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L'Indice dei libri del mese - A.11 (1994) n.09, ottobre

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(1)

Gian Giacomo Migone

Vìndice puntato sull'Indice

m

Giuseppe Sergi

Il talento di Federico Barbarossa

Gustavo Zagrebelsky

Il mosaico di Levi della Torre

m

Delia Frigessi

Giovani "marginali" a Torino

Filippo Maone

Editoria e TV secondo Santaniello

* •

Riletture

Lidia De Federicis

Dacia Maraini, Isolina

Alberto Papuzzi

Leonardo Sciascia, Il contesto

M

Cesare Cases

Il giallo in latino

Tullio Regge e Martino Lo Bue

Albert Einstein

John Ashbery

nella Musa commentata

(2)

R E C E N S O R E • A U T O R E • T I T O L O

5

L'Indice puntato

di Gian Giacomo Migone

6

Storia e Società

Giuseppe Sergi

Ferdinand Opll

Federico Barbarossa

Guido Castelnuovo

Jacques Krynen

L'empire du roi

7

Franco Ferraresi

Carlo Mazzantini

A cercar la bella morte

8

Gustavo Zagrebelsky

Stefano Levi della Torre

Mosaico. Attualità e inattualità degli ebrei

Delia Frigessi

AA.VV.

I giovani a bassa scolarità in

due quartieri torinesi

Renato Monteleone

William Sheridan Alien

Come si diventa nazisti

10

Filippo Maone

Giuseppe Santaniello

Relazione al Parlamento sullo stato

dell'editoria per l'anno 1993

Relazione annuale al Parlamento per la

radiodiffusione al 31 marzo 1994

12

Letteratura

m

Narratori italiani

13

14

Lidia De Federicis

Marco Revelli

Alberto Papuzzi

Lore Terracini

Cesare Cases

Dacia Maraini

Antonio Pennacchi

Leonardo Sciascia

Carlo Picchio

Danila Comastri Montanari

Isolina

Mammut

Il contesto

Il pretore

Vacanze romane

15

Claudio Gorlier

Herman Melville

Moby Dick

17

Intervista

La grande insalata, John Ashbery risponde a Franco Marenco

18

La Musa commentata

John Ashbery: autoritratto postmoderno, di Franco Marenco

20

Dario Voltolini

William Least Heat-Moon

Prateria

Alessandro Baricco

Georges Simenon

Il defunto signor Gallet

La ballerina del Gai-Moulin

37

Mariolina Bertini

Mario Lavagetto

La cicatrice di Montaigne

Dario Puccini

Alvaro Mutis

Amirbar

39

Gabriel Garci'a Màrquez

Taccuino di cinque anni, 1980-1984

21

Inserto schede

39

Cinema

Sara Cortellazzo

Antoine de Baecque

Assalto al cinema

Gianni Rondolino

Yasha David

£ Bunuel! Auge des Jahrhunderts

R E C E N S O R E

A U T O R E

T I T O L O

Norberto Bobbio

D E S T R A E S I N I S T R A

Ragioni e significati

di una distinzione politica

con prefazione dell'autore alla seconda edizione pp, 144 L-16.000

Albert O. Hirschman

P A S S A G G I D I F R O N T I E R A

I luoghi e le idee di un percorso di vita

p p . % L. 15.000

Sergej S. Averincev

A T E N E E G E R U S A L E M M E

Contrapposizione e incontro

di due principi creativi

Traduzione di Raffaella Belletti pp. 64 L. 12.000

SAGGI

bC

Franco Crespi

I M P A R A R E A D E S I S T E R E

Nuovi fondamenti

della solidarietà sociale

pp. 128 L. 28.000

Marcello Fedele

D E M O C R A Z I A R E F E R E N D A R I A

L'Italia dal primato

dei partiti al trionfo

dell'opinione pubblica

pp. 192 L. 35.000

I N T E R V E N T I

M

ì *

Gianmatteo del Brica

L E T T E R E A B E L F A G O R

ricevute da Giulio Ferroni

PP. 160 L. 16.000

Alessandro Galante Garrone

I L M I T E G I A C O B I N O

Conversazione su libertà

e democrazia

raccolta da Paolo Borgna

pp. 112 L. 16.000

(3)

o m m a n

R E C E N S O R E • A U T O R E

T I T O L O

40

t

• Arte

Enrico Castelnuovo

Anna Ottani Cavina

I paesaggi della ragione

Adalgisa Lugli

AA.VV.

Naufragi nel movimento dell'arte

41

Luigi Mazza

Donald A. Schòn

Il professionista riflessivo

43

Antropologia

Giovanni Filoramo

Daniel Friedmann

I guaritori

Franco Voltaggio

L'arte della guarigione nelle culture umane

44

Economia

Gian Luigi Vaccarino

Giancarlo Morcaldo

La finanza pubblica in Italia

Daniele Franco

L'espansione della spesa pubblica in

Italia (1960-1990)

Mario Baldassarri,

Franco Modigliani (a cura di)

Italia '93: dalla tempesta alla grande

occasione

Dino Pesole

La vertigine del debito pubblico

Riccardo Bellofiore

Giovanni Mazzetti

L'uomo sottosopra

45

Pierluigi Ciocca, Giangiacotno Nardozzi

L'alto prezzo del danaro

46

Filosofìa

m

Diego Marconi

Richard Rorty

Scritti filosofici I

Anna Elisabetta Galeotti

Ronald Dworkin

Il dominio della vita

Dario Voltolini

Andrea Bonomi

Lo spirito della narrazione

47

Cesare Pianciola

Jacques Derrida

Spettri di Marx

49

Scienze

Enrico Alleva

Luca Landò

Ne ho ammazzati novecento.

Confessioni di un tagliatore di teste

Renzo Tomatis

Il laboratorio

Aldo Fasolo

Simon LeVay

Le radici della sessualità

51

Alberto Conte

Laura Toti Rigatelli

Matematica sulle barricate

52

Tullio Regge

Abraham Pais

"Sottile è il Signore..." La scienza e la

vita di Albert Einstein

Martino Lo Bue

Alan Lightman

Einstein's Dreams

53

Psicologia, psicoanalisi

Piergiorgio Battaggia

Giordano Fossi

Psicologia dinamica

Anna Viacava

Stefania Turillazzi Manfredi

Le certezze perdute della psiconalisi clinica

55

Lettere

R E C E N S O R E

A U T O R E

T I T O L O

BIBLIOTECA

bC

MkZEUi fnriuHF

Joseph de Maistre

N A P O L E O N E ,

LA RUSSIA, L'EUROPA

Dispaccila Pietroburgo 1811-1813 Introduzione e cura di Ernesto Galli della Loggia pp, 260 L. 42.000

iVntonio Pennacchi

MAMMUT

pp. 160 L. 25.000

Ersi Sotiropoulos

MEXICO

Traduzione di Paola Maria Minucci pp. 80 L. 22.000

RIVISTE

DONZELLI EDITORE. LIBRI DI IDEE

(4)

1995.

Ci preferite così o così?

Pari..., scriv...,

leg...., critic...,

polemizz..., poet...,

afferm..., teoriz....,

dialog..., sost ,

stronc..., analiz....,

dibat...., approf. ,

riassu...., recen....,

commen...., scopr...,

conosc..., interes

Abbo

All'Ind....

Parlare, scrivere,

leggere, criticare,

polemizzare, poetare,

affermare, teorizzare,

dialogare, sostenere,

stroncare, analizzare,

dibattere, approfondire,

riassumere, recensire,

commentare, scoprire,

conoscere, interessare.

Abbonarsi.

All'Indice.

