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Academic year: 2021

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Álvar Núñez Cabeza de Vaca: l’esperienza dell’altro. Ambiguità di una conquista.

Solitamente le osservazioni dei viaggiatori europei sulle popolazioni indigene si trovano, come annotazioni piuttosto casuali e en passant, all’interno di descrizioni più particolareggiate di altri aspetti tecnici della navigazione o di scoperte naturalistiche.

Così come si annota la presenza di una specifica varietà di pappagalli, allo stesso modo si registra l’esistenza di individui che, spesso, di umano sembrano avere ben poco.

Tuttavia, nel corso del Cinquecento, testi quali Viaje de Turquía1, che rispecchia l’interesse dell’Occidente per il Medio Oriente, o Los Naufragios di Cabeza de Vaca, che pure si inscrive nel quadro della tradizione delle narrazioni di viaggio, non si limitano a rilevare la presenza dei popoli conosciuti, ma dedicano alcuni capitoli alle loro abitudini, alle pratiche sociali e alla vita quotidiana.

Colpisce soprattutto la testimonianza di Cabeza de Vaca, che, inviato in Florida al seguito di Pánfilo de Narvaez, passerà poi otto anni tra Louisiana e Texas e, sopravvissuto a tempeste e naufragi, percorrerà migliaia di chilometri prima di arrivare in Messico, nel 1536.

Durante il suo vagabondaggio per raggiungere gli altri coloni spagnoli, vivrà a stretto contatto con numerose popolazioni di indios, diverse tra loro per lingua e costumi, di cui fornirà preziose informazioni, attraverso attente descrizioni, frutto di lunga osservazione.

Tuttavia, la sua non è un’arida enunciazione di piatte caratteristiche esteriori che possono colpire l’attenzione di un europeo del XVI° secolo.

Nel Nuovo Mondo egli non è più il rapace predatore spagnolo ma uno schiavo bianco nelle mani di coloro che avrebbe dovuto asservire e sottomettere.

Come “il cavaliere convertito in dama della torre, sprovvisto della sua armatura, in una condizione primigenia che è vista come un disonore”2 , Cabeza de Vaca, perdute le sue difese culturali, è obbligato a vivere come gli indios, in una terra ostile e a lui totalmente estranea.

1 Il manoscritto, risalente al 1557-1558 e scoperto nel 1863 da don Bartolomé José Gallardo, perviene anonimo e

senza intestazione. Sarà poi pubblicato nel 1905 da Manuel Serrano y Sanz che gli attribuirà il titolo Viaje de Turquía e, sebbene la questione sia complessa e dibattuta, ne identificherà l’autore in Cristóbal de Villalón. Sotto forma di dialogo, sono narrate le vicissitudini di Pedro de Urdemalas, personaggio caro alla tradizione della Spagna medievale e poi consacrato, nel 1615, dalla omonima commedia di Miguel de Cervantes e nel 1620 dal romanzo incompiuto di Alonso Jerónimo de Salas Barbadillo, El subtil cordobés Pedro de Urdemalas.

Tuttavia, il testo cinquecentesco non è importante solo come documento letterario, ma anche come testimonianza di una crescente attenzione nei confronti dell’Oriente.

La narrazione, seppur incentrata sulle avventure dello scaltro spagnolo, (dalla sua cattura per mano dei Turchi e la sua prigionia a Costantinopoli, fino alla fuga), si concentra anche sulla descrizione e sulla ‘scoperta’ del popolo turco, indagandone gli aspetti della vita sociale, religiosa e civile.

Quasi tutta la seconda parte del volume è infatti dedicata all’approfondimento etnografico, di particolare interesse per la Spagna e, più in generale per l’Occidente, che vede nella Turchia una minaccia non solo per la cristianità, ma anche per l’espansionismo commerciale.

2 Alejandro González Acosta, “Álvar Núñez Cabeza de Vaca: naúfrago y huérfano”, Cuadernos Americanos, 49, 1995, p. 183. Traduzione dallo spagnolo mia.

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Egli deve dunque adattarsi per sopravvivere. Ma che cosa significa questo?

Significa sempre e necessariamente abdicare ai valori del proprio mondo, rinunciarvi e rinnegarli o significa piuttosto confrontarsi con nuove pratiche di vita, rimettere in discussione se stessi, farsi contagiare e contaminare dall’altro, rendendo i propri confini permeabili? Nel corso della narrazione si dispiega un percorso di vita significativo e un cambiamento di prospettive: se la storia ci consegna le disperate sorti degli indios, costretti a subire la pressione degli europei e ad uniformarsi alla cultura occidentale, in questo caso, è il conquistador ad essere conquistato dalle tribù locali.

Dopo il naufragio sull’ Isla de Malhado, stremati e privi di forze, Cabeza de Vaca e i pochi compagni sopravvissuti, incontrano alcuni indios del luogo:

“Di lì a mezz’ora arrivarono altri cento indios muniti di archi e frecce, i quali, grandi o piccoli che fossero, parvero ai nostri occhi impauriti veri e propri giganti; si fermarono vicino a noi, dove già stavano gli altri tre. (…)

L’ispettore e io andammo incontro a quella gente e, ai nostri richiami, loro si avvicinarono amichevolmente; come meglio potemmo li assicurammo, rassicurandoci a nostra volta, e offrimmo loro biglie e campanelli.

