I
Capitolo III
3.1 Revoca
Come precedentemente detto, dall’esito della prova dipendono l’estinzione della pena e di ogni altro effetto penale. Solo che l’esito positivo non è l’unico possibile. Nel mezzo ce ne sono diversi.
Il primo dato è che il periodo di prova può essere interrotto per due diverse ragioni: per avvenuta revoca a seguito di comportamenti posti in essere dal condannato che <appaiano
incompatibili con la prosecuzione della misura>>; oppure perché è intervenuto un
provvedimento di inefficacia (annullamento) della misura. Elenchiamo i motivi per cui si può avere la revoca: 1) violazione grave (anche reiterata) delle prescrizioni,
2) violazione della legge (che si può sostanziare nella commissione di un delitto), 3) comportamento ritenuto dal giudice incompatibile con la prosecuzione della misura, 4) per esplicita richiesta del condannato di sostituire l’affidamento con altra misura. Analizziamo le situazioni suddette e mettiamo in evidenza i profili problematici.
Bisogna fare una precisazione preliminare. Sia nell’ipotesi in cui il comportamento risulti contrario alla legge (che si può sostanziare nella commissione di un reato) sia nell’ipotesi in cui il condannato tenga un comportamento in violazione delle prescrizioni, la Corte Cost. ha affermato che non sono ammessi automatismi di sorta, nel senso che al verificarsi del fatto il giudice dovrà procedere ad un’attenta analisi e valutazione del comportamento per poter revocare o meno la misura.(135)
In caso di revoca, il Tribunale è chiamato ad effettuare una valutazione globale della condotta tenuta dal condannato durante lo svolgimento dell’intero periodo di prova, per decidere se sia venuto o meno il recupero sociale dello stesso.
Oltre a questo punto, la revoca interviene in itinere, nel senso che una volta concesso l’affidamento, il comportamento incompatibile con la sua prosecuzione o la violazione di legge devono essere successivi e non antecedenti.(136)
Il Tribunale, in caso di revoca, è tenuto a valutare la gravità singoli, specifici episodi tenuti dal condannato durante l’esecuzione della misura, per verificare se sono “incompatibili con la prosecuzione dell’affidamento”.
Avvenuta la revoca della misura, si verificano due diverse conseguenze.
La prima consiste nel ripristino dell’esecuzione della pena secondo i comuni canoni applicativi, cioè la pena residua dovrà essere scontata in detenzione. A tal proposito, secondo quanto stabilito dalla Corte Cost. (sent. 87/343), il tribunale è chiamato a stabilire il quantum di pena residua da scontare in carcere <<tenuto conto delle limitazioni patite dal condannato,
e della gravità oggettiva e soggettiva delle violazioni commesse>>.
A tal proposito bisogna ricordare che si erano prospettati due orientamenti contrapposti in relazione al periodo trascorso in affidamento fino al momento della commissione del comportamento incompatibile o la violazione di legge.
(134) Corte Cost. sent. 87/343
(135) C 24-9-96, in C. Pen. 97, p. 2851; Cass. S: U. 27-2-02, in C. Pen. 02, p. 2305 nella quale la cassazione
parla anche dell’esclusione di fatti successivi alla scadenza della misura; in senso conforme c 14-11-96, in C. Pen. 97, p. 3568; C 31-10-00, in Giust. Pen. 02 II, p. 107
Il primo orientamento ammetteva lo scomputo totale del relativo periodo trascorso in affidamento. E tale orientamento portava con sé delle considerazioni difficilmente giustificabili sotto il profilo razionale (o, se si vuole, del principio di ragionevolezza), sia sotto il profilo politico-criminale.
Sotto il primo profilo, come correttamente fatto notare dalla Corte Cost., <<ciò
comporterebbe una non giustificata parificazione delle situazioni di chi sino a tale momento ha tenuto un comportamento osservante delle regole imposte, e di chi, invece, è soggetto alla revoca proprio per averle violate fin dall’inizio. Ѐ evidente, inoltre, che in tal caso la condotta violatrice delle prescrizioni resterebbe priva di qualsiasi sanzione e sarebbe depotenziato l’impegno del condannato verso la positiva conclusione dell’esperimento e, conseguentemente, menomata la funzione rieducativa della misura>>. Infatti, ci si chiedeva (e
tutt’oggi ci si chiede) per quale ragione debbano essere trattate allo stesso modo situazioni ben diverse l’una dall’altra. Non vi sarebbe alcuna ragione per parificare l’ipotesi di colui che rispetta tutte le prescrizioni impostegli dall’organo giudicante (denotando in questo modo una condotta che è propensa anche alla rieducazione del soggetto) rispetto a colui che, invece, le viola sin dall’inizio, denotando così un’intolleranza verso quelle regole di civile convivenza che sono alla base dell’ordinamento e vanificando anche l’intento risocializzativo.
Dal punto di vista politico-criminale, la scelta di parificare delle situazioni diverse porta con sé un pericolo da non sottovalutare. Se alla violazione grave delle prescrizioni o alla commissione di un reato (rectius, alla violazione di legge che si sostanzi nella configurazione di un reato) non consegue alcuna sanzione legislativa (quale potrebbe essere la revoca), quale sarebbe il senso di prevedere la misura alternativa dell’affidamento? Nessuna, per la considerazione che il condannato non ha alcuna intenzione di rispettare quelle regole di civile convivenza che sono alla base dell’ordinamento e che la misura alternativa mira a far rispettare.
La tesi opposta, invece, non considerava computato il periodo di prova e la revoca interveniva
ex tunc, cioè sin dal momento in cui il condannato avesse posto in essere quel comportamento
incompatibile o la violazione di legge. Ma tale impostazione porta con sé una serie di considerazioni che mal si conciliano con l’ordinamento e, specificamente, con i dettami costituzionali.