Come ha fatto negli ultimi 10 anni, anche nel 1995 l'Indice

parlerà e recensirà chiaro, senza censure o timori di sorta.

E, in più, il 1995 riserva due piacevoli sorprese a chi si abbona

all'Indice: il prezzo dell'abbonamento rimane bloccato, per il terzo

anno consecutivo, a sole 70.400 lire (vedere modalità di pagamento

a pagina 55) e ogni abbonato riceverà un tesserino sconto del 15%

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Come non preferire un abbonamento così?

L'INDICE

H H D E I L I B R I D E L M E S E R H

Come un vecchio libraio.

Dove trovare le Librerie Messaggerie:

(5)

OTTOBRE 1994

DEI LIBRI DEL M E S E

N. 9, PAG. 5

L'Indice puntato

Per una volta punteremo l'indice su noi

stes-si, naturalmente in segno di approvazione.

Sono passati dieci anni, dieci anni esatti, da

quando uscì il primo numero de "L'Indice". Fu

un'affermazione immediata, come direbbe il

signor Rospo di Villa Rospina.

Un'affermazio-ne della grafica, del Foucault di Pericoli in

co-pertina, persino dei contenuti, debitamente

controversi. Pierre Bourdieu, signore

notoria-mente poco accomodante, era già con noi,

co-me recensore del libro del co-mese. Poi è tornato

come direttore di "Liber". Il decalogo per i

re-censori di Cesare Cases irritò molti — a destra

ma soprattutto a manca — per la sua

ripu-gnanza nei confronti della papiniana

stronca-tura, allora diffusamente invocata. All'interno

del numero convivevano, tra gli altri, una

Rossanda su Ford Madox Ford — fedelissima

a una consegna che da un decennio ci aveva

fatto sognare un "TLS italiano": innanzitutto

descrivere l'oggetto, cioè il libro —-, un classico

della sinistra torinese (le schedature Fiat di

Bianca Guidetti Serra, recensita dal

sottoscrit-to) e un lungo articolo in cui Massimo Severo

Giannini scandalizzava molti lettori e anche

redattori invocando profeticamente riforme

istituzionali\ separazione dei poteri, repubblica

presidenziale, in nome di Piero Calamandrei.

Le schede erano ancora una sorta di

prezzemo-lo che cospargeva l'intero numero. Insomma

fu il successo di una formula — sancito da un

boom di vendite e dalla malcelata invidia di

amici intellettuali che non avevano partecipato

all'impresa — che conteneva in sé una serie di

ingredienti a cui siamo rimasti nel decennio

forse fin troppo fedeli.

La vigilia fu caotica e non priva di ansie.

Eravamo tutti inesperti, se non di riviste, per

lo meno di una rivista giornalisticamente e

graficamente così complessa come quella che

avevamo ideato. Per fortuna c'era un

coman-dante di macchina — Filippo Maone — che

sapeva muovere la nave, anche quando quello

di coperta e gli altri ufficiali sembravano aver

perso la bussola. Ricordo una notte insonne

trascorsa a correggere e a stendere bozzoni sul

pavimento del soggiorno di casa Maone,

per-ché la tipografia l'indomani avrebbe atteso

inesorabile. Maone, che non credeva a una mia

vocazione letteraria o puramente culturale, tra

un titolo e un refuso mi chiedeva quale

inizia-tiva o messaggio politico intendessi lanciare

sotto le spoglie così asettiche e pluralistiche di

quella formula.

La risposta era ovvia. Il mezzo era il

messag-gio. C'era già Berlusconi, anche se il suo

Gio-vanni Battista non si era ancora rifugiato ad

Hammamet ma deteneva il potere di Palazzo

Chigi. Sarebbe stato troppo poco, allora e oggi,

limitarci ad alzare la nostra voce contro un

po-tere fondato su un clamore che ha diffuso il

sonno del pensiero, della memoria e delle

co-scienze. Noi immaginiamo lettori adulti che

non hanno bisogno di essere imboniti o

galva-nizzati (.semmai stimolati dall'ironia del

diret-tore attuale che non è torinese). Lo scopo è

quello di informarli, aiutandoli a scegliere nel

flusso sempre più informe di carta stampata,

contaminato da affermazioni gratuite, insulti,

pettegolezzi, propaganda, potacci e

sbrode-ghezzi. Gli strumenti sono l'informazione, un

ragionamento che discerne, collega, ricorda; la

discussione dei testi, una varietà di opinioni,

con un poco di competenza che non esiste in

astratto, ma è sempre riferita a un oggetto che,

nel nostro caso, è un libro. Non è merito

no-stro se questa assurda pretesa di pensare

appa-re come il segno di una volontà di cambiaappa-re il

mondo (o almeno l'Italia).

(6)

I D E I LIBRI DEL M E S E I

OTTOBRE 1 9 9 4 - N . 9 , P A G . 6

Rosso, vincente e convincente

di Giuseppe Sergi

F E R D I N A N D O P L L , Federico Barba-rossa, Ecig, Genova 1994, ed. orig.

1990, t r a d . dal t e d e s c o di R o b e r t a Castrucci, pp. 404, Lit 40.000.

Il c r o n i s t a m e d i e v a l e O t t o n e di Frisinga dice del padre del Barbarossa che "portava sempre con sé un castel-lo, appeso alla coda del suo cavallo". Una bella immagine che prepara a un carattere d o m i n a n t e di Federico, il "suo caratteristico modo di governare viaggiando da palazzo a palazzo, da castello a castello, da città a città". Delle due parti (La vita e l'opera e

Con-nesioni strutturali) che costituiscono il

libro di Opll, la prima si può leggere come un racconto appassionante non solo perché lo storico viennese è bravo a usare gli stilemi della biografia classi-ca, ma anche perché le vicende narrate ci conducono in ogni parte d'Europa e implicano continui mutamenti di sce-na. Le f o r t u n e della famiglia di Federico seguirono le scansioni nor-mali della politica successiva al Mille: prima signori nel comitato teutonico di Ries, poi conti palatini in Svevia, se-guaci del re Enrico II, avevano una posizione di rilievo già a metà del se-colo XI. E normali risultano anche gli ingredienti della loro potenza: ampie basi patrimoniali (in due regioni lonta-ne fra loro, la Svevia e l'Alsazia), anco-raggio a un principale castello di fami-glia, in piena proprietà e al sicuro da confische (il castrum di Staufen), fon-dazione e protezione di un ente reli-gioso che attirasse il consenso sociale sul gruppo parentale (il monastero di Lorch). Tutte queste precondizioni si trovano già due generazioni prima di Federico; il padre si avvicinò poi ulte-riormente al centro del potere e, dopo il 1125, quando la dinastia imperiale "salica" si era estinta, gli Staufen era-no ormai nel era-novero dei candidati alla successione. Un biografo di grande cultura, Wibaldo di Stavelot, attribui-sce a Federico virtù di maniera (la ge-nerosità con i giusti e la durezza con i malvagi) ma insiste in particolare sul connubio fra doti marziali e lo "spic-cato talento retorico nella lingua ma-dre" (a questo proposito a p. 358 un errore di stampa ci fa leggere "fecon-d o " invece "fecon-del corretto "facon"fecon-do"): insomma, vincere e convincere erano le due attività in cui riusciva meglio quell'imponente personaggio, rosso di incarnato e di pelo, il cui soprannome "Barbarossa" nacque fra gli italiani e fu poi adottato anche dai tedeschi. Ma non sarebbe stato altrettanto vincente e convincente senza una grande fortu-na (messa in rilievo da vari biografi e in particolare da Acerbo Morena), in-nestata su una solida rete di relazioni che gli derivavano, oltreché dalla tra-ma già intessuta dai predecessori, dal-lo s f r u t t a m e n t o della parentela (da parte di madre) con la potente fami-glia dei Welfen (i guelfi). I buoni rap-porti con questa famiglia e con Enrico il Leone gli garantirono l'obbedienza di due regioni importanti, la Sassonia e la Baviera, che solo nel 1180, grazie alla forza ormai accumulata, sottrasse all'ex alleato Enrico per disporne di-rettamente.

