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La volontà di riforma

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Academic year: 2022

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Alberto Milli

La volontà di riforma

Una lezione su Giovanni Gentile

1. Non si può astrarre Gentile dal fascismo

Per analizzare il pensiero filosofico e pedagogico di Giovanni Gentile potrei forse compiere un'opera di astrazione dal Gentile fascista e organico del fascismo, per considerare la sua produzione intellettuale disgiunta dall'ambito politico.

Tale impostazione, però, non risulta praticabile, giacché, malgrado il fascismo non pertenga direttamente a questa analisi, ciò nondimeno l'idealismo e l'hegelismo (più o meno "riformato") di Gentile hanno avuto proprio nell'ambito del fenomeno fascista la loro maggiore divulgazione, la loro esternazione più ampia e la loro istituzionalizzazione. L'idealismo gentiliano nella sua accezione di “attualismo”, infatti, sebbene manifestatosi prima del fascismo, venne però proprio nel fascismo ad istituzionalizzarsi (ad “attualizzarsi”), sia per aver trovato in esso un ambiente congeniale e il megafono forse naturale del suo esistere, sia per aver prodotto in esso e per esso l'istituzionalizzazione di se stesso sotto le sembianze della riforma della scuola del 16 luglio 1923 (Gentile è stato Ministro della Pubblica Istruzione nel primo governo Mussolini dall'ottobre del 1922 al luglio del 1924).

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In aggiunta, va tenuto conto dei numerosi scritti e interventi di Gentile sul fascismo, quali il Manifesto degli intellettuali fascisti agli intellettuali di tutte le Nazioni (testo redatto da Gentile, 1925), Che cos'è il fascismo (1925), Fascismo e cultura (1928), La mia religione (discorso, 1943), Discorso agli Italiani (discorso, 1943), senza considerare La dottrina del fascismo, che è un testo pubblicato a firma di Benito Mussolini per la prima volta nel 1932 nell'Enciclopedia Italiana di scienze, lettere ed arti1 (quale prima sezione della voce “Fascismo”) la prima parte del quale, “Idee Fondamentali”, può ragionevolmente essere attribuita a Gentile.

2. Avvertenza

Nel contesto della presente esposizione non farò riferimento alla produzione di Benedetto Croce, poiché non attinente al taglio dato alla trattazione; per la stessa motivazione non citerò l'“idealismo magico” di Novalis, sebbene possa avere una attinenza alle tematiche trattate (anche in relazione all'influenza del pensiero di Fichte) e sia più umano e condivisibile di quello omonimo di Evola, sul quale invece mi soffermerò.

3. La volontà di riforma

Sia la "riforma della dialettica hegeliana" sia la riforma della scuola, fortemente volute e perseguite da Gentile, sono prodotti naturali del suo pensiero filosofico (da lui definito

“idealismo attuale” o “attualismo”), il quale si fonda su una interpretazione del pensiero

1 Enciclopedia Italiana di scienze, lettere ed arti, vol. 14: Eno-Feo, 1932.

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di Hegel che ha la pretesa di andare oltre Hegel (rimanendone comunque agganciato), volgendo però lo sguardo a prima di Hegel, all'idealismo pre-hegeliano.

Quella che traspare dall'opera e dall'operato di Gentile è una forma di volontà che, però, niente ha in comune con le più famose “volontà” della storia del pensiero filosofico (la

“volontà di vivere” di Schopenhauer, la “volontà di potenza” di Nietzsche e la recente

“volontà di sapere” di Foucault), venendosi piuttosto a connotare come “volontà di riforma”.

Potendo guardare al Gentile uno e trino (filosofo, pedagogo, fascista) con un unico sguardo, giacché la filosofia di Gentile passa dal teoretico al pratico con la pedagogia (che a livello teorico va a coincidere con la filosofia) e con la politica (piano pratico della filosofia politica), possiamo vedere la sua volontà di riforma sul piano filosofico con la riforma della dialettica hegeliana, sul piano pedagogico con la riforma della scuola, e sul piano politico ancora con la riforma della scuola nel contesto più ampio della “riforma” fascista dello Stato, che Gentile approva in base ad un suo personale mix di concezione hegeliana dello Stato e squadrismo in salsa risorgimentale, quasi che il fascismo fosse, per dirla con von Clausewitz, la continuazione del risorgimento con altri mezzi.