Ricevetti in dono da ognuno di loro una freccia in segno di amicizia e, a gesti, ci fecero capire che, la mattina successiva sarebbero tornati per portarci viveri che in quel momento non avevano”. 3

All’arrivo degli indios, gli spagnoli, in una evidente posizione di svantaggio, spaventati e indifesi, cercano di attirarsi le simpatie di queste popolazioni, nell’unico modo che conoscono, barattando, in questo caso, la loro vita con piccole cianfrusaglie.

Sarà tuttavia la tempesta successiva, che respingerà nuovamente la piccola barca sulle coste della stessa isola, a privare di tutto gli europei, abiti compresi, segnando per Cabeza de Vaca l’inizio di una nuova consapevolezza di sé:

“Noi superstiti ci ritrovammo nudi come il giorno in cui venimmo al mondo, privi di quelle poche cose

che, in quel frangente, per noi, significavano tutto. [...]

Al tramonto, gli indios, sicuri di trovarci ancora in quel luogo, ritornarono a portarci da mangiare, ma, vedendoci in sembianze così diverse e strane, si spaventarono a tal punto da ritornare sui loro passi. Allora io cercai di raggiungerli e li chiamai. Loro si avvicinarono impauriti.

Noi, a gesti, cercammo di spiegare che avevamo perso la barca e tre dei nostri (…).

Gli indios, di fronte a tanta sventura e a tali miserevoli condizioni, si sedettero in mezzo a noi e, per il gran dolore e la profonda compassione che provarono nel vederci così sfortunati, scoppiarono in un pianto tanto sincero e tanto convulso, che lo si poteva udire da lontano.

Il loro lamento durò più di mezz’ora.

E certo la vista di quegli uomini così privi di luce e così primitivi, simili a bruti insensati, che si dolevano tanto per noi, fece crescere in me e nei miei compagni la commiserazione e la consapevolezza della nostra disgrazia”.4

3 Álvar Núñez Cabeza de Vaca, Los Naufragios, (trad.it di Luisa Pranzetti, Naufragi,Torino, Einaudi, 1989, cap.

XI, p. 42).

4 Ibid., cap. XII, pp. 44- 45. Corsivo mio. La nudità, cui sono costretti Cabeza de Vaca e i suoi compagni, ferisce

(3)

Il passo è di grande importanza non solo perché sottolinea in quale modo Cabeza de Vaca comprende le reali difficoltà della sua condizione, cioè nel momento in cui perde tutto quello che identifica la sua appartenenza alla cultura occidentale, ( i già scarsi mezzi di sopravvivenza e gli abiti che rappresentano la dignità di un uomo), ma soprattutto perché, sebbene egli ritenga ancora gli indios quasi al pari delle bestie, come la maggior parte degli europei suoi contemporanei, ne segnala un tratto che avrebbe potuto tralasciare o liquidare con meno attenzione5, il pianto rituale6.

Di fronte alla miseria degli europei, infatti, gli indios piangono lacrime sincere che suggellano l’ingresso di questi strani naufraghi nella loro comunità.

Il pianto rituale, attraverso il quale i bianchi sono accolti nel gruppo, struttura quindi un momento fondamentale della dimensione sociale di questo popolo ed è significativo il fatto che ciò trovi posto all’interno di una narrazione che avrebbe potuto escludere questo tipo di riferimenti.

Al momento di ripercorrere e documentare per Carlo V tutte le sue sventure nel Nuovo Mondo, Cabeza de Vaca sceglie di testimoniare, dei popoli che ha conosciuto, anche preziosi aspetti culturali che altrimenti sarebbero andati perduti. 7

Così descrive gli indios dell’Isla de Malhado:

“La gente che trovammo là è di statura alta e ben proporzionata; non posseggono altre armi se non frecce e archi, nell’uso dei quali sono oltremodo esperti.

Gli uomini hanno una o entrambe le mammelle forate da parte a parte e trapassate da una canna lunga due palmi e mezzo e spessa due dita; usano forarsi anche il labbro inferiore, che ornano con una canna dello spessore di mezzo dito.

