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4 HEIDEGGER E LA TRADIZIONE METAFISICA

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Academic year: 2022

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4 HEIDEGGER E LA TRADIZIONE METAFISICA

Quella di Heidegger è una delle esperienze di pensiero cruciali del Novecento, una sorta di crocevia da cui ancora oggi deve passare – accompagnandosi ad essa o prendendone nettamente le distanze – la maggior parte del- le tendenze e delle discussioni filosofiche contemporanee.

Heidegger è uno di quegli autori spesso considerati di culto, che porta sempre in sé il pericolo di ammaliare e fagocitare nel suo universo linguistico i suoi interpreti, o viceversa di provocare i rifiuti più sprezzanti. Per questo motivo la lette- ratura critica più avvertita ha cercato e sta ancora cercando di ricostruire la storia di questo pensiero al di là del mito (un mito alimentato spesso anche dall’adesione di Heideg- ger al partito nazionalsocialista nei pochi mesi di rettorato all’università di Friburgo tra il 1933 e il 1934). Ci sembra utile proporre in questa prospettiva un brano da uno studio considerato ormai classico nella storiografia heideggeriana, quello di Otto Pöggeler, il quale cerca in pochi tratti di mo- strare tutta la ricchezza e complessità delle fonti, dei motivi e degli sviluppi del pensiero del nostro autore. Come si ve- drà, il brano di Pöggeler è tratto dall’introduzione alla sua celebre monografia e anticipa in sintesi i temi che verranno poi affrontati nel volume.

Alla penna e alla memoria di uno dei suoi più celebri allievi, Hans-Georg Gadamer, è affidato il breve schizzo dall’intento dichiaratamente documentaristico sulla figura di Martin Heidegger: l’uomo, le alterne vicende della sua vita accademica, l’impatto rivoluzionario – ad un tempo carismatico e vertiginoso – del domandare che fece di lui, oltre che un insuperabile maestro, una tappa tuttora impre- scindibile nella storia del pensiero occidentale. Di partico- lare interesse è il fatto che l’autore di questa “memoria”,

Gadamer appunto, sarà colui che, prendendo le mosse non solo dall’analitica esistenziale di Essere e tempo (con la sua attenzione ai fenomeni della comprensione e della storicità), ma anche dall’intensa opera di interpretazione offerta da Heidegger dei momenti e degli autori più impor- tanti della storia della filosofia occidentale, dai presocratici a Nietzsche, svilupperà quella filosofia ermeneutica che co- stituisce uno dei fattori costitutivi del cosiddetto “pensiero continentale”.

Dovendo poi scegliere un punto da approfondire nel vasto intreccio della ricerca heideggeriana, si è scelto di proporre un testo (di Costantino Esposito) sulla questione della tecnica, intesa da Heidegger come uno dei tratti sa- lienti dell’epoca moderna e contemporanea nel suo costitu- tivo rapporto con la storia della metafisica e con il destino nichilistico che la accompagna fin dall’inizio.

Da ultimo si è ritenuto interessante riportare una pagina tanto curiosa quanto acuta scritta su Heidegger da una delle persone che meglio lo ha conosciuto (legata a lui, oltre che da vincoli intellettuali, anche da vincoli affettivi), e cioè la sua allieva e filosofa Hannah Arendt. Nel suo diario, in una parabola filosofica di sapore esopico, la Arendt pa- ragona Heidegger ad una volpe che, dapprima, seguendo l’impulso del suo pensiero originale, si è cacciata in molte trappole, e poi, diventata scaltra, ha costruito la propria tana come una trappola, segno di un pensiero che ha concepi- to se stesso come un destino necessario a cui lo stesso pensatore è per così dire condannato. L’importante, sembra suggerire la Arendt, è che chi entra nella sua tana non resti imprigionato nella trappola.

O. Pöggeler, Il cammino di pensiero di Martin Heidegger

[trad. di G. Varnier, Guida, Napoli 1991, pp. 7-16]

Quando Martin Heidegger, nell’anno 1927, pubblicò la prima parte della sua opera Essere e tempo, il suo pensiero, che tanto a lungo si era venuto compiendo nella tranquillità dell’inse- gnamento universitario, si espose tutt’a un tratto alla viva luce del giudizio del pubblico. Hei- degger, così parve, con Essere e tempo si era posto alla testa di quel movimento fenomenolo- gico a cui sapeva di appartenere, e, anzi, alla testa di quanti all’epoca coltivavano la filosofia.

Non che l’influenza di Essere e tempo rimanesse in alcun modo confinata al circolo ristretto dei cultori degli studi filosofici. L’opera divenne, in seguito, il punto d’avvio di varie deci- sioni di principio: gli uni videro in essa il tentativo, compiuto finalmente in modo radicale, dell’essere umano di rendersi, da solo, del tutto indipendente ed autonomo; per altri l’opera si

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offrì come aiuto nell’impresa di rendere comprensibile in modo nuovo il discorso dell’uomo circa Dio, se non addirittura la parola che Dio rivolge all’uomo. Per molte persone giovani e alla ricerca del loro cammino, Essere e tempo fu un segnale e una guida, anche se solo nel senso che da quest’opera impararono, pur nel buio delle rivoluzioni o della guerra – dall’una o dall’altra parte –, a morire, tuttavia, la «loro» morte.

Heidegger stesso non poté scorgere, nell’attenzione rivolta alla sua opera (che per di più rimase un frammento), nient’altro che un’incomprensione delle proprie intenzioni effettive.

Egli cercava di comprendere anche il destino del suo stesso pensiero, quando – nel suo corso sull’«unico pensiero» di Nietzsche, il pensiero dell’eterno ritorno – ritornava sempre daccapo sulla «necessità» per cui contemporanei e allievi devono fraintendere quel pensatore che pon- ga una questione essenziale (Nietzsche, pp. 229, 243-44, 283 ss., 336 ss.)1. Come Nietzsche aveva taciuto del suo «unico pensiero», così taceva Heidegger adesso. Egli sapeva, come Nietzsche, che «non si ama più a sufficienza la propria conoscenza, appena la si comunica»

(ivi, p. 225). Può un pensatore che sia ancora in cammino, che ricerchi ancora il proprio cam- mino, parlare già del suo cammino? Non deve il parlarne già farlo deviare dal suo unico com- pito: rivolgersi interamente a ciò che è da pensare? Per giunta, ogni comunicazione diretta di ciò che viene pensato non può che portare di nuovo al fraintendimento: ciò che viene pensato non è preso come indicazione, come segnavia nella ricerca del cammino, ma come risultato finito, e così viene «compreso» a partire da ciò che è già noto, quindi ‘incompreso’, frainteso.

Non ci si può porre il compito di combattere questi fraintendimenti. A che cosa potrebbe servire far notare che Heidegger fu frainteso – che, forse, egli stesso, nel suo cammino, per lungo tempo ha frainteso se stesso e il proprio intento? Decisiva è solo la questione del fonda- mento di questo fraintendimento, e della sua provenienza. La «sonnambolica sicurezza» con la quale la filosofia passò sopra «all’unica e autentica domanda» di Essere e tempo, era, come Heidegger riconobbe ben presto, «questione non di fraintendimenti nei confronti di un libro, bensì del nostro essere abbandonati dall’essere» (Che cos’è metafisica?, pp. 329-30). Com- prendere l’origine di questo nostro «abbandono», ricercare la possibilità di una via d’uscita da esso, e quindi trovare, ed aprire, la strada verso ciò che è da pensare, fu da quel momento in poi il compito.

Ciò che voleva Nietzsche con le «poche e velate cose» che comunicò del suo «unico pen- siero», lo vuole anche Heidegger con i saggi, le conferenze e le lezioni che pubblicò dopo l’ultima guerra: «non raggiungere un concepire compiuto, ma avviare una trasformazione dell’atteggiamento fondamentale», una trasformazione dell’atteggiamento fondamentale, a partire dalla quale diventi gradualmente afferrabile ciò che va detto (Nietzsche, p. 228). Ciò che è autenticamente da pensare è, in queste pubblicazioni, «taciuto»; certo tutti i pensieri conducono ad esso, in nessun luogo, però, ci si rivolge ad esso o lo si esprime direttamente.

Poiché, tuttavia, in quell’epoca di crisi i lettori interrogarono le affermazioni del pensatore ricercandovi direttive ultime, anche queste pubblicazioni dovettero venire fraintese – vuoi come rinnovamento della tematica dell’essere della metafisica occidentale, vuoi come via

1 Testi di Heidegger citati in questo brano: Che cos’è metafisica? (1929), trad. it. in Segnavia, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987; Dall’esperienza del pensiero (1910-1976), trad. it. a cura di N. Curcio, Il Melangolo, Geno- va 2011; Essere e tempo (1927), nuova edizione italiana a cura di F. Volpi, sulla versione di P. Chiodi, Longanesi, Milano 2001; In cammino verso il linguaggio (1950-1959), trad. it. a cura di A. Caracciolo e M. Caracciolo Perotti, Mursia, Milano 1979; La questione dell’essere (1955), trad. it. in Segnavia, cit.; Lettera sull’«umanismo» (1947), trad. it. in Segnavia, cit.; Nietzsche, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1994; Saggi e discorsi (1936-1953), trad. it.

a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976; Sentieri interrotti (1935-1946), trad. it. a cura di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1979.