Sotto il profilo sostanziale, si deve notare che fra il momento di violazione delle prescrizioni o di legge ed il momento di revoca della misura intercorre un lasso di tempo anche considerevole, nel quale il condannato resta, comunque, assoggettato alle stesse prescrizioni. Ma la prescrizioni dettate dall’organo giudicante si configurano alla stregua di limitazione
della libertà personale del soggetto, che sono sottoposte, da parte della Costituzione, alla
riserva di legge. Quando si avanza la tesi che il periodo trascorso in affidamento sotto tali prescrizioni non deve essere computato e che la pena deve essere scontata in carcere sin dal
momento della sua concessione, non si sta forse violando il principio in questione? La
risposta non può che essere affermativa.
Tale tesi, a detta di alcuni, si configura come una duplicazione della sanzione penale, nel senso che la libertà del soggetto verrebbe limitata ben due volte: al momento della concessone della misura e al momento in cui interviene revoca della stessa. In ciò sostanziandosi in una violazione del principio del ne bis in idem.
Sotto il punto di vista processuale, alla commissione del nuovo delitto nulla viene stabilito automaticamente, nel senso che la colpevolezza del soggetto non interviene sic et simpliciter
alla verificazione del fatto criminoso. Infatti, secondo la legge, il giudice dovrà valutare attentamente se il nuovo delitto sia in grado di vanificare gli intenti risocializzativi della misura. Un conto è dire che il soggetto ha violato la legge di sua spontanea volontà (voleva commettere tale reato); un altro conto è dire e stabilire che il soggetto si trovava in una situazione che, in altre circostanze, non avrebbe dato origine al delitto ( si trovava sotto coazione o violenza psichica).
Dal punto di vista soggettivo, il condannato che comprenda il significato e la funzione della misura, porrà in essere tutta una serie di comportamenti che faranno desumere che egli ha intenzione di reinserirsi nel tessuto sociale. Ecco, dunque, che la predisposizione di un sistema di controllo quale sono sia le prescrizioni dell’organo giudicante sia l’opera del servizio sociale connotano un processo che tende alla rieducazione del soggetto. Infatti, il condannato che rispetti le prescrizioni vedrà raggiunto più facilmente l’intento rieducativo rispetto a colui che, invece, le viola (in corso di esecuzione o sin dall’inizio poco conta). Bisogna ricordare che la giurisprudenza afferma che la violazione degli obblighi inerenti alla misura non configura reato né è riconducibile alla fattispecie di cui all’art. 650 c.p.(<<
inosservanza dei provvedimenti dell’autorità>>).(136
)
Da tutte queste considerazioni, si comprende come la Corte Cost. non abbia aderito pienamente ad una o all’altra tesi, optando, invece, per l’orientamento che demanda al Tribunale il compito di individuare il periodo utilmente trascorso in affidamento, da detrarre dalla pena ancora da espiare per effetto della revoca. Così facendo, si ha il vantaggio sia di evitare di penalizzare ingiustamente il condannato (cioè di violare il principio del ne bis in
idem) sia di ingenerare in lui la convinzione che l’eventuale violazione o trasgressione
possano essere privi di effetti negativi.
Tale orientamento è stato, poi, recepito dal legislatore nell’art. 98 co. 7 Reg. Esec. (D. p. r. n. 230/2000).
La legge demanda al tribunale il potere di revocare la misura dell’affidamento in prova. Quindi, si può dire che il provvedimento di revoca presenta un contenuto ampiamente
discrezionale, dovendo lo stesso giudice valutare, caso per caso, quali comportamenti del
soggetto sono incompatibili con la prosecuzione e quali altri, invece, non lo sono.
Così, si era ritenuto giustificata la revoca nei casi in cui il condannato avesse violato le prescrizioni di non allontanarsi da un certo comune (137) oppure nel caso in cui il soggetto avesse commesso un’inottemperanza reiterata alle prescrizioni impartitegli (138
)
Ancora. In caso di sopravvenuta applicazione di una misura cautelare in relazione alla commissione di un delitto antecedente alla misura, la revoca si ritiene giustificata <<soltanto
se la valutazione del provvedimento cautelare introduca nuovi elementi rispetto a quelli valutati in occasione della concessione della misura>>. (139)
La regula iuris della necessaria posteriorità delle condotte costituenti causa di revoca è sicuramente riferibile al <<comportamento contrario alle prescrizioni>> (140) in quanto, come
(136) c 10-3-95, in C. Pen. 96, p. 1604
(137) Cass. Sez. I 8-7-2010, in inedita
(138) Cass. Sez. I 6-6-2013,in C.E.D. Cass. n 256479; Cass. Sez. I 21-3-2012, in C. Pen. 2013 n. 413 nella quale
afferma che il Tribunale, in presenza di una misura cautelare per fatti antecedenti alla concessione, <<ha il
compito di verificare ,in concreto, l’effettiva compatibilità delle due misure>>.
(130) Cass. Sez. I 17-9-2013, in C.E.D. Cass. n. 256701
più volte detto, il soggetto condannato manifesta la volontà di sottostare alle prescrizioni con la sottoscrizione del verbale e la violazione di esse può avvenire solo in un momento
successivo. Mentre tale regola non è operante nel caso del comportamento <<contrario alla
legge>> (141) in quanto la commissione di un delitto può precedere la concessione della misura ed essere rilevata dal giudice dell’esecuzione e non da quello della cognizione. Infatti, si può verificare che il giudice non tenga conto di un precedente penale accertato e irroghi una certa pena (2 anni e 5 mesi di reclusione per il delitto di corruzione), mentre il giudice dell’esecuzione si rende conto della sussistenza di tale precedente, la ponga in comparazione con il secondo delitto e si renda conto che la pena complessiva supera i limiti di legge (corruzione: 2 anni e 5 mesi; omicidio colposo: 3 anni e 5 mesi). Si potrà, così, avere revoca della misura che il giudice abbia precedentemente concesso.
