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L'Indice dei libri del mese - A.02 (1985) n.09, novembre

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(1)

N O V E M B R E 1 9 8 5 - A N N O II - N. 9 — IN C O L L A B O R A Z I O N E C O N IL M A N I F E S T O - L I R E 4 . 0 0 0

Tullio Pericoli: Nadine Gordimer

Un ospite d'onore

di Nadine Gordimer

Recensito da Valeria Guidotti

Testi di Claudio Gorlier; Lewis Nkosi e Paola Splendore

HMrtHHHHHHHHHHHHHHHH

S. Bertelli e C. Dionisotti:

Il caso Gentile

G. Briganti:

Tutto Guttuso

D. Marconi:

Gli strumenti del sapere

(2)

Sommario

Il Libro del Mese

Nadine Gordimer: "Un ospite d'onore "

Recensito da Valeria Guidotti.

Testi di Claudio Gorlier, Lewis Nkosi e Paola Splendore

Finestra siti Mondo

6 Claudio Gorlier; Sergio Zoppi, Giancarlo De Pretis:

Africa, una letteratura decolonizzata

37 Fabrizio Tonello: Armi e dottrine dell'era nucleare

Il Salvagente

8 Alessandro Triulzi: L'ultimo bastione bianco

12

Renzo Paris: Claude Simon, "Il Palace"

Libri di Testo

(a cura di Lidia De Federicis)

20 A.M. Martellone e Guido Quazza: Manualfdi storia

23

Il Documento

Carlo Dionisotti: La storia che giudica

Intervento

36 Francesco Calogero: Non e nemmeno sbagliato

38

Libri per bambini

Rosellina Archinto: Pierino e Alice

R E C E N S O R E A U T O R E

Pietro Bonfiglioli

Giovanni Pascoli

Giorgio Ficara

AA.W.

A A . W .

1 0 Iris Origo

Elena Croce

"Mariella di Maio

AA.W

Dante Della Terza

Mario Puccini

Giulio Lepschy

Emile Benveniste

Carlo Pagetti

Darko Suvin

14 Barbara Pezzini

AA.W.

A l e s s a n d r a M e c o z z i Paola Maria Manacorda, Paola Piva Terminale donna

T I T O L O

Poesie famigliari

Giovanni Pascoli, poesia e poetica Corrado Govoni

Due città

Il dialogo. Scambi e passaggi della parola L 'odore di Maremma

Problemi di linguistica generale, II Le metamorfosi della fantascienza Codice Donna

(3)

18

Claudio Pogliano

Luisa Mangoni Una crisi fine ' secolo

Giuliano Campione

19

Randolph Stara

Giulia Calvi Storie di un anno di peste

27

Sergio Bertelli

Luciano Canfora La sentenza. Concetto Marchesi e

Giovanni Gentile

2 9

Diego Marconi

A A . W . Gli strumenti del sapere contemporaneo

A A . W . Grande dizionario enciclopedico Utet

31

Claudio Pizzi

Nelson Goodman La struttura dell'apparenza.

Tatti, ipotesi e previsioni

Maurizio Pagano

Martin Buber La fede dei profeti

32

Giuliano Briganti

Enrico Crispolti (a cura di) Catalogo ragionato generale dei dipinti di

Renato Guttuso

3 3

Massimo Quaini

Giuseppe Dematteis Le metafore i della Terra

Anna Segre

Paola Pagnini (a cura di) Geografia per il Principe

3 4

Carluccio Bianchi,

Frank Hahn Equilibrio economico, disoccupazione e

Fabio Ranchetti

moneta

3 6

Angelo Chiattella

Johan Galtung Ambiente, sviluppo e attività militare

Sommario delle schede

39

Nel 2000 con Marx

40

Nuove riviste in Italia

47

Libri economici

Autore Titolo Autore Titolo

41 Pier Vittorio Tondelli Rimini 44 Guglielmo il Maresciallo

Czeslaw Milosz La mia Europa Una società francese nel Medioevo Memorie di Gluckel Hameln Franco Crespi Le vie della sociologia Dione Di Prusa Il cacciatore Giorgio Grossi Rappresentanza e rappresentazione

Alcifrone Lettere di parassiti e di cortigiane Ruth A. Wallace,

42 Eudora Welty Un sipario di verde Allison Wolf La teoria sociologica Paul Léautaud Lettere alla madre contemporanea

A A . W . Il nuovo mondo dell'immagine Maurizio Ferrera Il Welfare State in Italia

elettronica 45 Alessandro Casiccia Individuo, natura, utilità Fernaldo Di Giammatteo La terza età del cinema Hans Peter L'Orange L'impero romano dal III al IV secolo

Stanley Kubrick Tempo Spazio, storia e mondi AA.W. Caravaggio e il suo tempo

possibili Nina Kandinskij Kandinskij e io

Gian Piero Brunetta La guerra lontana Francis Haskell Mecenati e pittori

Piero Rattalino La sonata romantica Cesare De Seta Il destino dell'architettura. Persico,

AA.W. Ligeti Giolli, Pagano

43 Christopher Lasch L'io minimo 46 Giovanni Carlo Zapparoli

Gianni Zanarini L'emozione di pensare (a cura di) La psichiatria oggi Hilary Putnam Ragione, verità e storia Bernard Bolzano Del metodo matematico John Eccles, Daniel Robinson La meraviglia di essere uomo Klaus Schmidt-Koenig L'enigma delle migrazioni degli

Luisa Bonesio Il sublime e lo spazio Uccelli

Agnes Heller Il potere della vergogna Giovanni Asti Il magnetismo Nicolò Tommaseo Giovan Battista Vico e il suo tempo Nancy C. Andreasen Il cervello rotto

44 Georges Duby Le società medievali Mary Douglas Antropologia e simbolismo

(4)

in. 9 pag. 4

Il Libro del Mese

Fuga nella realtà

NADINE GORDIMER, Un ospite d'onore, Feltrinelli, Milano 1985, ed. orig. 1970, trad. dall'inglese di Maria Giulia Ca-stagnone, pp. 490, Lit. 22.000. (Il libro sarà in libreria nella pri-ma settipri-mana di dicembre).

Appena spenti gli echi del premio Malaparte da lei vinto, si torna a parlate di Nadine Gordimer e del suo romanzo Un ospite d'onore, scritto nel 1970 e tradotto ora da Fel-trinelli. Certamente è uno dei libri suoi più ambiziosi e complessi, che non appartiene al "Johannesburg genre", non è cioè ambientato nel terreno a lei familiare del Sudafrica urbano (il Witwatersrand) ma in un immaginario paese dell'Africa cen-trale che ha appena raggiunto l'indi-pendenza e si trova a fronteggiare i gravi problemi che la libertà porta con sé: il neocolonialismo politico ed economico, lo sfruttamento stra-niero, i dissensi interni, l'opportuni-smo, la corruzione, il persistente tri-balismo.

Il libro è la cronaca drammatica di un liberale ex-funzionario coloniale, il colonnello Bray, richiamato per partecipare alle celebrazioni per l'in-dipendenza nel paese dove aveva vissuto in passato e da cui era stato allontanato in quanto schieratosi a favore dei neri. Impegnato in un inutile incarico, affidatogli dal

nuo-leria d'arte del marito Reinholdt Cassirer — conoscitore e mercante tra i più raffinati. Gli abiti africani che spesso indossa, la fanno sembra-re più minuta e fragile, ma, al di là di questa apparenza e del suo desi-derio di estraniarsi e passare inosser-vata, emerge la sua personalità

fred-di Valeria Guidoni

vestono i suoi quaranta e più anni di attività letteraria in quel grande "club privato per bianchi" che è il Sudafrica. Se avesse scelto l'esilio in Europa o negli Stati Uniti, il dilem-ma fra i due credo assoluti che l'han-no accompagnata fil'han-no ad oggi — e cioè che il razzismo è il male

peggio-dirlo con Dennis Brutus — che la opprimeva. La situazione interna aveva pesantemente aggravato la cri-si personale della Gordimer: il paese di Vorster non era più quello di Smuts, il Censorship Act era stato introdotto nel 1963, il partito libera-le si era disciolto nel 1968. A causa

Da tradurre

L'imperativo dello scrivere

di Paola Splendore

vo governo, di consigliere per l'istru-zione, il colonnello rifiuta di accet-tare il progressivo deteriorarsi di quegli ideali per cui aveva lottato e per cui era tornato, si lascia spingere all'azione e al tradimento dall'op-posizione e troverà la morte in mez-zo ai disordini e alle sommosse.