3.1. La “riforma della dialettica hegeliana”

3.1.1. L'“idealismo attuale” e la “riforma della dialettica hegeliana”

Nella brevissima ed intensa prefazione a La riforma della dialettica hegeliana (1913), Gentile descrive il proprio idealismo in questi termini: «Questa filosofia, che si può

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egualmente designare come un idealismo attuale (poiché considera l'idea, che è l'assoluto, come atto) o come uno spiritualismo assoluto (poiché soltanto in un assoluto idealismo, che concepisca l'idea come atto, tutto è spirito), move appunto dalla equazione del divenire hegeliano con l'atto del pensiero, come unica concreta categoria logica: equazione, la cui incerta e imperfetta intelligenza è stata la prima radice di tutte le difficoltà, da cui è stato travagliato l'idealismo hegeliano».

Il divenire, quindi è atto del pensiero, del pensiero in atto che, nell'atto, pone se stesso (autoctisi); del pensiero del soggetto che è spirito: «Il reale è dunque autoctisi, perché pensiero». Scrive ancora Gentile: «Il vero e unico positivo è l'atto del soggetto che si pone come tale; e ponendo sé, pone in sé, come suo proprio elemento, ogni realtà che è positiva per questo suo rapporto di immanenza all'atto in cui l'Io si pone in modo sempre più ricco e più complesso». Infatti «l'individuo come natura, o individuo individuato, ci si è dimostrato inintelligibile; e il solo individuo concepibile è quello che s'individua, lo spirito stesso». In coseguenza di tutto ciò «la stessa realtà estrasoggettiva è una realtà posta dal soggetto come tale, quindi, assolutamente parlando, soggettiva anch'essa, ed estrasoggettiva soltanto relativamente al grado o modo di soggettività d'una realtà altrimenti soggettiva» (Teoria generale dello spirito come atto puro, 1916).

In Teoria generale dello spirito come atto puro, infatti, leggiamo che «staccare i fatti dello spirito dalla vita reale di questo, è come perderli di vista e non ravvisarli più nella loro intima natura, per quel che essi sono quando si realizzano», perché «chi dice fatto spirituale, dice spirito. E dire spirito è dire sempre individualità concreta, storica:

soggetto che non è pensato come tale, ma attuato come tale. Non dunque spirito e fatto spirituale è la realtà spirituale, oggetto del nostro conoscere: ma, puramente e

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semplicemente, spirito come soggetto. E come tale essa non è conosciuta se non al patto che s'è detto: in quanto la sua oggettività si risolve nell'attività reale del soggetto che la conosce».

Quindi abbiamo non una oggettività, ma una soggettività dell'oggetto in quanto spirito, la quale soggettività rimanda al soggetto come atto. Ne consegue l'inferiorità della scienza rispetto alla filosofia, giacché «ogni scienza ha altre scienze accanto a sé, ed è perciò una scienza particolare», ovvero mirante «a un oggetto che è esso stesso particolare e può intendersi separatamente dagli altri oggetti». È evidente, quindi, per Gentile, che «la scienza si fonda su un presupposto naturalistico, poiché la realtà soltanto se si consideri come natura può pensarsi composta di più elementi, tra i quali l'uno o l'altro possa essere assunto ad oggetto di indagine particolare». Ogni scienza, quindi,

«presuppone il suo oggetto, e nasce dal ritenere che l'oggetto ci sia innanzi al pensiero, e sia tuttavia da conoscere». Per intendere l'oggetto come creazione del soggetto, la scienza dovrebbe proporsi prima di tutto il problema della posizione del reale in tutta la sua universalità; e allora non sarebbe più scienza, ma filosofia».

Mentre la scienza è dogmatica, la filosofia «è critica, essendo sistematica», dal momento che «cerca di rendersi ragione non solo dell'esistenza degli oggetti che le scienze particolari presuppongono», ma anche del conoscere, «onde ogni scienza si costituisce».

In questo senso va letta, secondo Gentile, la superiorità della filosofia, come superamento dialettico (Aufhebung) di arte e religione: al momento dell'arte, caratterizzato dalla soggettività immediata, fa da contraltare l'antitesi rappresentata dalla religione, nella quale, contrariamente all'arte, la soggettività viene annullata nel concentrarsi unicamente sull'oggetto.

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Ricordo, per inciso, che in Hegel arte, religione e filosofia sono i tre momenti dello spirito assoluto.