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d’uscita o rifugio in una nuova «mitologia». Soprattutto si credette, poiché non si voleva accompagnare Heidegger fino in fondo nel suo cammino, di dover constatare e discutere un cambiamento del «punto di vista» di Heidegger.

La capacità di comprendere il pensiero di Heidegger si desta solo allorché il lettore dei suoi scritti è disposto a comprendere tutto ciò che ha letto di volta in volta come un passo verso quel ‘da pensare’, verso cui Heidegger è in cammino. Il pensiero di Heidegger dovrebbe essere compreso come un cammino, ma non come il cammino di molti pensieri, bensì come il cammino del limitarsi a quell’uno, ed unico, pensiero, del quale il pensatore spera che «un giorno si arresterà nel cielo del mondo, come una stella»: «l’avviarsi verso una stella, solo questo» (Dall’esperienza del pensiero, p. 35). In questo modo, come avviarsi per un cammi- no, come essere in cammino, Heidegger ha sempre compreso il proprio pensiero. Alla fine della parte pubblicata di Essere e tempo si dice che la lotta intorno all’essere dev’essere anco- ra, innanzitutto, fatta divampare, ma che per questo suo accendersi è necessario armarsi: «la presente indagine è in cammino solo verso questo scopo» (p. 511). Venti anni dopo Heidegger scrive che queste frasi conserverebbero ancora il loro valore. «Restiamo dunque, anche nei giorni che verranno, in cammino, come viandanti diretti nelle vicinanze dell’essere» (Lettera sull’«umanismo», p. 297).

Il cammino che Heidegger cerca di percorrere è un cammino verso le vicinanze dell’esse- re. L’essere è il tema della forma classica del pensiero occidentale della metafisica. Il pensiero di Heidegger vuole, come cammino verso le vicinanze dell’essere, essere nient’altro che il tentativo di percorrere il cammino del pensiero occidentale. Nel percorrere questo cammino, Heidegger crede di dover fare esperienza del fatto che la metafisica occidentale non ha mai definitivamente risolto la sua questione, la questione dell’essere, e che perciò il pensiero oc- cidentale non è mai neppure giunto al suo fondamento. Occorre ricercare questo fondamento, e quindi supporre, trovare e infine dissodare quel campo, che sul fondamento del predominio della metafisica dovette rimanere celato nell’ignoto (Sentieri interrotti, p. 193). Quel cammi- no che il pensiero occidentale indica al di là di sé è il cammino all’indietro verso il proprio impensato fondamento. Il cammino che Heidegger percorre deriva la sua cogenza dal fatto di non avere altro scopo che quello di portare ad espressione in modo verificabile i presupposti impensati del pensiero precedente.

Che il pensiero occidentale possa essere preso come un cammino, presuppone che esso come cammino sia in generale da comprendersi. Secondo la visione di Heidegger, in effet- ti, ogni singola fase della metafisica mostra una porzione di quel cammino «che il destino dell’essere si traccia nel seno dell’ente, in ardue epoche della verità circa l’ente» (ivi, p. 192).

Il cammino di questa verità tuttavia si dispone e si adatta a quell’avvenire onnicomprensivo dell’essere e del senso, di cui il pensiero occidentale, come ogni pensiero, costituisce la base.

Il cammino occidentale scaturisce da un «movimento» [Bewegung], che è quel liberare e dar corso a cammini [Wege], dal quale soltanto dei cammini possono in primo luogo prodursi.

Heidegger ricorda che la parola centrale del pensiero poetante di Laotse, la parola Tao, signi- fica propriamente «sentiero, cammino». «Forse nella parola “cammino”, Tao, si nasconde il mistero di tutti i misteri del parlare pensante, se solo lasciamo riaffondare queste parole in ciò che in esse resta il non detto, e siamo capaci di questo lasciare ritornare [...] Tutto è cammino»

(In cammino verso il linguaggio, p. 156).

Come coloro che percorrono diversi cammini possano parlare gli uni con gli altri, e in qual modo il «dialogo indispensabile» del mondo occidentale con quello dell’estremo oriente (Sag- gi e discorsi, p. 29) possa finalmente essere avviato, è una questione che non può essere decisa anzitempo [vorweg]. Tale questione deve innanzitutto chiarirsi come questione nel corso del

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tentativo di un simile colloquio. Le annotazioni di Heidegger dal titolo Da un colloquio nell’a- scolto del linguaggio, annotazioni di un colloquio con un ospite giapponese, fanno emergere con chiarezza la difficoltà di un tale colloquio (In cammino verso il linguaggio, pp. 83 ss.).

Compito di una introduzione al pensiero di Martin Heidegger può essere solo quello di fis- sare alcuni segnavia, che rendano visibile, in alcuni dei suoi tratti e delle sue svolte, il cammino che Heidegger percorre. L’introduzione deve, di volta in volta, concepire i tentativi di pensiero di Heidegger come passi di un cammino, e così, in un primo modo preliminare, rendere fami- liari al lettore i sentieri nei campi [Feldwege] e i sentieri interrotti [Holzwege], e tutti quei tipi in sé diversi di cammino, che Heidegger percorre. Deve sin dall’inizio rinunciare a comunicare i risultati del pensiero di Heidegger, o a disporre i lavori di Heidegger su di un unico piano, e in tal modo a volerli tutti armonizzare in un intero logico ed unitario. Ad un tale compito essa deve rinunciare non tanto perché non è ancora possibile, o almeno non è possibile in una «in- troduzione», portare a termine un tale tentativo, quanto perché un tentativo del genere è, se con- frontato col cammino del pensiero di Heidegger, in generale inadeguato, lo può solo sfigurare, e può solo nascondere ciò che v’è di più intimamente proprio nelle intenzioni di Heidegger.

L’introduzione deve essere una guida per il cammino del pensiero di Heidegger. In tal modo potrà forse dare il suo contributo affinché, per il lettore degli scritti di Heidegger, il cammino di pensiero di questi si trasformi nella possibilità di un proprio cammino. Ma l’intro- duzione, per poter fare questo, deve condurre il lettore fino alla questione che decide di tutte le altre: se sia o non sia vero che il pensiero occidentale non ha ancora raggiunto il fondamento su cui poggia, che esso ha sì improntato a sé il volto del pianeta con la scienza e la tecnica, ma che non è ancora divenuto capace di giungere ad un collegamento, a partire da ciò che gli è più intimamente proprio, con ciò che è più proprio degli altri grandi cammini dell’accadere della verità. Per coloro per i quali il pensiero di Heidegger si manifesti come la possibilità di un cammino, questo stesso pensiero può divenire lo stimolo a percorrere autonomamente quel cammino sul quale già da sempre si trovano posti, ad accettare questo cammino propriamente come cammino. Quel cammino che Heidegger percorre diviene così, da parte sua, un segna- via sul cammino che ognuno deve percorrere da sé.

Se le cose stanno così, tuttavia, ed ognuno deve percorrere da sé un cammino, allora un’in- troduzione non può neppure proporsi di «portare al cammino del pensiero di Heidegger», so- prattutto essa non può fornire i primi rudimenti della pratica di un pensiero che voglia «porsi sul terreno del pensiero di Heidegger», e qui «pensare oltre». Non si tratta in generale del pensiero di Heidegger, ma soltanto del compito da lui visto. E mai può il cammino dell’uno essere semplicemente il cammino dell’altro, se, invece, i punti di partenza sono diversi. Ma se l’origine [Herkunft] è un’altra, allora anche l’avvenire [Zukunft] deve essere un altro, perché questo è l’origine propriamente afferrata. A colui che prende il cammino di Heidegger come un terreno disponibile, su cui ci si può porre, questo cammino si è già sempre sottratto in quanto cammino di un pensatore. Un pensatore che sia lui stesso in cammino, non ha una dot- trina da comunicare, una dottrina che sia solo da accogliere e da ritrasmettere. Come autore che si impegna in cammini di pensiero, così dice Heidegger nella prefazione ai suoi Saggi e discorsi, egli può solo «al massimo indicare [weisen], senza tuttavia essere egli stesso un sag- gio [Weiser], nel senso del σοφός» (p. 1). Egli non ha nulla da esprimere e nulla su cui infor- mare; non può neppure voler stimolare, «perché coloro il cui interesse è stato stimolato sono già sicuri del loro sapere». Nel caso più fortunato può condurre il lettore ad un cammino, che egli ha già percorso prima, come auctor può cioè determinare un augere, un «(far) crescere».

