena, 1356) è stato un pittore

toscano, esponente tipico della scuola senese della prima metà del Trecento e il seguace più valido e rappresentativo di Simone Martini, di cui fu cognato.

214 Le notizie (s.i.a) di questo paragrafo, compreso l’elenco delle scene, sono riscontrabili

sul sito web dell’Opera Primaziale pisana a partire dalla seguente pagina: www.opapisa.it/it/la-piazza-dei-miracoli/.../la-prima-decorazione.html

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III.1.2. Il Trionfo della Morte

Fig. 26 – Trionfo della Morte – Camposanto di Pisa

L’affresco del Trionfo della Morte, trasportato su tela in seguito ai danni subiti durante la seconda guerra mondiale,215è attualmente disposto su una grande parete nel cosiddetto “Salone degli affreschi” all’interno del Camposanto di Pisa. La scena è, infatti, tornata, seppure allocata in altra posizione, nel sito per cui era stata commissionata: luogo tra i primi in Europa a essere deputato alla sepoltura dei morti.

Il Cimitero di Pisa, come ci informano, altresì, gli studiosi del periodo, era un luogo dove spesso si aggiravano monaci degli ordini mendicanti legati alla predicazione: che proprio nel tema del Trionfo ritenevano esemplificati i precetti da elargire all’uomo del secolo, sempre intimorito dall’incombente minaccia della morte. Quindi sia il luogo che il tema prescelto hanno contribuito, sin dall’inizio, a conferire all’affresco significati moralistici

La scena del Trionfo con la sua variegata articolazione interna, che corrisponde, comunque, ad aspetti della vita quotidiana

215 Maggiori informazioni su tale argomento in Clara Baracchini e Enrico Castelnuovo, Il

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medievale, rappresenta, infatti, un monito per l’uomo del secolo. L’affresco, come rileva anche Bellosi nell’opera in precedenza citata, è infestato di demoni, spiritelli e figure mostruose che, scagliandosi furibonde contro l’umanità per impossessarsi delle anime, gravano sul normale svolgimento della vita e dei piaceri quotidiani. Questa è sicuramente un’immagine che grazie all’utilizzo dell’orrido e del grottesco ha come finalità quella di terrificare lo spettatore.

L’autore immagina, quindi, l’intera composizione come una grande pagina miniata e gli spiritelli che la popolano sembrano avere affinità con i genietti scolpiti sui numerosi sarcofagi antichi all’interno del Camposanto.

La scena del Trionfo della Morte è, quindi, la più intensa del ciclo del Camposanto, basata, come fa rilevare sempre Bellosi,216su una definizione irrazionale e disorganica dello spazio, soprattutto in confronto alla suprema calibratura spaziale e compositiva di una scena di Giotto.217 L’affresco, a causa della sua lunga esposizione agli agenti atmosferici, appare oggi molto consunto e per questo non è possibile ammirare a pieno il suo potenziale pittorico. Il problema principale di tipo conservativo è legato al colore, che, perdendo di vivacità, ha reso difficile, nonostante i restauri,218la lettura dei dettagli, che appaiono spesso un tutt'uno con lo sfondo. Le zone conservatesi in maniera

216 Bellosi, Buffalmacco e il trionfo della morte, pag. 17.

217 Il più sovrano maestro stato in dipintura che si trovasse al suo tempo, e quegli che più

trasse ogni figura e atti al naturale." (Giovanni Villani, mercante, scrittore e cronista italiano. Firenze ,1276 -1348).

“Rimutò l'arte di greco in latino e ridusse al moderno" ( Cennino Cennini, pittore italiano. Colle di Val d'Elsa, 1370 – Firenze, 1440).

218 Per ulteriori informazioni su tale argomento Clara Baracchini, “Il restauro infinito”, in

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migliore sono quella posta nella parte superiore destra dell'opera: in cui è rappresentata la scena della battaglia tra angeli e demoni, e le due scene di vita cortese affrescate ai lati.

La scena articolata in varie parti è dominata, come descrive bene anche Battaglia Ricci, nel testo Ragionare nel giardino,219opera di cui darò conto in un successivo paragrafo, da molteplici emozioni: l'orrido, il grottesco, il comico, il senso di serenità. Osservando, però, l'intera parete ci si rende conto che anche la gioia sarà ben presto funestata dalla morte, che, nei panni di una vecchia megera, trionfa sul mondo terreno e non lascia scampo a nessuno.

Fig. 27 - Scena; “Incontro dei tre vivi e dei tre morti”

Partendo, quindi, con la lettura canonica dell’opera da sinistra verso destra, la prima scena che appare è quella dell’incontro dei tre vivi con i tre morti: topos letterario ed iconografico dell’epoca medievale, forse di derivazione orientale, come rileva Carli,220e come poi conferma Battaglia Ricci nel testo in precedenza citato. Tre cavalieri, parte di una compagnia ben più numerosa;

219 Battaglia Ricci, Lucia, Ragionare nel Giardino: Boccaccio e i cicli pittorici del Trionfo

della Morte, 2° ed. (collana «Piccoli Saggi»), Roma, Salerno Editrice, 2000, 278 p., ill..

220 Enzo Carli, Dal Maestro di San Torpè al Trionfo della Morte, cit.

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composta da dieci figure a cavallo, in cui la tradizione popolare soleva riconoscere personalità dell’epoca, come riferisce Vasari221, si imbattono in tre bare scoperchiate contenenti tre cadaveri in diversi stadi di decomposizione. La foggia dei cavalieri e delle dame, come già anticipato, è quella dei nobili del tempo: una dama col cagnolino; topos dell’“amor cortese”, un falconiere con il suo falco, alcuni cani di diversa razza, e forse anche principesse e principi con tanto di corona e cappucci variopinti. Il fetore che proviene, tuttavia, dai tre cadaveri; ciascuno in uno stadio diverso di disfacimento: quello più vicino ai cavalieri è ancora integro, mentre le due bare successive contengono, rispettivamente, un corpo in putrefazione e uno ormai scheletrico, fa turare il naso a un membro della cavalcata. Il progredire della putrefazione sembra essere simboleggiato dal serpente che, dopo essere passato nella prima bara (quella dello scheletro), e aver passato la seconda, sta entrando nella terza: dove il corpo, forse di un coronato, è ancora intatto. I tre corpi rappresentano, probabilmente, come fa rilevare anche Carli,222le tre principali categorie sociali del tempo: la monarchia, la borghesia e il popolo.

Presso le tre bare, in fondo ad uno sperone di roccia da cui parte un sentiero scosceso, si trova un decrepito eremita, identificato in San Macario, che tiene in mano un cartiglio con una scritta ammonitrice. Il Monaco mette in guardia i giovani a non

221 Vasari, Giorgio. - Pittore, architetto e scrittore (Arezzo 1511 - Firenze 1574). Artista

manierista, fu attivo, come pittore e soprattutto come architetto, in diverse città italiane (Arezzo, Bologna, Napoli, Roma). Il nome di Vasari rimane legato però soprattutto alle grandi committenze pubbliche dei Medici a Firenze (complesso degli Uffizi) e alla raccolta delle Vite, edite la prima volta nel 1550 (Vite dei più eccellenti architetti pittori et scultori italiani da Cimabue insino a' tempi nostri), che costituiscono la prima opera moderna di storiografia artistica, in cui definì il canone dell'arte italiana fra Trecento e Cinquecento.

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indulgere negli agi della vita terrena ma ad abbracciare la vita contemplativa per un aldilà in Paradiso.