La seconda conseguenza derivante dalla revoca dell’affidamento consiste nell’operatività del divieto triennale di cui all’art. 58-quater co. 2 O.P. (<<divieto di concessione dei benefici>>). Tale norma espressamente dispone che l’affidamento in prova (altre misure alternative, i permessi e l’assegnazione del lavoro all’esterno) non può essere concesso al condannato <<che sia stato riconosciuto colpevole di una condotta punibile a norma dell’art. 385 c.p.>> A tal proposito, bisogna rammentare che la giurisprudenza afferma che l’operatività della norma non è circoscritta solo alla situazione soggettiva del condannato e non fa espresso riferimento solo alla situazione oggettiva (processo di cognizione, processo incidentale per altro reato, condanna per altro reato) in cui il condannato si trovi al momento della revoca. Infatti la lettera della norma <<non contiene limitazioni di sorta, ed al pari dell’omologa
previsione di cui al comma 1 del medesimo articolo, risulta formulata in termini globali, con riferimento soggettivo al condannato ed alla sua situazione personale, e non, invece, con riguardo oggettivo a ciascun singolo procedimento in cui interviene la revoca>>.(142)
L’orientamento ora considerato è corretto alla luce della norma in questione, dove, appunto, non viene fatto alcun riferimento ad una o più situazioni oggettive, tanto che la norma espressamente prevede <<riconosciuto colpevole di una condotta punibile ….>>.
Solo che la dottrina ha criticato fortemente tale impostazione, rilevando come esse <<contrasti con la realtà del percorso trattamentale, che non può essere concepito come una
lineare situation in progress, ma è fatto di progressi e ripiegamenti, ai quali deve corrispondere un sistema duttile di sanzioni positive e negative>>(143)
Guardando da diversi punti di vista l’impostazione avanzata dalla giurisprudenza, si può dire che la dottrina ne aveva correttamente individuato i punti deboli.
Infatti, un’interpretazione rigida qual è quella avanzata dalla giurisprudenza (si riferisce a tutte le situazioni oggettive e soggettive del condannato) non tiene conto che la pena viene eseguita su un piano concreto, difficilmente cristallizzabile al momento della comminatoria della sanzione (che avviene con la sentenza di condanna emessa dal giudice della cognizione). Dal punto di vista del principio di proporzionalità, affermare che la norma si riferisce
indiscriminatamente a qualsiasi situazione (soggettiva: condizioni personali, difficoltà
economiche ecc; oggettive: situazioni di pericolo ed alto) in cui si trovi il condannato e che opera a prescindere da una valutazione di un organo giudicante (qual è il Tribunale), significa
(141) C 1-10-2013 n. 43877, inedita
(142) Cass. Sez. I 7-11-2000, in C. Pen. 01 n. 1404; Cass. Sez. I 14-1-2004, inedita
che il soggetto viene considerato colpevole per la condotta di evasione a prescindere che vi possa essere un giudizio nei suoi confronti. L’argomento è stato ampiamente trattato nel paragrafo relativo alla cause ostative.
Bisogna fare delle precisazioni in riferimento al condannato che sia stato raggiunto da un
provvedimento giurisdizionale applicativo di una misura di sicurezza o quando, a seguito di
concessione della misura, egli sia stato soggetto a denunce o querele presentate al/dal PM. In questi casi il giudice di sorveglianza dovrà procedere ad una valutazione accurata per la verifica (prosecuzione o interruzione) della misura. Per le misure di sicurezza eventualmente disposte nei confronti dell’affidato, il giudice di sorveglianza potrà avvalersi degli elementi desumibili dagli atti del procedimento di merito (verbali di arresto in flagranza; trascrizioni delle intercettazioni), atti non ripetibili, ma destinati a confluire nel fascicolo del dibattimento ex art. 431 c.p.p. (ed in quanto tali utilizzabili dal giudice della cognizione) o da quelli desumibili dalle ordinanze applicative delle misure cautelari. A tal proposito, in giurisprudenza è prevalente un orientamento che ammette preminenza alla misura cautelare rispetto alla misura alternativa.
Nel caso in cui il condannato-affidato abbia commesso un “nuovo” delitto in corso di
esecuzione della misura, la giurisprudenza maggioritaria (con l’avvallo della Corte Cost.)
ritiene che non sia necessario attendere il passaggio in giudicato della relativa sentenza di condanna. Il motivo risiede nel fatto che la prognosi di rieducabilità e di non recidiva è stata smentita dai comportamenti tenuti dall’affidato, che non ha saputo sfruttare al meglio il periodo di prova concessogli. Per cui, anche se vige il principio di innocenza in relazione a qualsiasi processo (anche per quello relativo al “nuovo” delitto), non può essere posto in dubbio che il condannato <<non è idoneo a proseguire il trattamento ed il reinserimento nella
società dato che la sua condotta non è rispettosa né della legge né delle prescrizioni eventualmente imposte>>. Quindi l’incapacità di comprenderne il senso e la funzione si pone
in contrasto con le finalità perseguite dalla misura e <<rende il soggetto inidoneo a
fruirne>>.(144)
Quando il condannato avanza la richiesta di una misura alternativa diversa dall’affidamento o di altro benefico, è evidente che il soggetto non vuole sottostare agli obblighi corrispondenti alla misura de qua e vuole, in relazione all’altra misura alternativa o beneficio, ottenere maggior libertà. Infatti, condizione indefettibile (o, se si vuole, conditio sine qua non) dell’affidamento affinché possa essere applicato è il fatto che il condannato sottoscriva, al momento della concessione, il verbale col quale il giudice gli impartisce le prescrizioni alle quali deve sottostare il condannato. In mancanza di tale condizione, la misura risulterebbe imposta, coatta e contraria agli scopi che si era prefissata: e cioè che deve tendere alla rieducazione del reo. D’altronde, la richiesta di una misura alternativa piuttosto che un’altra è lasciata alla libertà del condannato, che così sarà in grado di avanzare una richiesta che più gli aggrada.