Il pensiero di Heidegger è sempre frainteso, ancora, allorché lo si prende come il cammi- no verso il nuovo, come ciò che è più moderno nel moderno. Ciò che è peculiare dell’essere

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in cammino tipico del pensiero [denkerisch] consiste proprio nel suo porre in rilievo soltanto ciò che, come dimenticato, ogni pensiero porta [trägt] già sempre in sé. Così questo essere in cammino non produce nulla di nuovo, e non è in nessun caso il progresso verso quel che non è ancora mai stato. Piuttosto, in questo pensiero, è il passo all’indietro, il ritorno a ciò che è stato, all’impensato dell’origine [Herkunft], ad essere il cammino verso il futuro. Questo cammino all’indietro, il ritorno che indugia [verweilend] verso ciò in cui noi siamo già sempre, è forse quanto vi è di più difficile, è «infinitamente più difficile» dei frettolosi tragitti della coscienza progressiva, scientifico-tecnica (In cammino verso il linguaggio, p. 150). Poiché il pensiero essenziale [wesenhaftes] percorre un cammino peculiare, si sottrae all’attenzione scientifica per i risultati ed i progressi di volta in volta più recenti della ricerca, così come al fiuto giornalistico per ciò che è, al momento, moderno o modernissimo. Coloro che comprendono il pensiero di un pensatore, non sono mai coloro «che si occupano immediatamente dell’ultimo pensiero alla moda in quanto è qualcosa di ‘moderno’: infatti costoro sono le persone senza terreno [Boden- losen], che si pascono soltanto di ciò che, di volta in volta, è moderno. Quelli che propriamente comprendono sono sempre quelli che vengono da lontano, per una ragione [Grund] e da un terreno [Boden] loro propri, e che portano molto con sé, per molto trasformare». I primi seguaci, così dice Heidegger con Nietzsche, «non provano nulla contro una dottrina» (Nietzsche, p. 337).

Il cammino di un pensiero si sottrae sempre anche alla curiosità di quanti vogliono sapere come sono andate le cose. E qui sta il pericolo maggiore che minaccia questa introduzione:

essa cerca di concepire i lavori di Heidegger come passi di un cammino di pensiero, affinché il pensiero di Heidegger divenga l’impulso affinché il lettore stesso percorra il cammino del pensiero; l’introduzione potrebbe però venire presa come un tentativo di esposizione storica, di «spiegazione» della «evoluzione» del pensiero di Heidegger. Anche prescindendo del tutto dal fatto che una siffatta esposizione non sarebbe possibile, non foss’altro perché non si avreb- bero a disposizione sufficienti fonti e materiali per poterla avviare, non è comunque lo scopo di questa introduzione rappresentare il pensiero di Heidegger come qualcosa di conchiuso e relegarlo così nel passato, per poi, eventualmente, discutere anche le sue future chances di affermazione, e comunque per venirne così definitivamente a capo. «Il voler sapere e l’avida richiesta di spiegazioni», così dice Heidegger, «non portano mai ad un interrogare pensante.

Nel voler sapere si cela già sempre la presunzione di un’autocoscienza che si appella ad una ragione che si è inventata da sé, e alla sua razionalità. Il voler sapere non vuole che si stia in ascolto di ciò che è degno di pensiero» (In cammino verso il linguaggio, p. 92). [...]

Da ultimo, questa introduzione aspirerebbe a sottrarre il pensiero di Heidegger l’avidità di quel tipo di precomprensione [Ausgriff] che ricerca subito risposte ultime alle questioni del sa- pere e della fede – una precomprensione alla quale l’inquietudine e il travaglio del nostro tempo inducono spesso con troppa leggerezza e rapidità. Senza dubbio alcuno il pensiero di Heideg- ger è segnato da decisioni ultime, da svolte lentamente maturatesi e da ardui, repentini capo- volgimenti. Ci si può quindi, ad es. porre il problema del rapporto del primo Heidegger con la teologia cristiana, del rapporto dello Heidegger tardo con la theologia poetica di Hölderlin; ci si può interrogare circa le decisioni politiche di Heidegger, e circa il suo tentativo di compren- dere ciò che avviene oggi nella storia mondiale [weltgeschichtlich]. Ci si può così anche porre il problema dei caratteri «gnostici» di Essere e tempo, e dei tentativi più tardi di ritornare ad un’epoca prima [Frühe] in cui il «mondo» sia ancora «patria» [Heimat], e il pensiero si trovi in prossimità del mito e del dire poetico. Ci si può, ancora, porre il problema del collegamento del pensiero di Heidegger con fenomeni contemporanei quali ad es. la teologia «dialettica» o l’esi- stenzialismo. Ma chi pone tali domande in genere suole giudicare il collegamento di Heidegger con questo o con quest’altro a partire da una risposta agli interrogativi ultimi del pensiero o

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della fede. Resta solo da domandarsi se tali domande non vengano prima di quell’interrogativo che in realtà decide di tutto, e di fronte a cui lo stesso cammino del pensiero di Heidegger ci pone. In ogni caso, domande del tipo sopraccennato sono state, in questa introduzione, messe tra parentesi; esse possono essere poste in modo corretto, anzi essere poste in genere, solo dopo che chi si interroga sia giunto a quel ‘da pensare’ verso cui Heidegger è in cammino. Quando il pensiero di Heidegger viene posto in collegamento con correnti storiche contemporanee o attuali, questa ricerca di collegamenti, nella maggior parte dei casi, dice qualcosa soltanto cir- ca i desideri, l’intento e le opinioni di coloro che li mettono in luce. Perciò faremo meglio a guardarci dal voler iscrivere troppo affrettatamente Heidegger in contesti per noi attuali, per aprirci piuttosto alla comprensione [Einsicht] di quanto estraneo il suo pensiero risulti essere nel nostro tempo, e tra le cose che in esso sono attuali. Questa estraneità non dev’essere colma- ta troppo frettolosamente: ancor prima, essa deve essere apprezzata in tutta la sua profondità.

Per quel che riguarda le risposte alle questioni ultime del sapere e della fede, Heidegger protesta espressamente contro chi attribuisca al pensiero la «arrogante pretesa» di «sapere la soluzione dell’enigma e di portare la salvezza». Egli stesso vuole, al modo di «chi non cessa mai di apprendere», semplicemente controllare, nel pensiero che lo precede, che cosa sia an- cora impensato, per riuscire forse, nella sua propria maniera, a scoprire la località [Ortschaft]

della verità dell’essere come località di un futuro costruire ed abitare. «Eppure solo attraverso un costruire possiamo preparare il dimorare in quella località. Tale costruire difficilmente può già soffermarsi a pensare di erigere la casa per il Dio e le dimore per i mortali. Esso deve ac- contentarsi di costruire il cammino...» (La questione dell’essere, pp. 355, 371).

Quanto poco l’usuale «occuparsi» di Heidegger attinga l’ambito di questo pensiero, emer- ge in modo inequivocabile nel fatto che così non si può lasciare Heidegger in pace, non lo si può lasciare nello spazio aperto, libero, del suo cammino. Non ricercare subito risposte ulti- me, non volere giudicare né pronunziare giudizi precipitosi, ma anzi, prima di tutto, soltanto prestare ascolto a quell’unica domanda che Heidegger pondera in tutti i suoi aspetti, questa è la prima richiesta da porre a chi voglia «comprendere» Heidegger. Un simile ascolto non apporta alcun accrescimento del sapere; e neppure fissa o scova alcunché dando una risposta a questioni ultime. Potrebbe darsi, tuttavia, che in tale ascolto il pensiero di ciascuno, imper- cettibilmente, si muova dal proprio fondamento e si trasformi. L’ascolto pacato, che non si aspetta nulla e non vuol nulla per sé, eppure è pronto a lasciarsi mettere alla prova, e trasfor- mare, da un richiamo, è forse il solo capace di fare l’esperienza di quel ‘da pensare’ da cui il pensiero di Heidegger è stato chiamato sul suo cammino.

La presente introduzione si propone di essere un segnavia per questo cammino; e nient’al- tro dev’essere, in effetti, che un tale segnavia, con cui possa orientarsi chi ricerca un proprio cammino, e che però deve essere lasciato dietro di sé da chi su questo cammino si sia già av- viato. Forse può, per l’uno, rendere visibile, in maniera preliminare, il cammino di Heidegger come possibilità di un proprio cammino, per l’altro essere un ulteriore motivo per giungere alla decisione finale di non percorrerlo. Come che sia, è sufficiente che questa introduzione al pensiero di Heidegger chiarisca almeno un poco, per il cammino del pensiero di Heidegger in generale, quel che una volta Heidegger stesso, in un colloquio con un ospite giapponese, ha così espresso in riferimento ad un tratto ben determinato del cammino: «Seguivo sempre nien- te di più che una traccia vaga di un cammino [Wegspur] – ma la seguivo. La traccia era una promessa appena percepibile, che annunziava la liberazione di un’uscita all’aperto [Befreiung ins Freie], ora in maniera oscura e disorientante, ora fulminea come uno sguardo dall’alto, che poi ancora una volta, e per lungo tempo, si sottraeva ad ogni ripetuto tentativo di esprimerlo»

(In cammino verso il linguaggio, p. 114).

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H.-G. Gadamer, Maestri e compagni nel cammino del pensiero.