Le pagine di Opll sono bilanciate fra le vicende politico-militari a nord delle Alpi e Vltalienpolitik. Il regno teutonico non è quel luogo nebuloso in cui il Barbarossa si perdeva, secon-do le storie tradizionali di impostazio-ne "italiana", alla fiimpostazio-ne di ogni sua im-presa nella penisola. È il teatro di un potenziamento regio realizzato con mezzi collaudati (il consenso dei prìn-cipi, le isolate prove di forza, la politi-ca di equilibrio) e poi arricchito con una nuova "idea imperiale": ne fu teo-rico G o f f r e d o da Viterbo, ascoltato consigliere, secondo cui la volontà di-vina non si manifestava tanto con il p e r c o r s o e l e t t i v o v e r s o la c o r o n a quanto, invece, con l'ereditarietà di sangue e la predestinazione dell'impe-ratore. In tutto il medioevo il titolo im-periale spettava a chi era re d'Italia: e gli e p i s o d i p i ù noti della s t o r i a di Federico sono collegati alla sua

vo-lontà di esser appieno " r e d'Italia", non dipendono da un astratto disegno imperiale o dalla logica di conquista da parte di un tedesco oppressore con-trario a inesistenti istanze nazionali ita-liane. Opll valorizza, sì, il confronto fra la politica italiana e quella tedesca del Barbarossa, ma ci mostra l'impera-tore in movimento su tutto lo scac-chiere europeo, quindi anche nei rap-porti con la Borgogna, con la Polonia, con la D a n i m a r c a . Ma è po i f u o r i dell'Europa che si conclude la vita di

Federico: nel 1190, sul fronte crociato, a Seleucia, dopo il bagno in gelide ac-que. Secondo un'usanza funebre, per noi fastidiosa ma allora riservata ai so-vrani, la sua salma fu fatta bollire e le carni separate dalle ossa: le carni no inumate ad Antiochia, le ossa furo-no trasportate a Tiro e da quel mo-mento se ne persero le tracce.

Nella seconda parte, quella costrui-ta per problemi, il lettore incontra pa-gine più vicine a quelle a cui la storio-grafia degli ultimi anni l'ha abituato. Il giudizio di fondo di Opll è che ci tro-viamo di fronte a "un grande talento politico" che costruì la sua potenza "unendo metodi tradizionali, arricchi-ti di nuovi contenuarricchi-ti e di nuovo dina-mismo, a strumenti politici creati ex novo".

E giustamente attribuito a Federico un "consapevole impiego di tutte le potenzialità del feudalesimo". Siamo in quel secolo XII che tradizionalmen-te è ritradizionalmen-tenuto meno feudale rispetto alle età precedenti, sia perché in alcune re-gioni si realizzò lo sviluppo comunale, sia perché si ebbe una ripresa di poteri

di prìncipi e re con tendenza alla ri-composizione territoriale. Ma quelli e r a n o giudizi s upe rfi c i a l i, nati da un'errata equazione feudalesimo = si-gnoria = frazionamento, un'equazione tanto estranea a Opll da non attrarre neppure sue esplicite contestazioni. Per lo storico viennese il feudalesimo è un sistema di raccordi personali, di na-tura militare, utilissimo proprio nelle fasi di costruzione. Si tratta di mecca-nismi ben radicati nella tradizione ger-manica che p e r lo più e r a n o usati

spontaneamente nel contesto sociale e che negli anni di Federico, anziché la-sciare il passo ad altri strumenti più "pubblici", si diffusero in modo siste-matico e si coniugarono senza traumi con le concezioni statuali suggerite dalla riscoperta del diritto romano. Certo, talora Federico appare "in una condizione di vera d i p e n d e n z a dai prìncipi e dal loro aiuto armato", ma è interessante rilevare che anche nel re-gno teutonico non fu affatto un primus

inter pares: il principio di regalità era

accettato da tutti i potenti, anche se "i vincoli feudali plasmavano in profon-dità l'intera compagine dell'impero". I feudi si prestavano a essere premio, così come la loro sottrazione si presta-va a essere punizione: la feudalizzazio-ne aveva raggiunto una diffusiofeudalizzazio-ne e una politicità impensabili negli anni carolingi e ottoniani, quando era mol-to raro che una concessione feudale avesse contenuti giurisdizionali e tra-smettesse potere al vassallo.

In momenti famosi della storia del secolo XII (la dieta di Roncaglia, la pa-ce di Costanza) lo strumento feudale si

rivelò idoneo anche per regolare i rap-porti fra due istituzioni distanti come il regno e i comuni. I comuni italiani poterono continuare a riscuotere le

re-galie (gli introiti fiscali pubblici da

tempo in mano alle forze signorili lo-cali, ma ufficialmente di competenza regia) perché si riconobbero vassalli — vassalli collettivi — del re d'Italia Federico Barbarossa: quelle riscossio-ni corrispondevano al beneficio

(feu-dum) che il re concedeva in cambio

della fedeltà. È una soluzione che può

stupire solo chi sia ancora legato a un'immagine tutta "borghese" dei co-muni cittadini italiani. Certo una com-p o n e n t e mercantile era com-presente in molti comuni, alcuni ne erano caratte-rizzati (se pur non nelle proporzioni che Pirenne aveva riscontrato nelle città delle Fiandre o Dollinger in quel-le anseatiche del Nord Europa), ma quel-le ricerche degli ultimi decenni hanno messo in luce una "partecipazione so-stanziale e caratteristica" delle grandi aristocrazie al primo governo dei co-muni italiani. Alcuni di quegli aristo-cratici erano i grandi vassalli dei vesco-vi (capitane!, più corretto del "capita-ni" qui usato nella traduzione), e non ci si può dunque stupire se, attraverso di loro, la mentalità vassallatico-feuda-le filtrava in tutto il mondo comunavassallatico-feuda-le, risultava familiare ai vertici dei comuni e si prestava a essere terreno d'incon-tro fra i contendenti.

Il comune stesso aveva spesso fatto ricorso a legami vassallatico-beneficia-ri per assoggettare signovassallatico-beneficia-ri del contado, e non lontani dal modello feudale era-no anche i patti di habitaculum, con i

quali il comune costringeva le famiglie signorili ad avere casa in città, a risie-dervi (almeno formalmente) per parte dell'anno, e ad accettare d u n q u e il controllo politico e fiscale della diri-genza del comune. Questi chiarimenti sulle strutture, fornitici dall'autore, escludono dunque che Federico po-tesse essere il campione di una riscossa della "feudalità" rispetto alla novità ri-voluzionaria costituita dal comune. In G e r m a n i a aveva, di tanto in tanto, conflitti con prìncipi territoriali ambi-ziosi. In Italia i prìncipi territoriali era-no, in fondo, i comuni: e il Barbarossa, nella sua qualità di re d'Italia, fece di tutto per ridurli all'obbedienza o — nei momenti di debolezza del regno — per trovare con essi un modus vivendi. Non a caso in Borgogna (dove, anche, era titolare in prima persona della co-rona regia) Opll constata che Federico non era affatto pregiudizialmente osti-le alosti-le autonomie comunali. Non a ca-so in Germania si trovano tracce di una politica regia di favore verso le co-munità urbane, e le "città imperiali" diventarono perni sia dell'organizza-zione del consenso, sia dell'assetto ter-ritoriale. I vescovi non costituivano, negli anni di Federico, una categoria analizzabile in m o d o c o m p a t t o . In Italia stavano vivendo una fase di tran-sizione: alcuni rinsaldavano i buoni rapporti con i comuni (che potevano essere della Lega lombarda o filoimpe-riali), altri si schieravano in ogni caso dalla parte dell'imperatore. In Borgo-gna in particolare Federico fece uso si-stematico dei vescovi amici, utilizzan-do spesso il loro tramite p e r le sue aperture verso le comunità cittadine.

