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234 Breve periferia , 1962 Lucia Marcucci, l’ingenue storie , 1962 Non ho più tempo per , 1962 Lucia Marcucci, Lucia Marcucci, I segnali sono occhi ammaccati Poesie

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234

Poesie

Lucia Marcucci, Non ho più tempo per

l’ingenue storie, 1962

Non ho più tempo per l’ingenue storie; quel terrore per gente radunata nei grandi padiglioni della fiera, assordata da reclami audio-visive, dalle innumerevoli macchine infernali che stringono nel dedalo di frecce, quasi imbuti dell’ultimo girone, quella povera folla che s’illude di quei magici lava-biancheria,

che veste l’uniforme scintillante per una guerra persa al primo allarme,

mi dà precisa la triste sensazione d’essere in un deserto di metallo con immobili statue d’alluminio fatte nido di maghe salamandre.

(in L. Marcucci, Non c’erano barche nei canali, Serie del Club Cynthia, n. 4, Firenze, Cynthia, 1962, p. 27)

Lucia Marcucci, Breve periferia, 1962

Fu di marzo

Che s’imparò a pulire I santissimi vetri. C’era ancora il passo Cauto dei cavalli Sull’asfalto, e l’uomo Nel guadagno del carro, per la breve periferia fatta di case basse e casermoni bianchi e bar pieni di Motta. Te ne stavi a dormire, trascinando i tuoi passi verso il letto

per una triste sonnolenza di stagione.

(in L. Marcucci, Non c’erano barche nei canali, op. cit., 1962, p. 11)

Lucia Marcucci, I segnali sono occhi

ammaccati, 1962

… Seguo con l’orecchio Il suono del telefono improvviso E corro nella macchina

Incosciente delle zone di stop. I viali passano verdastri E le bianche radici

Segnano i pedoni sulla strada Nell’intramontabile sole al neon Ferito a strisce.

Nel panico sento i pedali Molli come gomma

E i segnali sono occhi ammaccati, tinti di rosso.

Dimentico con l’orizzonte traballante I miei pensieri di poeta.

(in L. Marcucci, Non c’erano barche nei canali, op. cit., 1962, p. 14)

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Lucia Marcucci, Le Cascine, 1962

Riconosco nei fogli accartocciati Annoiati pic-nic domenicali Quando parla dal podio l’oratore Ai rumorosi stanchi prati.

È come l’erba bianca dei sepolcri di Pasqua Che attira bimbi trionfanti di mazzette Per sette volte nella stessa chiesa. E sull’antico pozzo le incredibili firme S’intrecciano a ricordo di passaggi Grosse come testate di giornali. … Ancora su fantasmi di cavalli Carrozze lucidate passeggiano eleganti Al suono di fragili orchestrine

Sull’amore di chi s’è contentato Della dolce domenica nel parco Con una bella donna imbarazzata. Ma l’immediato grifo della banda Scatena quel pallore sopra il pozzo A rimbalzo di palo.

(in L. Marcucci, Non c’erano barche nei canali, op. cit., 1962, p. 18)

Lucia Marcucci, Quel suono di campana,

1962

Per l’odore che hanno i fiori Sotto i tetti di scopo degradanti, per il mare che incanta di sirene Improvvise indigene di scogli, per quel vivo sentiero agave-roccia che con amore unisce quei paesi, avrò ancora il tempo di sentire quello struggente suono di campana.

(in L. Marcucci, Non c’erano barche nei canali, op. cit., 1962, p. 19)

Lucia Marcucci, Chiesi un paese di mare,

1962

Ho ancora negli occhi il triste Colore di quel viale sul fiume. Per questa tristezza chiesi Un paese di mare.

Ebbi gioia di quell’aria dolce, degli olivi dorati, delle tamerici gobbe dal vento carico di sale, di quelle case basse sui canali piene di barche per rematori folli e giurai fede come un innamorato. Ma un giorno ritrovammo nei sacchi Di gomma quegli orribili morti, fra le macerie corsero topi affamati, sui fili spinati vidi capelli e lana e le strade furono buche con in fondo l’acqua, e pellicce di gatti ad asciugare. Non c’erano barche nei canali:

ci galleggiavano travi crocifisse. E ritrovai improvviso

Quel colore di morte, e dura ancora.

(in L. Marcucci, Non c’erano barche nei canali, op. cit., 1962, p. 25)

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Eugenio Montale, Fine dell’infanzia,

1924

Rombando s'ingolfava dentro l'arcuata ripa

un mare pulsante, sbarrato da solchi, cresputo e fioccoso di spume. Di contro alla foce

d'un torrente che straboccava il flutto ingialliva.

Giravano al largo i grovigli dell'alghe e tronchi d'alberi alla deriva.

Nella conca ospitale della spiaggia

non erano che poche case di annosi mattoni, scarlatte, e scarse capellature di tamerici pallide

più d'ora in ora; stente creature perdute in un orrore di visioni. Non era lieve guardarle per chi leggeva in quelle apparenze malfide

la musica dell'anima inquieta che non si decide.

Pure colline chiudevano d'intorno marina e case; ulivi le vestivano qua e là disseminati come greggi, o tenui come il fumo di un casale che veleggi

la faccia candente del cielo. Tra macchie di vigneti e di pinete, petraie si scorgevano

calve e gibbosi dorsi di collinette: un uomo

che là passasse ritto s'un muletto nell'azzurro lavato era stampato per sempre - e nel ricordo.

Poco s'andava oltre i crinali prossimi di quei monti; varcarli pur non osa la memoria stancata.