Fig. 28 - Dettaglio; “Incontro dei tre vivi e dei tre morti”

Fig. 29 – Dettaglio: “Gli eremiti”

Sempre sulla sinistra, in alto, arrampicati su balze scoscese, quattro monaci sono disposti intorno ad una chiesetta. Si tratta di eremiti che sembrano indifferenti al destino di morte. Sono intenti a svolgere le mansioni quotidiane: un monaco munge una

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capra, un altro prega, uno è intento a leggere stando seduto, mentre l’ultimo osserva la scena del supplizio sotto di lui, senza però mostrarvi alcun interesse. Intorno alla chiesetta, come a voler sottolineare il concetto di vita eremitica, fagiani, lepri e animali selvatici che la caccia della nobile brigata non è riuscita a raggiungere.

La posizione degli eremiti, come rilevato dagli studiosi dell’opera, rappresenta concettualmente la possibilità salvifica che, attraverso il percorso ascendente del viottolo indicato da Macario, porta il peccatore al “Monte della Salvezza”. Monte che nell’affresco si trova strutturalmente e concettualmente in posizione opposta e contrapposta al cratere infernale in cui i demoni spingono i dannati.

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Fig. 30 – Dettaglio: “Un demone strappa via un’anima”.

Un demone strappa via un'anima (dettaglio)

Più a destra è narrato il giorno del Giudizio o "Giorno dell'Ira";223che si svolge con la rappresentazione della battaglia

223 “Giorno d'ira quel giorno, giorno di angoscia e di afflizione, giorno di rovina e di

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furibonda tra gli angeli protettori, che abbracciando le anime dei buoni le conducono in Paradiso, e gli implacabili diavoli: demoni irsuti con le ali di pipistrello che appaiono decisi a estrarre le anime dei defunti attraverso le loro bocche. Le anime sono rappresentate in forma di bambini, o di nani ignudi.224

In basso, nella zona centrale dell’affresco, si riesce a intravedere la Morte, che per la prima volta è rappresentata come una megera scarmigliata e urlante, con artigli alle dita dei piedi, ali di pipistrello e falce in pugno. Dietro di lei due angioletti che sorreggono un cartiglio, mentre sotto giace una montagna di corpi indistintamente mietuti. Si distinguono, infatti, senza alcuna distinzione di rango sociale, ammassati gli uni sopra gli altri, corpi di pontefici e di coronati ma anche corpi di popolani e di poveri: tutti egualmente coinvolti nel destino di morte.225Destino di morte che da quell’informe accozzaglia, incapace di sopportare, alla stregua del Cristo in Croce, le sofferenze della vita, è bramato e richiesto quale rimedio all’infelicità terrena, così come si legge nel predetto cartiglio corale,226posto al centro della scena.

Dieci giovani nel verziere (dettaglio)

tromba e d'allarme sulle fortezze e sulle torri d'angolo.” (1,15-16, versione latina della Vulgata del libro di Sofronio Eusebio Girolamo, V secolo).

224 Enzo Carli,Dal Maestro di San Torpè al Trionfo della Morte, cit., pag. 68.

225 “Il ricco cattivo non è più spaventato del povero Lazzaro, il contadino della danza

macabra non è meno sorpreso dell'imperatore!...il sentimento di un fatum collettivo, al quale ci si abbandona.”, Ariés, Philippe , Storia della morte in Occidente, titolo originale: Essais sur l'histoire de la mort en Occident ,4° ed. (BUR Saggi ), R.C.S. Libri e Grandi Opere, Milano 2009, pag. 87.

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Fig. 31 - Scena: “Dieci giovani nel verziere”

Nell’ultima parte dell’affresco, quella in basso a destra, troviamo una scena tipica dell’iconografia medievale rappresentata dai “dieci giovani nel verziere”. La scena è composta da giovani uomini e donne seduti sotto a un verziere (luogo piantato di alberi da frutta), su di un prato smaltato di fiori, all'ombra di alberi - probabilmente profumati aranceti - che si godono spensierati le gioie della vita. La Morte, con i suoi artigli e la falce affilata, sta, però, volgendo verso di loro, che ignari del destino che comunque li attende continuano le loro attività ludiche. Anche qui ritroviamo negli abiti indossati dalla lieta brigata e nei loro colori, negli strumenti utilizzati e negli animali da compagnia che compongono la scena, la foggia tipica del secolo.

Alla febbrile intensità del gruppo di derelitti, posti a fianco dell’allegra brigata, si contrappone, sempre secondo Carli, la compostezza dei giovani gaudenti che, con un rapporto invertito

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tra uomini e donne rispetto alla cavalcata – la compagnia del verziere è composta, infatti, da sette donne e tre uomini, mentre quella della cavalcata è composta da sette gentiluomini e tre damigelle -, sembrano inconsapevoli di ciò che li attende. La Morte che li insidia appare, tuttavia, non tanto una punizione per i loro peccati quanto per la loro felicità terrena.227

L’opera è caratterizzata da una sequenza di scene di differente provenienza culturale cui si univano epigrafi, ormai perse, e il cui testo, come dice anche Bolzoni in La rete della immagini,228è possibile ricomporre grazie a Salomone Morpurgo229 che ne fece un’edizione,230alla fine dell’ottocento, sulla base di antiche attestazioni manoscritte.

Fig. 32 – Ingrandimento: “Il diavolaccio dell’Inferno”

227 Enzo Carli, Dal Maestro di San Torpè al Trionfo della Morte, cit., pag. 70. 228 Bolzoni Lina, La rete della immagini, Torino, Einaudi , 2002 - 280 p., ill

229 Morpurgo, Salomone, (Trieste 1860 - Firenze 1942), filologo e bibliotecario italiano,

direttore della Biblioteca Nazionale di Firenze dal 1905 al 1923.

230 Cfr. Salomone Morpurgo, Le epigrafi volgari in rima del <<Trionfo della Morte>>, del

<<Giudizio Universale>> e degli <<Anacoreti>> nel Camposanto di Pisa, in <<L’arte>>, II (1899), pp. 51-87.

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III.1.3. Il Giudizio Universale e l’Inferno

Fig. 33 -“Il Giudizio Finale“ Fig. 34 – “L’Inferno”

La rappresentazione del Giudizio Universale pisano, anch’esso

trasportato su tela in seguito ai danni subiti durante la seconda guerra mondiale,231e collocato su una grande parete disposta ad angolo retto rispetto a quella del Trionfo, segue lo schema tipico dell’arte gotica. Il “Cristo giudicante”, posto, infatti, tra le schiere ordinate dei santi e dei beati che lo contemplano, con gesto quieto ma severo, divide la scena in due settori: a destra gli eletti e a sinistra i reprobi che, squassati da un soffio infuocato,232sono tenuti a bada da angeli e Arcangeli.

Se l’iconografia medievale, prevede il solo “Cristo Giudice”, nell’affresco pisano, invece, il giudizio è condotto, insolitamente, dal Cristo e dalla Vergine, entrambi seduti su scranno nell’arcobaleno di due “mandorle”,233poste l’una di fianco all’altra. Mentre l'atteggiamento del Cristo, come ho già fatto

231 Maggiori informazioni su tale argomento in Clara Baracchini e Enrico Castelnuovo, Il

Camposanto di Pisa, Torino, Einaudi, 1996.

232 Enzo Carli, Dal Maestro di San Torpè al Trionfo della Morte, cit., pag. 76.

233Mandorla - in pittura e nella scultura a bassorilievo, tipo di inquadratura delle figure

consistente in due archi di cerchio intersecantisi in due vertici in alto e in basso. Anche, la nicchia o formella in forma di mandorla che circonda talora la figura del Cristo giudicante in trono, spec. nell’arte medievale.