Gentile utilizza, quindi, elementi di pensiero fichteano (il Non-io posto dall'Io) come innesto, quindi, sulla dialettica hegeliana, per lui ancora troppo “dialettica del pensato”

per poter essere vera “dialettica del pensare”, ancora troppo poco kantiana per poter realmente essere erede del Kant delle categorie e della sintesi a priori, ancora troppo confusa nella sua identità di “puro essere” e “puro nulla” («Il puro essere e il puro nulla sono dunque lo stesso», scrive Hegel nella Scienza della Logica), la sintesi dei quali non è vero Aufhebung perché non vi sono opposti che si sintetizzino in un divenire di cui Hegel, per Gentile, ha dunque «l'intuizione vaga», ma «non ne ha il concetto». Per Gentile il divenire può essere spiegato solo se la dialettica prende le mosse da un essere che non è indeterminato, ma soggetto pensante, perché soltanto il pensiero diviene e quindi il divenire, come abbiamo più sopra detto, è atto del pensiero.

Scrive ancora Gentile che «la sintesi a priori di Kant è categoria, la quale non è un oggetto del pensiero: non è un pensato, né, veramente, un pensabile». Il «concetto puro non ha nulla di simile ai concetti empirici, che mercé di esso si pensano». Esso infatti «è lo stesso pensiero come atto del pensare, onde si costituisce il pensato».

«Se per dialettica», continua, «s'intende la scienza della relazione, si può affermare che la dialettica antica, quella di Platone, è la dialettica del pensato, laddove la nuova dialettica, richiesta dalla dottrina kantiana delle categorie, è la dialettica del pensare. Tra le due dialettiche c'è un abisso: l'abisso che divide l'idealismo moderno dall'antico. La dialettica del pensato è, si può dire, la dialettica della morte; la dialettica del pensare, invece, la dialettica della vita. Infatti, il presupposto fondamentale della prima è la realtà

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o verità tutta ab aeterno determinata; in modo che non sia più concepibile una determinazione nuova, come determinazione attuale della realtà».

La dialettica del pensare «non conosce mondo che già sia; che sarebbe un pensato; non suppone realtà, di là dalla conoscenza, e di cui toccherebbe a questa d'impossessarsi;

perché sa, come ha dimostrato Kant, che tutto ciò che si può pensare della realtà (...) presuppone l'atto stesso del pensare. (…) Il pensare così non è più postuma e vana fatica, che intervenga quando non c'è più nulla da fare nel mondo, anzi è la stessa cosmogonia.»

Ecco quindi che l'unico metodo praticabile per Gentile è il «metodo dell'immanenza»

(«il punto di vista e la legge dell'idealismo attuale») che «consiste nel concetto della concretezza assoluta del reale nell'atto del pensiero, o nella storia: atto che si trascende quando si comincia a portare qualche cosa (…) che non sia lo stesso Io come posizione di sé, o come Kant diceva, l'Io penso».

Quello di Gentile è dunque, come ho più sopra accennato, un misto di fichtismo (anche se per Gentile la modalità con cui in Fichte il Non-io scaturisce dall'Io non è adeguata) e kantismo (malgrado l'errore rappresentato dal noumeno e dall' Io penso come sintesi a priori prettamente formale) proposto come superamento dell'hegelismo (Hegel ha presupposto l'idea fuori di sé, cioè la natura, “svalutando lo spirito” e ponendo l'identificazione di vero ontologico e vero gnoselogico senza fondarla sull'attività del soggetto, rimanendo quindi nell'astratto del pensiero pensato).

Per Gentile il pensato appare come lo spirito pietrificato che in Schelling è la natura, che ha ancora una componente spirituale, ma non è più spirito: così il pensato è reificazione del pensare, è natura e non più spirito in senso stretto, essendo ormai altro. D'altro canto,

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però, il pensare da solo non può essere senza il pensato, ma il pensato e il pensare non possono essere senza l'atto del pensare che pone il pensare nell'istante, nel quale lo stesso pensato viene ricondotto all'atto che non l'ha posto, ma che sempre lo pone nel momento presente.