Tale considerazione vale sia nel caso in cui il condannato sia in stato di libertà e non sia stata eseguita la pena irrogata, sia nel caso in cui abbia avanzato richiesta di affidamento, ma in un momento successivo abbia proposto (al giudice dell’esecuzione competente per territorio) altra misura alternativa.
3.2 Annullamento
Come già detto precedentemente, l’affidamento può interrompersi per motivi oggettivi, non dipendenti dalla volontà o dal comportamento del condannato. Ѐ il caso del provvedimento
dichiarativo dell’inefficacia della misura, che può intervenire per:
a) sopravvenienza di infermità mentale,
b) interruzione a seguito di provvedimento sospensivo emesso ex art. 41-bis O.P. (in casi eccezionali, sospensione del trattamento penitenziario da parte del Ministro della Giustizia; gravi motivi di ordine e sicurezza, anche a richiesta del Ministro dell’interno, sospensione in tutto o in parte dell’applicazione delle regole di trattamento e di istituto nei confronti dei detenuti o internati ...),
c) cause originarie di inammissibilità dovute all’insussistenza dei presupposti di concedibilità, d) sentenza/e di condanna per un fatto commesso prima dell’applicazione della misura che portano il limite di pena complessivamente al di sopra della legge (per es. più sentenze di condanna per complessivi anni 5 mesi 3),
e) provvedimento di unificazione di pene concorrenti ex art. 663 c.p.p. ( più sentenze o decreti penali per reati diversi; condanne inflitte da giudici diversi).
A proposito dell’annullamento (o del provvedimento dichiarativo dell’inefficacia della misura), c’è da dire che non è previsto in via legislativa, ma è stato ricavato in via interpretativa da parte della Corte Cost. chiamata a deliberare in ordine al valore da attribuire al periodo trascorso in affidamento.
Proprio perché la fine della prova, nei casi di annullamento, si connette a cause oggettive, non addebitabili al condannato, la Corte Costituzionale ha affermato il principio della totale
detraibilità del periodo trascorso in affidamento.(145)
Per il caso specifico in cui sopravvenga una sentenza di condanna, la legge prevede una disciplina particolare. Infatti, si attribuisce al magistrato di sorveglianza competente in relazione al luogo di esecuzione della prova, il potere di valutare, in via provvisoria e senza le
garanzie del contraddittorio, se ciò incida sul presupposto della concessione
dell’affidamento (in altri termini, se la nuova condanna supera il limite di pena; rientra in una categoria di cui all’art. 4-bis; se vi sono le condizioni di cui all’art. 58-ter). In tale valutazione vi sono vari sbocchi. La pena “nuova”, cumulata con quella in corso di esecuzione, non supera il limite di 4 anni (ex l. n. 10/2014), così si deve disporre la prosecuzione della misura. Se il limite viene superato, allora il magistrato dispone la sospensione della misura, nonché (secondo quanto prevede l’art. 98 Reg. Esec.)(146
) ordina agli organi di polizia l’accompagnamento nell’istituto indicato nel provvedimento. In entrambi i casi (prosecuzione della misura, sospensione con relativo ordine di accompagnamento) decide nel merito il Tribunale di sorveglianza <nel termine di 20 gg e con le garanzie proprie del rito di
sorveglianza>>.(147)
Per il sopravvenire di un provvedimento di infermità mentale, la ragione per cui non si può applicare la misura alternativa risiede nei fatti che:
(145) cfr. C 11-2-97 in Rass. Pen. 97, p. 767
(146) Canevelli, u. op. cit.
1) il soggetto non è in grado di comprendere la funzione propria di questo istituto, non potendo sottoscrivere il verbale nel quale si sono stabilite le prescrizioni. Infatti, per tale sottoscrizione si richiede che il soggetto sia sano di mente, ponga in essere una manifestazione di volontà idonea a far desumere che comprende il significato e la funzione della misura. Condizioni che, appunto, non sussistono quando il soggetto è in una condizione psichica menomata;
2) a seguito di provvedimento dichiarativo dello stato di infermità mentale, il soggetto o viene ricoverato in una casa di cura e di custodia (se il delitto per cui è stato condannato è non
colposo) oppure ricoverato in ospedale psichiatrico, se prosciolto per infermità.
Ѐ chiaro che in questi ultimi casi il soggetto non era in grado di intendere e volere al momento della commissione del delitto e, correlativamente, non risulta proporzionata la sanzione della detenzione in carcere. Allo stesso tempo, risulta inefficace la possibilità di applicare l’affidamento in prova al servizio sociale perché, come detto più volte, è una libera scelta del condannato sottoporsi alle prescrizioni impostegli col verbale.
Per l’interruzione a seguito di provvedimento emesso ex art. 41-bis O.P. (<<In casi
eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza … >>, co. 1), bisogna notare
che l’interruzione dell’affidamento è avvenuto per la ragione che, come espressamente prevede la legge, il soggetto è stato sottoposto ad una situazione di emergenza tale per cui le normali regole detentive (che sono stabilite nel regolamento disciplinare dell’istituto carcerario) vengono violate in modo evidente e ciò arreca un pregiudizio alla “normale” vita detentiva.
La legge espressamente demanda il compito di <<sospendere nell'istituto interessato o in
parte di esso l'applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti e degli internati>> al Ministro di Grazie e Giustizia. Avendo modo di precisare che <<la sospensione deve essere motivata dalla necessità di ripristinare l'ordine e la sicurezza e ha la durata strettamente necessaria al conseguimento del fine suddetto>>.
In modo sintetico (e nella speranza di essere esaustivi), il giudice dell’esecuzione (magistrato o Tribunale di Sorveglianza) appurano che si sono verificate le condizioni di legge per tali soggetti (commissione di reati di cui all’art. 4-bis con condanna inferiore a 4 anni; commissione dei medesimi reati, condanna superiore a 4 anni, parziale espiazione della pena che porti il limite al di sotto dei 4 anni; e verificazione e concretezza delle condizioni di cui all’art. 58-quater, cioè sia effettiva e concreta collaborazione con gli organi di giustizia sia cessazione dei collegamenti con l’organizzazione criminale, terroristica, eversiva), concedono la misura alternativa (affidamento in prova) per la parte di pena residua.