Uno sguardo retrospettivo

[trad. di G. Moretto, Queriniana, Brescia 1980, pp. 170-179]

Quando nell’autunno del 1974 Martin Heidegger celebrò il suo 85° compleanno devono es- sere stati in molti, nella generazione più giovane, a provare un vero senso di stupore. Da tanti decenni infatti il pensiero di quest’uomo è nella coscienza comune e la sua presenza nelle alterne vicende del nostro secolo, pur col variare delle costellazioni, non conosce contesta- zioni. A periodi di vicinanza a Heidegger si alternano periodi di lontananza, come succede soltanto agli astri veramente grandi che determinano le epoche. Ci fu dapprima il periodo immediatamente successivo alla prima guerra mondiale, durante il quale ebbe inizio l’attività del giovane assistente di Husserl a Friburgo. E già allora emanava da lui un’irradiazione in- comparabile.

Venne poi, nei cinque anni dell’insegnamento di Heidegger a Marburgo, la rapida ascesa della sua attività accademica, culminata nel 1927 con la pubblicazione di Sein und Zeit – e fu d’un colpo la fama mondiale.

A quei tempi, in un’Europa che dal 1914 aveva iniziato la parabola della sua provincia- lizzazione e nella quale soltanto le scienze naturali potevano provocare una rapida eco inter- nazionale – si pensi ai nomi di Einstein, Planck e Heisenberg, oltre naturalmente ai teologi, come ad esempio Karl Barth, che la chiesa s’incaricava di far conoscere al di là delle frontiere nazionali – la fama del giovane Heidegger, che andava conquistando il mondo, era qualcosa di veramente singolare. Quando, dopo il crollo del Terzo Reich, Heidegger non potrà più rico- prire la sua cattedra friburghese, a causa della sua iniziale adesione a Hitler, un vero e proprio pellegrinaggio internazionale incomincerà a dirigersi verso Todtnauberg, dov’egli trascorreva gran parte dell’anno nella sua ‘Hütte’ (rifugio), una modestissima casetta sui monti della Fo- resta Nera.

Gli anni Cinquanta rappresentarono di nuovo un punto culminante della sua ‘presenza’, benché egli non avesse ancora ripreso l’insegnamento. Di questo periodo ricordo una sua venuta a Heidelberg per una conferenza su Hölderlin, e il problema tecnico che si dovette af- frontare per prevenire in qualche modo i rischi rappresentati dall’enorme affluenza di uditori nella grande aula magna della nuova università. Un problema che si riproponeva ad ogni sua apparizione in pubblico.

Vennero poi gli anni tumultuosi dello sviluppo economico e tecnico, del benessere e del comfort, e nuovi, disincantati modelli di pensiero fecero la loro apparizione tra la gioventù accademica. Le forze culturali determinanti erano ormai la tecnologia e la critica marxista dell’ideologia; per Heidegger non c’era posto nella ‘chiacchiera’, che egli stesso un tempo aveva descritto così ferocemente, – nell’attesa che ai nostri giorni, come sembra, una nuova gioventù lo riscoprisse lentamente, come un classico del passato.

Qual è il mistero di questa perdurante presenza? In verità a Heidegger non sono mancati né mancano a tutt’oggi gli avversari. Negli anni Venti egli si era imposto alla resistenza di innumerevoli forme di filisteismo accademico, e i dieci anni dal 1935 al 1945 – ma non meno risolutamente tutti gli organi di formazione dell’opinione pubblica, dalla fine della guerra ad oggi, – non gli furono davvero favorevoli. La distruzione della ragione (Lukács), il ger- go dell’autenticità (Adorno), l’abbandono del pensiero razionale in favore di una mitologia pseudo-poetica, la sua battaglia donchisciottesca contro la logica, la fuga dal tempo nell’‘Es- sere’ – e la serie degli attacchi e delle accuse potrebbe continuare a piacimento. Eppure se in

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questi giorni l’editrice Klostermann annuncia un’edizione completa, in settanta volumi, delle opere di Martin Heidegger, può essere certa che tutti sono interessati all’iniziativa. Neppure colui che ormai non sa più nulla di Heidegger può rimanere indifferente se gli capita sotto gli occhi la fotografia del vecchio uomo solitario, intento a spiare dentro di sé, ad ascoltare le voci che di là gli giungono e a meditare su ciò che lo trascende. E se si ritiene convinto di essere

‘contro’ Heidegger – ma la cosa non muterebbe se si dichiarasse a lui ‘favorevole’ – non fa che rendersi ridicolo. Non è facile passare davanti al pensiero senza accorgersene.

Come succede tutto questo? Come è successo? Mi ricordo ancora esattamente del modo in cui ne udii la prima volta il nome. Fu a Monaco, nel 1921. Durante un seminario di Moritz Geiger ero rimasto colpito dall’intervento di uno studente, che parlava in modo estremamente strano e patetico, con uno stile insolito. Quando in seguito chiesi a Geiger di che si trattasse, egli mi rispose con la massima naturalezza: «Ah, quello è heideggerista». Non dovevo esserlo anch’io molto presto? Appena un anno più tardi il mio maestro Paul Natorp mi dava da leg- gere un manoscritto di Heidegger di una quarantina di pagine, un’introduzione alle interpreta- zioni di Aristotele. Quella lettura mi colpì come una scarica elettrica. Un’esperienza analoga l’avevo vissuta a diciott’anni, quando incontrai per la prima volta i versi di Stefan George (il cui nome mi era del tutto sconosciuto). Non posso certamente dire di aver dedicato una suf- ficiente comprensione all’analisi, che Heidegger svolgeva in quelle pagine, della ‘situazione ermeneutica’ in vista di un’interpretazione filosofica di Aristotele. Mi è però rimasto impresso e ricordo ancora oggi che vi si parlava del giovane Lutero, di Gabriel Biel e Pietro Lombardo, di Agostino e Paolo, e che Aristotele veniva preso in considerazione proprio in questo modo;

ricordo inoltre che vi si usava un linguaggio estremamente insolito e si parlava dell’‘Um-zu’, del ‘Woraufhin’, del ‘Vorgriff’ e del ‘Durchgriff’. Non si trattava di una semplice impresa erudita o della tranquilla esposizione storica di un problema. Succedeva invece che l’intero Aristotele ti entrasse in corpo; gli occhi mi si aprirono quando, in seguito, ricevetti a Friburgo la prima iniziazione.

Sì, proprio così: ti venivano aperti gli occhi. Oggi si è soliti rimproverare a Heidegger la mancanza di precisione concettuale e una vaghezza poetizzante. È vero, dallo strano ‘mezzo- inglese’, che oggi domina lo stile filosofico, il linguaggio di Heidegger è altrettanto lontano che dai simbolismi matematici o dai giochi con categorie e modalità, che io avevo praticato nella Marburgo neokantiana. Quando Heidegger insegnava, si vedevano le cose davanti a sé, quasi fossero afferrabili fisicamente. In forma più limitata e con riferimento al solo campo elementare della fenomenologia della percezione, qualcosa di simile si poteva dire anche di Husserl. Neppure la sua ‘terminologia’ era l’aspetto fenomenologicamente più produttivo del suo linguaggio. Non a caso il giovane Heidegger, tra tutti i lavori di Husserl, preferiva la sesta Ricerca logica, in cui trovava sviluppato il concetto di ‘intuizione categoriale’. Oggi questa dottrina husserliana è ritenuta insoddisfacente sotto molti punti di vista ed è criticata dalla logica moderna. La sua pratica però – come quella di Heidegger – è ben lungi dall’essere con- futata. Si trattava dell’incontro, nella filosofia, con il linguaggio vivente, che non può essere ottenuto da nessun perfezionamento tecnico degli strumenti logici.

Nell’autunno del 1923 Heidegger passava a Marburgo come giovane professore. Si ac- comiatò dalla nativa Friburgo invitando un gran numero di amici, colleghi e studenti ad una serata estiva nella Foresta Nera. Lassù, in un prato, venne appiccato il fuoco ad un’enorme catasta di legna e Heidegger tenne un discorso che ci impressionò tutti – iniziava con le pa- role: «Vegliare al fuoco della notte», cui faceva seguito l’espressione: «I greci...». Come non scorgervi il pedaggio pagato al romanticismo del movimento giovanile? Eppure si trattava

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di qualcosa di più. Era la risolutezza di un pensatore che, in un unico istante, sapeva vedere l’oggi e il passato, il futuro e la filosofia greca.

Non ci si può fare un’idea sufficientemente drammatica dell’apparizione di Heidegger a Marburgo. Non che egli mirasse a suscitare scalpore. Certo il suo salire sulla cattedra aveva anche qualcosa della cosciente sicurezza dell’effetto, ma la peculiarità della sua persona e del suo insegnamento stava piuttosto nel fatto che egli fosse totalmente assorbito dal suo lavoro – e ciò aveva una sua influenza. Con lui la lezione divenne qualcosa di totalmente nuovo, non era più l’‘organizzazione’ da parte di un professore che dedicava il meglio delle sue energie alla ricerca e alle pubblicazioni.