3.1.2. L'“idealismo magico”. Evola contra Gentile.

Il controverso Julius Evola, partendo dal suo “idealismo magico”, almeno in parte tenta, diciamo così, di “riformare” la “riforma della dialettica hegeliana” di Gentile, perché, a suo modo di vedere, l'attualismo e quindi la gentiliana “dialettica del pensare” sono, a loro volta, “dialettica del pensato” nel loro fondarsi sulla “spontaneità” (caratterizzata dal «non avere condizioni da altro» perché indica l'attività che ha «in sé il principio» e in cui «il possibile è identico al reale») e non sulla “libertà” (caratterizzata dal «non avere assolutamente condizioni» perché indica un'attività «di cui l'Io, oltre che avere in sé il principio, sta a questo in rapporto di possesso»; libertà, quindi, nella quale «il possibile non è identico al reale). Conseguenza di ciò, per Evola è che «il senso dell'idealistico:

“L'Io pone il non-Io” è, in realtà: “La natura pone se stessa o, più semplicemente: “Un mondo è (ist da)».

Scrive Evola, come nei passi sopra citati, nel capitolo dedicato a Gentile contenuto in Saggi sull'idealismo magico (1925): «In lui lo sforzo di abbracciare e dominare l'insieme del mondo in un principio immanente raggiunge la sua perfezione; ma, dall'altra parte, questo principio resta un semplice ente ideale, è il già criticato “Io trascendentale” e però di quella profonda potenza individuale (…) non esprime che lo smorto riflesso. Potesse il

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Gentile chiamare realmente “Io” l'“atto puro” del suo razionalismo, allora si troverebbe ad apparire non come il professore universitario, la cui “attualità” ha per limite la riforma di programmi scolastici, bensì come quella centralità cosmica che l'esoterica indica per esemio nei tipi del rishi, dello yoghin, del Cristo e del Buddha. Questa è tutta la differenza tra l'“idealismo attuale” e l'idealismo magico».

Evola prosegue, quindi, sulla strada tracciata da Gentile (muovendo a Gentile, mutatis mutandis, le critiche che Gentile muove a Hegel) affermando che il carattere attivo del soggetto gentiliano è relativo e non assoluto, perché esso è spontaneo ma non libero, in quanto la sua opera dialettica creatrice agisce in un orizzonte limitato perché già dato, mentre il soggetto del suo idealismo magico crea non solo il proprio agire ma lo stesso orizzonte nel quale agire, non essendo un mero io trascendente e astratto, ma in un certo qual modo un io concreto e totale, e perciò realmente libero. Evola scrive: «Questa (…) è la concezione dell'idealismo: l'Io al centro del cosmo, creatore di ogni realtà e d'ogni valore; di là da lui, il nulla, poiché la sua teoria lo mostra inesorabilmente chiuso in una prigione, che non ha muri». E questo perché gli idealisti «contrappongono l'individuo concreto a quell'astrazione che è il loro io trascendente e in nome di questo dissolvono il primo», in quanto per loro quel che è reale è «l'Idea (Hegel), Dio (Royce), l'Atto puro (Gentile)».

Per Evola «non si può parlare di potenza finché si riconosca la priorità di qualunque legge o norma, sia essa razionale che morale o naturale, alla libertà e però all'Io, finché ciò che sia bene o male, vero o falso, razionale o irrazionale, essere o non essere non venga semplicemente deciso dall'assoluta affermazione dell'individuale e da null'altro che da essa».

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Per sintetizzare, se Gentile intende l'idealismo assoluto di Hegel talmente relativo da necessitare di essere riformato nella sua sua componente di base, nel suo substrato e nel suo metodo, ovvero nella dialettica, per mezzo di concezioni tipiche dell'idealismo tedesco pre-hegeliano, non da meno è Evola, il quale vorrebbe propugnare un idealismo fichteano-kantiano potenziato, che a ben vedere non è né kantiano né fichteano, ma un prometeico ibrido pseudo-nietzscheano superomistico e orientaleggiante a base di tantra e di vulgate da circolo teosofico, che poco ha che vedere con Fichte, con Kant, con Nietzsche, con la filosofia in generale e con la religione orientale, stralci della quale sono citati senza criterio per costruire una versione dell'idealismo da libreria esoterica.