Le donne sono molto resistenti alla fatica. [...]

narrazione, il loro status estremo: “Negli otto mesi trascorsi presso di loro, girammo sempre nudi, coprendoci solo di notte con pelli di cervo (…). [...] Ho riferito altrove, come, durante tutto questo tempo, vivemmo nudi e, non essendoci abituati, cambiavamo la pelle come i serpenti due volte all’anno”. [Ibid., cap. XXII, p. 78]

5 L’incontro con gli indios si dimostra ancora una volta provvidenziale. Infatti, essi condurranno gli spagnoli alle

loro capanne e li nutriranno, contribuendo così a fugare i timori di un sicuro martirio: “In questo modo raggiungemmo il villaggio. Lì trovammo una capanna approntata per noi e riscaldata da numerosi fuochi. (…) La mattina dopo, ci offrirono ancora pesci e radici e i loro modi furono così gentili, che ci rassicurammo alquanto e si attenuò in noi la paura del sacrificio”. [Ibid., p. 45]

6 Il pianto, che Cabeza de Vaca interpreta come espressione della compassione che gli indios provano al vedere la

sventura degli spagnoli, è in realtà un importante elemento culturale, di cui si trovano tracce anche in altre aree dell’America. Numerosi esploratori riportano l’accoglienza che stranieri e visitatori ricevono presso alcune popolazioni amerinde: l’ospite viene fatto accomodare su un’amaca, mentre le donne si siedono a terra intorno a lui e iniziano il lamento. Probabilmente, in origine, il pianto esemplificava il sentito dispiacere e la viva partecipazione dei locali per le difficoltà che il visitatore aveva incontrato durante il viaggio per raggiungerli. Come ricorda Claude d’Abbeville, “è questo uno dei più gran segni di cortesia che possano esprimere nell’accogliere gli amici, dicendo mille cose in lode, che sia il benvenuto, che è buono, che ha preso tanta pena per venirli a trovare…”. [CLAUDE D’ABBEVILLE, Histoire de la Mission des Pères Capucins en l'Isle de Maragnan et terres circonuoisines, Paris, François Huby, 1614, p. 285. Cit. in Anita Seppilli, op.cit., p. 118]

7 “Con un intento descrittivo simile a quello che mostra l’antropologia moderna, Cabeza de Vaca enumera forme

di organizzazione familiare e tribale, cerimonie e sacrifici che conobbe principalmente durante la sua lunga permanenza con i carancagua e gruppi vicini che si trovavano lungo le coste del Golfo del Messico”. [E. PUPO-WALKER, “Relevancia antropológica de los Naufragios”, in Álvar Núñez Cabeza de Vaca, Los naufragios, op.cit., p. 117]. Traduzione dallo spagnolo mia.

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È la gente che al mondo più ama e meglio accudisce i propri figli; se per caso a qualcuno muore un figlio, lo piangono genitori e congiunti e insieme a loro tutto il villaggio; questo pianto dura dodici mesi.

Infatti, per un anno intero, tutti i giorni, sul far dell’alba, i genitori danno per primi inizio al pianto, seguiti poi da tutto il villaggio; la stessa cosa fanno a mezzogiorno e quando annotta.

Dopo aver pianto il morto per un anno, gli rendono le onoranze funebri e poi si lavano e finalmente si ripuliscono dal nerofumo di cui si erano ricoperti. [...]

Scaduto un anno, alla commemorazione dei morti, dopo essersi praticati delle incisioni sulla pelle le cospargono con quella polvere di ossa sciolta in acqua. [...]

Un’altra usanza stabilisce, quando muore un figlio o un fratello, che in quella casa per tre mesi nessuno vada in cerca di cibo, e si lascerebbero morire di inedia se i parenti e i vicini non provvedessero al loro sostentamento”. 8

La distanza tra la relazione di Cabeza de Vaca e quelle degli altri viaggiatori è evidente.

Egli non si sofferma solo sulla descrizione fisica degli indios, ma si concentra anche sulle diverse caratteristiche della vita sociale di quelle popolazioni. 9

Il navigatore andaluso dedica quasi l’intero capitolo, non all’argomento principale, (cioè la partenza di quattro cristiani), ma agli aspetti rituali del lutto e del matrimonio presso i Creek, senza che ciò abbia una diretta connessione con le vicende di cui dovrebbe occuparsi. Poco più oltre l’autore annota alcune regole che governano l’ospitalità presso la tribù dell’Isla de Malhado:

“In genere, la popolazione di questa terra non porta indumento alcuno; soltanto le donne coprono le loro nudità con fibre lanose che crescono sugli alberi.

Le più giovani indossano pelli di cervo. È gente molto generosa, sempre pronta a dividere i propri averi con gli altri. Non hanno un capo che li governi.

Tutti i membri di una stessa tribù fanno una vita in comune.

Nell’isola si parlano due diverse lingue: quella dei Capoques e quella degli Han.

Le loro usanze impongono che, quando si conoscono o quando per caso si incontrano, prima di parlarsi se ne stanno mezz’ora a piangere; cessato il pianto, chi riceve la visita si alza per primo e offre all’altro i propri beni; l’ospite li accetta e, senza troppo indugiare, se ne va con la roba, spesso senza neanche una parola di saluto”. 10

Nonostante le sue descrizioni delle tradizioni delle popolazioni amerindie non costituiscano un

corpus organico, ma siano inframmezzate a digressioni sulla natura o a resoconti di singoli

episodi di vita, è interessante notare che, “parlando degli indigeni, Álvar Núñez si riferisce ad essi come ‘gente’.