I lunghi monologhi libreschi con Heidegger perdettero la loro aureola. Quello che egli dava, era di più: era il pieno impiego dell’intera energia – e di quale geniale energia! – di un pensatore rivoluzionario che, addirittura, si spaventava lui stesso dell’audacia delle sue do- mande sempre più decisamente radicalizzanti ed era talmente preso dalla passione del pensie- ro da trasmetterla al suo uditorio con un fascino che nulla era in grado di esorcizzare. Chi può dimenticare la furiosa polemica con cui attaccava l’esercizio della cultura e della formazione culturale di quegli anni, la ‘follia alle porte’, il ‘si’ (man), la ‘chiacchiera’, «tutto ciò senza un significato dispregiativo» – e per giunta anche questo! –, chi può dimenticare il sarcasmo con cui parlava di colleghi e contemporanei, chi tra coloro che lo seguirono a quel tempo può di- menticare il vortice frenetico di domande, che egli sviluppava nelle ore introduttive del seme- stre, per poi irretirsi completamente nella seconda o nella terza di queste domande, – mentre soltanto nelle ultime ore del semestre si addensavano le oscurissime nuvole da cui guizzavano i lampi che ci avrebbero lasciati mezzo storditi?

Dopo aver ascoltato per la prima (e unica) volta, una lezione di Heidegger – la prima che questi tenne a Marburgo – Nicolai Hartmann mi disse di non ricordare un comportamento così energico dai tempi di Hermann Cohen. Erano in realtà due antipodi: il freddo, riservato oriundo dei Paesi baltici, che si comportava come un signore borghese, e il piccolo uomo dagli occhi scuri, mezzo contadino e mezzo montanaro, il cui temperamento, nonostante tutto l’autocontrollo, non cessava mai di imporsi. Una volta li vidi incontrarsi sulle scale dell’uni- versità di Marburgo: Hartmann si recava a lezione, come sempre in pantaloni a righe, giacca nera e colletto bianco fuori moda, Heidegger invece tornava dalla lezione, in tenuta da sciato- re. Hartmann si fermò e disse: «È possibile che Lei vada in questo modo a tenere lezione?».

La risata divertita di Heidegger aveva le sue buone ragioni. Quella sera infatti tenne una con- ferenza sullo sci come introduzione ad un corso – allora nuovo – su questo sport. L’esordio della conferenza fu tipicamente heideggeriano: «A sciare si impara soltanto sul terreno e per il terreno». Il tipico colpo con cui venivano sconvolte le attese alla moda, e insieme l’avvio di nuove attese! «Se uno compie un decoroso stemmcristiania, sono disposto a prenderlo con me in ogni escursione sciistica».

Heidegger, sciatore dall’infanzia, aveva in generale qualcosa di sportivo, e la scuola hei- deggeriana ne è rimasta contagiata. Noi eravamo la seconda squadra di palla a pugno di Marburgo, che arrivava sempre in finale e alle cui partite di allenamento, durante l’anno, partecipava lo stesso Heidegger – benché in questo campo non si rivelasse così superiore a noi come lo era in tutto il resto.

Naturalmente non andava sempre in giro vestito da sciatore, ma neppure lo si vide mai in giacca nera. Portava piuttosto un vestito caratteristico – da noi definito il vestito ‘esistenziale’

–, un nuovo modello da uomo, disegnato dal pittore Otto Ubbelohde e imitante i costumi dei contadini; in effetti, in tale abbigliamento, egli assumeva l’umile fascino di un contadino con il vestito della domenica.

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Heidegger iniziava molto presto la sua giornata e già di primo mattino, quattro volte la settimana, ci rimpinzava di Aristotele. Si trattava di interpretazioni memorabili sia per la po- tenza dell’illustrazione oggettiva sia per le prospettive filosofiche che vi venivano dischiuse.

Alle lezioni di Heidegger le cose ti entravano talmente in corpo che non sapevi più se stesse parlando dei propri problemi o di quelli di Aristotele. Era una grande verità ermeneutica quel- la che noi tutti allora incominciavamo a sperimentare in noi stessi e che io, più tardi, dovevo giustificare e sostenere teoreticamente.

Noi studenti eravamo una piccola popolazione molto orgogliosa e ci lasciavamo montare terribilmente la testa dall’orgoglio per il nostro maestro e il suo ethos del lavoro. Ci si im- magini ora che cosa succedeva agli heideggeriani di secondo e terzo grado, a coloro il cui talento scientifico era minore o il cui stato di formazione non era ancora molto progredito.

Su essi Heidegger agiva come una droga. Il vortice di interrogazioni radicali, in cui egli ci trascinava, nella bocca degli imitatori assumeva dimensioni di caricatura. Detto apertamente, non avrei voluto essere un collega di Heidegger a quel tempo. Ovunque si potevano vedere studenti che dal maestro avevano imparato alla perfezione ‘come egli si schiarisce la voce e come sputa’. Erano giovani che con le loro ‘domande radicali’, il cui girare a vuoto era pari solo alla presunzione, creavano un grande scompiglio nel seminario; se poi si esibivano nel loro oscuro tedesco heideggeriano, a qualche professore poteva venire in mente l’esperienza, descritta nella commedia di Aristofane, della gioventù ateniese che, istruita da Socrate e dai sofisti, metteva alle corde i propri interlocutori. Certamente, come allora non costituiva una vera obiezione nei confronti di Socrate, così ora non deponeva contro Heidegger il fatto che succedessero tali cose e che non tutti i suoi seguaci si dedicassero a un lavoro serio. Rimase comunque uno dei drammi più sorprendenti il fatto che Heidegger, che pure aveva coniato l’espressione ‘freigebende Fürsorge’ (cura liberante), nonostante tutta la libertà – o meglio:

con tutta la libertà – che sapeva infondere, non abbia impedito che molti perdessero irrime- diabilmente, proprio nel rapporto con lui, la loro libertà. Le farfalle sono attratte dalla luce.

Ce ne accorgemmo al tempo in cui Heidegger stava scrivendo Sein und Zeit. Anticipa- zioni di quest’opera si potevano cogliere in osservazioni occasionali. Un giorno, durante un seminario su Schelling, ci lesse la frase: «l’angoscia della vita stessa espelle l’uomo dal cen- tro» – e aggiunse: «Mi citino una sola frase di Hegel capace di eguagliare questa frase in profondità!». Come è noto il primo effetto di Sein und Zeit – in particolare nella teologia – fu quello di un appello esistenziale all’anticipazione della morte, all’‘autenticità’. Si senti- va parlare più di Kierkegaard che di Aristotele. Ma già nel libro su Kant, apparso nel 1929, non si parlava più dell’esistenza (Dasein) dell’uomo, bensì, e improvvisamente, dell’‘esser-ci (Da-Sein) nell’uomo’. Ora veniva in primo piano il problema dell’essere e del suo ‘Ci’ (Da), che Heidegger aveva mutuato dall’aletheia greca (non-nascondimento). Non si trattava di un Aristoteles redivivus, ma di un pensatore il cui predecessore non era soltanto Hegel, ma anche Nietzsche, e che si rifaceva alle origini, a Eraclito e Parmenide, poiché aveva scoperto l’incessante contrasto di nascondimento, e il mistero del linguaggio, nel quale accade sia la chiacchiera che il ‘salvataggio’ del vero.

Tutto ciò Heidegger realizzò pienamente soltanto dopo il ritorno in patria, a Friburgo e nel- la Foresta Nera, allorché, come egli stesso ebbe a scrivermi, incominciò «a sentire le energie del suolo antico». «Tutto si trovò su un piano inclinato». Questa sua esperienza intellettuale egli la definì la ‘Kehre’ (svolta) – non nel senso teologico di una conversione, ma nell’acce- zione che gli derivava dal proprio dialetto. La Kehre è la curva della strada che si inerpica su per la montagna. Qui non è il viandante a girarsi, ma è la strada stessa che si volge nella direzione opposta – per portare in alto. Verso dove? Nessuno potrà dare una facile risposta a

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questa domanda. Non a caso Heidegger ha intitolato Holzwege una delle sue più importanti raccolte di lavori tardivi. Gli Holzwege sono sentieri che non proseguono e costringono il viandante a salire verso l’inesplorato o a ritornare sui suoi passi. Ma la vetta rimane.

Del periodo friburghese di Heidegger, del 1933 e degli anni seguenti, non so nulla per visione diretta. Ma che Heidegger, dopo l’intermezzo politico, seguisse con nuovo slancio la passione del pensiero e che questo lo conducesse verso nuove regioni inesplorate, divenne presto evidente anche da lontano. Ci fu allora una conferenza su alcune parole fondamentali di Hölderlin che, abbastanza stranamente, venne pubblicata sulla rivista ‘Das innere Reich’.

Si ebbe l’impressione che Heidegger avesse rivestito il proprio pensiero con la parola poetica di Hölderlin sul Divino e gli Dei.