Opll ci offre i riusciti ritratti di alcu-ni veri grandi amici dell'imperatore. Come il fedelissimo conte Rodolfo di Pfullendorf, confidente prezioso che non fece più ritorno da un pellegrinag-gio in Terrasanta nel 1180. O come il marchese Guglielmo di Monferrato, a cui addirittura lasciò in custodia il fi-glio di pochi mesi. Ma nelle ambizioni di Federico c'era anche quella di af-fiancare, alla rete di consensi acquisita con mezzi vassallatici, una rete di uffi-ciali di sua nomina, in grado con la lo-ro stessa esistenza di attestare il peso e la capacità d ' i n t e r v e n t o del regno. Ecco perché nel secolo XIII incontria-mo conti nuovi, nominati dal Barba-rossa senza troppo tener conto delle tradizioni dinastiche. Talora (come nel caso di Guglielmo di Aquisgrana no-minato conte di Siena) l'area di reclu-tamento era quella dei ministeriales, funzionari minori di origine spesso se-miservile, che secondo Opll "trassero dagli incarichi e dai compiti loro con-feriti un tale tesoro di esperienze da apparire spesso come gli interpreti ideali della politica staufica".

Opll apre il libro dicendo di voler sfuggire alle contrapposizioni che, nel-la storiografia passata, avevano fatto di Federico un simbolo della grandezza dei tedeschi o, al contrario, della loro aggressività; e, ovviamente, di volersi sottrarre anche all'immagine risorgi-m e n t a l e dei c o risorgi-m u n i italiani c o risorgi-m e "gruppo compatto e monolitico" con-trapposto allo straniero. E lo chiude senza alcuna simpatia (qui va contro-corrente rispetto a tendenze attuali) nei confronti delle leggende successive alla morte del Barbarossa, perché le leggende "coprono e addirittura impe-discono la chiara visione dei fatti sus-seguitisi in un'epoca fondamentale per la storia medioevale europea". Si pos-s o n o c o n d i v i d e r e i giudizi di O p l l che — a differenza di noi che siamo più lontani e avvertiamo un certo fa-scino — è freddo rispetto al mito di un Federico non davvero morto, ma na-scosto sul monte di Kyffhàuser (sopra Tilleda), o in anfratti presso Salisbur-go o presso Kaiserslautern, pronto a tornare un giorno fra gli uomini per "restaurare nell'impero l'ordine e il di-ritto". Noi, di questi tempi, non ne possiamo più della reinvenzione del carroccio; un austriaco intelligente non ne può più della strumentalizza-zione di un grande re.

Da Tradurre

I puntelli della corona

di Guido Castelnuovo

J A C Q U E S K R Y N E N , L'empire du roi. Idées et croyances politiques en France, XIIIe-XVe siècle,

Gallimard, Paris 1993, F F 205.

Al lettore italiano che desideri accrescere il pro-prio patrimonio di conoscenze sul medioevo, que-sto libro offre una duplice opportunità. Nel rin-tracciare, con acume e attenzione, le principali li-nee di tendenza della scienza politica francese tra Due e Quattrocento, esso consente, prima di tut-to, di collocare i più noti sviluppi italiani, dalle glosse dei giuristi bolognesi — riscopritori e diffu-sori del diritto romano a partire dalla fine dell'XI secolo —, all'attività dei podestà comunali due-centeschi — veri professionisti della politica —> sino alle riflessioni di Marsilio Ficino, in un più ampio orizzonte europeo. Il quadro politico nel quale operano questi intellettuali (giuristi, filoso-fi, teologi) è certo differente: qui, nell'Italia cen-tro-settentrionale, un'espansione comunale cui se-gue lo sviluppo di principati regionali; là, nello spazio francese, la lenta formazione di una monar-chia territoriale e nazionale. Ma proprio la ric-chezza e l'interesse della riflessione transalpina sulla fisionomia del potere mettono in risalto un secondo punto fondamentale, su cui si costruisce la vera ossatura del libro: il ruolo che gli autori e i diffusori di tali strumenti politici e culturali ebbe-ro nella formazione di uno stato moderno fondato sul potere regio. Un potere, quello monarchico, che sin dal XIII secolo si dotò, proprio grazie agli sforzi e alle riflessioni di questi suoi "servitori in-• tellettuali", di un'armatura propagandistica, ideo-logica e amministrativa in grado di radicare, nel tempo e nello spazio, la sua superiorità politico-sociale e la sua sovranità territoriale e costituzio-nale. Di qui le tre grandi parti del libro. Nella

pri-ma (Lo stato monarchico,), si vede come l'apporto dei giuristi e degli scienziati della politica permet-ta di distinguere la corona (considerapermet-ta come en-tità superiore e perenne) dal re e dal suo regno, fa-vorendo così il principio della continuità dinastica e rafforzando le basi della legittimità regia. La se-conda parte (Il g o v e r n o m o n a r c h i c o ) affronta la graduale presa di coscienza, da parte dei re mede-simi, delle specificità del loro profilo politico e personale, e soprattutto insiste sull'importanza della propaganda, sia interna sia esterna, nella formazione di una coscienza al contempo regia e

(7)

OTTOBRE 1 9 9 4 • N . 9, PAG. 7

Viva la muerte!

di Franco Ferraresi

CARLO MAZZANTINI, A cercar la bella

morte, Mondadori, Milano 1986, pp.

310, fuori catalogo.

La Repubblica Sociale Italiana non ha lasciato testimonianze letterarie pa-ragonabili a quelle della Resistenza. C'è da rammaricarsene, oltre che per la carenza in quanto tale, perché ciò rende più difficile comprendere quella peculiarità della scena politica italiana che è stata la presenza di una destra radicale per i quasi q u a r a n t a n n i che vanno dalla fine della guerra all'inizio degli anni ottanta. La vicenda della Rsi, infatti, la "sanguinosa epopea" di Salò, ha costituito uno straordinario

reservoir di materiale mitico-eroico su

cui, c o m e ha a c u t a m e n t e n o t a t o Marco Revelli in un recente saggio, si è costruita per decenni l'identità forte della destra radicale e soprattutto di quella eversiva nel nostro paese. Il fe-nomeno, a ben riflettere, non è ovvio: la vicenda della Rsi non conobbe epi-sodi bellici di grande rilievo, e per di più si concluse in maniera non pro-priamente eroica, con la catastrofica fuga senza combattimento dei massimi gerarchi del regime (ben diversa la

Gòtterdammerung del Bunker

berline-se). Che cosa, dunque, l'ha resa uno dei principali referenti mitici per inte-re generazioni di militanti della de-stra? Probabilmente il fatto che nella vicenda della Rsi si siano riprodotti, in misura rilevante, i tratti esemplari del tipo umano perenne della destra radi-cale. La scarsità di documentazione su quel periodo, quindi, rende più diffici-le comprendere gli aspetti psicologici, attitudinali, la cultura in senso lato, la