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rilevare, è rigoroso - con un braccio alzato in segno di condanna verso i reprobi -, quello della Vergine, che si porta la mano al seno, è dolce e misericordioso. Gli apostoli seduti in semicerchio su possenti scranni, dalla loro posizione elevata, quasi all’altezza del Cristo e della Vergine, si volgono angosciati e pietosi, a dirla come il Carli,234verso il grande processo e le condanne inesorabili. Sopra le teste degli apostoli alcuni angeli, forse cherubini, che recano nelle mani i simboli della Passione. Sotto alle “mandorle”, in posizione divergente, due angeli buccinatori235seguiti da un terzo che, accovacciato, si chiude la bocca con una mano, mentre un quarto angelo, in posizione eretta al centro della scena sotto i due giudicanti, regge due cartigli in cui sta rispettivamente scritto: “venite benedicti patris mei,

percipite regnum quod vobis paratum est” e “ite maledicti in ignem aeternum qui paratus est a diabulo”.

Nel settore di sinistra, come rileva Carli,236è ammassato un manipolo di personaggi - composto da teste incoronate ed incappucciate di peccatori illustri - che rappresenta egregiamente la schiera dei dannati. Ciascuno, a modo proprio, esprime la disperazione che lo attanaglia mentre un sinistro vecchione, che l’autore identifica con Caino, si fa avanti con gesti melodrammatici.

234 Enzo Carli, Dal Maestro di San Torpè al Trionfo della Morte, cit., pag. 74.

235 Angeli buccinatori - che suonano la buccina strumento a fiato antenato della tromba usato dai Romani per impartire ordini alle milizie.

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Fig. 35 – Dettaglio: “Gli Arcangeli respingono i dannati”

Gli Arcangeli respingono i dannati (dettaglio)

Più in basso, sotto all’angelo di centro, è rappresentato, come da iconografia, San Michele Arcagelo237che, sguainando la spada con la mano destra, indica ad altri arcangeli come suddividere le anime, mentre i morti resuscitano dalla terra. Ad altezza delle tombe quadrate che si aprono sul terreno, a destra della scena, un dannato che, recuperato la vita dalla parte degli eletti, è afferrato per i capelli e riportato tra i dannati. A sinistra, invece, un arcangelo presenta a San Michele un giusto; erroneamente uscito da terra nella zona dei reprobi.

237 Michele è uno dei tre Arcangeli con Gabriele e Raffaele menzionati nella Bibbia. Il

nome Michele deriva dall'espressione "Mi-ka-El" che significa "chi è come Dio". L'arcangelo Michele è ricordato per aver difeso la fede in Dio contro le orde di Satana.

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Lucifero (dettaglio)

Fig. 36 – Dettaglio: “Lucifero” Fig. 37 – Dettaglio: primo piano “Lucifero”

La scena spaventevole dell'Inferno, collocata, in origine, proprio di fianco al Giudizio, si trova, in questo momento, presso i laboratori di restauro dell’Opera Primaziale Pisana. Di conseguenza ho potuto, in realtà, vedere solo ciò che resta della sinopia238dell’affresco, collocata nel Museo delle Sinopie di Pisa vicino, appunto, a quella del Giudizio.

All’interno di una cavità rocciosa si dispongono su quattro livelli i gironi dei dannati (bolge). In mezzo alle bolge dei dannati spicca la figura seduta di Lucifero,239di dimensioni doppie rispetto al “Cristo Giudice”. Lucifero, qui rappresentato secondo i dettami della Divina Commedia, è l’origine di tutti i vizi. Di colore verdastro con due teste laterali appena distinguibili e con

238 La sinopia è la fase dell'affresco consistente nel disegnare con della terra rossa (in

origine proveniente da Sinope, sul Mar Nero) un abbozzo preparatorio per l'affresco eseguito subito dopo l'arriccio

239 Lucifero (in latino lucifer, composto di lux (luce) e ferre (portare), traduzione; portatore

di luce) è il nome classicamente assegnato a Satana dalla tradizione giudaico-cristiana in forza dell'interpretazione prima rabbinica e poi patristica di un passo di Isaia. Più precisamente, Lucifero è considerato essere il nome di Satana prima della sua precipitazione dal Cielo da parte di Dio, e dunque la sua connotazione angelica.

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un’area rossastra che ne incornicia la figura, porta sulla testa delle corna ricurve e divora, con le orride zanne, corpi di dannati. Mentre dalla bocca infernale gli spuntano i resti di alcuni corpi, da basso, evacua i dannati.

I gironi (o bolge) rappresentati nell’affresco sono disposti secondo il genere di pene ivi praticate. Si tratta di torture suddivise in aree distinte e riservate ciascuna alla punizione di uno dei sette peccati capitali240ispirati alla Divina Commedia Dantesca.

Sul livello più basso sono disposti gli avari, colti mentre gli è versato dell’oro liquido in bocca o sottoposti ad altre torture da demoni deformi.

Nella seconda bolgia, a sinistra, appaiono i corpi nudi degli iracondi avvolti da serpenti, e a destra i golosi che girano invano attorno ad una tavola imbandita.

Nella terza bolgia sono rappresentati gli accidiosi accovacciati nel sabbione infuocato; dalla parte opposta gli invidiosi, immersi nel ghiaccio sotto la sferza e la forca dei demoni.

In alto, nell’ultimo girone, gli eretici con la testa staccata dal busto e altri, i cui corpi sono sottoposti a torture prima di essere spinti nel baratro infuocato e nelle fauci di un mostro.

Sopra la cavità rocciosa volano due angeli con cartiglio.

240 Nella dottrina morale cattolica, i vizi/peccati capitali sono desideri non ordinati verso il

Bene Sommo, cioè Dio, dai quali tutti i peccati traggono origine. I sette vizi capitali sono: Superbia (desiderio disordinato di essere superiori agli altri, fino al disprezzo degli ordini e delle leggi, Avarizia (desiderio disordinato dei beni temporali), Lussuria (desiderio disordinato del piacere sessuale), Invidia (tristezza per il bene altrui, percepito come male proprio), Gola (abbandono ed esagerazione nei piaceri della tavola). Ira (disordinato desiderio di vendicare un torto subito) ed Accidia (torpore malinconico e l'inerzia che prende coloro che sono dediti a vita contemplativa).

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Fig. 38 – Dettaglio: “Gli iracondi avvolti da serpenti”

Fig. 39 – Carlo Lasinio, (1795 – 1838), Il Giudizio Universale e l’Inferno, acquaforte dall’affresco del Camposanto di Pisa.

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III.2. Ragionare nel giardino – Lucia Battaglia Ricci

Un altro approccio all’opera pittorica e di conseguenza agli eventuali input che la stessa avrebbe potuto fornire all’artista per la realizzazione del video è stato mediato dal testo di Lucia Battaglia Ricci Ragionare nel giardino.241

Un testo che non ha niente a che fare con la videoarte ma che, a mio avviso, ci consente di collegare, con un sottile gioco di rimandi e di contrapposizioni l’opera totiana, l’affresco pisano e due dei testi medievali per eccellenza; la Divina Commedia e il

Decameron. Naturalmente la finalità precipua del testo di

Battaglia è dimostrare l’influenza dell’opera pittorica pisana e del suo presunto autore; Buonamico Buffalmacco, su Boccaccio e il suo Novelliere. La mia è quella di riuscire a provare, in un prossimo capitolo, una sorta d’ideologia comune che soggiace alle espressioni artistiche dei due autori; lo scrittore Boccaccio e il poetronico Toti.