Poi un giorno (nel 1936) andammo a Francoforte per ascoltare una lezione di Heidegger, che parlò per tre ore su ‘L’origine dell’opera d’arte’, ‘Il paesaggio deserto’, così Sternberger intitolava il suo resoconto sulla ‘Frankfurter Zeitung’. Certamente il rigore esigente di questa peregrinazione intellettuale era estraneo all’articolista, all’amico di un panorama dominato dall’attività umana. Era anche davvero insolito sentirvi parlare della Terra e del Cielo e del loro conflitto come se si trattasse di concetti del pensiero, paragonabili a quelli di materia e forma, usati nella tradizione metafisica. Metafore? Concetti? Enunciazione di pensieri o an- nuncio di un mito neopagano? Sembrava che il nuovo modello fosse diventato lo Zarathustra di Nietzsche, il maestro dell’eterno ritorno dell’uguale; in effetti in quegli anni Heidegger era intento a fornire una profonda interpretazione di Nietzsche che, alla fine, sarebbe confluita in un’opera in due volumi, vero pendant di Sein und Zeit.

Ma non si trattava di Nietzsche. E neppure vi si aveva a che fare con una qualche stra- vaganza religiosa. Se anche, a volte, vi risuonavano accenti di carattere escatologico e, in maniera abbastanza oracolare, vi si parlava de «il Dio» che «probabilmente, all’improvviso»

potrebbe apparire, si trattava di estrapolazioni del pensiero filosofico e non di annunci profe- tici. Era in atto una battaglia per la conquista di un linguaggio filosofico che, al di là di Hegel, ma anche al di là di Nietzsche, potesse ‘ripetere’, riprendere l’antichissima origine del pen- siero greco. Ricordo che una volta, durante gli anni della guerra, lassù nella Hütte, Heidegger incominciò a leggermi un saggio su Nietzsche, cui stava lavorando. Ad un tratto si interruppe, batté così forte sul tavolo che le tazze del té tintinnarono, e uscì in un grido eccitato e dispe- rato: «Ma tutto questo è cinese!». Era l’indigenza del linguaggio che sperimenta soltanto chi ha qualcosa da dire. Per far fronte a questa indigenza e per non lasciarsi sviare, nella sua in- terrogazione sull’‘Essere’, dalle proposte della metafisica ‘onto-teologica’ tradizionale e della sua concettualità, Heidegger dovette impegnare tutte le proprie energie. Era precisamente questa ostinata energia del suo pensiero che traspariva ogniqualvolta teneva una conferenza:

su «Costruire, Abitare, Pensare», nella grande sala dei Colloqui di Darmstadt, sulla ‘cosa’, che si concluse in un’enigmatica ridda di parole, o interpretava una poesia di Trakl o un testo tardivo di Hölderlin – spesso nel troppo raffinato stabilimento terapeutico Bühlerhöhe, dove una volta lo seguì persino Ortega y Gasset, attratto da questo ricercatore d’oro del linguaggio e del pensiero.

Poi tornò di nuovo ad adattarsi interamente agli ordinamenti della vita accademica. In una seduta regolare di lavoro dell’Accademia delle scienze di Heidelberg parlò su ‘Hegel e i greci’. In occasione del centenario dell’università di Friburgo tenne, come commemorazione, una lunga, difficile conferenza su ‘Identità e differenza’ – per la stessa circostanza tenne per- sino, come ai vecchi tempi, un seminario con i suoi antichi scolari su un’unica frase di Hegel:

«die Wahrheit des Seins ist das Wesen», proprio tutto come una volta. Il che vuol dire: inchio- dato al suo interrogare e pensare, tastando in avanti con il piede alla ricerca di un fondamento

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solido per i suoi passi, infastidito se non si indovinava dove cercava un appoggio, e incapace ad aiutare gli altri se non con l’impeto del proprio impegno intellettuale. Spesso io mi sono preoccupato di procurargli degli incontri con il circolo dei miei studenti di Heidelberg. A vol- te si avviava un colloquio, si veniva cioè coinvolti in una peregrinazione del pensiero senza smarrire la strada. Soltanto chi va insieme sa che si tratta di una strada.

Oggi invece i più si comportano in maniera diversa. Non vogliono andare insieme, ma sanno in antecedenza dove si va, o addirittura sanno meglio degli altri dove si dovrebbe andare. Perciò non hanno alcun altro interesse che situare Heidegger, ad esempio, nella crisi del mondo borghese del tardo-capitalismo: Fuga dal tempo nell’Essere, o in un intuizionismo irrazionalistico: noncuranza nei confronti della logica moderna. Forse gli uomini di oggi s’in- gannano pensando che non avrebbero qualcosa da situare né potrebbero superare criticamente qualcosa se questo filosofare semplicemente non esistesse, più irriflesso di quello di tutti i contemporanei, sordo alla mera riflessione su queste cose. Due cose comunque dovrebbero risultare innegabili per chiunque: Nessuno prima di Heidegger ha pensato così a fondo per rendere comprensibile lo sbocco della storia umana nella civiltà tecnica di oggi e la lotta per il dominio della terra muovendo direttamente dal pensiero dei greci, dalla loro fondazione della scienza e dalla loro creazione della metafisica. Inoltre, nessuno, in una tale impresa, si è più di lui spinto tanto oltre sul terreno incerto di concetti non convenzionali da intravvedere da lontano, per la prima volta, esperienze umane di altre culture come nostre possibilità di esperienza.

Tra i molti pellegrini di Todtnauberg ci fu un giorno anche il poeta Paul Celan, e dal suo incontro con il pensatore nacque una poesia. Si pensi: un perseguitato ebreo, un poeta che non viveva in Germania, ma a Parigi, un poeta comunque tedesco, osa compiere, angosciato, questa visita. Deve averlo accolto la delizia degli occhi (Augentrost) di una modesta tenuta agricola con la sua fonte scorrente («e al di sopra il dado-astro») e di un piccolo contadino dall’occhio sfavillante. Come tanti, ha scritto il suo nome sul libro della Hütte, con una riga di speranza, che serbava in cuore. Poi lassù, sui morbidi prati, ha passeggiato con il pensatore, chiusi entrambi nella propria solitudine, come i fiori che crescono isolati (‘orchis e orchis’).

Soltanto più tardi, sulla via del ritorno, gli divenne chiaro quel che gli sembrava ancora crudo nelle parole mormorate da Heidegger – incominciò a comprendere. Comprese l’audacia di un pensiero che un altro (‘l’uomo’) può ascoltare, senza comprendere, l’audacia del camminare su terreno incerto come su una strada di tronchetti, che non è possibile percorrere fino in fondo.

Ecco la poesia:

TODTNAUBERG

Arnica, delizia degli occhi, la sorsata alla fonte con il dado-astro al di sopra, nella

Hütte, la riga di

una speranza, oggi scritta nel libro

– quale nome recava esso prima del mio? –, una parola

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veniente nel cuore di uno che pensa

prati montani, non spianati, orchis e orchis, solitari,

il crudo, più tardi, camminando, divenne chiaro,

colui che ci conduce, l’uomo, che partecipa all’ascolto, il mezzo –

percorso sentiero di tronchetti nella palude l’umido,

molto.

C. Esposito, Heidegger. Storia e fenomenologia del possibile

[Levante, Bari 19922, pp. 333-346]

Pensare il significato originario della tecnica vuol dire, secondo Heidegger, ripensare il senso compiuto della metafisica. Questo nesso problematico è per lui il luogo “essenziale” in cui può essere illuminato il rapporto reciproco dell’uomo e dell’essere e nel quale, dunque, può emergere il rapporto enigmatico e ancora tutto sospeso dell’essere e degli essenti. Ma che la tecnica, come problema, permetta questo estremo pensiero metafisico, lì dove già si prospetta insieme un “superamento” del modello rappresentativo della ratio e del modello dominativo della volontà, non è dovuto né a una sua assunzione come archetipo antropologico-culturale, descrittivo di uno status storico-sociale, né a una sua lettura quale configurazione epocale (in un senso storicistico) dello sviluppo dell’essere. Paradossalmente, per Heidegger la tecnica significa molto “meno” di tutto ciò. E allorché egli invita con insistenza a non fermarsi a un’indagine in superficie, ma a interrogare la tecnica nella sua stessa essenza, egli intende una cosa soltanto: riconoscere che l’essenza della tecnica racchiude in sé l’avvertimento enigma- tico e inquietante a un ripensamento radicale dello stesso problema dell’essenza, vale a dire dell’essere oltre l’ oggettività conoscitiva e manipolativa propria di un uomo-soggetto. Per Heidegger la verità della tecnica non si identifica con il suo fatto immediato, bensì quest’ul- timo ci si presenta come manifestazione di un più originario darsi dell’essere all’uomo e, al tempo stesso, come l’ombra perimetrale di questa manifestazione stessa, cioè come l’enigma della sua provenienza. In una conferenza del 1953 dice Heidegger: «La questione della tec- nica è la questione riguardante la costellazione in cui accade [sich ereignet] disvelamento e nascondimento, in cui accade l’essenziarsi [das Wesende] della verità» [La questione della tecnica]. La radicalità della problematica consiste dunque nel non possesso di una preliminare nozione di verità (come invece la metafisica occidentale insegnerebbe), o di una stabilita de- terminazione di essenza, in riferimento a cui poter cogliere – oltre alla descrizione del “come”

– il “perché” ultimo della dimensione tecnica del mondo moderno e contemporaneo. Piuttosto la tecnica viene vista come l’evento, l’accadere duplice e misterioso della verità, di qualcosa come un’essenza (in senso possibilmente non-metafisico). Dunque: questa interpretazione

da

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“essenziale” non è una direzione necessitata dall’insuperabile situazione tecnica del nostro mondo, la quale costringerebbe a riformulare (o a negare) in modo disincantato il problema metafisico. Per Heidegger invece è proprio il contrario: il carattere necessario dell’immagine tecnica del mondo, a livello planetario, rientra in quel modo specifico della manifestazione dell’essere che consiste nel suo occultamento, e che costituisce il suo segreto destino. E que- sto non significa nemmeno che un’apertura trascendentale di senso, o una Weltanschauung determinino preliminarmente una situazione storico-epocale o che, viceversa, tale situazione fattuale (al pari di ogni altra situazione equivalente) vada relativizzata a un sistema di rimandi interpretativi di volta in volta manifestati oppure occultati nel corso della storia.