Weltanschauung non solo dei militi

della Rsi, ma anche dei successivi pro-tagonisti della destra radicale italiana. Carlo Mazzantini, "repubblichino" critico, ha scritto un libro che, passato quasi inosservato alla sua pubblicazio-ne, costituisce di quell'universo una testimonianza lacerante e appassiona-ta, strumento prezioso per la sua com-prensione. Il giovane Mazzantini, co-me tanti della sua generazione, aveva creduto nel fascismo, e nell'umiliante resa dell'8 settembre vide il crollo del proprio mondo, la frattura insanabile con le generazioni anziane, che fino a poco prima avevano entusiasticamente a d e r i t o al Regime: q u e i t r e m e n d i "giorni di settembre in cui ogni lega-me si era spezzato e gli adulti si erano ritirati nelle case, ognuno per conto suo, disorientati, impiccoliti, e ci ave-vano lasciati lì nelle strade, da soli". Di fronte allo sfascio, allo squallore, al tradimento, Mazzantini, insieme a un piccolo g r u p p o di amici presi dalla stessa disperazione, si arruola volonta-rio nei "Battaglioni M", e parte per il nord. La vicenda successiva si svolge nel Piemonte della Resistenza, vissuta "dall'altra parte", in un succedersi di accadimenti, punti di vista, sensazioni esemplari. L'atteggiamento di base di Mazzantini e dei suoi camerati è il ri-fiuto forsennato della storia, della ra-gione, dei "risultati", in nome di valori antitetici: il gesto, il sacrificio, il san-gue, il destino. "'Noi siamo bruciati', diceva [il tenente, poi suicida]... 'Una volta compiuto il nostro destino noi dobbiamo scomparire'... Diceva che l'Italia 'aveva bisogno del sangue', mormorava Franco [anch'egli, più tar-di, suicida], 'Diceva che la nostra vi-ta... non contava più niente... N o n c'era rimasto altro: morire!... Morire! Saper morire! Era uno dei nostri ro-velli. Tutta la nostra mistica del corag-gio ruotava attorno a quella capacità di affrontare la morte. Un uomo valeva per come sapeva morire" (p. 169).

E infatti il fascino ossessivo per la morte è uno dei topoi fondamentali di questo universo, considerato non a ca-so da U m b e r t o Eco come elemento definitorio del fascismo. La sua

impor-tanza tematica è fuori discussione, ma non se ne d e v o n o ignorare le ambi-guità, le contraddizioni fra le compo-nenti (ad esempio fra quella tragica e quella estetizzante: la "bella morte", appunto) e fra queste e altri aspetti dell'ideologia fascista (che, fra l'altro, mitizzò la condizione o p p o s t a alla morte, cioè la giovinezza), infine le tra-sformazioni nel tempo, che, durante il Regime, fecero della simbologia fune-raria (originariamente legata soprat-tutto ai caduti della grande guerra)

uno dei motivi più triti e inflazionati di tutta la retorica fascista.

Nel clima lugubremente crepuscola-re della Rsi il tema crepuscola-recupera la sua di-mensione tragica — benché neppure in questa fase manchino i risvolti este-tizzanti, spesso, come nelle canzoni, addirittura decadenti. Per Mazzantini e i suoi, però, è l'elemento tragico a prevalere. L'autore-protagonista si è creato una sorta di alter ego con cui dibatte ossessivamente il tema: '"A pa-role come tutto è più facile!... Tutti al muro! piazza pulita! eh!' diceva... 'Ma poi q u a n d o si tratta di farlo, allora vengono fuori gli scrupoli... perché lo-ro sono là, e li devi guardare in fac-cia... e ucciderli!'... Cercavo di difen-dermi. 'Ma noi siamo venuti per anda-re al fronte, per combatteanda-re il nemico ad armi pari...'. Incalzava: 'A morire, e h ? . . . M o r i r e p e r la P a t r i a , p e r l ' I d e a ! . . . N o , è una s c a p p a t o i a ! . . . Morire è niente... È uccidere il pun-to!... È lì che dimostri di possedere qualcosa che senti valere più della vita: della tua e di quella degli a l t r i ' . Ricordavo quella cosa che mi aveva

detto allora il biondino [andato volon-tario in un p l o t o n e d'esecuzione],: 'Sono andato per fare esperienza... Sapere cosa si prova... Per farmi uo-mo'. Cosa aveva voluto dire? Un uomo era d u n q u e colui che uccideva? Mi chiedevo" (p. 137). Si confronti con la posizione coeva dei rappresentanti della Resistenza rievocata da Pavone (il cui volume va tenuto costantemente p r e s e n t e nella l e t t u r a del l i b r o di Mazzantini): "Basta coi tredicenni bri-ganti che a m m a z z a n o p e r g i o c o ! " (Claudio Pavone, Una guerra civile, Bollati Boringhieri, 1991, p. 429).

Insieme con l'ossessione per la mor-te, naturalmenmor-te, la passione per le ar-mi: "Avevano acquistato nella nostra immaginazione un valore mitico...

Quanto più l'irrealtà di quella guerra si fece palese, e gli scopi, le motivazio-ni di quella vita via via più confusi, tanto più ci si aggrappò alle armi come all'unica cosa in cui riconoscerci... Diventò una specie di feticismo. Di culto per l'arma: l'arma più bella e mi-cidiale. L'arma come oggetto-simbo-lo... Il nostro era certamente il

pugna-le: Pugnai fra i denti e bombe a mano!

L'arma più inutile, più antiquata, più provocatoria... Era virile. Anzi, fallico. L o stringevi nella mano, quel piolo che spuntava dal tuo fianco: lo sentivi duro e forte. Lo 'snudavi', ti slanciavi al 'corpo a corpo'... Era la nostra con-notazione. Un coltello nobilitato ad ar-ma dalla furia politica, il livore di par-te" (p. 161).

L'identificazione col gruppo e la sua feroce determinazione ("Stiamo insie-me... stiamo insieme!") erano cemen-tati dal senso di esclusione, dal rifiuto opposto loro dai cittadini "normali": " C a m m i n a v a m o in mezzo a loro, il moschetto a tracolla, mettendocela tutta per farci notare. Ci sfilavano ac-canto come ombre, in uno stato di

as-senza, sforzandosi di non incrociare i nostri sguardi... 'Sono quelli che il 25 luglio sfasciavano lapidi, abbattevano statue e gridavano abbasso' mormora-va torvo... 'Gli stessi che prima anda-vano alle adunate, sventolaanda-vano ban-diere, e gridavano evviva', incalzava... 'Ma adesso loro non ci sono più, sono in vacanza, su un altro pianeta'... 'Era stata bella quella illusione!' diceva... Cancellare tutto in un giorno! Tutto finito!... E invece c'eravamo noi. Noi che non eravamo stati previsti! Per questo non ci possono so f fri r e'" (p. 106). Oltre le motivazioni contingenti, c'è qui l'atteggiamento di chi ha rotto tutti i ponti; di chi rifiuta il mondo, dei proscritti. Non a caso il mitico volume di V o n S a l o m o n a s s u m e p e r

Maz-zantini "il valore di libro sacro, di te-sto iniziatico riservato a pochi eletti... Leggendolo, lo assorbivo con voluttà, mi ci perdevo dentro, mi inebriavo di quella torbida atmosfera di sangue e di violenza" (p. 172).