Attraverso una fitta rete di perso-naggi, Gordimer viviseziona la diffi-cile situazione dell'europeo in Afri-ca e la relazione tra i due continenti. Questo è il suo modo di fare propa-ganda: nessuna delle numerose in-terviste, niente di ciò che dice sarà così vero come la sua opera narrativa anche se recentemente sembra essere meno sulla difensiva, soprattutto all'estero, forse perché non si sente giudicata e fraintesa come le accade ajohannesburg. Qui i neri la critica-no perché scrive di loro come se sa-pesse cosa vuol dire esserlo, gli Afri-kaners — discendenti dei boeri — non l'accettano perché dissentono delle sue posizioni e fino ad ora l'hanno per la maggior parte ignora-ta (o si sono occupati di lei per ban-dire i suoi romanzi, come è accaduto per Occasion for loving, Burger's daughter, The late bourgeois world), e così fa il partito federale progressista. Perciò le attese di un ri-stretto gruppo sono spesso frustrate, sia che l'incontro avvenga nelle zone residenziali bianche a nord della città, che frequenta in quanto ap-partiene all'elite culturale e artistica progressista, inglese ed ebrea natu-ralmente, o ai vemissages nella

gal-NADINE GORDIMER, Sometbing Out There, The Viking Press, New York 1984, pp. 203, $

15.95 (Penguin 1985).

NADINE GORDIMER, The Essential Gesture: Writers and Responsibility, Granta 15, Spring 1985, pp. 135-151, € 3.95.

Una rigorosa nozione dell'integrità dell'artista che le impone di dire la verità an-che se sgradevole o inaccettabile, una verità che si nega alla compressione in un paradig-ma ideologico, attraversa tutta l'opera di Na-dine Gordimer. L'ultima sua raccolta di rac-conti, Something Out There, riproposta in questi giorni nelle edizioni Penguin, esprime la stessa convinzione, lo stesso senso di re-sponsabilità morale dello scrittore: denuncia-re l'ambiguità dei sentimenti, la confusione mentale e morale, gli slittamenti della perso-nalità verso il cinismo e la corruzione anche quando si verificano dalla parte con cui si so-lidarizza. In questo la sua scrittura prende le distanze dalle convenzioni della letteratura dell'impegno: non cerca giustificazioni ideo-logiche o politiche ma le ragioni morali dei comportamenti umani. La scelta del racconto come mezzo espressivo le permette di andare dritto al cuore del problema senza obliquità o dispersioni. Sia che si parli degli incidenti del quotidiano che di uno squarcio visionario sul futuro dominio nero, il racconto

drammatiz-za un 'esperiendrammatiz-za concreta, un punto di vista interno che permette di cogliere i significati inespressi, le implicazioni nascoste della diffi-cile realtà sudafricana.

In un lucido saggio sulla responsabilità dello scrittore, The Essential Gesture, N. Gordimer ripropone in termini nuovi la que-stione dell'impegno facendolo scaturire da un legame di necessità con il contesto lingui-stico e culturale cui l'autore appartiene. Nes-suno, afferma l'autrice, può mantenere la propria integrità scegliendo di vivere fuori del proprio paese. Neanche Kundera e Milosz, due possibili eccezioni, riescono a ricomporre le loro 'sensibilità amputate': "Nella nostra epoca sono pochi quelli che possono sostenere il valore assoluto di uno scrittore senza il rife-rimento a un contesto di responsabilità. L'esi-lio come modalità del genio non esiste più ". il saggio si apre con una citazione da Ro-land Barthes sulla scrittura come gesto essen-ziale, il gesto che denota l'essere sociale dello scrittore e la sua intrinseca moralità. Barthes avrebbe successivamente rifiutato l"ossessio-ne storica' di Grado Zero della Scrittura, che peraltro si giustificava in un 'epoca, gli anni

'50, dominata da un 'altra morale dell'impe-gno, il sartrismo. Definendo la scrittura "un atto di responsabilità storica " Barthes inten-deva allora denunciare l' "innocenza " del lin-guaggio letterario, richiamare lo scrittore alla responsabilità di ciò che scrive e del modo in cui scrive: è sullo stesso piano che l'opera di N. Gordimer può dirsi politica.

Something Out There, il lungo racconto che dà il titolo alla raccolta, presenta un gruppo di terroristi all'opera: quattro

giova-da e decisa; è aliena giova-dal discorso po-litico nelle occasioni mondane (argo-mento in cui inevitabilmente si sci-vola), è pronta a parlare di letteratu-ra su cui ha preferenze e idee ben precise e definite anche per la narra-tiva italiana.

Al suo credo estetico, già enuncia-to nel 1968 in "Desk Drawer litera-ture", si mantiene fedele a distanza di anni. "Poesia, narrativa, pittura non scaturiscono dagli avvenimenti, ma dagli echi suscitati da essi; in quanto artista non sono interessata alla propaganda, non voglio provare niente ma esplorare l'interazione fra personaggi e situazioni e le ripercus-sioni sulla vita privata" ; e ancora in "Arts and Africa Broadcast": "Non cerco di cambiare niente, non credo che questo sia lo scopo di nessun ar-tista; si può essere visceralmente coinvolti in una causa, ma tutto ciò che si può fare è affinare le percezio-ni del pubblico: lo aiuti così a veder-si nella sua società e dalla critica vie-ne la coscienza di se stessi e forse una spinta all'azione".

Il coinvolgimento e l'impegno

in-re e che lo scrittoin-re è una persona la cui sensibilità non può accettare se-parazione tra il mondo interiore e quello esterno, fra arte e politica — non esisterebbe. Ma Gordimer è ri-masta a casa, pur avendo accarezza-to, dopo Sharpeville, l'idea di tra-sferirsi in Zambia che nel 1964 aveva acquisito l'indipendenza. L'illusio-ne di esservi accettata come africana bianca (l'unica vera identità che sen-te di possedere), favorevole ad un governo a maggioranza nera, si dis-solse ben presto nella consapevolez-za di essere considerata un'europea qualsiasi, arrivata in Africa il giorno prima.

Un ospite d'onore fa uso di questi temi. L'autrice si trova nella neces-sità di liberarsi del peso della tradi-zione liberale coloniale, di cui l'ethos migliorista ed i valori di con-tinuità con l'Inghilterra dell'otto-cento costituivano un crudele ingan-no, se confrontati con la deprimente realtà del Sud Africa. "L'Africa è un paese arido in molti sensi": Un ospi-te d'onore rappresenta l'uscita dalla condizione di inaridimento — per

di leggi sempre più repressive gli scrittori bianchi si trovavano in cre-scente isolamento culturalmente e politicamente; la "Black Renaissan-ce" ebbe vita breve: Abrahams, Mphahlele, Temba, Modisane furo-no ridotti al silenzio, alcuni morti, altri in esilio; i Sestigers, cioè l'avant-garde afrikaans, si dedicaro-no ad una specie di esistenzialismo letterario. Fu quindi Gordimer, con Un ospite d'onore e soprattutto con The Conservationist del 1974, che segnò un nuovo punto di partenza, accelerando la crescita di un modo di scrivere più autenticamente africano che superasse le barriere fra neri, co-loureds, bianchi afrikaner e inglesi.

L'approccio e l'argomento non possono che essere diversi, questa è la tragedia del paese, ma è la realtà che conta e la letteratura deve riflet-terla. A M. Mutloase, che nello

"Star", il quotidiano più diffuso, ri-peteva la solita accusa che i bianchi scrivono dei neri per pura esercita-zione accademica, Gordimer rispon-deva che ci sono vaste aree di espe-rienze reali che bianchi e neri

condi-vidono, sia di lotta e conflitti, sia di comuni ideologie, vivendo fianco a fianco da trecentocinquantanni no-nostante le leggi che li hanno tenuti separati, e che questo li porta a co-noscersi.

Per vivere in Africa bisogna avere una prospettiva africana della storia e l'unico modo per entrare nel futu-ro è conoscere il passato africano. In Un ospite d'onore la soffocante e pa-ralizzante realtà del Sudafrica è so-stituita da un mondo immaginato, in cui personaggi, non più intrappo-lati dall' apartheid, mostrano un'at-tiva determinazione di raggiungere dignità e libertà. Non per questo Gordimer ci presenta neri particolar-mente nobili, ma più oggettivamen-te credibili: sa chi sono, perché sono così, li mostra che escono dal passa-to, impegnati nel presente e impor-tanti per il futuro. Con maggior coinvolgimento emotivo (il suo at-teggiamento è stato spesso critica-mente commentato citando Yeats "cast a cold eye/on life on death") l'autrice sembra chiedersi quanto possa essere adatto alla pace chi ha fatto della rivoluzione la propria vi-ta. Né ci sono bianchi troppo cattivi. Non lo è il colonnello James Evelyn Btay che è chiaramente l'eroe, fisica-mente e intellettualfisica-mente. Non lo sono i personaggi che lo circondano: la coppia di giovani radicali dell' Up-per class, l'avvocato gallese che, es-sendosi schierato con i rivoluzionari, ora fa parte del governo, i coniugi che gestiscono l'albergo sono uno spaccato dell'Europa in Africa. Que-sto è infatti uno dei due temi fonda-mentali che si fondono in questo ro-manzo definito da M. Wade "il No-stromo del romanzo africano e il Middlemarch personale di N. Gor-dimer"; l'altro è quello della lotta politica per l'indipendenza dal do-minio coloniale: "Let my people go" già illustrato da P. Abrahams, suda-fricano "coloured" ormai da molti anni in esilio, in A Wreath for Udo-mo. "Il vecchio sta morendo e il nuovo non riesce a nascere: in que-sto interregno si manifesta una gran-de varietà di sintomi morbosi": at-traverso il personaggio del colonnel-lo Bray con le sue incertezze ("sono nel buio più completo" dirà a Mwe-ta, il leader della rivoluzione e ora presidente) e attraverso la descrizio-ne dell'impegno ideologico di Shin-za l'oppositore, Gordimer assume questa idea gramsciana e la svolge (non con il tono di profezia apocalit-tica, come farà in Luglio) fino alla morte inevitabile dell'eroe. Morte di cui Bray aveva sentito la presenza, conscio di quanto potessero essere pericolose le energie liberate dai cambiamenti sociali e dalle forze della storia. Morte ambigua ed em-blematica i cui risvolti ironici sono raccontati dagli amici: "naturalmen-te diranno che è stato ucciso dalla gente che amava, cosa altro puoi aspettarti dai neri"; "Naturalmente stava con Shinza, povero diavolo, questi liberali bianchi così carini che si immischiano in cose che non capi-scono". La stessa connotazione ironi-ca è nel titolo: l'ospite è Bray, ma al pranzo del Golden Piate sono gli africani Xélite governativa, sono loro ad essere accolti con onori e cortesie.