Perseguendo un idealismo con un “io” talmente assoluto da essere un “dio”, evidenziando «una mania di originalità a qualunque costo» come notò Ugo Spirito, Evola approda ad una caricatura di filosofia idealistica, con al centro un misero autarca (termine evoliano) prometeico solo e da compatire, ignaro di ciò che è alla base dell'umano sentire e della religione, proprio come lo stesso Evola, che cita libri sacri i più vari a sostegno delle proprie tesi, traslasciando la Bibbia e la Bhagavadgītā, all'interno delle quali si trovano non solo l'invito all'amore e alla sympàtheia per gli altri esseri umani che in Evola sono totalmente assenti, ma anche dei passi chiarificatori relativamente al fatto che l'“io assoluto” pertiene solo al Dio che si incarna (Gesù e Krishna2 per esempio) e non allo scrittore reazionario che si crede un dio. Probabilmente a Evola, insieme ad adeguati studi filosofici e di teologia orientale, è mancata nello specifico proprio la conoscenza della già citata Bhagavadgītā, nella quale avrebbe

2 Precisazione: secondo certo vaisnavismo krishnaita, Krishna non è incarnato, ovvero non c'è differenza tra il suo corpo e il sua anima, tanto che, pur essendo presentato come avatar (incarnazione) di Vishnu, per esempio nel Bhagavata Purana, è in realtà Vishnu stesso derivante da Krishna, che è la Personalità suprema (Dio).

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trovato i seguenti passi, a dimostrazione del fatto che il suo autarca orientaleggiante è non solo un assurdo filosofico, ma anche una bestemmia religiosa, attribuendo all'io gli attributi di Dio.

Nella Bhagavadgītā3 Krishna, infatti, dice: «Benché io non sia soggetto a nascere poiché la mia essenza è immutabile, benché io sia il Signore degli esseri, usando della mia propria natura vengo all'esistenza per mio potere magico (maya)» [4:6].

E ancora: «Io sono il padre di questo mondo dei viventi, sua madre, il suo fondatore, il suo avo, l'oggetto della scienza sacra, il purificatore, la sillaba OM, la stanza, la melodia, la formula sacrificale (…) il fine, il sostegno, il signore, il testimone, la dimora, il rifugio, l'amico, l'origine, il dissolvimento, la permanenza, il ricettacolo, il germe, l'immutabile, sono io che riscaldo, che trattengo o libero la pioggia; io sono l'immortalità e la morte; sono io (…) che sono l'Essere e il Non-Essere» [9:17-19]. Quindi Krishna

«mostrò al figlio di Prtha la sua forma suprema e sovrana, provvista di una moltitudine di bocche e di occhi, di una moltitudine di aspetti meravigliosi, di una quantità di ornamenti divini (…) dio infinito dai visi rivolti in tutti i sensi» [11:9-11]. Ecco, questo è Krishna e non può essere Evola.

Evola, per criticare con altezzosità l'idealismo di Gentile, scrive il passo già citato («Potesse il Gentile chiamare realmente “Io” l'“atto puro” del suo razionalismo, allora si troverebbe ad apparire non come il professore universitario, la cui “attualità” ha per limite la riforma di programmi scolastici, bensì come quella centralità cosmica che l'esoterica indica per esemio nei tipi del rishi, dello yoghin, del Cristo e del Buddha») riferendosi quindi ad un Cristo gnostico (“cristico”, esoterico, “illuminato”), ignorando 3 Trad.it. Adelphi, 1996.

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che il Gesù del Cristianesimo ha analogie più con il Krishna dell'Induismo4 che con il Buddha del Buddhismo.

Evola, inoltre, è all'oscuro di un mezzo verso della Bhagavadgītā che spazza via in un soffio il suo idealismo magico: «nessuno è yogin se non ha rinunciato ai progetti interessati» [6:2]. Infatti, solo «rinunciando mentalmente a ogni azione, l'anima incarnata, padrona di sé, sta felice nella fortezza dalle nove porte senza agire né fare agire» [5:13]. Probabilmente ignora anche il Vijñānabhairava5 o, se non altro, il corretto significato del seguente passo che vi è contenuto: «Quello stato mentale che sorge in chi ha superato l'attaccamento, grazie ad un sovrabbondare di devozione, questo è la potenza divina di Shiva. Lo yogin la mediti di continuo ed ecco che diventerà Shiva».