Battaglia Ricci partendo dalla novità letteraria rappresentata dal

Decameron, dove l’autore mette in atto scelte personali e

innovative sia sul piano della scrittura della novella, come testo autonomo e autosufficiente, che su quello della composizione di un insieme organico di novelle, passa ad esaminare il significato e la funzione della cornice - la lieta brigata che ragiona nel giardino -, a suo avviso, maggiormente comprensibili se analizzati alla luce di alcune scoperte fatte sul Ciclo degli affreschi pisani dalla critica d’arte, negli anni sessanta e settanta. Tali scoperte, che portano a retrodatare l’opera pittorica agli anni trenta e quaranta del XIV secolo e ad attribuirla a Buonamico

241 Battaglia Ricci, Lucia, Ragionare nel Giardino: Boccacio e i cicli pittorici del Trionfo

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Buffalmacco, permettono, infatti, all’autrice, di meglio esplorare e comprendere le motivazioni che hanno portato Boccaccio a utilizzare quella storia come struttura portante dell’opera, lo spessore culturale ed ideologico di tale scelta e il rapporto esistente tra cornice e novelle. La retrodatazione dell’opera pittorica e la constatazione che nella sinopia i componenti del gruppo nel verziere erano in realtà nove e non dieci hanno obbligato la stessa a chiedersi se, al contrario di quanto tradizionalmente creduto, la dipendenza fosse, in realtà, quella del testo letterario dalla raffigurazione pittorica, e quanto tale dipendenza, se ritenuta verosimile, avesse potuto far comprendere meglio l’invenzione strutturale boccaccesca. Partendo da tali considerazioni Battaglia Ricci si persuade che non solo il sistema iconografico dell’affresco e le sue implicazioni culturali – ideologiche sono presenti al Boccaccio nel momento della realizzazione del Decameron ma che lo stesso le ha consapevolmente citate nella sua opera.

Grazie, infatti, all’adozione della rappresentazione della lieta brigata pisana come modello tematico e come immagine polemica, l’autore, mettendo in conto la capacità del lettore trecentesco di riconoscere e decodificare il complesso gioco di allusione/elusione di quel modello, oltre che le relazioni che lo stesso stabilisce con altri modelli letterario culturali (Roman de la

Rose242, la Commedia, il Novellino243, il Filocolo244 ), esprime la

242 Il Roman de la Rose (in italiano Romanzo della Rosa) è un poema allegorico, scritto in

due parti distinte, da due diversi autori e a distanza di 40 anni. L'opera fu iniziata da Guillaume de Lorris nel 1237, che ne scrisse 4.058 versi. In seguito, essa fu ripresa e completata, con più di 18.000 versi, da Jean de Meung tra il 1275 e il 1280. Il successo fu immenso, tanto che il testo fu uno dei più copiati per tutto il Medioevo: ci rimangono oggi all'incirca 300 manoscritti. Il poema assume la forma di un sogno allegorico. Tutto il poema narra le imprese dell'amant per conquistare la rosa, allegoria della donna amata, favorito o ostacolato da varie personificazioni dei suoi sentimenti contrastanti (Orgoglio, Vergogna, Pudore, contro Bell'Accoglienza, ecc). Alla fine, con l'aiuto di Venere egli riesce

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sua visione del mondo, precisa quali siano per lui il significato e la responsabilità della scrittura letteraria, e offre nel contempo una chiave di lettura del libro. Il riconoscimento, poi, di tale modello permette di capire meglio il rapporto esistente tra la storia portante e le singole novelle.

Battaglia procede, poi, evidenziando nel testo boccacciano l’imitazione della struttura narrativa della Divina Commedia, imitazione che le fa supporre un ruolo di primo piano del modello dantesco nell’ideazione del Decameron. Rileva, quindi, numerosi eventi testuali che testimoniano dal punto di vista dell’organizzazione del libro tale dipendenza; il numero delle novelle uguale al numero dei canti danteschi, la contrapposizione tra un inizio “orrido” e un esito “prospero”, la storia di un protagonista, singolo o collettivo, che fugge da una situazione ed un luogo estremamente negativi per approdare a esperienze positive, il viaggio catartico che prevede in sostanza tre tappe per ognuno dei protagonisti. Se per Dante il viaggio prevede un inabissamento fino alla risalita al paradiso, quasi a rappresentare un segno fisico dell’esperienza morale del protagonista, nel

a penetrare nel castello e a consumare l'atto d'amore.

243 Il Novellino è una raccolta di novelle toscane, risalente almeno all'ultimo ventennio del

Duecento. Dell'autore (o degli autori) non si conosce l'identità; ignoto è anche il compilatore (di certo unico). I pochi tratti che possono essere delineati sull'autore del Novellino si desumono dalla stessa opera, e rimangono molto generici: egli fu di origine fiorentina, forse un ghibellino, sicuramente laico. L'opera si compone di 100 novelle, scelte dal compilatore da una raccolta più ampia che ne comprendeva forse persino 130; la maggior parte di esse non è un'invenzione originale, ma è tratta da fonti antiche latine o medievali (in particolar modo dalla tradizione provenzale).

Fu pubblicato per la prima volta nel 1525 a Bologna da un amico di Pietro Bembo, Carlo Gualteruzzi, con il titolo di Le ciento novelle antiche.

244 Il Filocolo o, secondo il suo significato etimologico, Fatica d'amore, è uno dei primi

lavori di Giovanni Boccaccio. È il primo romanzo avventuroso della letteratura italiana scritto in prosa in volgare (mentre i romanzi delle origini erano poemi scritti in versi).Questa opera appartiene alla giovinezza di Boccaccio, scritta durante il suo soggiorno a Napoli nel 1336. I due protagonisti sono Florio, figlio del Re di Spagna, e Biancofiore, un'orfana. Essi si amano dopo essere cresciuti insieme e sono costretti ad affrontare molte peripezie e disgrazie che li dividono, ma alla fine, dopo numerosi viaggi di Florio alla ricerca dell'amata sotto lo pseudonimo di Filocolo, si ritrovano e la storia termina con un lieto fine.

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Decameron i protagonisti si muovono lungo linee orizzontali

aderenti alla superficie della terra. Così la citazione diviene sia segno di vicinanza che segno di allontanamento, dichiarazione di dipendenza ma anche di distanza ormai definitiva.

Segnale esplicito di questo complesso rapporto di vicinanza ma anche di alterità ideologica del Decameron rispetto alla Divina

Commedia è rintracciabile già nel secondo titolo dato all’opera;

“principe galeotto”, titolo che riprende l’epiteto lapidario e negativo con cui Dante allude al romanzo arturiano e che Boccaccio utilizza “cognominando” il suo libro con l’intento di rendergli onore. Il Decameron fin dalle sue prime battute dichiara quindi il debito nei confronti del “libro” per eccellenza della letteratura in volgare primo trecentesca e al tempo stesso il superamento ed il ribaltamento di quel modello.

L’autrice, passando, poi, dall’individuazione nel testo di contaminazioni di carattere orientale, quale lo schema del “novellare in cospetto del pericolo di morte”, arriva a trattare il tema della peste e della cultura della predicazione ribaltando lo schema ideologico del critico americano Millard Meiss, che, interessato a spiegare la nuova forma e il nuovo contenuto della pittura fiorentina e senese del tempo, ipotizzava che la dipendenza ideologico-culturale dell’invenzione iconografica del Trionfo pisano dipendesse dall’evento peste del 1340. Visto, quindi, che l’ultima datazione proposta dal critico americano per il Trionfo pisano (1345) era definitivamente saltata la Battaglia Ricci è sembrato opportuno, al fine di ricostruire il sistema di attese in cui si inserisce ed in cui si misura il Decameron, esprimere una riserva sul quadro che lo stesso critico insieme ad altri fanno di quel periodo storico-ideologico-culturale.