(5)

N. 9 pag. 5 HMMMHHaMHHHaHBBHHttflMB H H H H H H H H H H H N H H I

Il Libro del Mese

Senza melodramma

di Lewis Nkosi

Il brano che riproduciamo, per gentile concessione dell'editore, è tratto dal volume Home and Exile and others selections, una raccolta di scritti di L. Nkosi, pubblicata da Longman, London

and New York 1983, pp. 164, £ 4.50.

Lewis Nkosi è scrittore e saggista sudafricano, vive in esilio in Zambia, dove insegna all'uni-versità.

In Sud Africa tutti sognano la ri-voluzione; vale a dire che tutti, bianchi e neri, ci riflettono: come potrebbe manifestarsi, la portata e i limiti dei suoi orrori a lunga scaden-za e il risultato, dopo ciò che tutti suppongono sarà una serie di san-guinosi massacri. La rivoluzione è il nostro particolare incubo. La sua aspettativa è ciò che, al di là delle bravate calcolate e della retorica in-solente di quelli che stanno al pote-re, fa sì che si drizzino le orecchie al-la notizia del più piccolo disordine. Non a caso anche i nostri Scrittori hanno cominciato ad ascoltare i mi-nimi suggerimenti dettati da questa preoccupazione repressa.

Nel suo In the Fog of the Season 's End (Nella nebbia di fine stagione), Alex la Guma, il nostro miglior ro-manziere nero, per primo ci ha pre-parati all'incubo che doveva arriva-re; in Time of the Butcherbird (Il tempo dell'averla: in inglese il nome significa letteralmente uccello assas-sino, Ndt) un romanzo successivo, egli ci ha mostrato come a lungo an-dare l'incubo può coglierci. Uno scrittore di colore, Enver Carim, con l'inevitabile melodramma che ac-compagna simili descrizioni ha rap-presentato il primo tentativo di con-quista di Johannesburg da parte di forze rivoluzionarie nere, con il soli-to accompagnamensoli-to di aggressioni, sopraffazioni e violenze carnali.

Ora Nadine Gordimer, la nostra migliore romanziera bianca, ritorna sul tema, ma nel suo modo caratteri-stico, con pochissimo melodramma. In effetti, considerata la natura pro-fondamente radicata delle nostre paure e l'ampiezza delle nostre atte-se dell'incubo, è proprio l'asatte-senza di melodramma che, paradossalmente, rende poco credibile un romanzo co-me Luglio. Ciò che conferiva una vi-talità tormentosa a questa narrativa non è la violenza insurrezionale, che non vuole e non sa afferrare. Se si to-glie la breve apparizione di un eli-cottero nel vuoto cielo africano, svi-luppi del genere sono tenuti oppor-tunamente fuori scena. L'editore lo considera un pregio, io non ne sono sicuro (...). Ciò che principalmente interessa la Gordimer è il rovescia-mento di ruoli nel rapporto tra pa-drone e servo, o, in un più ampio contesto, tra oppressore e oppresso (...). Man mano che Luglio comincia ad acquistare autorità sulla vita del suo ex padrone e padrona e questi si battono per adattarsi al loro nuovo stato di subordinati, noi come lettori vediamo esattamente quanto sottile sia la corruzione che simili moli im-pongono alla società sudafricana

(...). Comunque, la lucidità di Lu-glio come romanzo dipende dalla credibilità del suo riprodurre ciò che non è accaduto, e perciò di quello che non può veramente sapere, per-sino dopo lo Zimbabwe, il Mozam-bico e il Congo. È probabile che la lotta finale in Sud Africa sia o un sorprendente capovolgimento con le fila tenute da arbitri internazionali,

gedandosi da un ex ribelle che ora sta al governo, il quale molto invero-similmente piange per la loro par-tenza. Non esiste alcuna probabi-lità, naturalmente, che un lettore africano creda in questo uso conso-lante di un espediente psicologico che sembra calcolato per tranquilliz-zare il panico liberale di fronte all'esito finale della lotta che sta ora prendendo forma.

A differenza della sua narrativa precedente, la cui forza non meno della sua tensione psicologica consi-steva nel raccontarci cosa signficasse

Gandhiano in Sudafrica

dì Claudio Gorlier

NELSON MANDELA, NO Easy Walk to Freedom, With a new Foreword by Ruth First, Heine-mann, London 1984, p. 189, Lst. 1.50.

Sull'ondata delle notizie dal Sud Africa e delle reazioni spesso emoti-ve e ritardate, abbiamo scoperto

ni, due bianchi e due neri, mettono in atto il sabotaggio di una centrale elettrica. Un altro intreccio segue il disperato vagare di una scimmia in libertà che semina panico e scom-piglio nei quartieri residenziali di Joanne-sburg, divorando innocenti animali domestici e distruggendo le piante dei giardini. Nessu-no l'ha mai vista e i giornali avanzaNessu-no ipotesi fantasiose su queste sue misteriose incursioni. Il racconto intreccia sapientemente le due vi-cende, contrapponendo con amara ironia il

'vero ' al falso 'pericolo. Il giorno in cui l'ani-male verrà trovato morto in un vicolo e lo stesso in cui salta in aria la centrale elettrica e mezza Joannesburg resterà al buio per diciot-to ore. L'identità dell'animale verrà accertata come una specie locale di babuino, non un orang-utan o uno scimpanzé, poca cosa per tener desto l'interesse del pubblico. Anche i quattro terroristi saranno presto identificati, ma al di là dei nomi nessuno penetrerà il mi-stero delle loro vite, vite che appaiono confu-se e alienate come quelle di tanti altri. Non vi è nulla di eroico nel loro gesto. Non sono eroi neanche i capi rivoluzionari di At the Ren-dezvous of Victory, ingenuamente corrotti dalla vanità e dal potere.

Le altre storie raccontano ancora di tradi-menti, di rapporti inquinati dall'ambiguità morale e dal sospetto; ipersonaggi, bianchi e neri, compiono gesti assurdi, prigionieri di una logica aberrante, come la donna nera di A City of the Dead, A City of the Living che, spinta da un impulso irrazionale (di sicurez-za? di ordine?) che lei stessa non sa spiegare, denuncia un giovane terrorista che nasconde in casa da una settimana. Ciò che emerge è la desolante constatazione dell'impossibilità di comunicazioni prive di ambiguità in una realtà in cui si sono persi i connotati del bene e del male, dove la pura e il sospetto si insi-nuano fin nei momenti più privati,

nessuno può dirsi innocente, neanche le vitti-me.

Nella raccolta è incluso infine un pezzo di-verso da tutti gli altri, Letter from His Father, una parodia letteraria: e la lettera che Gordi-mer immagina che il padre di Kafka scriva al figlio in risposta alla sua celebre lettera non

spedita. E tuttavia si avverte anche in questo testo un legame con il resto dell'opera: padre e figlio, al di là delle proprie identità, sono emblemi rispettivamente del potere e dell'oppresso. Il padre nel mondo kafkiano è sempre colui che sta dalla parte dell'ordine e della giustizia; il figlio è l'eversore e dunque colui che va represso, la vittima. La contrap-posizione fa pensare ai due poli della dialetti-ca coloniale, il padre-colonizzatore, forte del-la falsa coscienza di buon educatore e il figlio-oppresso, prevaricato nei suoi diritti più ele-mentari.

o un evento più catastrofico di qual-siasi cosa noi abbiamo visto in Sud Africa. Da nessuna di queste angola-ture Luglio ci può dare un punto di vista davvero penetrante e utile.