Quindi non quella specie di volontà di potenza auspicata da Evola porta l'“io” a diventare un “dio”, ma il superamento dell'attaccamento unito alla devozione, che però non porta a diventare un dio, ma in comunione mistica con Dio, il quale è l'unico che «possiede e controlla tutto ciò che esiste in questo universo, sia l'animato sia l'inanimato. Noi dobbiamo quindi usare solo il necessario e accettare solo la parte che si è stata assegnata, sapendo bene a chi tutto appartiene».6

4 Cfr. Milli A, Gesù e Krishna, in “Hera”, n. 96, 2008.

5 Trad. it. Adelphi, 2002.

6 Sri Isopanisad, trad. it. The Bhaktivedanta Book Trust, 1998.

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In Così parlò Zarathustra7, del pur ateo Nietzsche, leggiamo: «Potrei credere solo a un dio che sapesse danzare».8 Ma quel dio è proprio Shiva! Nella sua forma di Naṭarāja (Signore della danza), infatti, Shiva danza e, danzando, crea il mondo; quel mondo che, quindi, anche volendo passare, seppur per vie traverse, per Nietzsche (e malgrado Nietzsche) e non per la Bibbia viene creato dalla divinità e non da un autarca che è in ultima analisi un ibrido patologico tra lo Übermensch (per parlare ancora di Nietzsche) e una versione elefantiaca e malata del cogito cartesiano come dell'“Io” dell'idealismo tedesco o italiano; un autarca sicuramente privo di quella devozione alla divinità e di quel superamento dell'attaccamento solo per mezzo dei quali lo yogin può entrare in comunione con il divino (senza mai sostituirsi ad esso).

Anche Ugo Spirito critica «l'immoralità sostanziale della concezione dell'Evola»:

«L'uomo magico» che emerge dallo scritto di Evola, infatti, non amerà il prossimo suo, ma lo piegherà al suo volere e se ne servirà per i suoi fini». Ma i limiti non sono solo morali, ma anche filosofici: «quando l'Evola cerca di precisare i caratteri del suo vagheggiato superuomo, e si sforza di pensarlo e di raffigurarlo, è costretto a poco a poco, e quasi senza avvedersene, a costruirlo secondo uno schema logico e secondo un processo dialettico, in cui l'immediatezza dell'arbitrio si dilegua completamente e l'esigenza storicistica della legge e della necessità si riafferma nel modo più perentorio».

7 Trad. it. Adelphi, 1976.

8 Sarebbe troppo complesso analizzare in questo contesto i tratti dell'ateismo nietzscheano e la pluralità di significati (Dioniso?) attribuibili alla citata affermazione di Zarathustra.

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Insomma, per Ugo Spirito, più che di filosofia, sia tratta di «una colossale beffa fatta a quel mondo che l'Evola si appresta a dominare ed assoggettare al suo arbitrio».9

3.2. Attualismo pedagogico e riforma della scuola

L'attualismo, che è filosofia, viene a configurarsi anche come attualismo pedagogico, giacché, nella concezione gentiliana, pedagogia e filosofia coincidono.

In Sommario di pedagogia come scienza filosofica (1913-14) Gentile ci dice infatti che la pedagogia non può fondarsi sulla psicologia ed essere alla stregua delle scienze sperimentali. La pedagogia, quindi, può e deve essere fondata unicamente sulla filosofia, perché la pedagogia è filosofia. Ne consegue che la tecnica, o le tecniche, dell'educare non hanno spazio primario nella pedagogia che è filosofia, se non nel loro piegarsi ad una concezione e ad una pratica dell'educazione di natura dialettica.

Venendo la pedagogia a coincidere con la filosofia (e, nello specifico, con l'attualismo), non esiste un metodo pedagogico universalmente valido per ogni situazione pratica di rapporto maestro-allievo, giacché nel metodo si annichilerebbe l'insegnamento che è in realtà atto, atto spirituale. Possiamo paragonare il metodo pedagogico alla dialettica del pensato e l'attualismo pedagogico, che rinuncia al metodo, alla dialettica del pensare, di un pensare che è in atto in ogni istante.

Gentile ci suggerisce che il metodo corretto è quello che coincide con il maestro, il quale costruisce «ogni giorno, ogni ora, ogni istante, continuamente un metodo nuovo, identico

9 InGiornale critico della filosofia italiana, n. 4, aprile 1927.

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alla vita sempre nuova del suo pensiero: un metodo vivo», perché il maestro è «lo Spirito nella sua realtà individuale e soggettiva».

Rinunciando a questo suo essere e al “metodo vivo”, «a poco a poco per quello che ha appreso e per quello che insegna (…) il maestro finisce col chiudersi in un certo numero di idee, che sono quelle che sono, e non si correggono, non si trasformano, non vivono e non hanno più il calore della vita, poiché si sono meccanizzate» (La riforma dell'educazione, 1920).