Oppure, il soggetto è in stato detentivo (per una condanna superiore a 4 anni, espiata parzialmente e rientrante nei limiti di legge), avanza l’istanza di ammissione all’affidamento. Il magistrato, ad una prima analisi della situazione del soggetto, verifica che sussistono tutti i presupposti per la concessione ed ammette il soggetto all’affidamento. Indipendentemente che il soggetto sia in stato detentivo o in stato di libertà, che egli abbia dato dimostrazione della sussistenza dei presupposti positivi (quelli per la concessione della misura alternativa) e dell’assenza di quelli negativi (stabiliti nell’art. 58-ter O.P.), tale soggetto potrebbe porre in essere tutta una serie di comportamenti idonei a far ritenere che la concessione dell’affidamento non ha ragione di essere proseguita. Comportamenti, però, che rientrano nella categoria di quelli elencati all’art. 41-bis.
In gergo giornalistico, tale situazione viene chiamata “carcere di massima sicurezza”, come se negli istituto penitenziari si potesse fare una “graduatoria della gravità dell’emergenza” e, correlativamente, parlare di “massima o minima sicurezza” carceraria.
Infatti, il semplice essere in un istituto carcerario denota una certa pericolosità insita, nel senso che le regole di “civile convivenza” in tale ambiente sono fortemente alterate dalla presenza di soggetti che hanno violato la legge. E ciò a prescindere dalla gravità del reato, dall’intensità con cui è stato commesso e di altri fattori (oggettivi e soggettivi).
I comportamenti che possono dare adito al provvedimento di inefficacia (delle regole detentive o di altre regole vigenti nell’istituto carcerario o di parte di esse) si sostanziano in una condotta meritevole di sanzione da parte del legislatore (anche se nelle vesti del Ministro di Grazia e Giustizia). Il tutto è dettato <<dalla necessità di ripristinare l'ordine e la sicurezza
e ha la durata strettamente necessaria al conseguimento del fine suddetto>>, come se
all’interno del carcere si potesse garantire quel minimum di convivenza fra detenuti ed internati.
Bisogna tenere a mente che il provvedimento (di sospensione) del Ministro riguarda un’intera
collettività di soggetti (detenuti e/o internati), senza alcuna distinzione. Infatti, quando il
Ministro vuole sospendere o rendere inapplicabili parte o tutte le regole trattamentali in un istituto carcerario, lo fa senza dover distinguere fra coloro che hanno tenuto condotte contrarie ad una convivenza normale e coloro che, invece, hanno tenuto comportamenti rispettosi delle regole penitenziarie.(148)
Da queste considerazioni si deduce il motivo per cui il legislatore ha ritenuto inapplicabile, anche se in un momento successivo alla concessione della misura, la misura alternativa. Per quel che a noi interessa (e specificamente riferendoci alla tematica dell’affidamento in prova), bisogna precisare che la misura è, come più volte detto, applicabile a coloro che siano stati condannati a pene superiori a 4 anni e che abbiano espiato parte della pena (tale da far risultare la residua al di sotto dei 4 anni) e per reati di cui all’art. 4-bis O.P.
Solo che il soggetto che ha commesso suddetti reati, a prescindere che si trovi o meno in stato detentivo, ha tenuto una condotta, in corso di esecuzione della misura, che denota un intento non risocializzativo o comunque non rispettoso delle regole (di civile convivenza, se si trova in stato di libertà ed è stato sottoposto a determinate prescrizioni; trattamentali o penitenziarie, se si trova in stato detentivo).
A tal proposito, si presentano tre diverse situazioni un cui il soggetto può vedersi annullato il provvedimento di ammissione alla misura.
La prima riguarda, a detta della legge, il comportamento del condannato tenuto all’interno dell’istituto (si presume che il soggetto abbia già avanzato la relativa istanza; altrimenti, la disciplina è ben diversa) è ritenuto pregiudizievole per il mantenimento dell’ordine e della sicurezza “carceraria”. Ecco che subentra, nei limiti della legalità, il provvedimento sospensivo del Ministro di Giustizia.
Tale provvedimento è idoneo a ritenere inapplicabile la misura alternativa, sulla semplice constatazione che, se il soggetto non rispetta le regole “interne” all’istituto penitenziario, allora sarà gioco forza difficile che egli riesca a rispettare le prescrizioni che sono alla base della
(148) P. Comucci, in Criminalità organizzata e politiche penitenziarie 1994, p. 28 parla del fatto che <<la
sospensione delle regole del trattamento assume il carattere di provvedimento repressivo nei confronti di un’intera collettività, in presenza di una situazione ritenuta oggettivamente pericolosa>>.
concessione dell’affidamento in prova.
La seconda si riferisce al fatto che il soggetto condannato, a prescindere dal suo status (detentivo o in libertà) ed a prescindere dall’aver avanzato la relativa istanza, mantiene dei collegamenti (anche occulti) con l’organizzazione criminale di appartenenza. Ecco che deve intervenire una sanzione adeguata da parte del legislatore. Infatti, se dall’inizio il condannato ha tenuto comportamenti che facessero desumere agli organi di giustizia la volontà di collaborare e di eliminare i rapporti con l’organizzazione di appartenenza, in un momento successivo (e possibilmente anche a seguito di applicazione della misura) il soggetto “cambia rotta” e mantiene i legami originari. Così ingenerando negli organi giudicanti e nel legislatore la convinzione che l’applicazione della misura alternativa è sanzione sproporzionata alla situazione di fatto. In altri termini, la concessione della misura risulta effettuata per motivi clemenziali e sulla base di dati e situazioni ingiustificate. Così si rende necessario una sanzione corrispondente. E quale miglior modo se non quello di annullare, a seguito di provvedimento di applicazione del regime di sorveglianza particolare (ex art. 14-bis O.P.), la misura stessa?