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L’eterogeneità delle reazioni culturali ed esistenziali alla peste e la retrodatazione del Trionfo pisano obbligano, infatti, a riconsiderare l’ipotesi di storiografia culturale di Meiss, secondo la quale vi è stata una vera e propria frattura ideologico culturale tra la prima e la seconda metà del secolo da imputarsi al fenomeno peste, nonché quella di Toscano che vedeva l’origine di tale frattura nell’andamento catastrofico degli anni quaranta e cinquanta. Già Gombrich245proponeva di spostare all’indietro quella ondata di misticismo e isteria che Millard Meiss fa scaturire dal post pestem.

In realtà, tutti quei Trionfi che sono stati parte della struttura probatoria dell’ipotesi per lo stesso storico dimostrano che la peste o l’andamento catastrofico degli anni quaranta e cinquanta del secolo (ipotesi Toscano) non fecero altro che rilanciare o forse meglio rinvigorire la tendenza alla vita ascetico-eremitica-penitenziale già in voga nella Toscana del primo Trecento.

Invalidata, quindi, parte dei dati di cui Meiss si era servito per costruire il suo sistema e le sue stesse premesse teoriche e accertata la nuova datazione del ciclo pisano tra il 1336 e il 1342, Battaglia Ricci sottolinea come il Trionfo pisano, una delle espressioni più significative del primo Trecento, che nel suo continuum - il Giudizio - presenta un Cristo nella veste di giudice e punitore, tema che avrà grande successo anche dopo la peste, prenda forma in una Pisa che sta vivendo storicamente uno dei momenti di massimo splendore sotto la signoria di Novello della

245 Gombrich, Ernst Hans Josef. - Storico dell'arte austriaco naturalizzato britannico

(Vienna 1909 - Londra 2001). Studiò con J. Schlosser. Dal 1936 si trasferì a Londra al Warburg Institute, che diresse dal 1959 al 1974. Insegnò storia dell'arte nelle università di Oxford, Londra, Cambridge e alla Harvard University. Dedicò numerosi studî all'arte della tarda antichità e del Rinascimento, dibattendo vivamente i problemi teorici dell'esperienza artistica con particolare riferimento alla psicologia della forma. Socio straniero dei Lincei (1993).

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Gherardesca (1329-1340).

In tale situazione socio-politico-culturale la raffigurazione, nata sotto l’egida del convento domenicano di Santa Caterina, si preoccupa di demonizzare i più tipici logoi della vita cortese e cavalleresca, non ancora del tutto tramontati, esaltando la vita ascetica penitenziale come l’unica capace di trionfare sulla morte.

A questo punto l’autrice, venuta meno l’ipotesi di una “filiazione” post pestem degli affreschi del Camposanto pisano, s’interroga sulla provenienza delle rappresentazioni demoniache ivi dipinte, rilevando quanto, anche, l’opera pittorica pisana sia largamente tributaria del poema dantesco che, a suo avviso, ha funto da spartiacque cronologico e culturale nella definizione della tipologia di tale iconografia e nella definizione della geografia morale dell’inferno.

L’Inferno pisano distinto in bolge che ripetono pene di ascendenza dantesca, seppur non rispettoso dell’impianto teologico geografico dantesco, rappresenta un momento intermedio e sempre fluttuante di tale derivazione. Ancora più rilevanti sono i legami che la tradizione figurativa instaura con l’opera per quanto riguarda singole pene o singoli elementi di quel mondo demoniaco.

Tuttavia la produzione pittorica di qualsiasi genere, fa notare Battaglia Ricci, ha spesso con il testo poetico un rapporto mediato; se è infatti certo che è la Commedia a far germinare le immagini tradotte dalla pittura in motivi iconografici, il rapporto tra testo scritto, affresco e chiosa illustrativa è complesso e non univoco. Le fitte e scambievoli contaminazioni tra le varie tradizioni raffigurative, la costituzione di un sistema iconografico

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slegato dall’opera che l’ha generato e le dubbiose datazioni delle opere fanno sì che sia difficile riconoscere il rapporto di dare e avere, intercorso tra la pittura murale e il testo poetico.

Passando quindi a comparare, dal punto di vista iconografico, il Trionfo pisano con quello fiorentino dell’Orcagna,246la cui datazione accertata risale al 1345, l’autrice, non solo teorizza il fatto che alcune scelte tematiche innovative adottate nell’affresco pisano possano essere spiegate alla luce del florido ambiente socio culturale della Pisa di quegli anni, ma sottolinea come la

cultura della penitenza, largamente predicata da

Passavanti.247,auctor intellectualis dell’opera fiorentina, e prepotentemente teorizzata anche dalle prediche paradisiache di Cavalca,248 auctor intellectualis dell’opera pisana, sia fortemente praticata nella Pisa della splendida signoria della Gherardesca. Già alla fine del XII secolo erano state, infatti, scritte prediche di contenuto ascetico-penitenziale, ed anche alle laudi penitenziali furono cari temi e movimenti stilistici di questo tipo; una per

246 Orcagna, Andrea di Cione Arcangelo detto l'. - Pittore, scultore, architetto (notizie dal

1343 al 1368). Celebrato già da L. Ghiberti, dalla tradizione ebbe fama su tutti i maestri fiorentini del Trecento dopo Giotto, distinguendosi per la grandiosità del comporre, il deciso plasticismo e il colore intenso. Fu attivo, oltre che a Firenze, anche a Orvieto (1359-62). La sua opera più nota è il tabernacolo di Orsanmichele a Firenze. Nell'ambiente fiorentino si colloca in netta reazione a quella fase di crisi pittorica attraversata dal gruppo di artisti di diretta derivazione giottesca, come Taddeo Gaddi, partendo da premesse più moderne, con un impegno morale che si ricollega a Maso e rivelando un sentimento religioso di contenuta drammaticità che pone la sua azione figurativa in parallelo con l'attiva volontà religiosa predicata dai domenicani.

247 Passavanti, Iacopo. - Predicatore e scrittore (Firenze 1300 circa - ivi 1357). Scrittore

ascetico, compose lo Specchio di vera penitenza, ragionamenti semplici, umani, persuasivi, che spesso, secondo l'uso della predicazione medievale, si infiorano di «esempi», che il frate deriva da Elinando, da Cesario o da altre fonti. E qui si ha il maggior Passavanti, il novellatore di razza, che fa vedere le cose che egli descrive, con un'arte che è sobria e misurata, e insieme incisiva. Famosa quella pagina che, in gara col Decameron, rappresenta il purgatorio sulla terra. Oltre al valore letterario, l'opera di Passavanti è una preziosa fonte per la storia dello spirito religioso e del costume di quel secolo.

248 Cavalca, Domenico. - Domenicano (Vico Pisano 1270 circa - Pisa 1342); autore, tra il

1320 e il 1342 circa, di scritti morali e religiosi, assai ammirati per la freschezza della lingua e il candore del racconto, dei quali alcuni sono traduzioni (Vite dei Santi Padri, il Pungilingua, ecc.), altri, pur derivando da fonti molteplici, sono più originali (Disciplina degli spirituali, Trattato delle trenta stoltizie, Specchio di croce, ecc.).

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tutte la laude “Chi vuole il mondo deprecare/sempre la morte dia

pensare” che ha consonanze tematiche e lessicali con le epigrafi

del Trionfo pisano. La penitenza si oppone alla vita agiata, anzi è il suo esatto contrario, pentirsi significa espiare con una vita di disagi e di sofferenze, responsabilmente scelte, i propri peccati e una volta morti andare in paradiso. Chi, invece, sulla terra vive in modo agiato va all’inferno. Ciò consolida l’idea che la peste e l’esperienza diretta della morte non fecero altro che rafforzare e rilanciare una proposta penitenziale cara alla cultura domenicana e più in generale agli Ordini Mendicanti.

