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Bioetica 2-3/2013 1

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Academic year: 2021

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Maria Teresa Busca*

Vi sono correnti di pensiero, nel mondo cattolico che, per quanto riguar-da il fi ne vita dei malati terminali ritengono che il posto dell’omicidio pietoso, già di per sé inaccettabile, sia stato occupato da un’altra e ben più subdola forma di eutanasia, cioè dal suicidio assistito. Il posto della pietas, che poteva spingere all’azione eutanasica, sarebbe stato preso da una motivazione che non ha nulla di compassionevole e di emotivo, ma che è freddamente razionale: il rispetto nei confronti della volontà del paziente.

Dietro l’eutanasia compassionevole c’è la sofferenza del malato, die-tro l’aiuto al suicidio – inteso come specifi ca richiesta del paziente – ci sarebbe un preteso sommo, insindacabile diritto umano, quello all’au-todeterminazione, un diritto che andrebbe riconosciuto e garantito a prescindere da ogni contestualizzazione. In questo modo si pensa che la logica dei valori e dei sentimenti venga gestita direttamente ed esclusiva-mente dalla legge, una fredda legge rispettosa dell’autodeterminazione.

L’equivoco che traspare da questo modo di pensare consiste nel fatto che la nascita, l’educazione, la costruzione di una nuova famiglia, la cura dei malati e degli anziani, e soprattutto la morte, sono qui ritenute ancora soltanto dimensioni private, quando è ormai chiaro che hanno aspetti e valori pubblici e sociali, dunque non possono essere affi date soltanto alla logica dell’intimità della casa in cui si svolgono, dove per altro si possono palesare anche situazioni sgradevoli e poco riguardose della volontà di un membro della famiglia. È soltanto nel pubblico, alla luce di una legi-slazione rispettosa dell’autonomia dei cittadini che le situazioni estreme, come quella del morire, possono trovare un’adeguata e garbata risoluzio-ne. Adeguata perché ogni persona ha il diritto di esprimere al termine del-la vita il senso che vuole dare aldel-la propria morte, e garbata perché questi avvenimenti devono potersi svolgersi in una cornice di delicatezza e com-prensione, con lo scopo di rendere il più serena possibile la fi ne della vita. * Direttivo Consulta di Bioetica onlus, coordinatrice sezione di Torino

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Un esempio di ciò che intendo l’ho trovato ai primi di ottobre 2012 su un quotidiano nazionale1 su cui veniva pubblicato un articolo

intito-lato: “La morte dolce di mio suocero, il modo migliore per dire addio”, fi rmato da Bill Keller, già direttore del New York Times.

Il paziente in questione aveva un tumore inoperabile, viveva con la dialisi, con un diabete da tenere sotto controllo con l’insulina e con un pacemaker per problemi cardiaci. Forse con una terapia aggressiva avreb-be potuto prolungare per breve tempo la sua vita e vi sono persone che lo fanno. Ma poiché l’ospedale offriva un protocollo chiamato Liverpool Care Pathway, un percorso di assistenza concepito negli anni Novanta a Liverpool come alternativa più umana da praticare su pazienti prossimi alla morte, l’uomo scelse questa alternativa. Questo protocollo, nato per i malati terminali di tumore, adatta al contesto ospedaliero molte prati-che di assistenza in genere limitate agli hospice.

I medici di questo paziente avevano concluso, insieme a lui, che non avesse senso prolungare un’esistenza vicinissima alla fi ne, tormentata da dolore e immobilità. Perciò hanno smesso di somministrare insulina e antibiotici, scollegato i tubi di idratazione e alimentazione, lasciando sol-tanto una fl eboclisi per tenere sotto controllo dolore e nausea. Ogni tipo di monitoraggio è stato interrotto e il paziente è stato trasferito in una camera silenziosa in attesa del trapasso.

«Nei sei giorni precedenti alla morte, Anthony Gilbey, avvolto in una coltre di morfi na, ha ripetutamente perso e riacquistato coscienza. Libe-rato da tubi e da medici solleciti, ha potuto ricordare il passato, scusarsi, scambiare battute e promesse di amore con la famiglia, ricevere i sacra-menti cattolici e ingoiare un’ostia che è stato forse il suo ultimo pasto. Poco prima di morire ha detto alla fi glia: “ho combattuto la morte tanto a lungo e ora è un tale sollievo potersi lasciare andare”. Poi è entrato in coma. È morto umanamente: amato, dignitoso, pronto»2.

Il Liverpool è oggi la norma negli ospedali britannici e in diversi altri paesi, ma non in America. La questione interessante è perché non ven-ga applicato in America, dove, da una parte è pesantemente attaccato

1 La Repubblica, 10 ottobre 2012, p. 1. 2 Ibidem.

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dalla chiesa cattolica e dai lobbisti che si battono per il diritto alla vita, ma dall’altra dai paladini dell’eutanasia che non lo trovano suffi ciente-mente eutanasico.