La terza riguarda, invece, un diverso punto. Il soggetto condannato ha ottenuto l’applicazione della misura sulla base di determinate circostanze e di fatti accertati: accertamento di reato di stampo mafioso, condanna a 7 anni ed espiazione di 4 anni in detenzione; intento di collaborare ed eliminazione dei rapporti con la criminalità. Solo che in un momento successivo la Direzione Nazionale Antimafia scopre che il soggetto è responsabile anche di altri reati commessi prima della sentenza di condanna e mai venuti alla luce.
Certo, in quest’ipotesi si potrebbe avanzare l’obiezione che “ciò che non è contestato non è provato”. Sul punto non ci sono dubbi. Ma è altrettanto vero che tale eventualità può verificarsi per cause riconducibili al soggetto, come per esempio l’aver instaurato un regime di terrore nelle zone in cui ha commesso i reati, l’aver compravenduto il silenzio delle persone ed altre condotte simili. Allora si vede come l’obiezione prima avanzata non regga il confronto, dal momento che i reati commessi in un momento antecedente all’applicazione della misura sussistono, ma possono venire alla luce in un momento anche lontano dalla loro commissione.
Al soggetto in questione (ed anche a colui che fa parte di un’organizzazione terroristica o eversiva), può essere applicato, come detto precedentemente, il regime di sorveglianza
speciale. A tal proposito, prima della riforma del ’86 (Legge Gozzini), tale situazione si
configurava come una causa ostativa all’applicazione della misura, nel senso che il condannato sottoposto a tale regime non poteva avanzare la richiesta di ammissione
all’affidamento in prova. Una considerazione analoga valeva anche per coloro che,
appartenendo all’organizzazione criminale, non avessero integrato le condizioni di cui all’art. 58-ter O.P.
L’intento del legislatore nell’aver previsto una tale disposizione era quello di perseguire una politica criminale differenziata per i tipi di reato che ne erano sottesi. Non si dimentichi che la disposizione di cui all’art. 4-bis (a cui rimanda l’attuale art. 41-bis) O.P. elenca alcuni reati per cui non si può applicare l’affidamento. E ciò era dovuto al fatto che nel momento che si diede avvio alla riforma del ’75, la situazione di quel tempo era caratterizzata da forti contrasti fra le Istituzioni e le organizzazioni terroristiche (prime fra tutte le BR e il MSI, che giunsero a commettere reati di sequestri di persona ed altri) e mafiose. Periodo che portò
all’attenzione dell’opinione pubblica e del legislatore quella politica della tensione che iniziò con le “stragi di piazza fontana” e di altri atti terroristici.
Però, contestualmente a tale intento del legislatore, si andava formando un orientamento che (anche a livello internazionale) non vedeva dissolta l’idea che attraverso il carcere si potesse rieducare o reinserire nella società il condannato.(149)
Ed è così che, grazie alla riforma del 1986 e fra gli altri intenti che essa si premura di perseguire, le preclusioni sono state eliminate, vengono ampliate le opportunità di concessione della misura alternativa.
Altro obiettivo posto dalla riforma dell’ ’86 era quello di ovviare alle carenze legislative precedenti sul problema dell’ordine e della sicurezza penitenziaria, che viene raggiunto su tre diversi livelli di intervento: introduzione del regime di sorveglianza particolare nei confronti dei detenuti identificati come i più pericolosi ai fini della convivenza col resto della popolazione penitenziaria; abrogazione dell’art. 90 O.P.(fino ad allora utilizzato in modo incontrollato e distorto proprio per far fronte ad esigenze di ordine e sicurezza carceraria); infine, inserimento, nel quadro normativo, di una disposizione (art. 41-bis) che torna a disciplinare le situazioni di emergenza prima contemplate nell’art. 90. (150
)
L’art. 41-bis, in modo non diverso dal precedente art. 90, disciplina i presupposti, l’oggetto, i limiti temporali di efficacia del provvedimento sospensivo delle regole trattamentali.
Solo che la norma non si preoccupa di essere specifica o, quanto meno, di elencare (anche se a livello esemplificativo) le ipotesi che possono apparire come <<casi eccezionali di rivolta e di
altre situazioni di emergenza>> rispetto ai <<gravi ed eccezionali motivi di sicurezza>>.
Se ciò non fosse sufficiente a dare idea delle conseguenza negative di una tale previsione, la sospensione delle regole del trattamento penitenziario, circoscritta anche ad una solo parte di un istituto, consente un ulteriore flessibilità di intervento (da parte del Ministro di Giustizia), sganciato possibilmente da vere e proprie esigenze di emergenza e di ordine.
Anche la giurisprudenza della Corte Costituzionale, con una serie di sentenze ( le nn.85/185, 87/343, 89/386, 89/569 in materia di affidamento in prova) in gran parte orientate ad interpretare in via estensiva, ha contribuito all’opera di un’applicazione sempre più ampia dell’istituto delle alternative.
Le critiche che si potrebbero muovere a tale politica criminale e penitenziaria (quella che vuole applicare le alternative, e prima fra tutte l’affidamento in prova, ai condannati per i reati di cui all’art. 4-bis O.P.) sono principalmente di carattere giuridico che di opportunità politica. Infatti, anche se si tralascia il fatto che i reati commessi da costoro (appartenenti alla criminalità organizzata o ad un gruppo eversivo o terroristico) e all’allarme sociale di cui sono portatrice le condotte da costoro tenute, non si può certo condividere la politica legislativa di sopperire al problema del sovraffollamento carcerario con la semplice concessione delle alternative ai suddetti soggetti.
Infatti, tale politica, chiamiamola indulgenziale o permissiva, condusse ad una nuova ondata di criminalità e ciò sembra costituire la prova più evidente di una scelta legislativa sbagliata.(151)
(149) P. Comucci, ibidem, p. 21 ss fa notare che, però, la politica così individuata <<nascondeva peraltro
molte insidie, primi fra tutti i rischi di una strumentalizzazione generalizzata della disciplina per il raggiungimento di scopi nettamente contrapposti a quelli propugnati>>.