Luglio non è in grado neppure di suggerire 1'"allucinazione dell'orro-re" che la storia ci invita a contem-plare. Se ci domandiamo perché è così, la risposta di massima deve es-sere che nessuno scrittore bianco li-berale sudafricano vuole immagina-re una rottura tanto completa delle relazioni personali. Man mano che il processo rivoluzionario acquista for-za, la narrativa della Gordimer di-viene ossessionata dal tema della partecipazione bianca alla lotta fina-le, il tema del "rimanere o fuggire". In un passo di Luglio leggiamo che "essi rimasero; e si dissero e dissero a tutti gli altri che questo e nessun al-tro luogo era la loro terra". E in un precedente racconto, Il bacio del sol-dato, mentre i guerriglieri ritornano dall'interno per assumere i poteri di governo, l'avvocato bianco che ha difeso i loro capi in tribunale e la moglie decidono di andarsene

con-in cui

essere un membro della classe degli oppressori, la più recente narrativa della Gordimer, incoraggiata dalle lodi ben intenzionate ma male in-formate degli ambienti internazio-nali, non solo ha tentato ansiosa-mente di trascrivere le sopraffazioni subite ogni giorno dalla gente co-mune nella società sudafricana, ma ora si sforza di essere la voce della ri-voluzione sudafricana. Ecco perché anche le parti migliori di Luglio, lungi dal convincerci della verità della situazione, riguardano la lotta di Maureen (la padrona) per realiz-zarsi come donna contro un mondo di uomini e di servi riluttanti, poiché Luglio rimane, persino a casa sua, un servo (...). Effettivamente la Gordimer non ha mostrato una par-ticolare capacità di comprendere il personaggio africano, ma essa è l'unico scrittore bianco sudafricano che io conosca che dimostri (con ma-liziosa intelligenza) che l'incoerenza del bianco nei confronti del nero lo rende alla fine incoerente nei con-fronti di se stesso (...).

(trad. di Claudio Gorlier)

Nelson Mandela. Da vent'anni Mandela è in carcere per delitti di opinione, condannato per idee che lo stesso vescovo Tutu professa spes-so in pubblico, ma per una questio-ne di principio non viequestio-ne liberato. Comunque, dobbiamo pure am-mettere che l'opinione pubblica e la stessa sinistra europea hanno biso-gno di emozioni forti per fare talune scoperte. L'antologia di scritti di Mandela pubblicata da Heinemann è uscita nel 1965, ristampata e am-pliata almeno otto volte, e nessun editore italiano, tanto per fare un caso, sembra essersene accorto.

Que-sta potrebbe essere la volta buona, con qualche nota in margine. Il libro contiene, nella prima parte, testi militanti di notevole acume e di considerevole intensità, che costitui-scono documenti di molta utilità so-prattutto sul piano della lotta politi-ca e della cronapoliti-ca, spesso trasfor-mandosi in manifesti e parole d'or-dine. Ne emerge, tra l'altro, la figu-ra di un Mandela costretto a suggeri-re iniziative di lotta violenta (soprat-tutto il sabotaggio) ma fedele a ma-trici fondamentalmente non violen-te (Gandhi è un nome ricorrenviolen-te); si segue con chiarezza lo sviluppo e l'affermazione dell'Africa National Congress.

Il libro, però, raggiunge il suo momento chiave nella seconda par-te, che raccoglie i testi dell'autodife-sa di Mandela nei due processi subi-ti. Mandela, in quanto avvocato, sceglie di difendersi e lo fa con estre-ma abilità tecnica e con sorprenden-te freddezza, pur nella perentorietà delle sue prese di posizione. "Black Man in a White Court", nero in un tribunale dei bianchi, egli riafferma la propria strategia politica e quella dell ' African National Congress (ANC), con il suo obiettivo di "de-mocrazia non razziale", ovvero in-terrazziale. Appare chiaramente che fin dall'inizio l'ANC professa un at-teggiamento non violento, che ac-cetta puramente una forma di contro-violenza ma rifiuta il terrori-smo, insistendo invece sul sabotag-gio per scoraggiare il capitale stra-niero e mettere in crisi l'apparato in-dustriale. Ma ciò che soprattutto conta è l'autoritratto politico che emerge dal libro: Mandela, pur am-mettendo l'influenza del marxismo in molte aree della militanza antico-lonialista africana e auspicando la nascita di una società senza classi, insiste sulla sua "ammirazione" per il sistema parlamentare britannico, il suo "grande rispetto" per le istitu-zioni politiche e giudiziarie della Gran Bretagna. Non si tratta di un caso isolato, e al contrario un atteg-giamento del genere fornisce un uti-le referente per un dibattito sui mo-delli, indispensabile quando si parla di cultura africana in tutte le sue pieghe. Di quiTa singolare ma non abnorme equazione di Mandela tra parlamento britannico, quale istitu-zione "la più democratica del mon-do", e il convincimento che il futuro del suo paese stia nella fondazione di una società socialista, una "società libera in cui tutti vivano insieme e con eguali opportunità". Un ideale per il quale Mandela si dichiara pronto a morire: il tragico paradosso è che si tratti per i nostri parametri, di un ideale nobilmente moderato.

(6)

in. 9 pag. 6

Finestra sul Mondo

Una letteratura decolonizzata

ITALA VIVAN, Interpreti rituali. Il romanzo dell'Africa nera, De-dalo, Bari 1978, pp. 247, Lit. 4.000.

ITALA VIVAN, Tessere per un mosaico africano, Morelli, 1984, pp. 235, Lit. 18.000.

JAMILÉ MORSIANI, Da Tutuola a Rotimi: una letteratura africana in lingua inglese, Piovan, 1983, pp. 231, Lit. 15.000.

CHINWEIZU, O . J E M I E , I. MADU-BUIKE, Toward the Decoloniza-tion of African Literature, Ho-ward U.P., Washington, D.C. 1983, pp. 318, $ 7.95.

A A . W . , Interdisciplinare Di-mensions of African Literature, Three Continents Press, Wa-shington 1985, pp. 223, $ 14. A A . W . , African Literature Stu-dies: The Present State / L'état pre'sent, Three Continents Press,

Washington 1985, $ 14.

WOLE SOIYNKA, Ake. Gli anni dell'infanzia, Jaca Book, Milano 1984, pp. 300, Lit. 18.000.

Alla faccia dei cauti giudici dell'accademia svedese, che non hanno mai attribuito il Nobel a un autore africano, la letteratura africa-na possiede uafrica-na solida tradizione anche in inglese. In quell'anche ri-siede uno degli interrogativi più tor-mentosi, e ovviamente senza rispo-sta, della cultura africana, ma non soltanto africana. Difatti, scrivere in inglese, in francese o in portoghese significa scegliere la lingua del colo-nizzatore (con l'eccezione tutta par-ticolare del Sud Africa, ove il mar-chio del padrone si esprime lingui-sticamente nell'itfrikaan)-, inoltre, pone l'altro cruciale problema del pubblico cui ci si rivolge.

Uno dei maggiori scrittori africa-ni, il kenyota Ngugi wa Thiong'o che vive in esilio politico a Londra, sostiene di aver smesso il ricorso all'inglese tornando al kikuyu della sua etnia perché voleva che sua ma-dre fosse in grado di leggerlo. Si tratta di una battuta, naturalmente, e Ngugi fornisce in effetti motiva-zioni politiche più complesse, ma il problema rimane. La forte connota-zione ideologica e politica (tra anti-colonialistico nazionale e populisti-co-marxista) che caratterizza i ro-manzi di Ngugi, alcuni dei quali si rifanno alle vicende della rivolta dei Mau-Mau (A Grain of Wheat, Un chicco di grano; Petals ofBlood, Pe-tali di sangue) e lo ha portato allo scontro con i governi dell'era postco-loniale accusati da lui, come da larga parte della sinistra africana, di ridurre i modelli colonialistici in pro-prio, può spiegare la perentorietà della sua scelta letteraria. Ma il pro-blema di fondo che è stato più volte additato nel dilemma "adattamen-to/conflitto" investe il lavoro di tut-ti gli scrittori africani di lingua in-glese. Se ci poniamo di fronte ad uno dei classici indiscussi della nar-rativa africana, dovuto allo scrittore forse più noto e accreditato in asso-luto, il nigeriano Chinua Achebe, Things Fall Apart (Il crollo), ci ren-diamo conto che la tragedia del pro-tagonista sta proprio nella fedeltà cieca e persino ottusa ai riti e alle norme del passato nel momento in cui sopraggiungono i conquistatori inglesi. La metafora è antropologica, esistenziale, e ovviamente letteraria, in quanto investe la legittimità e il condizionamento dovuto all'uso dei modelli inglesi: il titolo del romanzo

di Achebe è ricavato da Yeats; ciò nondimeno, strutture narrative, ca-denze linguistiche, definizione dei personaggi, derivano dalla matrice della oralità africana. Un caso limite e irripetibile è quello del nigeriano (la Nigeria rimane il paese letteraria-mente più ricco e vario di tutta l'Africa anglofona, nonostante la

di Claudio Gorlier

poeta egli pure nigeriano, Gabriel Okara, The Voice (La voce).