Battaglia Ricci partendo, poi, dall’“incipit” del testo del Boccaccio (introduzione alla prima giornata) teorizza come lo stesso testo si misuri costantemente con la cultura della penitenza prendendone distanza per trovare una propria identità. Prova di tale assunto è la riscrittura della novella delle donne papere proposta nell’introduzione della quarta giornata che funge da apologo per giustificare le scelte operate dall’autore sul piano esistenziale e su quello letterario. La riscrittura inverante e attualizzante che Boccaccio fa della novella, già vulgata in altre opere dello stesso periodo, comporta perciò anche un ribaltamento della lettura del racconto, caro alla letteratura di devozione, ma è tale la notorietà del modello fino allora proposto che Boccaccio, secondo l’autrice, deve per forza aver messo in conto l’effetto straniante della morale da lui proposta e dello scarto che il “lettore attento” era in grado di percepire tra il suo testo e quello memorizzato e largamente diffuso. La novella delle donne papere diviene, così, l’incredibile manifesto del libro scritto per dilettare e celebrare la scelta edonistica e “filo-gina” dell’autore Boccaccio, consentendogli, nello stesso tempo, sia di

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attualizzare e rendere maggiormente reale il racconto sia di fissare i due modelli di comportamento, o meglio, le due culture del tempo e di dichiarare da che parte stesse il suo libro.

Una conferma a questa interpretazione si ha nella conclusione dell’opera, dove l’autore giustifica sul piano teorico il suo libro con preziosissime considerazioni sul pubblico, sulle sue intenzioni e sui fini che guidano la scrittura. Boccaccio definisce qui il tema dell’opera, la sua funzione, il suo pubblico e i suoi interessi prendendo a caro il classico tema della Convenientia; a un certo luogo e a un certo pubblico corrisponde un tipo di testo e un diverso progetto culturale (secondo la tradizione medievale i luoghi deputati alla produzione ed alla diffusione della cultura erano la chiesa, lo studium ed il giardino). Non si limita, quindi, a dare una giustificazione dell’eventuale immoralità delle sue novelle, legata al particolare momento, ma propone un’argomentazione di più ampio respiro che gli permette di offrire una chiave di lettura del libro. Oltre alla peste, è il luogo (verziere) che consente ai giovani di lasciarsi trasportare a comportamenti licenziosi. In un altro punto della conclusione l’autore palesa che la sua produzione non può avere il pubblico che tradizionalmente è dedito alla lettura di testi ascetico-devozionali, i cui parametri culturali sono assolutamente diversi da quelli dei suoi lettori.

Battaglia Ricci fa altresì notare che il giardino come loco

amoenus compare molto spesso nelle opere di Boccaccio,

divenendo quasi un luogo ossessivo ed obbligato della sua scrittura. Tuttavia lo spessore simbolico e la carica allusivo-polemica, che, il motivo del “ragionare nel giardino” acquista nel

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modelli più o meno remoti impiegati per la cosiddetta “cornice del libro di novelle”, debba essere stato utilizzato il testo figurativo del Trionfo pisano come fonte di ispirazione. Modello che si costruisce - ed è una grande novità iconografica – su una rete di corrispondenze e opposizioni basata su quei simboli culturali (eremo; chiesa vs giardino) usati, seppur con intenzioni ideologicamente diverse, anche da Boccacio.

A questo punto del testo l’autrice decide di affrontare, in un capitolo dal titolo “Il Trionfo della Morte del Camposanto vecchio”, l’analisi dell’affresco pisano. Dopo aver descritto sinteticamente alcune scene dell’opera con le loro rispettive varianti di temi iconografici vulgati: in particolare la scena centrale della Morte, quella della cavalcata e quella, posta in alto, nella parte sinistra dell’affresco, di vita eremitica, si sofferma ad analizzare con maggiore attenzione la parte destra dell’affresco e pone l’accento su alcuni altri aspetti dell’opera. Partendo dal concetto, ormai assodato dalla critica, che il messaggio dell’opera mira a un’esaltazione della vita ascetico-eremitica-contemplativa, l’autrice fa notare che la scena posta nella parte destra dell’affresco, la lieta brigata nel giardino, caduta l’ipotesi di una dipendenza dal Decameron, è una novità iconografica. Fa rilevare, inoltre, due ordini di problemi che la critica ha sottovalutato; la presenza del diabolico e dell’orroroso diabolico che Meiss aveva legato alla peste e alla predicazione.

La brigata nel giardino, ripetutamente considerata dai critici come novità iconografica, può essere utilizzata, considerato soprattutto il fatto che l’opera era puntualmente controllata dal suo ideatore e costruita su legami concettuali molto forti, quale strumento per decifrare il significato dell’affresco. Secondo la

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Battaglia l’inedita associazione di materiali, tra loro tradizionalmente eterogenei, e l’adozione di varianti indicative di motivi tradizionali dipende da una precisa intenzione ideologica con determinate finalità stranianti per il lettore del tempo, abituato a ben altre associazioni mentali. È, infatti, evidente che la finalità del progettante era provocare uno choc in un pubblico abituato a certe immagini, choc che però aveva fini esclusivamente pedagogici. L’inedita associazione dell’immagine della Morte e dei suoi effetti escatologici all’immagine della lieta brigata, assai più scontata e connotata ideologicamente, provoca, infatti, un rovesciamento delle convenzioni culturali e delle attese del lettore, rovesciamento cui viene, a guisa di ciò, affidata gran parte della funzione educativa ed ideologica dell’opera. La calibrata composizione del sistema con i suoi rapporti antitetici o di contiguità tra le varie zone e l’introduzione di nuove varianti di motivi tradizionali ha, comunque, come fine quello di presentare al pubblico una ben precisa “visione” del mondo. L’autrice procede, quindi, con l’analisi puntuale dei motivi iconografici presenti nell’opera, delle loro varianti e delle epigrafi che le accompagnano facendo notare che sulle scene che celebrano l’ideale dell’amore cortese cala non solo la falce della Morte ma anche l’accusa di peccato che l’autore si preoccupa di denunciare quale monito per il lettore del tempo. Fa altresì notare la singolarità dell’opposizione tra l’interpretazione che è data nell’affresco delle storie, che, in qualche modo, dovrebbero aver funto da ispirazione per lo stesso, e il giudizio corrente su tale tipologia di racconti e sull’ideologia che li ha ispirati. Un più

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tardo divulgatore della storia della Castellana de Vergi249, topos letterario da cui Battaglia Ricci fa derivare due delle figure facenti parte la lieta brigata dell’opera pittorica, intitolerà, infatti, la sua opera “Romanzo della casta dama del verziere”. Risulta, quindi, chiaro che rispetto alla tradizione l’affresco impone una visione della vita e dell’amore del tutto rovesciata, e ancora una volta in sintonia con il poema dantesco. Come Dante anche

l’auctor intellectualis dell’affresco non si limita solo a

condannare un certo tipo di peccato ma, adottando moduli iconografici che rimandano a libri e a topoi di matrice cortese-cavalleresca, attacca le forme di vita scelte dai ceti emergenti e le fonti culturali che le hanno ispirate, e mentre esplicita la vacuità di tali proposte esistenziali ne denuncia le responsabilità morali. L’interesse dell’auctor intellectualis è, quindi, rivolto esclusivamente all’ideazione di un progetto educativo affidato a una lettura del mondo che oppone santi a dannati, così come rivela la struttura dell’opera giocata su affinità e opposizioni. Tale autore, che la critica identifica in Fra Domenico Cavalca, si preoccupò anche di proporre quale modello di comportamento una vita cristiana conformata sui vissuti degli antichi padri che del deserto facevano il loro paradiso morale (scena degli eremiti posta nel quadrante alto a destra dell’affresco).