Qual è dunque l’essenza della tecnica? Da ciò che di questa essenza ci si manifesta noi dobbiamo, secondo Heidegger, spiccare un «salto» nel non-ancora-disvelato, cioè in quel- la dimensione che, nascondendosi, permette di per se stessa la manifestazione dell’essenza.

Cosa vediamo a una prima ricognizione? L’epoca in cui viviamo ci si mostra, appunto, come epoca (della) tecnica, laddove quest’ultima si mostra come un’organizzazione pianificata del mondo, strutturata dai progressi scientifici e applicabile strumentalmente alla realtà naturale e a quella socio-culturale, in vista di un loro dominio manipolativo, cioè totalmente calcola- bile, da parte dell’uomo. Le descrizioni di Heidegger a tal proposito costituiscono alcune tra le cose più acute e decisive pensate sulla tecnica. Ma la posta in gioco è più profonda. La via fenomenologica dell’interrogazione vuol guadagnare il tratto originario della tecnica ribal- tandone gradualmente – come seguendo una necessità essenziale – il criterio di affronto. Non più: che cosa vuole realizzare l’uomo, un’umanità storica, con la tecnica? E quindi: qual è la responsabilità dell’uomo con e per la tecnica? Bisognerebbe invece chiedere: come “si dà”

l’essere nella tecnica? In che consiste l’appello che l’essere rivolge all’uomo nella verità della tecnica? Nella verità, cioè: in che modo l’essere “stesso” si rapporta all’uomo (senza mai poter dipendere, come oggetto, dall’uomo), in quel nascondimento inafferrabile che permette e accompagna il disvelamento della tecnica, nel quale ultimo soltanto ogni singola realizza- zione e forma tecnica possono aver fattualmente luogo?

È noto come Heidegger abbia denominato questa essenza della tecnica con il nome (op- portunamente indeterminabile) di Ge-stell, tradotto in italiano con im-posizione. Heidegger ne parla come di un «appello provocante che raccoglie l’uomo nell’impiegare come “fondo”

[Bestand] ciò che si disvela». L’essere stesso richiede all’uomo qualcosa di essenziale, ma il modo di questa richiesta – nel cui appello si attesta e si concentra la nostra stessa umanità – si apre come rapporto dell’uomo stesso a ciò che gli si mostra, proprio nel modo originario del suo esser-mostrato, cioè il disvelamento. L’essenza della tecnica, il Ge-stell, richiede all’uo- mo di rapportarsi all’essente, agli enti dis-velati, identificando lo svelamento con l’utilizzo degli enti stessi come materiale d’uso, riserva da sfruttare per un fine “costruttivo”. In questa provocazione a impiegare gli enti, questi ultimi possono disvelarsi per un impiego tecnico.

Ma la “tecnicità” essenziale di questo impiego va riportata precisamente a ciò che non è e non sarà mai un mero agire dell’uomo, ma un manifestarsi dell’essere che richiede in sé l’uomo.

Perciò Ge-stell, «imposizione, si chiama il modo di disvelare che vige nell’essenza della tecnica moderna, senza essere esso stesso qualcosa di tecnico». Questo vigere (walten) del disvelamento, come il mostrarsi mai dispiegato e dispiegabile del nascosto, dunque: questo vigere, nel nascondimento, della verità, è quella via in cui l’essere chiama e in-via l’uomo, destinandolo a rapportarsi in un modo originario e specifico con ciò che è svelato, nel suo stes- so esser-svelato. In questo destinare (schicken), in questa destinazione dell’uomo, l’essenza della tecnica è un destino (Geschick) dell’essere, meglio: è l’essere stesso come destino, come in-vio dell’uomo verso e nella essenza della verità.

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Si direbbe che qui si delinea un conflitto di significati nel plesso di tecnica e metafisica.

Da una parte è l’essere stesso che destina l’uomo nell’essenziale modalità storico-epocale del disvelamento, della verità (lì dove l’epoca storica si apre nel modo del disvelamento). Che sarebbe come dire: è l’essere stesso che si dà all’uomo facendo essere gli enti, prima ancora di qualsiasi interpretazione storiografico-fattuale da parte dell’uomo. Ma, d’altra parte, ciò a cui la tecnica (come verità) destina l’uomo, è un’uniforme presenza impiegabile e calcolabile dell’essente, e in maniera tale che l’ente dis-velato sembra esaurire completamente in sé la di- svelabilità, salvo quell’ulteriore impiegabilità d’uso che però, a rigore, può essere già sempre calcolata in anticipo. Il disvelarsi (essere) si appiattisce sul disvelato (ente); il nascondimento si assottiglia fino all’estremo sotto l’avanzante struttura im-positiva dell’essente come «fon- do» da impiegare. Nel suo esito metafisico estremo – come rappresentazione e volontà – la tecnica si installa, essenzialmente, come l’oblio dell’essere, cioè come la dimenticanza di quel nascosto che lascia-disvelarsi l’essente.

Nell’indistricabile coappartenenza di questi due fattori, invio dell’uomo nel disvelamento da parte dell’essere, e oblio dell’essere come specifico modo dell’invio (cioè del destino della verità come tecnica) si scopre, secondo Heidegger, l’ambiguità propria dell’essenza della tecnica: «tale ambiguità richiama al mistero di ogni disvelamento, cioè della verità». Che è quanto dire: dentro la verità sta essenzialmente la possibilità della non-verità. La verità accade (sich ereignet) essenzialmente come appropriazione all’essere, in cui l’uomo si trans-propria (vereignet) da se stesso come ente tra gli enti, e accade come uomo, in quanto sta nell’apertura del disvelamento dell’essere, e dunque custodisce l’esser-nascosto dell’essere stesso. Questa originaria essenza della verità (quale originaria verità dell’essenza) viene custodita in tutti i modi del disvelamento, anche in quei modi che – come vediamo nel dominio tecnico del mondo – occultano e dimenticano il significato nascosto dell’esser-disvelato. L’originarietà dell’essenza qui – come sempre in Heidegger – non è intesa in senso valutativo e non implica affatto un sistema di “valori”, così come non indica un livello già-dato del reale, poiché, anzi, è proprio nel non-darsi che per Heidegger accade originariamente la verità. Se, dunque, non si tratterà in alcun modo di sconfessare la tecnica moderna, superandola (“a ritroso”) in favore di una modalità superiore del disvelamento, né tanto meno di suggellarla come necessaria e insuperabile configurazione dell’essere (“moderno”), senza possibilità di un disvelamento diverso; allora bisognerà riconoscere che la verità essenziale – o vera essenza dell’essere – può venir dimenticata non perché su di essa si impongano schemi interpretativi inadeguati da parte nostra, ma propriamente perché il suo oblio fa parte – quale estremo pericolo – della sua stessa essenza. Non si tratta di un’eventualità o di una conseguenza dovuta al concetto e all’uso più o meno corretto che l’uomo “fa” dell’essere e del vero, ma di un originario evento dell’essere stesso, che perviene a pericolo.

Ora, se l’evento dell’essere-verità accade come rapporto «destinale» all’uomo, il quale è uomo proprio in tale rapporto, il senso più acuto e drammatico di questo pericolo dell’oblio dell’essere è, appunto, una dimenticanza di ciò per cui noi siamo uomini. Nella totalizzante im-posizione tecnica è «proprio se stesso [che] l’uomo di oggi non incontra più in alcun luogo; non incontra più, cioè, la propria essenza». Dopo tutta la radicalizzazione ontologica che Essere e tempo fa dell’uomo e della sua ek-sistenza, e ancor più dopo aver prospettato, già dagli anni Trenta, con i Contributi alla filosofia, una più essenziale apertura al pensiero dell’essere che, esso stesso, si appropria l’uomo, dovrebbe risultare chiaro in che senso Hei- degger usi qui, riguardo all’uomo, la parola «se stesso» ed «essenza». L’essenza dell’uomo si illumina propriamente nel disvelamento dell’ente disvelato, lì dove “è” lo scarto, la differenza tra l’essente e l’essere. La differenza ontologica è propriamente, per Heidegger, l’accadimen-

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to dell’uomo nella sua essenza, ed è l’essenza nascosta di ciò che ci si mostra: «l’essenza del disvelato e della sua disvelatezza», nella misura in cui l’uomo esperisce l’«appartenenza al disvelare come la propria essenza», nella quale l’essere chiama e «adopera» l’uomo stesso ad accogliere il vero – il manifestantesi – che gli è dato, che gli è concesso, e a custodire, insie- me, ciò che dà, ciò-che-concede (das Gewährende): il nascosto. Ebbene, il dominio della tec- nica ci allontana da quest’apertura originaria di noi stessi, laddove ci installa nel pre-calcolato universo dell’impiego di ogni cosa, correndo (anzi, essendo) il pericolo estremo che noi stessi diventiamo solo enti, «fondi» da impiegare.