Il drammaturgo e romanziere ni-geriano Wole Soiynka, che ha parte-cipato di recente all'Aquila a un di-battito sulla sua opera organizzato in occasione di alcune rappresenta-zioni teatrali, riproduce in teatro e in narrativa alternative non

dissoni-nomi: Sartre e Fanon. Va da sé che essa non può e non deve essere am-putata dall'immensa foresta delle letterature in lingue locali, ancora in larga misura da esplorare e da scopri-re. Tenuto conto dell'enorme dispo-nibilità al racconto, non stupisce che proprio la narrativa riveli la maggio-re prolificità come si è visto in

Ke-Le aporie dell'intellettuale nero

di Sergio Zoppi

Il lettore abituale, colui che entra in libre-ria e sceglie determinati libri per completare la sua cultura o per trascorrere qualche mo-mento di distensione, quand'anche lo voles-se, si troverebbe nell'impossibilità di soddi-sfare la sua curiosità di esplorare il mondo della narrativa africana nera di espressione francese. Ne' molto più fortunato sarebbe se

rivolgesse la sua attenzione verso la poesia. Tutto ciò perché l'industria culturale italiana non ha ancora sentito la necessità di "pro-muovere " l'immaginario africano considerato forse non sufficientemente redditizio.

Avvie-ne così che, anche se per altri motivi, da noi come in Africa, il rapporto tra lo scrittore e il suo pubblico diventa oltremodo difficile. Chi volesse sfogliare i cataloghi degli editori ita-liani troverebbe ben pochi nomi di scrittori africani presenti: Mariama Bà, con il primo romanzo, Cuore africano (SEI, 1980): S. Ou-smane, Il vaglia, (1978), D. Diop, Canti di lotta e di speranza (1979) e pochi altri titoli pubblicati da Jaka Book; Birago Diop, I

rac-conti di Amadou Koumba e Camara Laye, Lo sguardo del re, in una collana di cultura afri-cana nera pubblicata da Patron, splendida-mente tradotti e presentati rispettivasplendida-mente da Franca Marcato e Liana Nissim. Né altro troverebbe.

Non mi sembra il caso di tentare un 'ana-lisi delle non scelte dell'editoria italiana, det-tate e da ragioni economiche e dalla mancan-za di una moda che spìnga in quella direzio-ne, com 'è avvenuto per esempio per la lette-ratura latino-americana. E forse ancora il mo-mento di insistere su un 'attività circoscritta a specialisti che si sforzano in ogni modo di rompere il muro dell'omertà per cercare di portare a conoscenza almeno, se non di

dif-fondere, una realtà culturale degna della massima attenzione e di un grande rispetto.

Eccetto sporadici episodi, o veri e propri casi letterari quali la premiazione da parte dei giurati del Goncourt di Batouela di RenéMa-ran nel 1921, e pochi titoli di Ousmane Socé, pubblicati tra il 1930 e il 1940, esistevano nel panorama letterario francese autori che

scrive-vano ispirandosi alla realtà coloniale ma che descrivevano il nero sempre e soltanto come

"selvaggio " da rendere civile facendolo parte-cipe dei benefici della civiltà europea. Il mondo africano restava il luogo ideale nel quale la gioventù di Francia, delusa dalle sconfitte del 1870, andava a temprarsi e a prepararsi per il grande riscatto. Lo stesso

Ma-ran, nero della Martinica trapiantato in Africa come funzionario coloniale, fa recitare da protagonisti gli uomini di colore relegando i bianchi al ruolo di comparsa, ma in un ideale di integrazione non di contrasto rivoluziona-rio. Occorrerà aspettare la fine della seconda guerra mondiale, il sorgere dei movimenti nazionalisti, la crisi del colonialismo, per ve-dere scrittori neri attingere a piene mani alla loro realtà, al loro vissuto e lanciare al mondo intero più che ai loro fratelli il messaggio del-la liberazione.

Tra il 1950 e il 1965 assistiamo ad una ve-ra e propria fiorituve-ra di romanzieri neri dal Senegal al Congo, dall'Alto Volta al Ciad. Letteratura di fantasia ma anche soprattutto letteratura militante attraverso la quale passa-va il risveglio delle coscienze della classe intel-lettuale che, formatasi nei licei e nelle univer-sità francesi, era stata in modo particolare sti-molata dalle ideologie dì sinistra, le naturali

dialettica interna delle etnie diventi spesso antagonistica e la spaccatura sia stata sanguinosamente sanziona-ta dal conflitto biafrano in cui cadde uno dei maggiori poeti, Cristopher Okigbo) Amos Tutuola, capace di avvalersi con straordinaria coerenza e integrità dei moduli della favola ora-le, ma accusato per questo su due fronti o di articolare un finto primi-tivismo o di screditare la società let-teraria del suo paese. Quanto aggro-vigliata possa diventare la questione è testimoniato da Achebe in un altro suo romanzo, No Longer at Fase (Ormai a disagio, pubblicato, come i precedenti che abbiamo citato, in Italia da Jaca Book) ove si mette a fuoco l'ambiguità drammatica e in certo senso fatale di un intellettuale educato in Inghilterra, sradicato e coinvolto alla fine quasi fatalmente nella resa alla corruzione. Su un pia-no favoloso e magico, spinto alle estreme conseguenze giacché la resa non avviene e costa la morte, un si-mile dilemma prende corpo nel bre-ve, sconvolgente romanzo di un

li, avvalendosi di una lingua spesso estremamente raffinata e complessa, e dunque estema alla cultura africa-na, ciò che gli è stato risolutamente contestato, eppure dando vita a un universo insieme realistico e mitico profondamente e originalmente africano da The Road (La strada) a The Trial ofBrotherJero (Ilprocesso di FratelJero) in teatro, a The Inter-preters (Gli interpreti) o all'autobio-grafico Akè in narrativa.

Insomma, se è vero che, per usare l'espressione che dà il titolo a un te-sto chiave dell'antropologia recente, L'addomesticamento del pensiero selvaggio di Jack Goody, rimane il rischio costante di un dualismo irri-solvibile e insidioso, la letteratura africana di lingua inglese ha espresso e sta esprimendo un ventaglio molto ampio di risultati singolarmente au-tentici e vigorosamente svincolati dagli stereotipi del colonialismo, fosse esso duro e oppressivo, fosse benevolo e paternalistico secondo la versione Schweitzer. In un simile contesto hanno inciso peraltro due

nya, in Nigeria, in Ghana (Ayi Kwei Armah, Kofi Awoonor), in Uganda (Taban Lo Liyong). Ugandese era forse il massimo poeta africano di lingua inglese, Okot p' Bitek.

Va da sé che la letteratura del Sud Africa presenti aspetti più conflit-mali e rivendicativi, fatta spesso di scrittori e poeti costretti all'esilio,da Dennis Brutus a Alex La Guma, a Ezekiel Mphalele. Essa occupa la sua parte nella "rivoluzione culturale" delineata in un testo capitale da p' Bitek, in cui "la cultura africana de-ve trovarsi al centro, e quella 'altra' alla periferia". Una cultura libera e non subalterna, ciò che comporta un prezzo.Lo sa Nuruddin Farah, narra-tore somalo di sottile e provocatorio impegno (Sardines, Sardine; Sweet and Sour Milk, Latte agrodolce), che fa ricorso in chiave quasi joyiana all'italiano e a personaggi italiani nel tessuto inglese dei suoi romanzi.

Parla lo

stregone

Con Amos Tutuola si può conver-sare, o meglio entrare nei meccani-smi fantastici che la sua parola pone in movimento. Intervistarlo è termi-ne del tutto inadeguato. Qui, dun-que, trascriviamo qualche osserva-zione scaturita durante un incontro all'Università di Torino con l'autore oggi sessantacinquenne di The Palm- Wine Drinkard, Il bevitore di vino di palma e di My Life in the Bu-sh of Ghosts, La mia vita nel bosco degli spiriti (pubblicati in Italia da Adelphi).

... Nelle mie storie ho raccolto le convinzioni, o meglio le cose in cui la gente della mia tribù crede. Noi crediamo, ad esempio, che i morti vanno a vivere in qualche luogo, e dunque si comportano normalmen-te... Sì, precisamente, la morte è concreta e palpabile, non ha nulla, come voi dite, di astratto...

... Crediamo negli incantesimi... Crediamo che gli spiriti e i fantasmi esistono, e sono proprio come esseri umani... Ma naturalmente hanno poteri strani che sono ben più forti di quelli degli esseri umani... E cre-diamo nel babalaiu, l'oracolo. Se l'oracolo dice che a un bambino ca-piteranno queste e queste cose, be-ne, sarà così. E non dargli retta è un errore, perché poi gli avvenimenti ti prenderanno di sorpresa...

... Raccontare una storia significa raccogliere le storie che hai sentito raccontare a te, e ripeterle meglio che puoi. Tu non inventi nulla, sol-tanto sei capace di raccontare meglio di un altro, perché la tua personale immaginazione è migliore, la tua di africano della Nigeria, di yoruba, che è la mia etnia, e non di europeo, o di americano: quella immagina-zione non serve, e non mi interes-sa. .. Sì, è vero, ho deciso di metter-mi a scrivere dopo che metter-mi sono capi-tate nelle mani riviste inglesi e ame-ricane che pubblicavano racconti. Allora ho deciso che potevo farlo anch'io, ma non certo in quel loro modo; nel mio, secondo la mia im-maginazione; i miei doni...