L’autrice dedica, poi, il penultimo capitolo del suo libro al rapporto tra l’autore Boccaccio e i Trionfi della Morte. Partendo dall’assunto, ormai certo, che sul muro del Camposanto è fissata, con immagini iconograficamente molto precise, innovative e tra

249 La castellana di Vergi o La castellana di Vergy (in antico francese: La chastelaine de

Vergi) è un componimento del XIII secolo lungo 948 versi, di autore ignoto. Fu composto tra il 1240 e il 1250, edito per la prima volta in Francia nel 1808 e tradotto in lingua italiana nel 1929. È ambientato in Borgogna e narra una sfortunata e tragica vicenda di amor cortese tra un cavaliere e una bella castellana.

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loro oppositive, la concezione del mondo elaborata dalla cultura della penitenza ne ipotizza la conoscenza da parte dell’autore del

Decameron. Le affinità superficiali e profonde tra il sistema

compositivo dell’affresco e l’invenzione strutturale del

Decameron, e il completo rovesciamento che il libro attua dei

valori impressi nell’affresco fanno, infatti, presupporre che questa insolita raffigurazione, che violentemente dal muro accusa gli stilemi propri di una vita cavalleresca-cortese, abbia colpito un lettore come Giovanni Boccaccio, abituato ai codici socio-culturali in voga presso la Corte angioina, e lo abbia spinto a instaurarvi un rapporto complesso di appropriazione e di allontanamento che condiziona la struttura ed il significato del libro. Ciò in considerazione, anche, del fatto che il motivo della “lieta brigata nel giardino” presenta in entrambi i testi (letterario e figurativo) varianti significative comuni ed innovative rispetto alla tradizione ed al modello che lo stesso Boccaccio aveva utilizzato per altri suoi testi; varianti che non possono far ipotizzare ad una germinazione autonoma del testo letterario. Battaglia Ricci per avvalorare la sua tesi passa, quindi, a evidenziare e analizzare le varianti che legano il testo letterario e quello figurativo, come ad esempio quella del numero dei giovani facenti parte la lieta brigata, composta nei precedenti testi di Boccaccio da un numero inferiore di soggetti. Pur prendendo, poi, in considerazione che l’ipotesi avanzata di una conoscenza diretta dell’opera pittorica pisana non è avvalorata da alcun documento, pone l’accento su come per Boccaccio fosse stata possibile la visione del Trionfo fiorentino che l’Orcagna andava dipingendo nella chiesa di Santa Croce intorno al 1345. Il Trionfo fiorentino, oramai quasi del tutto perduto, era, infatti,

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identico, secondo quanto descritto dal Vasari,250alla parte destra del Trionfo pisano; dove sono compresi il gruppo degli storpi, la catasta dei cadaveri, la Morte che incombe sui giovani nel verziere e la sezione in cielo. L’autrice crede, però, fermamente che Boccaccio abbia visto anche l’affresco pisano perché ne utilizza il sistema compositivo e l’impianto ideologico, sistema e impianto completamente assente in quello fiorentino, in cui non erano presenti la sezione dell’Incontro e la scena degli Eremiti e di conseguenza l’opposizione “giardino/vita edonistica vs deserto:chiesa/vita ascetico-eremitica”, che ha avuto tanta importanza per l’invenzione della cornice del Decameron. Chiunque ripensa alla storia portante tenendo conto dell’affresco pisano capisce, infatti, che lo stesso affresco ha offerto, all’autore, un paradigma negativo per ridefinire il topos, da lui già utilizzato, della brigata nel giardino. L’invulnerabilità della brigata, la sua potenziale immortalità viene, quindi, letta come consapevole e polemico ribaltamento del messaggio che l’auctor

intellectualis aveva affidato all’opera pittorica.

Alla forte polemica domenicana contro la vita che ripete i modelli cortesi-cavallereschi e contro la cultura e i media letterari cavallereschi, Boccaccio risponde con l’adozione di uno di quei modelli e con la celebrazione della funzione edonistica del libro, difendendo tale letteratura dall’accusa d’immoralità mossagli da Dante e dagli Ordini religiosi. Se da un lato, infatti, l’autore si preoccupa di dire che ha composto la sua opera per consolare gli

250 Vasari, Giorgio. - Pittore, architetto e scrittore (Arezzo 1511 - Firenze 1574). Artista

manierista, fu attivo, come pittore e soprattutto come architetto, in diverse città italiane (Arezzo, Bologna, Napoli, Roma). Il nome di Vasari rimane legato però soprattutto alle grandi committenze pubbliche dei Medici a Firenze (complesso degli Uffizi) e alla raccolta delle Vite, edite la prima volta nel 1550 (Vite dei più eccellenti architetti pittori et scultori italiani da Cimabue insino a' tempi nostri), che costituiscono la prima opera moderna di storiografia artistica, in cui definì il canone dell'arte italiana fra Trecento e Cinquecento.

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afflitti – perché egli è consapevole, in prima persona, del potere consolatorio dei “piacevoli ragionari -”, dall’altro si preoccupa di scagionare la scrittura e l’utilizzo dei testi letterari che danno diletto. Giustifica e legittima il narrare dilettoso come esperienza ricreativa e salvifica. La separazione tra il vivere di cui si ragiona nel giardino e il vivere reale dei giovani, che di quel novellare sono produttori e utilizzatori, è netta; la loro onestà è garantita a priori e niente può scalfirla.

Battaglia Ricci termina, infine, la sua opera ponendo l’accento su come il giardino, con tutte le valenze che la tradizione gli attribuiva, divenga per lo scrittore fiorentino la più luminosa e splendida metafora della letteratura nella sua dimensione ludico-consolatoria, ma anche il luogo dove il potere sommo della ragione, ripensando ai quei vissuti, ricrea il mondo.

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III.3. La rete delle immagini – Lina Bolzoni

Altra lettura che ha mediato il mio approccio con l’affresco pisano e di conseguenza con l’opera totiana, seppure l’autore del video non abbia potuto trarne spunto poiché pubblicato dopo la realizzazione del video, è stata il testo La rete delle immagini251di Lina Bolzoni. In particolare la mia analisi si è rivolta al primo capitolo del libro dal titolo “Gli affreschi del Trionfo della Morte del Camposanto di Pisa e la predicazione domenicana” in cui l’autrice analizza i rapporti fra parole e immagini, così come vengono creati dalla predicazione in volgare del tempo, ricostruendo la struttura narrativa dell’opera e la più complessa struttura multimediale in cui essa si inseriva.

Questo testo prova quanto un’espressione artistica così lontana nel tempo abbia in sé già tutti i dettami della multimedialità, caratteristica che, a mio avviso, potrebbe aver inconsciamente stimolato l’artista contemporaneo a scegliere l’opera pisana come spunto per il suo video. Tale ipotesi sarà comunque oggetto di analisi in un prossimo capitolo.