Ciò modella un nuovo sguardo, dal momento che l’indigeno smette di essere ‘il selvaggio’ per assumere la categoria di persona, condividendo, alcune caratteristiche con il soggetto”.11

8 Álvar Núñez Cabeza de Vaca, Naufragi, op.cit., cap. XIV, pp. 49-50.

9 Il navigatore spagnolo “non si limita a descrivere gli indios, forse perché condivise con loro, nel corso degli

anni, le esperienze più intime di cui è capace l’essere umano”. [ENRIQUE PUPO-WALKER, “La importancia histórica de la obra”, in Álvar Núñez Cabeza de Vaca, Los naufragios, op.cit., p. 107]. Traduzione dallo spagnolo mia.

10 Álvar Núñez Cabeza de Vaca, Naufragi, op.cit., cap. XV, p. 53.

11 María del Pilar Ríos, “Naufragios de Álvar Núñez Cabeza de Vaca. Distintas representaciones del sujeto”,

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Per Cabeza de Vaca, il riconoscimento passa necessariamente attraverso la condivisione e la comunicazione. Egli si trova, privo di riferimenti, in gruppi sociali che operano con codici culturali totalmente estranei rispetto a quelli occidentali e l’unico modo che ha per sopravvivere è quello di conoscerli ed interpretarli per potersene servire.

Vivendo con gli indios, imparando le loro lingue12 e dividendo con essi la sua quotidianità, egli comincia a considerarli come esseri umani e non più come bestie prive di ragione.13

Da schiavo, sottoposto a lavori pesantissimi, a mercante e guaritore, il navigatore andaluso attraverserà una marginalità culturale data dalla sua condizione di bianco europeo tra gli amerindi che influirà profondamente sulla sua identità.14

Egli vive come gli indios anche se in realtà non lo è.

Se, inizialmente, si sente parte di un gruppo ben definito, quello dei suoi compagni di viaggio, col passare degli anni, questa identità così monolitica comincia a sgretolarsi e il costante contatto con le diverse tribù lo porta ad interrogarsi più profondamente sulla sua condizione e a ridefinire la sua individualità.

Il suo desiderio di ricongiungersi con gli europei è forte e tiene vive le sue speranze durante tutto il suo lungo vagabondare, ma ciò non significa che il tanto agognato incontro sia privo di criticità. La frattura che si è venuta a creare, nel corso degli anni, rispetto alla sua cultura occidentale, ha compromesso il processo di riconoscimento tra Álvar Núñez e i suoi compagni:

“La mattina dopo trovai quattro cristiani a cavallo; questi si scandalizzarono molto al vedermi vestito in quel modo così inverosimile e in compagnia di indios.

http://www.ucm.es/info/especulo/numero46/naucavac.html. Sito visitato il 21.02. 2013. Traduzione dallo spagnolo mia.

12 Cabeza de Vaca imparerà ben sei lingue dei popoli locali.

13 Álvar Núñez registra anche aspetti negativi di alcune tribù indigene, come una certa inclinazione al furto e alla

baldoria, salvo poi stemperare questi tratti con altre considerazioni sulla loro struttura organizzativa e sulla loro socialità: “Molti di loro sono incorreggibili ladri e, sebbene ciascuno abbia ciò che gli spetta, alla minima distrazione il figlio ruba quanto può perfino al proprio padre. Sono grandi bugiardi e si ubriacano spesso con una bevanda che non saprei descrivere. (…) Non seminano campi. È gente assai gioviale e, sebbene afflitti dalla fame, non rinunciano mai a ballare o a far festa con canti e danze”. [A. NÚÑEZ CABEZA DE VACA, Naufragi, op.cit., cap. XVIII, p. 64].

Qui Cabeza de Vaca non si riferisce alla popolazione dei carancaguaces già descritta, presso cui trascorre quasi un anno, ma ad un altro gruppo, quello degli iguaces.

14 Sia lo schiavo sia il mercante, infatti, pur abitando nella comunità non ne fanno pienamente parte, poiché, il

primo, sopravvive a stento oberato di fatiche, mentre il secondo, tessendo i rapporti tra una popolazione e l’altra, si trova sempre sospeso tra la tribù da cui proviene e quelle che incontra durante i suoi lunghi viaggi.

Lo stesso vale per lo sciamano, figura temuta e rispettata, cardine di una società tribale, uomo dotato di particolari poteri, capace di guarire, ma anche di dare la morte.

Appresi i segreti dell’arte medica indigena, insieme a preghiere e benedizioni cristiane, Alvar Núñez si guadagnerà una fama di guaritore che lo accompagnerà nelle sue peregrinazioni e che gli garantirà il miglior trattamento e il favore degli indios. “La posizione dello sciamano è stata e continua ad essere molto importante perché gli sciamani non solo sono guaritori ma – e questo forse ha ancora più rilievo- hanno una funzione religiosa nelle culture indigene, fungendo da mediatori tra i vivi e i morti, tra il materiale e lo spirituale, tra il sacro e il profano, tra questo mondo e l’altro, e infine tra il naturale e il soprannaturale. (…) La funzione degli sciamani è dunque indispensabile, perché la cura implica il ristabilimento di un ordine perduto, il ritorno dell’armonia in un mondo turbato”. [SILVIA SPITTA, “Chamanismo y cristianidad: los Naufragios”, Revista de critica literaria latinoamericana, XIX, n. 38, 1993, p. 323]. Traduzione dallo spagnolo mia.