... Ecco, dunque, ciò che voi chia-mate folk-tale. E alla fine ci deve es-sere una morale, capite? Deve inse-gnare qualcosa, a comportarsi, a ri-spettare i genitori, per esempio, a seguire l'oracolo. La morale è neces-saria... Voi dite che io presento il trickster, che ne parlo spesso; sì, qualche volta lo chiamo invece con-fectionist, ma e la stessa cosa: uno stregone, e a suo modo un inganna-tore, se credete. E mi chiedete se lo stregone è in realtà lo scrittore, se io sono il trickster? No, è tutto più semplice, lo ripeto: esiste il materia-le, la storia, la si racconta a seconda della propria immaginazione, e c'è dentro tutto...

Il candore cristallino di Tutuola, la sua impermeabilità a codici che ri-sultino estranei al suo, sono fuori questione, e se sostanziano la sua forza di scrittore ci insegnano anche a non imporre i nostri parametri. Ma egli difende anche con astuzia in ap-parenza disarmata il suo orgoglio smisurato e le sue manipolazioni di sciamano, appunto, di stregone.

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in. 9 pag. 7

L'Africa in portoghese

di Giancarlo De Pretis

Della letteratura africana lusofo-na, di una cultura così vasta e com-plessa come quella dell'Angola, di Cabo Verde, della Guinea Bissau, del Mozambico, di Sào Tomé e Prin-cipe, ex colonie portoghesi che sola-mente nel 1975, dopo quasi cinque-cento anni di dominazione, procla-mano nella lingua del colonizzatore la propria indipendenza, e che della stessa lingua si servono per la costru-zione della propria realtà nazionale, risulta qui impossibile offrire un quadro completo. Impossibile è inoltre soffermarsi a considerare i differenti processi di acculturazione che hanno caratterizzato questi paesi e le differenze culturali che ne sono derivate. Il formarsi spontaneamen-te nelle isole di Cabo Verde e S. Tomé di un proprio registro lingui-stico, la lingua creola, originato dal-la fusione tra i coloni portoghesi e le popolazioni africane sradicate dai lo-ro territori e trapiantate in quelle terre inabitate, costituisce una delle peculiarità culturali di queste due nazioni. Ricordo che negli anni 60 ci fu anche da noi un sentito interessa-mento per le sorti di questi paesi, un animato fervore attorno alle figure rappresentative della lotta di libera-zione: Agostinho Neto, Mario de Andrade, Costa Andrade, uomini legati anche a un'intensa attività let-teraria. I loro nomi e le loro opere cominciarono ad apparire in alcune nostre antologie della letteratura africana: Letteratura nera, a cura di Pier Paolo Pasolini e Léonard Sain-ville (Editori Riuniti, Roma 1961) e Poesia africana di rivolta, a cura di Giuseppe Tavani con postfazione di Mario de Andrade (Laterza, Bari 1969).

È soltanto a partire dalla fine del secolo scorso che si può parlare di letteratura africana di lingua porto-ghese, sebbene si tratti ancora di una letteratura travestita dei colori locali del Continente africano; una letteratura comunque circoscritta all'Angola poiché nelle altre colonie non si erano ancora venute a creare le condizioni culturali sufficienti al-lo sviluppo di una attività letteraria. Agli inizi del nostro secolo, si regi-stra il nascere di una letteratura di denuncia. Lo scrittore Castro Soro-menho, di origine mozambicana, con i romanzi Terra morta, Vira-gem, Chaga, introduce per la'prima volta nella narrativa angolana una visione dichiaratamente anticolonia-lista. E comunque negli anni 30, con la comparsa della rivista caboverdia-na Claridade, che prende vita ucaboverdia-na letteratura regionale la cui influenza non tarderà a farsi sentire anche in Angola e in Mozambico. Jorge Bar-bosa, il cui nome appare nel comita-to redazionale della rivista, nelle sue raccolte poetiche Arquipélago e Ambiente, si rivolge al dramma so-ciale in cui vive l'uomo caboverdia-no, costretto all'isolamento, alla fa-me e all'emigrazione cofa-me unica ri-sorsa di sopravvivenza.

I sentimenti regionalisti che si vanno via via affermando in tutta l'Africa lusofona, traducendosi negli anni 40 e 50 nei sentimenti naziona-listi che alimenteranno le attività politiche clandestine e sui quali si affermerà una letteratura militante, oltre a presentare alcune affinità con l'allora nascente neorealismo porto-ghese, filtrano direttamente dal mo-dernismo brasiliano. Alla nascita dei nuovi movimenti culturali, di un'avanguardia ideologica e lettera-ria, riformista e protonazionalista, contribuiscono poeti e romanzieri negri, meticci e bianchi (questi ulti-mi considerati a pieno titolo scrittori africani in quanto integrati in una persistente riformulazione culturale, tutt'oggi attiva; è il caso dello

scrit-tore angolano Luandino Vieira). Sull'esempio di Leopold Sédar Sen-ghor e della sua Anthologie de la nouvelle poesie noire et malgache de langue frangaise (1948) (sebbene le teorizzazioni sulfessence noir" esposte da Sartre nella sua prefazio-ne Orphe'e noir fossero sin da allora diametralmente opposte), comincia-no a uscire, sotto una veste tipografi-ca molto più umile, una serie di an-tologie poetiche. Nel 1950 viene pubblicata a Luanda la Antologia

coloniale la repressione culturale fu estremamente dura. Molti scrittori vennero arrestati, a molti altri non rimase che la via dell'esilio. A Lisbo-na veniva soppressa la Casa dos Estu-dantes do Impèrio; la stessa sorte toccò alla Sociedade Portuguesa de Escritores, ritenuta dal regime re-sponsabile di avere assegnato il Grande Prèmio de Novelistica allo scrittore angolano Luandino Vieira per il suo libro Luuanda. Lo scrittore si trovava allora a scontare una pena

stiti semantici delle lingue Kimbun-do e UmbunKimbun-do. Tramite un sottile lavoro di ricostruzione culturale, al-tri romanzieri angolani, caboverdia-ni, mozambicani (è doveroso segna-lare il nome dello scrittore mozam-bicano Luis Bernardo Honwana, au-tore del libro di racconti Nós mata-mos o Cào Tinhoso), che come Luandino si sono adoperati per una legittimazione dell'espressione let-teraria africana. Manuel Pedro Paca-vita ripropone nel romanzo Nzinga Mbandi (1975) la figura leggendaria della regina Jinga che avendo corag-giosamente lottato nel secolo XV contro l'invasione europea è entrata nella tradizione orale come simbolo di autodeterminazione e di

naziona-In

libreria

protettrici dei movimenti rivoluzionari e pro-gressisti.

Il raggiungimento dell'indipendenza de-gli stati della comunità francofona africana coincide con un lungo momento di riflessione che in molti casi diventa vera e propria crisi da parte dell'uomo di cultura nero, il quale realizza in quel momento come il suo pubbli-co reale non pubbli-coincida affatto pubbli-con il suo pub-blico virtuale; veniva letto dagli europei ma non era stato letto dai concittadini per i quali credeva di avere scritto,analfabeti in percen-tuale che sì avvicinava al 100%. E in quel momento che molti dei nomi più famosi, tra i quali gli stessi Cesarie e Dadié, si consacra-rono per alcuni anni alla produzione di opere teatrali che, passando attraverso i media, ra-dio o televisione, riuscivano a raggiungere con il loro messaggio la massa; quando non si convertirono alla regia cinematografica.

Gli anni '70 hanno visto lo scrittore ri-prendere fiato muovendosi però con estrema

circospezione, quasi impastoiato da alcuni problemi di difficile soluzione immediata: la

trasformazione della maggior parte dei regi-mi nati dopo la vittoria anticolonialista in ve-re e proprie tirannie tenute in piedi dal parti-to unico e da forti apparati polizieschi repres-sivi; la constatazione che la classe dirigente, forse perché cresciuta alla scuola dei bianchi,

come assumeva il potere lo utilizzava quasi esclusivamente a fini personali; la ricerca di una identità culturale vagheggiata in un miti-co ritorno alla tradizione africana, assieme al-la presa d'atto delal-la impossibilità dì arrestare il processo di occidentalizzazione inconcilia-bile con la cultura tribale e di clan; continue ed inconsce interferenze della cultura euro-pea che vanno dall'assimilazione del modello marxista applicato secondo i sacri testi a una costante presenza di modelli culturali che fanno continuo riferimento a tutti i mostri

sa-M.

J. M. G, Clézio

DESERTO

L'affascinante storia di una donna stupenda e ostinata alia disperata ricerca delle proprie radici.

cri europei da Aristotele a Sartre passando per tutti gli autori studiati presso i maestri france-si nei licei e nelle univerfrance-sità.