Orbene, tutti questi topoi sono rin-venibili in forma pressoché identica nella cultura della destra radicale post-bellica. Il senso di ghettizzazione, pro-v o c a t o d a l l ' e m a r g i n a z i o n e d o pro-v u t a all'antifascismo militante; la comunità degli esclusi che ne derivava (e quindi, ancora, il mito di Von Salomon: "io appartengo alla generazione di coloro che hanno iniziato la battaglia politica portando nel tascapane null'altro che I

proscritti", mi ha scritto qualche anno

fa una delle figure più rappresentative di questo universo). Il fascino-osses-sione per la morte, filo rosso che con-giunge i militanti del primo dopoguer-ra, quelli della generazione di Salierno ("Tutta la nostra tradizione era basata sul culto della morte e dei suoi simbo-li... Nessuno di noi aveva un f u t u r o . Avevamo imboccato tutti una strada senza uscita: una strada in fondo alla

quale c'era solo il carcere, o la fuga in qualche paese straniero, o la morte": Giulio Salierno, Autobiografia di un

picchiatore fascista, Einaudi, 1976, pp.

108 e 132), quella dei militanti dei gruppi storici ("il Legionario giunge a realizzare pienamente il proprio essere nella Morte Eroica... tiene sempre nel suo cuore il pensiero della morte per essere pronto in ogni istante a intra-prendere serenamente con essa il viag-gio t r i o n f a l e verso il W a l h a l l a . . . " : "Quex", 2,1, 1978), per giungere fino ai desperados dello s p o n t a n e i s m o ( " A m ò la m o r t e come un'avventu-ra..."). Espressioni, si badi, impensabili fra i terroristi di sinistra, dove invece il problema della morte viene rimosso e mistificato dall'astrazione dell'ideolo-gia rivoluzionaria (non si uccide un uo-mo, ma una funzione; se ne vedano te-stimonianze in Donatella Della Porta,

Il terrorismo di sinistra, Il Mulino,

1990, e in Sergio Zavoli, La notte della

Repubblica, Eri, 1992, p. 289).

Anche qui, quasi un corollario, la passione per le armi. Per le prime ge-nerazioni neofasciste si ammette paci-ficamente che "il culto per le armi era un elemento fondamentale della no-stra psicologia. N o n c o n c e p i v a m o neppure che un fascista non facesse di tutto per procurarsele, non ne avesse la mania" (Salierno, op. cit., p. 106). L'atmosfera non cambia per i militanti delle stagioni successive ("nel nostro ambiente, s o p r a t t u t t o ai giovani, è sempre stato più che sufficiente far ve-dere solamente la canna di una pistola e... impazzivano; se poi... facevi vedere la canna di un mitra, te li conquista-vi"). Per arrivare a episodi parossistici, come l'uccisione di un poliziotto solo per impadronirsi del suo mitra — re-peribilissimo al mercato clandestino, ma che l'etica del "guerriero" impone di conquistare sul terreno.

N o n è il caso di s o t t o l i n e a r e che l'espressione di questa Weltanschauung non può essere lasciata a uno strumen-to come la ragione, la cui inadeguatez-za, seguendo un canone fra i più insi-stentemente ribaditi dai maitres à

pen-ser, è continuamente denunciata dai

militanti della destra di ogni genera-zione. Mazzantini ricorda che "a volte ci sforzavamo di parlare... ma erano discorsi così confusi, fatti di parole co-sì povere e approssimative, che non approdavano a nulla... 'A che servono le parole!'...: 'Ci sono cose che non puoi spiegare, cose che uno sente che sono così, e basta... Che vuoi metterte-le a dire! Se non ce metterte-le hai dentro, se non sei capace di sentirle, è inutile, non puoi capire"' (p. 167).

Questa non è che la trasposizione volgarizzata dei solenni ammonimenti ripetuti con verbosa insistenza da quei "fecondissimi poligrafi" (Furio Jesi,

Cultura di destra, Garzanti, 1979, p. 6)

che furono i maestri dell'indicibile: "il est très difficile de faire comprendre à nos contemporains qu'il y a des choses qui, par leur nature mème, ne peuvent se discuter" (René G u é n o n , La crise

du monde moderne, Gallimard, 1956,

ed. orig. 1927, p. 80). E in verità l'esal-tazione delle "idee senza p a r o l e " fa parte di quel rifiuto del logos a favore del mythos che fu un punto fisso del pensiero reazionario, prominente so-prattutto, ma non solo, nel mondo te-desco che fornì tanto sostegno dottri-nale alla destra radicale, dalla

konser-vative Revolution in poi. "Noi

intellet-tuali [tedeschi] — lamenta ad esempio lo Steppenwolf di H e r m a n Hesse — invece di... obbedire allo spirito, al

lo-gos, alla parola, e di farli ascoltare,

stiamo tutti a sognare un linguaggio senza parole che esprime l'inesprimi-bile e rappresenta l'irrappresental'inesprimi-bile... L'intellettuale tedesco ha sempre fatto la fronda contro la parola e contro la ragione, ed ha fatto l'occhiolino alla musica". Un tema analogo compare in u n o dei grandi confronti ideologici della Montagna incantata. Qui l'uma-nista Settembrini, il portavoce della ra-gione illuminata, fa notare commosso

t >

Nell'ottobre del 1984 usciva un numero

speciale dell'Indice: il primo. Nell'ottobre

del 1994 abbiamo voluto produrre un

numero speciale, tutto scritto dai

componenti del comitato di redazione.

Ammettiamo che in gran parte si tratta di

una civetteria celebrativa, ma è stata

anche un 'occasione per ribadire a noi

stessi e ai nostri lettori la ricchezza

e la variegatura delle competenze

reperibili in coloro che

all'Indice abitualmente

lavorano e che, di solito,

scelgono i recensori esterni.

Questo dell 'ottobre 1994 è

anche il primo numero della w

storia dell'Indice in cui manca la

rubrica più celebre, il Libro del

Mese: perché abbiamo voluto che

ciascuno potesse scegliere un libro

non necessariamente appena

pubbli-cato, oppure un libro amato per

gusti personalissimi non

necessaria-mente esportabili.

La Direzione

i:

r N

(8)

• D E I LIBRI D E L M E S E I

OTTOBRE 1994 - N. 9, PAG.

Gli ebrei e l'ideologia del possibile

di Gustavo Zagrebelsky

al suo discepolo, H a n s Castorp: "Lei tace... Lei e il Suo paese mantengono un silenzio pieno di riserve... Loro non amano la parola... Amico mio, questo è pericoloso. La lingua è la civiltà stes-sa... La parola, anche la più contrad-dittoria, tiene uniti... è il silenzio che fa il vuoto. C'è da supporre che loro vor-ranno rompere la solitudine in cui vi-vono con gli atti". E se Hesse parla di "linguaggio senza parole", Spengler usa termini quasi identici, ma il mes-saggio è ben più sinistro: "l'unica cosa che promette la saldezza dell'avvenire è quel retaggio dei nostri padri che ab-biamo nel sangue; idee senza parole" (Oswald Spengler, Anni decisivi. La

Germania e lo sviluppo storico mondia-le, Bompiani, 1934, p. 4; il corsivo è

mio). M a a f f i n c h é n o n si p e n s i che questo fu un tratto solo della cultura tedesca, va ricordato che anche Luigi Pirandello, nel firmare il manifesto de-gli intellettuali fascisti, si sentì in dove-re di dichiaradove-re: " H o sempdove-re combat-tuto le parole".