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Se ne stettero a guardarmi a lungo; erano a tal punto stupefatti da non osare parlarmi né rivolgermi domande”.15

Gli spagnoli non lo riconoscono come uno di loro, vestito di miseri stracci e insieme ai locali. Lo guardano senza proferire parola.

Quando Cabeza de Vaca si trova di fronte ad un gruppo di europei la comunicazione si interrompe. “A questo punto, l’autore si percepisce come parte del gruppo indigeno.

Sebbene la rappresentazione dell’altro sia, di nuovo, quella di un gruppo che si oppone ad un altro esterno, il gruppo di appartenenza non è lo stesso.

L’uso del ‘noi’ non allude più ai conquistatori e, il senso di appartenenza, vale a dire, quando si parla ‘del nostro’, non riguarda più il gruppo originario.

L’opposizione è adesso: noi/ i cristiani”.16 Appaiono infatti le prime divergenze:

“Nonostante ciò, sorsero tra noi e loro gravi alterchi; a tutti i costi gli spagnoli volevano ridurre in schiavitù i nostri indios. (…)

Lasciammo ai cristiani pelli di vacca e altre cose che avevamo con noi; (…). [...] Soltanto la nostra presenza infondeva loro coraggio verso i cristiani e le loro lance”. 17

Gli indios stessi rimarcano la differenza tra Cabeza de Vaca e i sopravvissuti cristiani che viaggiano con lui dai nuovi spagnoli:

“Noi non avevamo ingordigia alcuna e regalavamo, senza trattenere nulla, quanto ci veniva dato, mentre l’unico scopo degli altri era rubare qualunque cosa trovassero senza mai donare alcunché a nessuno”.18 Ma non sono solo gli indigeni a pensarla in questo modo: lo stesso Álvar Núñez esprime un giudizio molto critico:

“Questa è la più grande prova di quanto sia ingannevole il pensiero degli uomini (…).

Costoro, infatti, avevano deciso di assalire gli indios che noi, invece, avevamo lasciati con parole di pace. I cristiani non ebbero alcuno scrupolo a mettere in atto quel piano e ci fecero vagare per due giorni senza meta attraverso quelle boscaglie”. 19

Il navigatore andaluso dichiara apertamente il suo dissenso rispetto alla condotta dei cristiani, che sono avidi, bugiardi e senza scrupoli, ma, in realtà, anche Álvar Núñez è un cristiano. Egli dovrebbe riconoscersi in quel gruppo di europei, che ha ritrovato dopo tante difficoltà e dopo tante peripezie e che simboleggiano il ritorno ad una vita ‘civile’ e dignitosa.

Tuttavia pone un discrimen tra sé e il resto degli spagnoli che ha incontrato: la differenza stavolta non è più tra europeo e indio, ma tra europeo ed europeo.

15 Álvar Núñez Cabeza de Vaca, Naufragi, op.cit., cap. XXXIII, p. 113.

16 María del Pilar Ríos, “Naufragios de Álvar Núñez Cabeza de Vaca. Distintas representaciones del sujeto”,

art.cit., p. 8. Corsivo dell’autrice. Traduzione dallo spagnolo mia.

17 Álvar Núñez Cabeza de Vaca, Naufragi, op.cit., cap. XXXIV, pp. 115-116. 18 Ibid., p. 116.

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Una volta arrivato nella città messicana di Compostela, non riesce a riadattarsi subito alla vita occidentale, ad indossare di nuovo abiti e a dormire in un letto:

“Giunti a Compostela, il governatore ci riservò una calorosa accoglienza e ci offrì quanto possedeva per vestirci. Ma io, per molti giorni, non potei indossare quegli abiti, né dormire se non per terra.

Trascorsi dieci o dodici giorni, partimmo alla volta di Città del Messico.

Durante l’intero corso del viaggio, fummo trattati con riguardo dai cristiani, seguiti da cinquecento schiavi indios”.20

Il rientro nella sua cultura di appartenenza non avviene così rapidamente come si potrebbe pensare.

La lunga permanenza con le popolazioni indigene ha evidentemente lasciato delle tracce non solo sulla personalità di Cabeza de Vaca, ma anche sul modo in cui egli vede gli indios.

Certo, la missione cristiana non viene affatto negata e anzi, deve attuarsi senza indugio, ma in assenza di crudeltà e sopraffazioni.