Prima, quindi, di passare a ciò che l’autrice ha teorizzato in merito all’affresco pisano è utile soffermarsi sull’introduzione al testo nella quale la stessa illustra il metodo della sua analisi. Bolzoni inizia il libro sottolineando come negli ultimi decenni, sia pure con ottiche e strumenti diversi, alcuni importanti lavori hanno guardato alle immagini in un modo nuovo; ponendosi il problema di capire quale è il loro funzionamento, quali funzioni esercitano e quale è il loro impatto emotivo. Passa, quindi, a enumerare gli studiosi che in questi ultimi decenni hanno

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affrontato tale tema precisando come la propria analisi, che utilizza come punto basilare i testi delle prediche, dette in volgare, del XIV e XV secolo, tenti di raccogliere stimoli e suggestioni che le predette ricerche hanno fornito.

L’autrice, dopo aver specificato la natura dei testi oggetto della sua ricerca - testi a metà tra l’orale e la scrittura che contengono al proprio interno, grazie alla metodologia di registrazione, la parte della ricezione - precisa come chi trascrive la predica, per farla conoscere, sia un doppio dell’autore e nel frattempo faccia parte del pubblico.

Fa, quindi, presente come il metodo della propria analisi, che di volta in volta evidenzierà come i testi rinviino alle immagini visive e come con esse interagiscano, turberà le consuete categorie culturali che impongono una netta distinzione tra dimensione visiva e dimensione linguistica.

Illustra, poi, il contributo che alle sue ricerche è stato apportato dai nuovi orientamenti nel campo della memoria che hanno preso spunto dal libro classico di Frances Yates.252Le ricerche sulla memoria – sul suo ruolo, sulle sue funzioni, sulle tecniche per rafforzarla e controllarla – si sono, infatti, intrecciate con le ricerche dedicate alla storia della lettura e ai suoi rapporti con l’oralità e con la storia della scrittura. Tali orientamenti hanno dimostrato che le tecniche della memoria, nel medioevo, sono strettamente legate ai modi in cui i testi sono letti, assimilati e trasformati in un bagaglio interiore, da risuscitare all’occorrenza sia per produrre nuovi testi che per assumere decisioni morali. Il testo letterario diviene, perciò, materia aperta mai terminata; una

252Yates, Frances, Amelia, The Art of Memory , Inghilterra 1966, trad. di Albano Biondi,

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res che attraversa i tempi e le generazioni e che diviene auctoritas; anche perché spezzettato, digerito e fatto rivivere in

altre forme e in altri modelli di comportamento. Si tratta di una lunga tradizione in cui le tecniche di memoria della retorica classica interagiscono con le tecniche della meditazione monastica. Queste ultime insegnano, infatti, a modellare la mente e a crearvi una mappa di loci dove si collocano i ricordi delle cose lette e sentite e da dove si può trarre il materiale e le associazioni utili a nuovi pensieri, nuove parole e nuove opere. La memoria medievale, secondo tali studi, è un archivio capace di riprodursi e di generare; si nutre della Bibbia, o per meglio dire, di alcuni passi della Bibbia che s’imprimono nella mente così da costruire l’infrastruttura cui tutto ricondurre e da cui tutto far iniziare. Ha come oggetto la Gerusalemme celeste e il mondo eterno dell’Aldilà, nobilita le passioni e lega strettamente la lettura alla scrittura, la conservazione all’invenzione.

Bolzoni fa, quindi, notare che se nella tradizione classica la memoria è una delle competenze di cui deve essere fornito il retore, nel Medioevo il legame tra oratori e memoria si ripresenta in forme in parte nuove e di grande intensità. Il predicatore per recitare in pubblico deve essere dotato di buona memoria, allo stesso tempo, affinché la predicazione possa raggiungere il suo scopo, è fondamentale che il suo contenuto si fissi nella mente dell’ascoltatore, che nella maggior parte dei casi è analfabeta. La memoria, quindi, influenza anche la struttura della predica e ne influenza i caratteri formali; la predica, in altre parole, deve essere memorabile così da essere ricordata sia da chi la diffonde sia da chi la ascolta. Le tecniche classiche della memoria vengono, perciò, recuperate in una situazione in cui possono

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incontrarsi e interagire predicazione e meditazione, insegnamento rivolto alle masse cittadine e processi individuali di penitenze e di elevazione interiore.

L’autrice passa quindi a illustrare i rapporti fra parola e immagine così come sono creati dalla predicazione in volgare dei primi secoli ricostruendo la tipologia dei legami che il predicatore crea fra queste due forme espressive, tipologia che può essere descritta attraverso le categorie retoriche dell’epoca (exemplum, allegoria, figura). Tale possibilità rinvia, però, a qualcosa di più profondo e più generale; un codice che segue procedure precise per agire sulla mente, per costruire immagini mentali efficaci e tali da influenzare le diverse facoltà: l’intelletto, la memoria, la volontà.

A questo punto dell’introduzione è posto l’accento su quello che sarà il primo oggetto dell’indagine; il Camposanto di Pisa, dove, dagli anni Venti e Trenta del trecento, è realizzato il grande ciclo degli affreschi del Trionfo della Morte, che nel Settecento e Ottocento sarebbe divenuto tappa obbligata per i turisti e artisti in visita in Italia.

La Bolzoni inizia, quindi, il primo capitolo della sua opera rilevando come nel Camposanto di Pisa, con il ciclo del Trionfo

della Morte, ci si trovi di fronte a testi e immagini di notevole

qualità e a conoscenza di una ricca documentazione sui rapporti che li hanno legati e sui processi che li hanno fatti interagire. Passa, poi, a fornire un’illustrazione sintetica delle immagini dipinte nell’affresco del Trionfo, facendo notare come il tema del giudizio, qui presente, torni in maniera più sistematica nelle grandi scene del Giudizio Universale, con le schiere degli eletti e le bolge dell’Inferno.

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L’autrice si sofferma, di conseguenza, a fornire alcuni dati storici necessari alla sua tesi.

La costruzione del Camposanto, avuta inizio nel 1278 sotto la direzione di Giovanni da Simone e resa possibile grazie alla donazione di una parte del terreno dall’Arcivescovo Federico Visconti, era condotta dai reggitori del Comune che ne avevano affidata l’esecuzione agli operai della Primaziale. La grande decorazione pittorica della struttura inizia nel corso del XIV secolo durante una delle fasi di massimo splendore della vita cittadina. Sebbene, quindi, il Camposanto fosse un’opera pubblica, voluta dalla città, il rapporto con le autorità ecclesiastiche fu molto stretto, a giudicare, anche, dal ruolo di registi e programmatori svolto dai Domenicani del Convento di Santa Caterina. La dimensione cittadina dell’opera, che assunse insieme e di volta in volta funzioni diverse e in conflitto tra loro; fu, infatti, sia cimitero che chiesa e museo, giocò un ruolo fondamentale nella sua storia.

Gli affreschi, a lungo attribuiti all’Orcagna divengono, infatti, l’equivalente pittorico delle più alte esperienze letterarie, tanto che gli stessi avranno una ricaduta anche sul modo di leggere e di interpretare la Divina Commedia.

Dopo aver rivestito un importante ruolo artistico fino al XVIII secolo, nel XIX secolo il ciclo fu dimenticato, fino a che, durante la seconda guerra mondiale, prese fuoco il tetto del Camposanto e lo stesso andò in parte danneggiato e in parte irrimediabilmente distrutto.

Il recupero successivo, spiega Bolzoni, fu ed è motivo di molte perplessità soprattutto perché legato a una conservazione e lettura dell’opera che ha, a sua volta, distrutto concettualmente gli

Figura

Fig. 25 – attuale ubicazione degli affreschi
Fig. 26 –  Trionfo della Morte – Camposanto di Pisa
Fig. 27 - Scena; “Incontro dei tre vivi e dei tre morti”
Fig. 29 – Dettaglio: “Gli eremiti”
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