In conclusione: uno degli interroga-tivi meno peregrini che nascono dalle recenti vicende politiche del nostro paese è il seguente: che ne è di questo tipo umano, dopo che la destra è dive-nuta rispettabile, accettata, addirittura parte del governo? Si tratta certo di un'altra destra, quella moderata, bor-ghese, filocapitalista, con pieno acces-so ai salotti buoni. E la destra radica-le? Molti dei suoi protagonisti, come faceva notare in una recente intervista un c o n o s c i t o r e d e l l ' a m b i e n t e quale Giusva Fioravanti, si sono riciclati e o c c u p a n o oggi p o s t i p r e s t i g i o s i nell'editoria, nelle televisioni, nel go-verno. Non c'è da stupirsene, beninte-so: si tratta di un percorso che la sini-stra conosce molto bene. L'aveva indi-cato, con tratto fulmineo, addirittura G a d d a , q u a n d o , nella sublime

Adal-gisa, aveva c a r a t t e r i z z a t o G i o v a n n i

Lamberto Tallien (secondo marito di "Nostra Signora del Termidoro"), co-me "il giacobino, comunardo, conven-zionale, maratiano, e infine ex-terrori-sta in fase di rinculo di cui è piena la storia, nonché la cronaca".

L'interrogativo concettuale, tutta-via, rimane: ci sono ancora spazi oggi per gli "uomini differenziati" della de-stra radicale, per i suoi "soldati politi-ci", i suoi "proscritti"? Che ne è del mito di Salò? Gli sviluppi dei prossimi tempi si incaricheranno di fornire le ri-sposte.

STEFANO LEVI DELLA TORRE, Mosaico. Attualità e inattualità degli ebrei,

Rosenberg & Sellier, Torino 1994, pp. 178, Lit 25.000.

L'ebraismo si incentra sul monotei-smo del patto e su Gerusalemme ma questi, oltre che centri di raccolta in unità spirituale e politica, sono anche nuclei iniziali di una diaspora senza fi-ne. È un movimento aperto quant'altri mai: è n u t r i t o di religione, ma non è una chiesa; nutre la politica, ma non è

né u n ' i d e o l o g i a n é un p a r t i t o . Mancano dogmi e autorità dogmati-che. E pure l'ebraismo non è un sem-plice ricordo di remote radici comuni né soltanto un connotato delle altre culture in cui vive, un loro semplice

esprit. È una realtà vitale ma, essendo

allo stato fluido, è difficile sceverare l'accidentale dall'essenziale: è difficile comprenderla.

Ma non è solo difficile. Per chi non sia ebreo, è anche moralmente arduo. Ogni comprensione è anche una

dif-ferenziazione. E la differenziazione, nel caso dello spirito ebraico, ha com-portato storicamente discriminazione, persecuzione, sterminio. Cosicché, ogni discorso sui caratteri dell'ebrai-smo nasce come segnato da un vizio di origine, da un dubbio circa il suo in-tento pratico: di servire ancora l'intol-leranza o, al contrario, di essere mosso da un complesso di colpa. Forse è per questo che oggi più facilmente sono le voci e b r a i c h e q u e l l e c h e p a r l a n o dell'ebraismo senza pregiudizi e senza

complessi. Lo dimostra il Mosaico di Stefano Levi della Torre, un libro pri-vo di risentimenti, ricco di fascino e pieno di intelligenza. Un libro — ag-giungo — che, come sempre quando si tratta di un movimento spirituale al quale si appartiene, è anche necessa-riamente un'autobiografia intellettuale dell'autore che si interroga in quanto ebreo su ciò che, alla luce della pro-pria coscienza di sé, lo fa essere tale se-condo lo spirito. Le parole che seguo-no soseguo-no tutte dentro, o sotto il libro. Il recensore non ha l'ardire di mettersi accanto né tanto meno sopra, per dire la sua. Al più, aggiunge qualche rifles-sione suscitata dalla lettura.

L'idea che fa da sfondo a tutti i temi trattati è l'apertura all'ascolto e al dia-logo, che fa dell'ebraismo una cultura dell'interazione (oltre che dell'inter-pretazione). U n ' i d e a contraria a un luogo comune circa lo spirito ebraico, c h e Levi a p p o g g i a s u l l ' a u t o r i t à di Arnaldo Momigliano, richiamando il suo collegium trilingue, il grande cro-giuolo greco-latino-ebraico (con la va-riante tentata da Maimonide nel XII s e c o l o , a t t r a v e r s o la s o s t i t u z i o n e dell'arabo al romano), che tuttora do-mina indistintamente le nostre menti. Il carattere iniziale di questo collegio — completamente perduto dalle altre due componenti, ma tuttora vivo per l ' e b r a i s m o — risiede nel d a r e e nel prendere, senza tuttavia rinunciare a se m e d e s i m o e p e r d e r e la p r o p r i a identità. L'ebraismo resiste così tanto all'assimilazione q u a n t o alla sintesi culturale.

Per comprendere come la fedeltà a se stessi non contraddica l'apertura al m o n d o , è decisiva la categoria della possibilità. Lo spirito ebraico si spiega e si rende possibile — si passi l'espres-sione — attraverso la categoria del possibile. La possibilità non è né verità né realtà. Per intendere che cosa sia il m o d o di pensare della possibilità, si può confrontarlo col pensiero della .ve-rità e della realtà. Il pensiero orientato alla verità induce a dividere il campo con nettezza: o di qua, nella verità, o di là, nell'errore. Non è pertanto incli-ne al dialogo ma, piuttosto, alla corre-z i o n e , o, se la c o r r e corre-z i o n e f a l l i s c e , all'annientamento. Con l'errore, la ve-rità non può venire a patti se non ne-gando se stessa. Il pensiero orientato alla realtà, invece, induce ad accettare il fattuale, cioè i rapporti di forza, e quindi a conformarsi a essi, in quanto

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Giovani "marginali" a Torino

di Delia Frigessi

IRES, I giovani a bassa scolarità in due quartieri torinesi, W o r k i n g p a p e r n . 104, o t t o b r e 1993,

p p . 138, s.i.p.

In tante occasioni della vita nazionale — ma ri-cordo soprattutto le ultime elezioni — si è parlato e discusso dei giovani, delle loro aspettative e del-le loro scelte. Ripetere quanto poco ne sappiamo è dire cosa banale. Riflettere piuttosto sui materiali raccolti e interpretati, che riguardano la condizio-ne giovanile in alcucondizio-ne aree del paese, mi sembra utile.

In questa indagine svolta dalla Cooperativa Formazione '80 nell'ambito di una più ampia ri-cerca dell'lres, le scelte giovanili sulla scuola, il la-voro e il territorio non si comprendono senza uno sguardo ai dati della città di Torino e della provin-cia. Solo un quarto della popolazione torinese pos-siede un titolo di studio superiore alla licenza me-dia, in un'area dove oggi il numero delle persone in mobilità è più elevato che nelle altre zone indu-striali del paese. Alla ricerca di lavoro sono so-prattutto le donne e i giovani, accomunati da una

bassissima scolarità. Tra i giovani occupati, del re-sto, più della metà non è andata oltre la licenza media (ma moltissimi torinesi oltre i cinquantan-ni non hanno alcun titolo di studio).

La mancanza di un capitale scolastico e cultura-le anche minimo contribuisce a produrre — tran-ne alcutran-ne eccezioni felici — una situaziotran-ne di co-municazione sociale altrettanto "bassa", che

in-fluisce in senso negativo sulla ricerca e sulla scelta del lavoro. Questi giovani "marginali" senza for-mazione restano esclusi dai circuiti informativi e dall'utilizzazione dei servizi cittadini, respinti dal-la profonda debolezza delle offerte d'integrazione sociale. "L'handicap è quasi una fortuna, perché consente di essere seguiti", afferma una preside parlando degli insegnanti d'appoggio.