La storia di Alvar Núñez non è quella di Gonzalo Guerrero, non implica la scelta esclusiva dell’altro e la rinuncia estrema e totale alla propria cultura. 21

Eppure “la dicotomia tra ‘noi’ e ‘i cristiani’ suggerisce una posizione instabile del ‘noi’ che diviene ambiguo e che ormai non appartiene del tutto a nessuna cultura: né a quella india, né a quella spagnola”.22

Il tema dell’opposizione tra noi e i cristiani, sottolineato da María del Pilar Ríos e Silvia Spitta, non è solo un problema di tipo linguistico ma si carica di molteplici significati.

Cabeza de Vaca non è diventato un indio, ma la sua identità è stata permeata dall’esperienza dell’altro. Egli si trova a metà tra due mondi perché questa è la storia della sua vita.

E la sua narrazione lo testimonia: i continui riferimenti alle tradizioni e ai riti dei popoli con cui ha vissuto indicano che il contatto non è stato superficiale, ma ha toccato il nodo della cultura. E non è solo una questione di sopravvivenza o di abitudine.

Interagire con le tribù amerindie, in un contesto alieno e in condizioni di privazione pressoché totale, significa vincere le resistenze del sospetto e varcare la soglia tra sé e l’altro, lasciarsi contaminare. Individuare e decifrare la complessa struttura di codici sui quali si reggono le società americane e i molteplici modelli che le differenziano significa comprendere che gli stani simboli e gli strani gesti di queste popolazioni hanno un significato inscritto in una determinata e specifica cultura.

“Dal nucleo narrativo della propria esperienza s’irradia la descrizione della vita degli indios.

20 Álvar Núñez Cabeza de Vaca, Naufragi, op.cit., cap. XXXVI, p. 122.

21 Gonzalo Guerrero, giunge nello Yucatan, in seguito ad un naufragio, nel 1511. Sposatosi con la figlia di un capo

maya, con la quale avrà tre figli, perderà la vita, combattendo a fianco della popolazione Maya per difenderla dalla brutalità dell’invasione spagnola.

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Questa descrizione si offre al lettore come uno spaccato dall’interno, dove il cronista non guarda con paternalistica curiosità e nemmeno con interesse scientifico il mondo indigeno, né lo descrive perché altri sappiano, ma perché, durante quel suo lungo soggiorno di sette anni in terra americana, quello è stato il suo mondo, il suo unico contesto culturale”. 23

Le pagine di etnografia esemplificano il risultato di questo stretto contatto che produce un sensibile cambiamento nella percezione che Cabeza de Vaca ha degli indios: da bestie selvagge a esseri umani. José Rabasa specifica in quale modo i Naufragios abbiano una interessante dimensione antropologica:

“Per lettura etnografica non intendo una lettura che si limiti ad ottenere dati sui popoli con i quali convisse Álvar Núñez – cosa che già è stata fatta - ma una lettura che presti attenzione al racconto di un primo incontro; alla messa in questione di sé che implica l’empatia nella descrizione del diverso; all’esperienza personale dei fenomeni magici che i principi dell’epoca non permettevano di comprendere in altro modo che come miracoli di Dio; e infine, alle difficoltà storiografiche che poneva il fatto di raccontare la propria esperienza contraria ai valori dell’Occidente”. 24

Cabeza de Vaca non è un difensore degli indios ma non è neanche un perfetto conquistador. Eppure, l’attenzione che egli dimostra nei confronti dei riti e delle tradizioni indigene, cui dedica numerose pagine, emerge dalla sua narrazione.

L’ambiguità di fondo della posizione di Cabeza de Vaca porta molti interpreti a diffidare circa le sue reali intenzioni.

Per Bernardo Navia, infatti, la comunicazione che Alvar Núñez stabilisce con gli indios, al di là di una suggestiva interpretazione etnografica, si rivelerà assai utile ad una strategia di conquista.

“Questo spaesamento, tuttavia, permette proprio che lo spagnolo non adotti una sola precisa posizione rispetto al Nuovo Mondo. [...]

L’ambivalenza si personifica in Cabeza de Vaca e il testo lo lascia vedere.

È il conquistatore esaltato dalle ricchezze che trova ma anche lo sciamano che continua a celebrare questa nuova comunicazione stabilita tra sé e il Nuovo Mondo. [...]

Lo spirito del naufrago vacilla tra un mondo e l’altro: quello del soldato che schiavizza, da cui gli indigeni si nascondono, privandolo di abiti e cibo e quella dello sciamano che libera, che riceve un’accoglienza calorosa e vivande. Lo sciamano consola e dà forza, il soldato affligge con le catene gli stessi indigeni affamati e perseguitati poiché è gente ‘assai crudele e di indole e costumi molto cattivi’. [...] Ma anche Cabeza de Vaca è spagnolo, così da collaborare in qualche modo con il processo di conquista. [...] Lo spagnolo che incarna la conquista e la morte è anche lo sciamano che cerca la rivendicazione della vita (…). [...] Tuttavia Álvar è anche soldato e tesoriere, prodotto del sistema occidentale (…)”.25

Lo status di sciamano stride con il ruolo di conquistador affamato di ricchezze e potere.