Sempre in Sommario di pedagogia come scienza filosofica, Gentile espone la sua concezione del rapporto vivo e dialettico dell'educare, nel cui atto l'educatore si fa educatore, l'educando si fa educando e il dualismo educatore-educando viene meno, superato nella sintesi superiore rappresentata dall'atto spirituale dell'educazione, nella quale i due spiriti (dell'educatore e dell'educando) diventano un solo spirito:

«L'educatore non è chi si presume capace di educare, ma chi educa». «L'educazione intesa (…) come una realtà spirituale è una sintesi a priori». L'educazione è quindi «un tale rapporto tra educatore ed educando (...) che l'uno non è concepibile senza l'altro».

Del resto «non ogni padre che ha dato la vita a' suoi figli, e li ha riconosciuti per suoi allo stato civile, o li tiene in casa e li nutrisce, è il loro educatore. L'educatore è tale quando educa e in quanto educa. La sua realtà pertanto, assolutamente, si attua nell'educare effettivo. Che è un'azione spirituale, la quale lega indissolubilmente due spiriti. (…) Due spiriti, come due, non sono spirito; e come spirito, non sono due. (...) E allora convien dire che gli spiriti concorrenti nell'atto dell'educare o non sono spirito, o sono uno spirito unico. (…) L'educatore, educando, si fa educatore: e questa è opera spirituale; l'educando, profittando dell'educazione, si fa educando. (…) Nell'atto reale

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della educazione (…) [la] base materiale, su cui si appoggia la concezione dualistica, vien meno.»

Per riportare per un attimo la mente a Hegel, si può quindi dire che Gentile veda il percorso educativo, che è dialettico, come “fenomenologia dello spirito” se visto dal punto di vista del maestro (che sta in alto e aiuta l'allievo a salire) e come “scienza dell'esperienza della coscienza”, se visto dal punto di vista dell'allievo (che sta in basso e deve salire).

Quanto alla riforma della scuola del 1923, essa si connota come il tentativo di applicazione della teoria dell'attualismo pedagogico alla reltà concreta del sistema educativo italiano, sbarazzandosi del positivismo pedagogico.

Caratteristica principale della riforma è una concezione selettiva, ovvero classista (quindi antimeritocratica) e sessista della scuola. Vengono infatti previste, e poi realizzate, scuole per l'élité e scuole per la massa: le prime votate alla cultura umanistica (liceo classico, liceo scientifico, istituti magistrali) e le seconde all'educazione tecnica.

Il classismo non lo si vede unicamente nella distinzione tra scuole umanistiche e scuole tecniche, ma anche nel progettato e attuato aumento delle tasse scolastiche e universitarie e nella interminabile serie degli esami previsti per i vari corsi di studio.

Il classismo e il sessismo insieme sono invece evidenti nel caso del liceo femminile, che non ebbe grande fortuna, il cui fine era quello di formare le ragazze benestanti e future mogli della media borghesia in modo che fossero culturalmente adeguate allo status familiare, anche senza il bisogno di lavorare. Un percorso di studi, insomma, in grado di dare alle ragazze, che in virtù di un buon matrimonio non avrebbero lavorato, una cultura

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che le mettesse in grado di fare conversazione in società e di essere all'altezza del loro status.

Le scuole tecniche e il liceo femminile avevano funzione di “scuole di scarico”, dopo le quali non si poteva accedere ad alcuna facoltà universitaria e che avevano quindi la funzione di “alleggerire” ulteriormente le scuole d'élite, il cui “alleggerimento” era già favorito dal programma di studi e dai suddetti esami, in relazione ai quali vale citare il caso del liceo classico, al quale si accedeva a seguito di un esame di ammissione e che prevedeva per la quarta ginnasio otto ore settimanali di latino e alla fine della quinta un esame per accedere alla prima liceo che contemplava quattro prove scritte e sette orali.

Concludo questa breve analisi riportando due affermazioni di Gentile, che non necessitano di commenti, le quali sono cronologicamente vicine, ma separate dalla marcia su Roma (1922):

«L'educazione mira alla libertà» (La riforma dell'educazione, 1920)

«La riforma tende proprio a questo, a ridurre la popolazione scolastica» (Il fascismo al governo della scuola, 1924).

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