La dimensione nascosta dell’essere, quel non-dispiegato e non-vigente che pur offre all’uomo una manifestazione dell’ente, non vale per Heidegger come mero sfondo interpre- tativo non ancora chiarificato o inchiarificabile, né come rovescio dialettico “negativo” di un fatto presente, e dunque è irriducibile ad ogni ricostruzione o contestualizzazione di “dato” e

“senso”, di “esistente” e “possibile”, di “conscio” e “inconscio”. Ciò-che-concede non solo è sempre eccedente rispetto a ciò che è concesso, ma non è assolutamente determinabile, se non come il nascosto o – appunto nell’essenza della tecnica – come ciò che è in pericolo (o meglio:

il pericolo), come l’obliato. Ma cosa si oblia? Che cosa la tecnica dimentica? A questa doman- da non è possibile rispondere, visto che il contenuto in questione non è appunto contenibile

“per essenza”. Ciò che è obliato – essenzialmente obliato – è proprio questa incontenibilità, vale a dire la differenza che vige e dura nel rapporto reciproco di disvelamento e occultamen- to. Ebbene, nel dominio già tutto pre-calcolato della tecnica, da un lato questa differenza si ra- dicalizza verticalmente nel predominio esclusivo dell’essente rispetto all’essere (non-essente, quindi non-calcolabile e non-adoperabile); ma dall’altro questo stesso predominio esclusivo dell’essente, questa assolutizzazione “moderna” di un polo della differenza, può instaurarsi proprio perché viene dimenticata la differenziazione stessa. Nel destino tecnico può, e anzi:

deve essere dimenticata l’incolmabile differenza tra essere ed essente.

Ritorna, dunque, quella duplicità – come sempre possibile ambiguità – che, secondo Hei- degger, connota l’essenza della tecnica. In questo doppio versante essenziale (più originario delle prospettive visuali dell’interprete) «ciò che è differenziabile della differenza in qualche modo si presenta, e tuttavia si mantiene nascosto in una strana inconoscibilità. Per questo la differenza stessa rimane celata». Ma, al tempo stesso, nell’epoca della tecnica, cioè «con l’ini- zio del compimento della metafisica comincia la preparazione sconosciuta e – per la metafisi- ca – essenzialmente inaccessibile del primo manifestarsi del dispiego [Zwiefalt] dell’essere e dell’essente». Proprio lì dove – con l’oblio dell’essere – si livella ogni distinzione (che non sia funzionale all’impiego dominativo) non solo tra gli essenti, ma ancor più tra gli essenti e l’es- sere; proprio lì, e – come sembrerebbe secondo Heidegger – attraverso e grazie a questo, può illuminarsi per l’uomo l’evento della differenza, cioè può accadere originariamente la verità.

Allorquando l’uomo della nostra epoca crede di aver pianificato e calcolato – come signore della natura e della storia – la totalità dell’ente per il dominio tecnico; proprio allorquando la scienza – quale suprema attitudine rappresentativa, originata e sostenuta dall’espandersi della volontà come tecnica – sembra poter suddividere analiticamente e assicurarsi permanente- mente ogni dominio ontico; proprio allora in realtà si profila, enigmaticamente, un più ori- ginario ed essenziale dominio, il dominio (da parte) di ciò che è nascosto, dell’essere stesso che si ritrae, il dominio indiretto (non oggettivabile e irrappresentabile) della differenza: «Lo stato di cose che domina l’essenza della scienza, cioè della teoria del reale, è l’inaccessibile inaggirabile (Unumgängliche) che passa costantemente inosservato» [Scienza e meditazione].

La differenza è appunto ciò che non può essere «evitato» nella determinazione di ciò che, invece, è misurabile e impiegabile. Il «dominare» (durchwalten) di questa inaggirabilità o

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inevitabilità della differenza, per Heidegger consiste appunto nel suo risultare inosservato, nell’oblio. La tecnica e la scienza moderna non sarebbero possibili, secondo Heidegger, al di fuori di questa «inosservanza»; detto essenzialmente: la teoria scientifica del mondo e il Ge- Stell non sarebbero quel che sono se non grazie all’occultamento dell’essere come differenza dall’ente disponibile all’uso.

È per questo, e solo per questo che, con le parole di Hölderlin, Heidegger può ascrivere all’essenza della tecnica non solo il pericolo, nel senso visto sopra, ma anche, indistricabil- mente connesso al pericolo, das Rettende, ciò che salva, la «salvezza». Scoprendo la radica- lità estrema del ritrarsi dell’essere, nell’imporsi totalizzante e planetario dell’ente impiegato tecnicamente; scoprendo questo destino che compie la metafisica, si apre la possibilità di un ribaltamento. E questo non perché l’uomo possa mai ritrovare o forgiare nuovi valori, dei più alti scopi che la ragione imprimerebbe all’azione. Ma nemmeno perché l’uomo possa mai incontrare, nel suo campo esperienziale, ciò-che-concede come un’alterità personale (e vera- mente altra-differente, cioè trascendente). Nella tecnica dimora e «cresce» segretamente ciò che salva, e quest’ultimo può accadere in una riscoperta disponibilità, da parte dell’uomo, a custodirlo nel suo inviolabile nascondimento. Disponibilità che non si configura tanto come un atteggiamento deciso e voluto dall’uomo, quanto come richiesta che il nascosto gli rivolge dal fondo dell’oblio. Lì dove l’ente “è” solo ente, cioè totalmente fatto e usato dall’uomo, lì l’essere “è” solo essere, nel radicale ritrarsi nell’occultamento. L’oblio è una dimensione propria all’essere stesso: il non-mai-manifestabile.

Dunque, ciò-che-concede può essere solo atteso: «così, ci resta solo una cosa: attendere che il da-pensare si rivolga a noi», vale a dire, «tenere gli occhi aperti cercando, in ciò che è già stato pensato, la via verso il non pensato che ancora nel già pensato si nasconde» [Che cosa significa pensare?]. Il già pensato – l’oggetto, il «fondo» impiegabile – comporta la perdita di ogni differenza, ma è al tempo stesso la strada verso quel misterioso nascondimento rispetto a ciò che l’uomo “riesce” a pensare e a fare. E dunque quest’attesa – coerentemen- te – non avrà alcun «oggetto». Si direbbe che ciò che si attende si dia unicamente nel nostro in-terminabile attendere. Nulla può compiere questa attesa. Niente può essere trovato “positi- vamente”, perché il non-pensato accade nell’impossibilità umana non diciamo solo a determi- narlo, ma a riconoscerlo. Si può attendere solo che la differenza si apra, si illumini. Ma questa illuminazione non è, propriamente, “altro” da noi. È vero che l’uomo «non può nulla sulla ve- rità», ma l’indipendenza della verità si gioca tutta in un’appartenenza all’essenza dell’uomo, e dunque nella nostra nascosta appartenenza a ciò di cui siamo in attesa. Lì dove la differenza dei termini in rapporto si risolve nell’indifferenza essenziale del rapportarsi. Nell’oscillazione di accoglienza ed evento, ciascun polo si mostra (e si nasconde) solo e unicamente in virtù del suo differenziarsi, e in tale “puro” differenziarsi ciascuno perde all’origine la sua specifica distinzione.

In questo circolo di attesa e di atteso, in cui lo stesso attendere è dimensione dell’essere e non appena dell’ente-uomo, si dispiega quella Gelassenheit, quell’abbandono delle cose e alle cose, che è un rimettersi dell’uomo nella necessità nascosta dell’essere, che illumina improv- visamente (come in un «lampeggiare» repentino e inafferrabile) il disvelamento nell’indisve- labile. L’abbandono può affidarsi all’apertura dell’essere in quanto appartiene a tale apertura e viene da essa. Qualsiasi incontro lungo questa via, qualsiasi contenuto pensato ed esperito porta a «rammemorare» ciò che, per essenza, è il non-incontrabile, il non-esperibile, preser- vandolo nel suo nascondimento. E dunque, pensare o riconoscere che questo enigma possa risolversi e manifestarsi, varrebbe per Heidegger quasi come un atto sacrilego.

Attraverso il pericolo della tecnica risuona a noi un «appello liberatore». Da cosa ci libera?

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