23 Luisa Pranzetti, “Un viaggio fatale”, postfazione a Álvar Núñez Cabeza de Vaca, Naufragi, op.cit., p. 142. 24 José Rabasa, De la Allegoresis etnográfica en los Naufragios de Álvar Núñez Cabeza de Vaca, Revista

Iberoamericana, LXI, n° 170-171, 1995, pp. 175-176. Traduzione dallo spagnolo mia.

25 Bernardo E. Navia, “Últimos capitulos de Naufragios: confirmación de una conquista (diferente)”, Espéculo.

Revista de estudios literarios. Universidad Complutense de Madrid,

http://www.ucm.es/info/especulo/numero45/naufragi.html. Sito visitato il 21.02. 2013. Traduzione dallo spagnolo mia.

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Alvar Núñez non considera più gli indigeni come bestie e tuttavia, in numerose occasioni, rimarca la differenza tra sé e loro.

Cabeza de Vaca è pur sempre un uomo del Cinquecento, con una forma mentis già ben definita e con una missione da compiere: colonizzare la Florida, al seguito di Pánfilo de Narvaez. Ma il destino non ha previsto per lui le glorie e gli ori della conquista.26

Con i suoi naufragi, egli ha visto naufragare quel poco di Occidente che le navi spagnole avevano portato dal Vecchio Mondo.

Ha dovuto quindi ricostruire se stesso, non già, come Robinson27, a partire dai brandelli della sua cultura, ma a partire da una realtà indigena che nulla ha a che vedere con gli strumenti concettuali di un europeo. Ciò che appare incontestabile è la fisiologica oscillazione tra due mondi entro i quali Alvar Núñez è costretto a muoversi.

Durante i lunghi anni trascorsi in America, il navigatore andaluso vedrà la sua identità di europeo cristiano a confronto con le culture locali.

La contraddizione tra l’apertura all’altro e la conservazione dei suoi legami con l’Occidente sono parte integrante di questa esperienza.

Egli si mette sullo stesso piano di un indio americano, non solo perché i suoi bisogni coincidono, ma anche perché trascorre la sua esistenza pressoché nello stesso modo:

26 Come sottolinea Luisa Pranzetti, infatti, il viaggio di Cabeza de Vaca non assume le caratteristiche del viaggio

di conquista.

L’obiettivo del naufrago andaluso, approdato in una terra ostile e abitata da uomini di cui non conosce le intenzioni, sarà, per lungo tempo, quello della sopravvivenza, non certo quello della ricerca di metalli preziosi. Pranzetti insiste piuttosto sul valore emotivo dell’avventura americana, sulle difficoltà di riconoscersi come europeo che vive e si comporta come un indios, sull’adattamento ad una realtà totalmente altra.

27 Le condizioni in cui si trova Álvar Núñez, in seguito al naufragio, non gli consentono di portare a termine

l’incarico per il quale era partito. Egli ha perduto tutto e non possiede più alcun simbolo del suo status di europeo, neppure i vestiti. “Del tutto diversa è la situazione del Robinson di Defoe. Egli si insedia nell’isola già con tutti gli strumenti che ha trovato sulla nave. Il suo incontro con un altro uomo - Venerdì- non avviene in condizioni di parità. (…) E poiché quest’altro non ha niente da offrire se non la vita stessa, a lui non viene riconosciuta alcuna storia. È proprio questa differenza, questa diseguale potenza, che porta ad un rapporto di dominio e di subordinazione. [...] Perché Robinson riconosca Venerdì, lo deve prima assimilare alla sua cultura e al suo modo di vedere le cose. Insegnandogli il suo sistema di conoscenza, Robinson si assicura la schiavitù di Venerdì non solo con la forza delle armi, ma anche con la forza della sua cultura”. [ALFONSO MAURIZIO IACONO, Il borghese e il selvaggio. L’immagine dell’uomo isolato nei paradigmi di Defoe, Turgot e Adam Smith, Pisa, Edizioni ETS, pp. 40; 45. Corsivo mio] .

La vicenda di Robinson segue il copione classico della conquista: l’europeo impone la sua supremazia in terre lontane. Ma anche il marinaio inglese viene fatto prigioniero, sebbene questa esperienza non cambi il suo modo di vedere l’altro. Dopo essere fuggito, viene salvato dal capitano di una nave che gli offre molto denaro per comprare lo schiavo nero che Crusoe ha portato con sé.

I bianchi si riconoscono subito come parte di un unico gruppo e l’accordo tra i due è presto fatto, con il beneplacito di Xuri, che viene venduto con la promessa che, se accetterà il cristianesimo, sarà libero tra dieci anni. Per Robinson, sia Xuri sia Venerdì sono puri strumenti che egli può utilizzare a seconda delle sue necessità. Come sottolinea Setrag Manoukian, la sua è una dimensione profondamente radicata nell’esperienza coloniale e, senza questo presupposto, non è possibile comprendere pienamente le sue vicende, spesso oscurate dall’immagine del naufrago isolato.