Da qui la situazione di stallo, di aporia che spesso diventa incapacità di recupero nei confronti della cultura della foresta. Si assiste quindi da una parte all'invocazione della ne-cessità di riesumare i costumi degli avi, dall'altra all'impossibilità, o alla delusione che queste usanze impongono alle menti più sveglie e sensibili. Tanto che sono rilevabili veri e propri giochi di specchi laddove, come in Senegal, la primitiva cultura animista ha subito un secolo di contrazione da parte di quella mussulmana che si era imposta nella prima metà dell''800, e tutte e due sì

scontra-no ora con la pressione della cultura occiden-tale, creando un vero e proprio caos dal quale non è facile emergere, anche perla mancanza di uno strumento linguistico autonomo, quel francese d'Africa, arricchito cioè dal lessico e

dalle strutture locali, che ancora non è nato. Ma se dobbiamo giudicare dalle proposte che vengono da quei paesi, esistono le premesse di una prossima rinascita.

dos novos poetas de Angola, pro-mossa dal Movimento dosjovens In-telectuais de Angola. La parola d'or-dine era: "Vamos descubrir Ango-la!". L'anno dopo esce a Lisbona, sotto l'egida della Casa dos Estudan-tes do Impèrio, una nuova antologia collettiva dal titolo Poesia em Mogambique. Nel 1953 Mario de Andrade, insieme con il poeta di Sào Tomé Francisco José Tenreiro, cura l'edizione di Caàerno da Poesia Negra da Expressào Portuguesa, pri-ma antologia della letteratura dell'Africa lusofona. L'immagine ri-corrente della Madre-Africa, della Madre-Negra si costituisce come simbolo di amore e di esaltazione della propria terra. Si fondono in es-sa i ricordi dell'infanzia, la fraternità razziale, l'identità etnica e cultura-le. Nei loro versi, a un sentimento di amrezza e di disillusione si accompa-gna l'orgoglio razziale. Del 1963 è l'antologia Poetas de S. Tomé e Principe a cura di Alfredo Margari-do.

Durante il periodo della guerra

di quattordici anni nel campo di concentramento di Tarrafal (Cabo Verde).

Luandino Vieira è senza dubbio una delle figure più rappresentative della narrativa africana e stupisce che nessuna delle sue opere sia stata finora tradotta in Italia. Con singo-lare semplicità e uno stile particola-rissimo parla della propria terra, ora ricorrendo a un autobiografismo di una realtà, più che vissuta, desidera-ta (Nós, os do Makulusu), ora soffer-mandosi nella descrizione di una vi-ta vissuvi-ta collettivamente, racconvi-ta- racconta-ta con il ritmo della narrazione orale e popolare. In ogni gesto, in ogni parola dei suoi personaggi sopravvi-vono le lontane origini della civiltà africana. L'incontro tra due memo-rie, quella letteraria del colonizzato-re e quella orale del colonizzato, è regolato nello spazio testuale di Luuanda dalla presenza di una scrit-tura caratterizzata da ricorrenti in-versioni sintattiche e morfologiche, affascinanti neologismi e, soprattut-to, dalla presenza di numerosi

pre-lismo. Agostinho Mendes de Carval-ho, che si firma col nome Kimbun-do di Uanhenga Xitu, nelle pagine di Maka na Sanzala (1979), Boia com Feitico (1974), Manana (1974) compie un'operazione di trasforma-zione dei valori convenzionali della tradizione letteraria occidentale ade-guandoli all'estetica africana. Su questa stessa linea di trasformazione e rinnovamento dei modelli tematici ed espressivi si caratterizza una vasta produzione della narrativa angola-na.

Vincenzo Buonassisi

IL NUOVO CODICE

DELLA PASTA

In un ricchissimo e aggiornalo volume oltre 1300 ricette per i più classici, i più raffinati e i più nuovi piatti a base di pasta.

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I N . 9 pag. 8

Il Salvagente

L'ultimo bastione bianco

di Alessandro Triulzi

J.M. COETZEE, Aspettando i bar-bari, Rizzoli, Milano 1983, ed. orig. 1980, trad. dall'inglese di A. Veraldi, pp. 181, Lit. 13.000.

Ignoto al pubblico, ignorato dalla critica, si va impolverando sugli scaf-fali delle librerie in Italia un'opera che all'estero ha incontrato uno straordinario e meritato favore, Aspettando i barbari di J.M. Coet-zee. Coetzee è, con Nadine Gordi-mer, uno degli scrittori più innovati-vi della ricca produzione letteraria sudafricana di questi ulitmi anni, un autore di cui in Italia si è cominciato a parlare solo in seguito al premio concesso a Venezia al film belga Du-st di Marion Hànsel, riduzione cine-matografica in chiave edipica di un suo appassionato romanzo, In the Hearth of the Country (1977), un'opera accentrata sulla difficoltà per Magda, la protagonista, di co-struire, in una sperduta fattoria ai margini del deserto sudafricano, un rapporto prima col padre, che ucci-de, poi con il servo negro che la sde-gna e la ferisce fino alla pazzia.

Tornare oggi su Aspettando i bar-bari pare a me opportuno. Non è mio compito, né mia intenzione, va-lutare il valore letterario di questo li-bro. Altri, spero, vorranno farlo me-glio di me. Vorrei solo accennare qui, quale lettore fedele delle opere di Coetzee, "testimone partecipan-te" del dramma sociale, umano e razziale che si sta svolgendo oggi in Africa australe, che romanzi quali questo in esame o quelli, più cono-sciuti, di N. Gordimer, sono non so-lo produzioni di straordinario vaso-lore letterario ma coniugano in maniera emblematica, nell'attuale situazione di crisi, passione civile e raffinata ar-te del narrare, impegno politico e at-tenzione umana, traducendosi spes-so in una forma narrativa quasi in via di estinzione, oggi, il romanzo politico.

Siamo qui lontani dal pesante rea-lismo, tipico della letteratura africa-na del dopoguerra africa-nata all'insegafrica-na della decolonizzazione e dell'indi-pendenza, dai toni spesso ingenui di tipo trionfalistico dove nazionali-smo, presa di coscienza politica e ri-scoperta delle proprie origini si me-scolavano spesso nella trattazione del fatto politico di per sé. Qui, co-me in Marquez o in Rushdie, la poli-tica traspare a tutto tondo, senza mai essere esplicitamente nominata, nella rappresentazione spesso allego-rica, onirica o fortemente simbolica, della realtà sociale espressa nella sua quotidianità di rapporti, di affetti, di situazioni e incontri apparente-mente minori. Questa rappresenta-zione in piccolo del grande dramma storico-politico che si va tragicamen-te svolgendo in Sudafrica non deve ingannare. Essa appare diluita nella rappresentazione letteraria, ma è in realtà tutta rappresa intorno a gran-di temi che sono, per gli attori invo-lontari che vivono all'interno del si-stema di dominazione-segregazione caratterizzato dall 'apartheid, i temi dominanti della loro vita, e dunque occasione e stimolo, per lo scrittore, di riflessione sulle molle di fondo dell'agire umano all'interno di tale sistema.

Aspettando i barbari è una dolo-rosa riflessione di Coetzee sui guasti sociali e morali cui conduce inevita-bilmente ogni società retta da prin-cipi di dominazione e assoggetta-mento. Il protagonista, un anonimo Magistrato con responsabilità di go-verno su una pigra cittadina di

fron-tiera ai margini di un fantomatico Impero assediato dai barbari, è un tipico "eroe" conradiano assalito dai dubbi e dalle ambiguità di chi deve difendere la legge e l'ordine dell'Impero contro gli assalti di un nemico più immaginato che reale, i "barbari" (i negri, i poveri, i

diver-legalità, il loro assoluto disprezzo e ignoranza verso il mondo dei barba-ri, e la loro incrollabile adesione alla politica imperiale, portano allo scompiglio, alla confusione morale e poi all'abbandono della città. Qui il Magistrato e pochi altri, relitti uma-ni sopravvissuti al vero attacco dei

mmmm

niali, contribuivano così all'alimen-tarsi di una mentalità di stato d'asse-dio e davano luogo alla legiferazione falsamente riformista e poi d'emer-genza che ha scatenato l'attuale crisi della società sudafricana.

Nel romanzo di Coetzee non vi sono riferimenti immediati al

Suda-Addis Abeba revival

Cinquant'anni fa, il 3 ottobre, aveva ini-zio la guerra d'Etiopia, una campagna che il regime fascista aveva preparato a lungo con dovizia di uomini e mezzi, e che doveva fini-re, dopo sette mesi di guerra (ma la guerriglia duretà fino al 1941) con la proclamazione dell'Impero. È dunque tempo di anniversari e di commemorazioni. L'avventura africana e stata ricordata in varie sedi con toni diversi ma con una caratteristica comune: il sostan-ziale rifiuto, così per l'Italia ufficiale come per i media che riflettono, o costruiscono, l'opinione pubblica, di un esame critico, una valutazione storica complessiva.