(150) P. Comucci, ibidem, p. 26
La situazione carceraria di quel periodo condusse alcuni a sottolinearne le pecche e le scelte sbagliate. A cominciare dall’inadeguatezza di una disciplina improntata al recupero sociale di soggetti condannati per fenomeni di delinquenza individuale che “convivono” con altri condannati per reati di grande impatto sociale (quelli di cui all’art. 4-bis); proseguendo, poi, che situazioni così eterogenee (delinquenza individuale – soggetti appartenenti a stabili organizzazioni criminali) non possono essere gestite con gli stessi strumenti normativi; per fini col pericolo che le maglie troppo larghe dell’una o dell’altra norma posso arrivare a consentire, ad autori di gravissime tipologie di reato (come lo sono la commissione di stragi, nelle quali i soggetti coinvolti sono in numero indeterminato: si pensi, fra tutte, la “strage di piazza fontana”), il godimento immotivato di benefici penitenziari di fatto incompatibili con la loro pericolosità. (152)
Alla luce di tutte queste considerazioni, il legislatore si decise di intervenire nel 1992 ( l. n. 356) per restringere le maglie ritenute troppo larghe della normativa penitenziaria.
Ci si domanda qual è il motivo di tale disgressione storico-legislativa ai fini della materia in esame. Ѐ presto detto.
Il legislatore, con la concessione dell’affidamento in prova a condannati per reati di cui all’art. 4-bis O.P. (e specificamente, quelli riconducibili alla criminalità organizzata, eversiva o terroristica), mira ad ottenere un duplice risultato: quello di combattere la criminalità organizzata di appartenenza, prevedendone la dissociazione attuale come condizione di ammissibilità e, allo stesso tempo, perseguire al meglio l’intento rieducativo della pena. Solo che, quando si apprestava a legiferare su tematiche di grave allarme sociale (come lo sono gli attentati terroristici o quelli di stampo mafioso), lo si fece con intenti tutt’altro che giuridici e costituzionali: l’intento principale era quello di risolvere il problema carcerario del sovraffollamento. Con tutte le conseguenze negative che ne sono derivate.
I meriti del legislatore sono stati quelli di rendere più stringenti i presupposti e le condizioni, per tali soggetti, per l’ammissione all’affidamento. Infatti, come già detto a proposito dei presupposti, il magistrato (se il soggetto è in status detentionis) o il Tribunale (se il soggetto è in libertà) dovranno verificare due circostanze concorrenti: intento di collaborare con la giustizia e cessazione attuale dei collegamenti con l’organizzazione di appartenenza.
Ѐ evidente che, se tali presupposti si sono verificati in un primo momento ai fini della concessione della misura, questa deve essere annullata quando:
- si accerti che ha commesso un delitto della stessa specie prima della concessione della misura, delitto accertato anche in un momento successivo;
- si appuri che il soggetto, all’interno dell’istituto penitenziario, tiene una condotta incompatibile con l’applicazione della misura (si presuppone che egli, dopo la condanna e dopo che essa è stata eseguita, abbia avanzato la relativa istanza);
- il condannato (sempre per i reati di cui all’art. 4-bis O.P.) viene raggiunto da un provvedimento che ne disponga il regime di sorveglianza
Dunque, in tali fattispecie, il soggetto si è reso responsabile di condotte, antecedenti o successive, alla concessione della misura. E sarebbe ingiustificato poter parlare della possibilità di proseguire, nell’esecuzione, la misura alternativa: il soggetto sarebbe indotto a non tenere quei comportamenti che sono sintomo di sottostare alle regole di civile convivenza o penitenziarie.
Ora, una lettura combinata fra gli art. 4-bis, 47 e 41-bis conduce a queste considerazioni. La prima riguarda il fatto che la concessione dell’affidamento in prova a tali condannati mira ad ottenere la loro collaborazione per combattere meglio la criminalità organizzata. Tralasciando anche i possibili esiti positivi e negativi ai quali tale politica conduce, si può dire sin d’ora che il legislatore effettua una tale scelta in base a criteri di opportunità politica, insindacabili dal punto di vista della Costituzione. Si potrebbe dire che tale politica risponde al broccardo latino del “do ut des”, in altri termini, una sorta di scambio penitenziario: il legislatore acconsente a non perseguire l’esigenza repressiva della pena, ma allo stesso tempo vuole che il condannato si dissoci dall’organizzazione e collabori con la giustizia.
La seconda riguarda le conseguenza che ne derivano per l’eventuale “trasgressione” a tale patto. Più precisamente. Nel caso in cui il soggetto abbia subito una condanna( che porti la pena complessiva al di sopra del limite di legge e la residua non ne sia inferiore), o si sia accertato la commissione di un reato, della stessa specie, precedente alla concessione della misura, o si sia reso necessario l’applicazione del regime di sorveglianza speciale, qual è la sanzione che il legislatore potrebbe prevedere? L’annullamento della concessione della misura alternativa. Anzi, come dice la lettera della legge, tali ipotesi conducono ad un unico risultato: provvedimento dichiarativo di inefficacia della misura.
Ma su quali basi si potrebbe giungere ad una tale conclusione?
La prima riguarda l’ipotesi di una condanna “ulteriore” a quella per cui viene disposta la concessione. Più precisamente. Il soggetto subisce una condanna a pena inferiore ai 4 anni di detenzione, oppure a pena superiore ai 4 anni e contestualmente ne espia una parte che porta la residua al di sotto di legge. In questa situazione semplice, al condannato è applicabile l’affidamento in prova: sussistono i presupposti positivi e negativi.