“L’incontro con Venerdì non è il confronto con l’ alterità assoluta, ma la continuazione di un intreccio prefigurato dalle avventure di Crusoe in Africa e dalle sue attività schiavistiche in Brasile”. [SETRAG MANOUKIAN, “Introduzione. Considerazioni inattuali”, Antropologia. Annuario diretto da Ugo Fabietti, n°2, Roma, Meltemi, 2002, p. 6].

(10)

“Sei anni interi di esistenza solitaria io condussi in quelle terre, nudo al pari degli indios”.28

Cabeza de Vaca presenta le tribù amerinde al mondo: i suoi Naufragi testimoniano l’instaurarsi di un legame che modificherà la sua personalità:

“Mentre gli scritti di Colombo, Cortés e Bernal Díaz del Castillo registrano quanto incredibili29 fossero

quasi tutti gli aspetti di un mondo che era per loro nuovo, nessuno di questi protagonisti arrivò a sperimentare così a fondo come Álvar Núñez questo mondo a partire dalla prospettiva indigena. Álvar Núñez e i suoi compagni non erano certo i primi spagnoli che avevano vissuto all’interno della cultura indigena. [...]

Ma i Naufragi offrono una viva testimonianza del processo di iniziazione che sperimentarono alcuni europei che non solo arrivarono ad essere osservatori di una realtà strana e incomprensibile in molte delle sue manifestazioni, ma che passarono a costituirne una parte”. 30

La scrittura di Álvar Núñez attesta la presenza dell’altro e testimonia la sua diversità, sulla base della sua posizione di europeo inglobato nella realtà indigena.

Come ben sottolinea Fabietti “non è poi così ovvio «prendere la parola altrui» e trasferirla in un testo etnografico” 31, costruendo un sapere che nasce e si costituisce su una frontiera a partire dalla differenza. La compresenza tra le due culture, quella europea e quella americana, caratterizza l’esperienza umana di Cabeza de Vaca e si estende lungo una narrazione che documenta un cambio di passo.

28 Alvar Núñez Cabeza de Vaca, Los Naufragios, op.cit., cap. XVI, p. 56.

Per Pranzetti la relazione tra Álvar Núñez e le popolazioni indigene si è fatta talmente stretta che l’autore si identifica con loro nella maggior parte delle situazioni, sovrapponendo la sua individualità a quella degli amerindi. “Il cronista, quando parla della triste condizione dell’indio, parla delle sue stesse condizioni di vita e, quando parla di sé, parla dell’indio”. [L. PRANZETTI, art.cit., pp. 142-143].

L’universo di riferimento entro il quale si muove Cabeza de Vaca, ormai, non è più quello europeo, ma quello americano.

Ma la scarsa precisione nella descrizione temporale degli eventi, non è dovuta solo all’assenza di strumenti efficienti di misurazione ma anche alla memoria dell’autore, che deve ripercorrere molti anni di vagabondaggi e peripezie.

Secondo Robert Lewis, Álvar Núñez sceglie consapevolmente come gestire il tempo, come comprimerlo o aumentarlo, in base alle diverse esigenze narrative.

“Questa relativizzazione del tempo si deve, senza dubbio, alla mediazione della memoria dell’autore, nella quale i materiali del racconto sono selezionati in base alla loro importanza e sono collocati all’interno di una cronologia

«flessibile», che permette le «espansioni» e «contrazioni» necessarie per organizzare il discorso narrativo. [...] Attraverso i ricordi l’autore riesce a dare un ordine e a conferire senso, ciò significa, fare una relazione di una decade di esperienze che, almeno in parte, erano strane e confuse.

Egli elimina i periodi di «tempo morto» che non apportano fatti significativi o interessanti”.

[Robert E. Lewis, “Los Naufragios de Álvar Núñez: historia y ficción”, Revista Iberoamericana, n° 120-121, 1982, pp. 688-693. Traduzione dallo spagnolo mia].

29 L’autore usa qui il termine ‘asombroso’ che assume il duplice significato di ‘meraviglioso’ e ‘incredibile’ e che

quindi condensa in sé una complessa valenza che il semplice ‘incredibile’ non può esaurire pienamente.

30 Robert E. Lewis, art.cit., p. 690. Traduzione dallo spagnolo mia.

(11)

In un mondo dove “tutto è molto diverso”32 e dove i pregiudizi, le brame e le aspettative degli europei, tutti intenti a saccheggiare e depredare le nuove terre, impediscono di vedere la realtà, Álvar Núñez ridefinisce se stesso a partire dallo sguardo dell’altro.

“Il valore etnografico dei Naufragios consiste precisamente (…) nel fatto di dare polivalenza al registro della prospettiva indigena, a quella cristiana e all’intreccio di queste due concezioni del mondo”. 33

32 Tomás de Mercado, Summa de tratos y contratos de mercaderes y tratantes, Siviglia, 1569, (2° edizione

ampliada, 1571, p. 91).

33 José Rabasa, De la Allegoresis etnográfica en los Naufragios de Álvar Núñez Cabeza de Vaca, art.cit., p. 182.

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