So che strade correvano su fossi incassati, tra garbugli di spini; mettevano a radure, poi tra botri, e ancora dilungavano

verso recessi madidi di muffe, d'ombre coperti e di silenzi.

Uno ne penso ancora con meraviglia dove ogni umano impulso

appare seppellito in aura millenaria.

Rara di roccia qualche bava d'aria sino a quell'orlo di mondo che ne strabilia. Ma dalle vie del monte si tornava. Riuscivano queste a un'instabile vicenda d'ignoti aspetti

ma il ritmo che li governa ci sfuggiva. Ogni attimo bruciava

negl'istanti futuri senza tracce. Vivere era ventura troppo nuova ora per ora, e ne batteva il cuore. Norma non v'era,

solco fisso, confronto, a sceverare gioia da tristezza. Ma riaddotti dai viottoli

alla casa sul mare, al chiuso asilo della nostra stupita fanciullezza, rapido rispondeva

a ogni moto dell'anima un consenso esterno, si vestivano di nomi

le cose, il nostro mondo aveva un centro. Eravamo nell'età verginale

in cui le nubi non sono cifre o sigle

ma le belle sorelle che si guardano viaggiare. D'altra semenza uscita

d'altra linfa nutrita

che non la nostra, debole, pareva la natura. In lei l'asilo, in lei

l'estatico affisare; ella il portento cui non sognava, o a pena, di raggiungere l'anima nostra confusa.

Eravamo nell'età illusa.

Volarono anni corti come giorni, sommerse ogni certezza un mare florido e vorace che dava ormai l'aspetto dubbioso dei tremanti tamarischi. Un'alba dové sorgere che un rigo di luce su la soglia

forbita ci annunziava come un'acqua; e noi certo corremmo

ad aprire la porta

stridula sulla ghiaia del giardino. L'inganno ci fu palese.

Pesanti nubi sul torbato mare

che ci bolliva in faccia, tosto apparvero. Era in aria l'attesa

di un procelloso evento. Strania anch'essa la plaga dell'infanzia che esplora

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un segnato cortile come un mondo!

Giungeva anche per noi l'ora che indaga. La fanciullezza era morta in un giro a tondo. Ah il giuoco dei cannibali nel canneto, i mustacchi di palma, la raccolta deliziosa dei bossoli sparati!

Volava la bella età come i barchetti sul filo del mare a vele colme.

Certo guardammo muti nell'attesa del minuto violento;

poi nella finta calma sopra l'acque scavate dové mettersi un vento

E. Montale, Ossi di seppia, Torino, Gobetti, 1925 [ed. consultata: P. Cataldi, F. d’Amely (a cura di), Eugenio Montale: Ossi di seppia, Milano, Mondadori, 2003], pp. 161-169.

Lucia Marcucci, Ballata per un

motociclista, 1989

Attraverso le colline in fiore, soglie di paradiso, scendono nella valle tre motociclette

con tre centauri l’uno della Valdichiara due della Valdinera.

Questi due stranieri cominciano a parlare; Dio! Si proposero di uccidere d’un colpo, Al cader della sera

Questo motociclista valdichiarino, perché era il più ricco

e sue erano le macchine più belle e più lucenti e i caschi superbi e i rombi più forti.

La sua motocicletta preferita da tre lunghi giorni

non si mette in moto, è triste, non le piace più la benzina. Oh Kawasaki rossa e metallizzata,

Da qualche giorno non fai che scoppiettare, la benzina non ti piace più.

Sei forse malata? Dimmi mia cara Kawasaki. -Centauro, mio caro centauro

Conduci le motociclette

nella città nera, dove si trova la benzina per noi e l’ombra per te. Centauro, mio caro centauro, porta con te un casco, il più forte, il più luccicante e colorato

che altrimenti gli altri ti uccideranno d’un colpo al calar della sera.

Oh Kawasaki dolce, tu che vedi il futuro, se stasera io morrò in questa città in fiore, dì loro, macchina cara, che mi seppelliscano vicino a tutti i miei beni, per udire i miei rumori, nel mio garage, presso di voi, mie care.

Poi, quando tutto sarà preparato

metti vicino a me un piccolo clacson di plastica che dice molte cose dolcemente,

un piccolo clacson di pehspex che dice molte cose tristemente un piccolo clacson di alluminio che dice molte cose fortemente! Quando il vento soffierà E il clacson suonerà

Allora si raccoglieranno le motociclette E piangeranno per me lacrime di sangue. Ma tu, amica, dell’assassino non dire loro! Ma dì chiaramente che io mi sono sposato la prima fra le regine, la padrona del mondo, che alle mie nozze è caduta una stella, che la luna e il sole

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hanno tenuto la mia corona.

Dì loro, mia cara motocicletta,

che i grandi grattacieli erano i miei officianti i semafori i miei testimoni,

gli uccelli del parco i miei suonatori e le stelle le mie fiaccole.

Ma se tu vedi una vecchia madre

che corre con occhi lacrimosi per i parchi in fiore e a chiunque incontri a tutti dice:

Chi ha visto, chi ha conosciuto

Un fiero motociclista dalla vita snella come un principe?

Il suo visino è spuma di latte I suoi baffi sono spighe di grano I suoi capelli sono piume di corvo I suoi occhi sono more di campo! Tu, motocicletta mia, dille chiaramente Che mi sono sposato, la prima fra le regine, la padrona del mondo

in una bella città, in un angolo di paradiso. Ma a mia madre non dire ti prego

che alle mie nozze è caduta una stella,

che la luna e il sole hanno tenuto la mia corona, che i grandi grattacieli

erano i miei officianti i semafori i miei testimoni, gli uccelli del parco i miei suonatori

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