Ma quando subentra una “nuova” condanna, bisogna accertare i termini in cui incide sulla misura. Se la “nuova” condanna mantiene la pena complessiva al di sotto di legge, non vi sono ragioni per revocare o annullare la concessione. Se, invece, la nuova condanna porta la residua al di sopra, al contrario non vi sono ragioni per la prosecuzione della misura. Ma siccome non si è tenuto conto della nuova condanna, (perché successiva alla concessione e relativa a reato antecedente alla stessa) al momento dell’esecuzione penale e, siccome ciò avviene per cause oggettive (o, se si vuole, non dipendenti dal condannato), la revoca della misura non può essere applicata. Non resta, allora, che il provvedimento dichiarativo di inefficacia.
La seconda considerazione si riferisce all’applicazione del regime di sorveglianza particolare disposto ex art. 41-bis. Nello specifico, tale regime presuppone, al momento della sua applicazione, che il condannato (per i reati di cui all’art. 4-bis; per altri reati, anche di lieve entità, ma con condanna/e superiore/i ai 4 anni) sia ritenuto (dall’amministrazione penitenziaria, nell’ipotesi di cui all’art. 14-bis; dal Ministro di Giustizia, nell’ipotesi di cui all’art. 41-bis O.P.) “altamente pericoloso”. Ma il grado di pericolosità (alta, media o bassa) si basa su comportamenti del soggetto tenuti o in stato detentivo (perché rende difficile, se non impossibile, la convivenza con gli altri detenuti)o in stato di libertà (perché rende difficile, almeno per i condannati per i reati di stampo mafioso o eversivo o terroristico, la collaborazione con la giustizia) che sono “incompatibili con la prosecuzione della misura”. Si perdoni l’uso improprio della locuzione, ma essa serve a dare idea, anche vaga, delle possibili conseguenze.
La terza considerazione fa riferimento specifico all’ipotesi di <<cause originarie di
inammissibilità dovute all’insussistenza dei presupposti di concedibilità dell’affidamento>>.
Più precisamente, il magistrato (se il soggetto è in status detentionis) o il Tribunale (se il soggetto è in stato di libertà) hanno valutato erroneamente i presupposti per la concessione dell’affidamento. Ed i casi in cui ciò può verificarsi sono tanti. Ne elenchiamo a titolo esemplificativo alcuni.
Il magistrato o il tribunale (competenti per territorio) valutano la pena inflitta o quella residua
inferiore ai 4 anni. Invece il soggetto ha subito una pena superiore al limite di legge e la
residua (se ha scontato la pena in detenzione o sotto misura cautelare) non risulta inferiore al limite suddetto. Ѐ evidente che l’organo giudicante ha effettuato un errore ed applicato l’affidamento sulla base di presupposti inesistenti.
Il magistrato o il Tribunale concede la misura sull’erroneo presupposto che il condannato abbia commesso un reato diverso da quello di cui all’art. 4-bis O.P. Anche in questo caso, la concessione dell’affidamento avviene per motivi non imputabili al condannato. Quindi, la revoca della misura non può intervenire, per la semplice constatazione che essa presuppone una condotta del condannato <<incompatibile con la prosecuzione della misura>>. In altre parole, per colpa del condannato si rende necessario il provvedimento di revoca. Cosa che non accade nell’ipotesi di annullamento.
Il magistrato o il Tribunale, al momento della concessione della misura, non tiene conto dell’applicazione del regime di sorveglianza particolare. Anche qui, il condannato non ha alcuna colpa per l’eventuale ammissibilità all’affidamento.
Vi sono anche altri casi in cui il condannato non ha alcuna responsabilità in ordine all’ammissione alla misura de qua. Ed anche esse conducono alla stessa conclusione: provvedimento di inefficacia della misura.
3.3 Esito della prova
L’argomento è già stato trattato nella discussione della misura, almeno in riferimento all’ultimo paragrafo. Ricapitoliamo brevemente i punti più importanti.
L’esecuzione della pena in regime di affidamento può avere diversi esiti o conclusioni.
Può concludersi senza che nel periodo intercorrente fra il provvedimento di ammissione e la fine della misura intervenga alcuna causa di revoca, quindi si conclude con un esito positivo. Come espressamente previsto dalla legge, le conseguenze sono:
1) estinzione della pena, quindi il soggetto torna ad essere considerato pienamente libero e socialmente reinserito;
2) <<ogni altro effetto penale>> viene ad essere caducato per effetto della sentenza di declaratoria di estinzione della pena, di competenza del Tribunale di sorveglianza. Fra gli “altri” effetti vi rientrano anche le pene accessorie e la pena pecuniaria a seguito di conversione in pena detentiva.
Per la pena pecuniaria eventualmente non riscossa, il giudice la può ritenere estinta solo a condizione che il soggetto versi in disagiate condizioni economiche. Ciò risponde anche al principio della ragionevolezza della pena, per cui si riterrebbe eccessivo caricare di un onere un soggetto, anche se condannato, che non abbia la disponibilità monetaria e finanziaria per adempiere tale obbligazione.
Ma la prova può aver avuto sito negativo. Allora si pongono dei problemi per quanto riguarda la pena residua che dovrà essere espiata in detenzione. La procedura è quella del procedimento semplificato di cui all’art. 667 (Dubbi sull’identità fisica della persona). il tribunale, ricevuto gli atti (fascicolo relativo all’esecuzione dell’affidamento, nel quale sono confluite le relazioni periodiche dell’ U.E.P.E.) dal magistrato (<<competente per
territorio>>), provvederà ad emanare il provvedimento <<senza formalità, con ordinanza comunicata al PM e notificata all’interessato>>. Ordinanza che sarà impugnabile con
opposizione davanti allo stesso tribunale dalla parte che vi abbia interesse (secondo periodo art. 678 co 4 c.p.p.; da affidato, procuratore generale).
Nella valutazione sull’esito (che sia positivo o negativo) della prova incidono vari elementi, ognuno possibile di essere rilevato come motivo a favore di una dichiarazione “positiva” o “negativa” della prova stessa.