Nei due quartieri considerati dall'indagine la scuola appare momento privilegiato del passaggio ali"'integrazione sociale" ed è riconosciuta da tut-ti, soprattutto dalle famiglie, come strada maestra per l'integrazione culturale. Ma esiste un alto tas-so di abbandono scolastico. 1 ragazzi lasciano la scuola, esclusi o autoescludendosi dopo averla provata per un po' di tempo.

Il quartiere San Donato, dove tutto sommato esistono reti di scambio e relazioni piuttosto ric-che, non somiglia a Regio Parco dove il malessere sociale è fortemente strutturato e le famiglie svan-taggiate sono state separate e urbanisticamente raggruppate in una sorta di ghetto. L'esclusione è dunque diventata spaziale e si delinea una logica di territori, anche se siamo lontani da un mondo all'americana.

Fondamentale il modo con cui, nella scuola, riescono a integrarsi allievi che provengono da ce-ti sociali diversi. Ma come svolgere un lavoro sod-disfacente nella scuola dell'obbligo tra studenti

o

Ieri. E oggi?

di Renato Monteleone

WILLIAM SHERIDAN ALLEN, Come si diventa nazisti, Einaudi, Torino 1994

( la ed. 1968), e d . orig. 1965, t r a d . dall'inglese di Luciano Pecchioli, pp. 297, Lit 14.000.

G e n n a i o 1933. Q u e l l ' i n v e r n o in G e r m a n i a f u terribilmente gelido. Il f r e d d o , c o m ' è tipico di quelle t e r r e settentrionali, era umido e penetrava nelle ossa. Nella piccola cittadina di T h a l b u r g , n e l l ' H a n n o v e r , il q u a d r o era triste. Per le strade i disoccupati vagavano intirizziti, affamati, con la rabbia in c o r p o p r o n t a a esplodere. Nei negozi, nelle botteghe, i padroni oziavano in attesa di clienti, t r o p p o dissanguati dalla crisi economica per mettervi piede.

Poi, alla fine di quel mese, la notizia che ridestò la cittadina dal suo torpo-re: H i t l e r era diventato cancelliere, s'era impadronito del potere, con un consenso elettorale sbalorditivo. E al-lora, nella piccola Thalburg i nazisti, che già d i l a g a v a n o n u m e r o s i da un paio d'anni, uscirono nelle vie e nelle piazze, in cortei aperti da bande, suoni di pifferi e tamburi, sventolìo di vessil-li, labari, bandiere. La città esplose in tripudio, ali di folla festante applaudi-vano i vincitori.

Com'era diventata nazista quella cit-tadina d e l l ' H a n n o v e r ? L o spiega lo storico americano William Sheridan Alien, in un libro pubblicato nel 1968 da Einaudi col titolo Come si diventa

nazisti, e che ora l'editore ripubblica

o p p o r t u n a m e n t e , in un m o m e n t o in cui da quegli eventi si possono ricava-re ancora alcune utili lezioni e saggi consigli.

Thalburg (che nella realtà si chiama Nordheim) non è un campione, è sol-tanto un caso studiato a livello micro-storico per l'interesse d i e la sua vicen-d a p r e s e n t a , specie nel p e r i o vicen-d o vicen-di transizione politica e socioeconomica che stiamo vivendo.

Le elezioni che si svolsero in quella cittadina tra gli anni venti e trenta por-tarono alla dissoluzione del centro po-litico. I partiti moderati e conservatori f u r o n o letteralmente erosi (popolari cattolici, democratici, piccoli e picco-lissimi partiti municipalistici) e i loro voti travasarono in grandissima parte nella destra nazionalsocialista che, in pochi anni, nel 1931, arrivò a racco-gliere ben il 51 per cento dei voti. Gli eventi degli anni trenta in Germania e in Austria dimostrano che q u a n d o il centro si polverizza l'erede più natura-le delnatura-le sue macerie è s o p r a t t u t t o la

destra, anche quando, come successe a Thalburg, la sinistra socialdemocratica continuò ancora per un poco a regge-re, sia pur con qualche flessione.

Alien ha cercato di capire quali fu-rono i fattori che indussero i cittadini di Thalburg a gettarsi in così grande maggioranza nelle braccia dei nazisti e al primo posto colloca la depressione economica che allora colpì, in varia misura, ma sempre tragicamente, tutto il m o n d o capitalistico. Thalburg era città prevalentemente di ceti piccolo-medio borghesi, della burocrazia stata-le, e, come tutti i test sociologici inse-gnano, questa è una classe sociale che in tempi di crisi economica è atterrita dal pericolo di perdere decoro e status sociale, e dalla turbolenza delle classi lavoratrici, le più incollerite dalla per-dita dei posti di lavoro.

Difatti, un altro fattore a vantaggio della destra nazista segnalato da Alien è il fenomeno devastante della disoc-cupazione che accompagnò la crisi de-pressiva, spingendo agli estremi le ten-sioni sociali e radicalizzando gli anta-gonismi politici. I ceti medi esaspera-r o n o m o esaspera-r b o s a m e n t e il l o esaspera-r o o d i o antisocialista e anticomunista, si alli-nearono sempre più al fanatismo dei nazionalisti che gridavano il loro sde-gno per l'umiliazione imposta dai vin-citori alla Germania sconfitta. Erano tutte voci che suonavano c o m e una musica dolce agli orecchi dei nazisti, attorno ai quali queste circostanze

fa-vorirono una rapida aggregazione di forze sociali che isolò la socialdemo-crazia. Ahimè, la sinistra rivelò in quei drammatici frangenti tutta la sua inca-pacità di incidere sugli avvenimenti come attiva ed efficiente forza di op-posizione.

Bisogna riflettere sulla povertà dei suoi programmi, sulle abitudini com-promissive della sua tattica parlamen-tare, sulle sue prudenze e ingenue fur-bizie, per capire come potè essere tra-volta e scavalcata dal partito nazista che si presentava, con tracotante e vio-lento attivismo, come il partito della sicurezza contro la tempesta economi-ca, dell'ordine contro il permissivismo della democrazia repubblicana, della stabilità sociale contro i sovversivi ros-si, dell'onestà contro gli sprechi dello stato democratico e la corruzione e il d i s c r e d i t o della sua classe p o l i t i c a (senti, senti!).

Q u a n d o poi i nazisti arrivarono al potere, un p o ' alla volta, ma t r o p p o tardi, si scoprì il vero volto del regime che spazzò via in breve t e m p o ogni forma associativa preesistente, sinda-cati, società operaie, società mutuali-s t i c h e , c o o p e r a t i v e , i m b a v a g l i ò la stampa e ogni altra forma di libera co-municazione del pensiero, provocan-do quel che Alien chiama un'"atomiz-zazione degli individui". La gente non si riuniva più, anche perché intimidita, fuori dalle aggregazioni di massa che il r e g i m e o r g a n i z z ò e u t i l i z z ò c o m e

espressioni di consenso universale. Eccole qui, allora, le due più impor-tanti e attuali lezioni ricavabili da que-st'esperienza microstorica. Anzitutto, che è bene non dimenticare mai un so-lo momento che la fine della democra-zia è sempre "possibile", i suoi nemici vi sono sempre annidati dentro, pronti a sfruttare la stanchezza della libertà p e r c h é , c o m e h a s c r i t t o u n a volta Robert Walser, essa ha qualcosa di "invernale" e dunque difficile da sop-portare a lungo. Qualche anno fa, in un appassionato libro sugli orrori del lager di Ravensbriick, Germain Tillion scrisse, in mesta conclusione: " O g g i son certo che non esista un popolo che sia protetto da un disastro morale col-l e t t i v o " come quecol-lcol-lo che si a b b a t t é sulla Germania nazista.

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