Bill Keller cerca di capire perché tutto ciò sia possibile in Gran Bretagna e non negli Stati Uniti, dove «nulla infervora di più il dibattito sulle cure sanitarie più che la questione di quando e come negarle»3. Qualcosa che in

Italia conosciamo bene. A partire dal no categorico che impegna la chiesa cattolica, da noi come negli Usa. In America, però, viene a sommarsi alle denunce di politici conservatori come Sarah Palin o Michele Bachmann. Abbreviare l’esistenza, sostengono, è un meschino calcolo politico, perché un quarto dei costi sanitari si concentra sull’ultimo anno di vita. È facile, in questo modo, accusare il cinismo di chi considera uno spreco sperpera-re tanto denaro per qualche settimana o mese di vita in più.

Keller sospetta che incentrare il dibattito sul tema dei costi/benefi ci che pure ha grande presa nella società americana, sia controproducente. Lo sa bene sir Thomas Hughes-Hallet, l’ex direttore del centro dove è nato il protocollo, il quale ammonisce di non fare calcoli, affi nché il protocollo non venga dipinto come «un modo di uccidere i pazienti in fretta e liberare i posti letto»4. Messo in questa prospettiva il programma

sarebbe già morto e, infatti, i medici di Liverpool non hanno idea se e di quanto il protocollo riduca effettivamente i costi di gestione. Keller si limita quindi ad augurarsi che tutti possano morire come suo suocero, spiegando che in effetti si tratta solo di una morte più umana.

La critica americana potrebbe indicare che stiamo sperperando una grande quantità di denaro per garantirci qualche settimana o qualche mese in più di vita, da trascorrere attaccati a delle macchine e consumati dalla sofferenza e dalla paura? Allora sarà semplicemente il buon senso farci decidere di non prolungare costosamente le sofferenze? Non è così, perché le prove che queste procedure producano risparmio non ci sono, inoltre questo non è mai stato l’intento di chi ha realizzato il protocollo. Sarebbe ben triste promuovere l’assistenza nel fi ne vita per motivi econo-mici e potrebbe ingenerare timori fondati sul trattamento.

3 Ibidem.

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Quello che invece va valutato attentamente è che si tratta di una mor-te più umana e dignitosa. Il pazienmor-te, di cui abbiamo narrato la storia, ha potuto morire nel modo da lui scelto, da lui ritenuto il dignitoso e congruo epilogo della sua vita. È questo che deve essere assicurato a cia-scuno di noi, una morte che corrisponda al nostro progetto di vita, nella quale riconosciamo il compimento del senso che abbiamo dato ai nostri progetti e alle nostre azioni. Per poter ottenere questo risultato occorre che il consenso informato sia il fondamento della pratica medica e che chi lo desidera possa scrivere il proprio testamento biologico.

Il rispetto del testamento biologico è la prima conquista di civiltà in questo cammino e la possibilità dell’eutanasia, per chi lo ritenga il suo modo di uscire dalla scena, la seconda.

Ma, attenzione, perché l’espressione di libertà che è implicita nella richiesta di eutanasia presuppone una completa e adeguata informazione che può avvenire attraverso la discussione fra medico e paziente sullo stato della malattia e sulle prospettive di vita e di morte, sempre che il paziente desideri essere informato fi no in fondo sulle proprie condizioni. Non è immaginabile parlare di eutanasia quando, come purtroppo av-viene spesso in un contesto culturale come quello italiano, si dicono al malato pietose bugie o gli si concedono mezze verità, erigendogli intorno una barriera che vorrebbe essere di protezione e che invece non fa altro che sottrarre dignità e libertà, quando non ha lo scopo principale di evi-tare ai familiari e al medico l’imbarazzante compito di affronevi-tare con il malato argomenti sui quali essi non sono preparati a discutere.

Non è certamente un compito facile né gradevole, per ogni singola persona va proposta una diversa dimensione di approccio e la legislazio-ne in materia è carente.

Il lavoro da fare è dunque molto importante perché si tratta di dare a ognuno la possibilità di un fi ne vita in cui la sofferenza e il dolore possa-no essere combattuti o annullati, secondo la volontà del paziente.

I medici di Liverpool, come assicura Sir Thomas Hughes-Hallet, non si sognano di infrangere il giuramento di Ippocrate che impone le cure sempre a tutti i pazienti fi no al momento del decesso. Propongono però, ormai dagli anni Novanta, un percorso alternativo ai pazienti terminali. «Non si tratta di affrettarne il decesso – dice sir Thomas – ma di

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ricono-scere che una persona è giunta alla fi ne della propria vita, e di offrirgli delle scelte. Desidera una maschera di ossigeno sul volto? O vorrà baciare sua moglie?»”5

La seconda scelta permette di congedarsi con dignità, magari con la forza suffi ciente per scambiare un addio, per chiedere perdono, per dare un consiglio prezioso. Quei medici hanno pensato, d’accordo con il pa-ziente, che non avesse senso prolungare un’esistenza vicinissima alla fi ne, tormentata da dolore, immobilità, incontinenza, depressione, progressi-va demenza.

L’eutanasia è da sempre un campo minato per l’etica ma la notizia che arriva dall’Inghilterra suggerisce nuovi dubbi. Sono migliaia i pazienti affetti ogni anno da malattie terminali e il Liverpool Care Pathway per-mette al personale medico di ridurre loro liquidi e farmaci negli ultimi giorni di vita.