La strada prescelta per la commemorazio-ne è stata per lo più quella della ricostruziocommemorazio-ne per citazioni opposte: si procede a una cita-zione di una fonte, seguita da un 'altra di pa-rere diametralmente opposto, affidando al lettore una capacità di giudizio storico e di sintesi critica che è, o dovrebbe essere, compi-to dello scompi-torico provvedere. Tali appaiono le cinque puntate su "L'Impero del Duce " ap-parse su La Repubblica a cura di G. Vergani agli inizi di ottobre, e ancor più l'inserto "La guerra d'Etiopia " apparso su Storia illustrata a cura di alcuni storici e reduci del conflitto sul numero di settembre. Mentre La Repub-blica dà una versione puramente bellica del conflitto bilanciando con attenzione fonti, quasi tutte italiane, di storici contemporanei e di testimoni e partecipanti all'impresa sen-za entrare nel merito storico della questione, Storia illustrata, ha affidato a A. Del Boca, che sulla presenza italiana in Africa orientale ha scritto quattro poderosi volumi, un giudi-zio profondamente negativo sulla 'sporca guerra' subito seguito da una appassionata presa di posizione di F. Feliciani, presidente

dell'Associazione reduci e rimpatriati d'Afri-ca, che celebra acriticamente "il grande

even-to coloniale contemporaneo e il "solco di progresso e di civiltà" lasciato dall'Italia in Africa. Il risultato è, per il lettore, tanto con-fuso quanto ambiguo.

Parimenti ambiguo, a dir poco, risulta il servizio sui "naufraghi dell'Etiopia" di R. Brancolini sullo stesso numero di Storia illu-stra in cui l'a. si lascia andare a pronuncia-menti gratuiti contro "l'intera classe dirigen-te etiopica, notoriamendirigen-te inetta e corrotta " e riferisce apprezzamenti nostalgici di ex-combattenti sui "bei tempi dell''A 01", quan-do non apertamente razzisti ("Si, insomma sposai una 'scimmia ', cioè una donna etiopi-ca ") riferiti alle popolazioni dell'ex-colonia.

E altresì sintomatico che in un 'Italia per-corsa oggi da venature di stampo nazionalisti-co e da snazionalisti-coppi di intolleranza razziale per la crescente presenza di fuorusciti, lavoratori e studenti di colore nel nostro paese, la storio-grafia sulla campagna d'Etiopia sia rimasta a livelli di notevole approssimazione, mentre del tutto trascurato è il periodo di effettiva occupazione del paese, gli sconvolgimenti prodotti sulla società etiopica, la decimazione

degli intellettuali o la politica razziale del re-gime mirata a creare — senza molto successo in realtà — vere e proprie forme, oggi dimen-ticate, di apartheid nostrano. Leggere su La Repubblica che Badoglio celebrò la presa di Addis Abeba "con un uovo 'a la coque '"può essere forse indicativo dell'uomo, ma non ci dice nulla su ciò che la guerra fu e, ancor me-no, su ciò a cui portò. Tranne forse questi, non minori, residui.

(a.t.)

si?), e allo stesso tempo mantenere un illusorio margine di legalità e di dignità umana in una società la cui crescente militarizzazione e clima d'assedio porta a diffusi livelli di confusione morale, corruzione e vio-lenza che precludono ogni espressio-ne o manifestazioespressio-ne di umanità non alienata. La storia rappresentata da Coetzee narra infatti del progressivo imbarbarimento interno di una città, e dei suoi abitanti, tesi a com-battere e a difendersi dalla supposta barbarie che è al di fuori di essa; ma il nemico palese, gruppi di pastori nomadi impauriti e braccati dall'espansione dell'Impero sulle lo-ro terre, è dentlo-ro le mura cittadine, non fuori: si annida tra gli stessi cu-stodi della legge, i soldati della guarnigione, i coscritti irregolari ar-ruolati di forza a difesa della città-colonia, e soprattutto tra gli invasati funzionari degli Affari Speciali ("specialisti in movimenti sotterra-nei di sedizione, adoratori della ve-rità, dottori in interrogatori") che, con i loro metodi di oppressione e

il-barbari, quello scoppiato al suo in-terno, riprenderanno un'incerta vita al limite della sopravvivenza, fisica e morale, ai margini di ogni legge e valore umano.

Il romanzo, scritto nel 1980, è una chiara metafora sulla cittadella sudafricana, il bastione bianco arroc-cato nella difesa disperata di sé stes-so e via via inoltratosi verstes-so il vicolo cieco del nazionalismo e del massi-malismo più intransigente, legato allo "sviluppo separato" o apartheid con tanta più ostinazione quanto più alle sue frontiere, a partire dalla metà degli anni '70, i movimenti di liberazione angolano e mozambica-no, l'indipendenza dello Zimbabwe e la lotta tuttora in corso per la Na-mibia facevano cadere uno dopo l'altro i cordoni sanitari che fino ad allora avevano protetto la cittadella sudafricana e in qualche modo ga-rantito le sue frontiere. L'acuirsi del-la tensione interna in seguito aldel-la ri-volta di Soweto (1976-77), e l'inizio della guerra di liberazione ai confini non più presidiati da governi

colo-frica: la cittadella di frontiera non ha nome, come non lo ha l'Impero, il Magistrato Civile o la ragazza barba-ra distrutta nel corpo e negli affetti dalla tortura con cui invano egli ten-ta di allacciare un impossibile rap-porto di amore-espiazione. La stessa situazione razziale è presente nel li-bro solo come rappresentazione me-taforica: i barbari sono popolazioni non identificate razzialmente; sono primitivi perché diversi, barbari perché si rifiutano di parlare la lin-gua dell'Impero, pericolosi perché si sottraggono alla sua logica di domi-nio e di omologazione. Così \apar-theid viene denunciato nel suo aspetto inconscio più che nelle sue manifestazioni esteriori, nella sua attrazione per un mondo a scompar-ti, ordinato, "civile", che rifiuta l'io selvaggio che è ognuno di noi, l'io diviso, il nostro cuore di tenebra, apartheid interiore che sonnecchia e sussulta ben oltre i confini geogra-fici e umani del Sudafrica. La demo-nizzazione degli altri-da-noi espri-me a livello inconscio quest'ansia e

la codifica in un potente immagina-rio sociale: "Non c'è donna che vive lungo la frontiera che non si sia so-gnata d'essere afferrata per la cavi-glia da una nera mano barbara spun-tata da sotto il letto; non c'è uomo che non si sia spaventato a morte im-maginandosi un'incursione di bar-bari in casa sua, con piatti e vasella-me rotti, tende incendiate e figlie violentate. Questi sogni e visioni so-no la diretta conseguenza di una vita troppo agevole" (p. 15).

Il richiamo alla dimensione socia-le del dramma sudafricano è ovvio, ma non è tutto: la metafora è assai più ampia della realtà cui si ricolle-ga; la stessa estraniazione dalla realtà storica, il non dare nomi, raz-ze o identità storiche compiute ai propri personaggi è un invito a ri-flettere sul tema nudo e scarno di un'umanità che vive ormai ai margi-ni di sé stessa: "Un solo pensiero oc-cupa la mente sommersa dell'Impe-ro: come non finire, non morire, co-me prolungare la propria era. Di giorno perseguita i suoi nemici (...). Di notte si nutre d'immagini di di-sastri (...). Una visione folle e tutta-via contagiosa..." (p. 156). Di que-sta folle visione il Magistrato Civile non è meno affetto del Colonnello torturatore degli Affari Speciali: "Io ero la menzogna che l'Impero rac-conta a sé stesso quando tutto è faci-le, lui invece la verità che l'Impero si racconta quando i tempi sono duri. Due aspetti della regola imperiale, né più né meno" (p. 158).

E questa "regola" che impedisce il confuso rapporto di vicinanza e di amore che il Magistrato cerca invano di suscitare dentro di sé prima anco-ra che nel corpo e negli affetti della ragazza barbara torturata; il suo non è e non può essere un rapporto d'amore ("la distanza, la differenza tra me e i suoi aguzzini è, mi rendo conto, trascurabile"), ma solo un ri-to d'espiazione verso "un corpo martoriato, cicatrizzato e storpiato". Il suo infine dire "No!" a un'ennesi-ma efferatezza degli Affari Speciali, e la conseguente tortura inflittagli per la sua ribellione, sono un altro tardivo esempio di espiazione, tragi-co nella sua futilità di gesto indivi-duale anche se pregno di valore sim-bolico, così come non può ravvivare l'ambiguo rapporto del Magistrato con la ragazza barbara il suo "insen-sato" ma tragicamente simbolico ge-sto di ricondurla alla sua gente. Così il Magistrato, in una città resa deser-ta da un incombente quanto impro-babile attacco dei barbari, rannic-chiato nella sua pelle d'orso a prote-zione di un freddo che è interiore, si accinge a scrivere gli annali dell'"ul-timo avamposto dell'Impero" ormai distrutto dal guasto interno più che da un attacco esterno: "Volevo vive-re fuori della storia. Volevo vivevive-re fuori della storia che l'Impero impo-ne ai suoi sudditi, anche quelli per-duti (...). Qualcosa mi ha guardato in faccia e io ancora non la vedo" (p. 180). Terribile testimonianza dall'interno sulla cecità di un siste-ma che, per sopravvivere, può solo non vedere ciò che gli ruota intorno, ciò che lo distrugge dentro.

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