Ci sono molte critiche, gli oppositori sostengono che i pazienti, spes-so, non sono in grado di intendere e di volere sul fi nire della loro ago-nia e quindi si cerca di far fi rmare loro una documentazione prima. Sei medici, in collaborazione con il Medical Ethics Alliance, hanno scritto al Telegraph per denunciare il caso.

Il Liverpool Care Pathway, mira ad aiutare i pazienti nel percorso verso la morte: lentamente si ritira la somministrazione di liquidi e farmaci e i malati terminali possono essere sedati fi no alla morte. Il Dottor Craig Gillian, uno dei fi rmatari della lettera al Telegraph, ha detto: «Se sono così cinici, questa misura può essere vista come il tentativo, da parte dell’ospedale, di ridurre i costi per svuotare i letti». Gillian ha ricorda-to l’importanza di opporsi fi rmando un documenricorda-to perché: «Decine di famiglie non vengono nemmeno avvisate della decisione dei medici di seguire questo tipo di percorso». «Il Liverpool Pathway non è una tecnica per risparmiare denaro, è uno strumento collaudato, è un supporto per i malati» ha dichiarato un portavoce del Dipartimento di Sanità. La pra-tica è stata approvata dall’Istituto nazionale per la Salute e ha ottenuto il patrocinio del Ministero della Salute inglese.6

5 La Repubblica, cit.

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La maggior parte dei pazienti desidera morire a casa, tuttavia un’al-ta percentuale continua a morire in ospedale. Numerosi studi hanno evidenziato cure di fi ne vita non adeguate per i pazienti che muoiono in ospedale e per le loro famiglie. Negli ultimi anni sono stati sviluppa-ti, ma solo parzialmente valutasviluppa-ti, percorsi integrati di cura con l’obiet-tivo di migliorare la qualità delle cure di fi ne vita in ospedale. Il Li-verpool Care Pathway for the dying patient (LCP) si è affermato come il più studiato e promettente. Nonostante la sua diffusione in oltre 20 Paesi, le evidenze di effi cacia che supportano una sua disseminazione sono deboli. L’introduzione e la valutazione in Italia del programma LCP7 per i pazienti oncologici in ospedale ha utilizzato lo schema di

valutazione degli interventi complessi proposto dal Medical Research Council. Inizialmente (fase preclinica-I) i risultati delle revisioni della letteratura sono stati utilizzati per mettere a punto la versione italia-na del Programma LCP. Successivamente il Programma LCP-I è stato implementato nei reparti di medicina e pneumologia dell’Ospedale Villa Scassi di Genova da un’unità di cure palliative (fase I-II). Il pro-cesso è stato valutato con approccio misto qualitativo e quantitativo. Focus Group 8realizzati su campioni di medici e infermieri, prima e dopo

l’implementazione, hanno evidenziato una percezione di effi cacia del programma in particolare nel controllo del dolore e nella comunicazione con pazienti e familiari. L’analisi quantitativa su serie consecutive di de-ceduti per tumore, prima e dopo l’introduzione del programma, ha per-messo di testare misure di processo e di esito per valutare la qualità delle cure di fi ne vita. Sulla base dei risultati ottenuti nelle fasi precedenti, è stato messo a punto uno studio randomizzato a cluster con l’obiettivo di valutare l’effi cacia del Programma LCP-I nel migliorare la qualità delle cure di fi ne vita (fase III). In conclusione, lo sviluppo e la valutazione del programma LCP in Italia dimostra che è possibile realizzare studi di valutazione di interventi complessi nel campo delle cure di fi ne vita.

Nel settembre 2012 le principali società scientifi che mediche e infer-mieristiche del Regno Unito hanno fi rmato un documento di consenso

7 www.maruzza.org/maruzza_italia/html/dr.%20massimo_costantini.htm, ultimo accesso

il 25 agosto 2013.

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in cui esprimono un pieno sostegno al Liverpool Care Pathway (LCP). L’obiettivo del consensus statement è quello di far giustizia delle erronee interpretazioni espresse da parte della stampa inglese e riprese poi da qualche organo di stampa italiano, che hanno criticato il LCP come una procedura ideata per contenere i costi sanitari sottraendo cure ai malati fragili. In particolare viene sottolineato come la decisione di limitazio-ne dei trattamenti venga presa limitazio-nel miglior interesse del malato, con il suo pieno coinvolgimento decisionale, se possibile, e dei suoi familiari e che il LCP non ha l’obiettivo né di accelerare né di ritardare la morte. L’obiettivo del LCP rimane, infatti, quello di migliorare la qualità di vita nella fase terminale (ultimi giorni-ultime ore) evitando trattamenti clinicamente inappropriati.

Tutto ciò che abbrevia le sofferenze e può accelerare la morte spa-venta molte persone e procura un senso di sollievo in molte altre. Un paese civile rispetta la volontà dei suoi cittadini con leggi che consentano a ognuno di esprimersi liberamente proprio nel momento più delicato dell’esistenza. Per ottenere questo è necessario un impegno costante e un indiscutibile desiderio di civiltà.

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