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352/2011 Elvio Fachinelli. Un freudiano di giudizio

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Elvio Fachinelli. Un freudiano di giudizio

Un freudiano di giudizio [A.S.]

MATERIALI

Elvio Fachinelli Lo psicanalista deve definire la sua posizione in società [1970]

E.F. Cultura e necrofagia nell’industria culturale [1978]

E.F. Destra e sinistra: una coppia simbolica esaurita [1981]

E.F. E la passione unì macchina e paziente [1986]

E.F. Pecorelle smarrite nell’ora di religione [1986]

E.F. A proposito di una legge impossibile [1988-89]

E.F. Don Abbondio, il vittorioso [1989]

Pier Aldo Rovatti Co-identità

Lea Melandri Il viaggio di Edipo alla radice dell’umano

Paulo Barone Note a “Cultura e necrofagia”

Sergio Benvenuto Finale al femminile Cristiana Cimino Estasi e perturbante.

Nei dintorni di Thanatos

Adalinda Gasparini Un pensiero solitario Luca Migliorini La noce di Grothendieck Antonello Sciacchitano Finito di scrivere

o Fachinelli legge Lacan INTERVENTI

Luisa Accati Il dolore non è un merito.

L’immaginario religioso e le sofferenze della politica

Mario Vergani Resistenza e liberazione. I “Quaderni di prigionia” di Emmanuel Levinas

Alessandro Dal Lago L’ontologia dietro la

macchina da presa? Note sull’ultimo cinema di Terrence Malick

352

ottobre dicembre 2011

3

11 21 27 32 38 40 47 52 58 84 89 103 112 126 140

151 169

188

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rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti

redazione: Sergia Adamo, Paulo Barone, Graziella Berto, Deborah Borca (editing, deborahborca@libero.it),

Silvana Borutti, Damiano Cantone, Mario Colucci, Alessandro Dal Lago, Rocco De Biasi, Giovanna Gallio, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Anna Maria Morazzoni (coordinamento,

tel. 02 70102683), Ilaria Papandrea, Fabio Polidori, Rosella Prezzo, Pier Aldo Rovatti, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Davide Zoletto

direzione: c/o il Saggiatore, via Melzo 9, 20129 Milano collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, R. Bodei, L. Boella, J. Butler, M. Cacciari, A. Cavarero, G. Dorfles, M. Ferraris, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, A. Heller, F. Jullien, J.-L. Nancy, A. Prete, M. Serres, G.C. Spivak, G. Vattimo, M. Vegetti, P. Veyne, V. Vitiello, S. Žižek

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Finito di stampare nel dicembre 2011

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Un freudiano di giudizio

L e azioni di Freud sono in ribasso. Non ho statistiche attendibili in proposito. La mia affermazione si basa su un solo dato di fat- to, a suo modo singolare. Dispongo di un sito web, dotato di una certa visibilità: in media tremila visite al mese, con punte di sei- mila; in media mille e cinquecento pagine lette al mese, con pun- te di tremila. Nel sito ho predisposto una decina di pagine che par- lano (criticamente) di Freud e una sola che parla (molto critica- mente) di Jung. Inoltre, i link interni al sito sono polarizzati deci- samente su Freud. Ciononostante, con mia relativa sorpresa, da qualche mese tra le top ten delle pagine più gettonate non com- pare più Freud ma compare Jung. Junghismo contro freudismo dieci a uno. Lacan, che ha pure molte pagine e molti link (e mol- tissime critiche) a lui dedicati, galleggia per lo più a metà classifi- ca. Le cause di questo esito singolare possono essere molte. Quel- la che mi viene più spontaneo e immediato immaginare, non ne- cessariamente la più probabile, è la maggiore apparente scientifi- cità di Freud.

Alla gente non piace vedere immischiata la scienza, oggettiva e impersonale, nelle proprie faccende soggettive e personali. La gen- te preferisce pensare in termini mitologici di narrazioni universa- li, che sente più affini alle proprie storie. Freud è carente di miti:

offre un solo e misero mito, l’Edipo, contro la ragguardevole ric- chezza di miti esibita da Jung. Freud gode di minori consensi di Jung, perché apparentemente concede meno alla platea, allora?

Freud meno “populista” di Jung?

aut aut, 352, 2011, 3-7

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Non è questa la sede per discutere dei destini della psicanalisi.

Rimando a un prossimo numero di “aut aut” su Freud e Jung, più volte ventilato in redazione, ma mai messo in cantiere. Qui mi li- mito a paragonare il dato singolare sopra riferito a un altro ugual- mente singolare. Lo faccio anche per giustificare il titolo dato al numero: “Elvio Fachinelli. Un freudiano di giudizio”, decantan- dolo da risvolti potenzialmente polemici. Esisterebbero freudiani poco giudiziosi?

Le azioni di Elvio Fachinelli, invece, non sono mai scese. Ero uno psicanalista alle prime armi nel “tumultuoso decennio ’68- 78” e leggevo con curiosità i suoi elzeviri sulla terza pagina del

“Corriere”. Cosa mi attirava di questo “intellettuale lacaniano, che sposò psicanalisi e politica”, come racconta la storica della psica- nalisi italiana, Silvia Vegetti Finzi?

1

Certamente la sua capacità di analizzare le vicende del soggetto collettivo non meno di quelle del soggetto individuale, senza però confonderli e senza applica- re al primo i cliché validi per il secondo. Paradigmatiche e tutto- ra attuali, nella Freccia ferma,

2

le pagine sul fascismo italiano, in- teso come modalità ricorrente di arresto della freccia del tempo dai tempi di Zenone alla moderna psicastenia.

Dopo la sua morte (1989) i congressi in memoria si rincorro- no. Non ne ha avuti altrettanti Cesare Musatti, che pure fu suo analista e famoso perché definiva la psicanalisi come la propria so- rella gemella.

3

Ne ricordo alcuni tra i più importanti: Salerno, 20- 22 ottobre 2005, La mente e l’estasi, organizzato da Rosario Confor- ti; Trento, 27-28 marzo 2009, Nel secolo della psicoanalisi. Elvio Fachinelli e la domanda della Sfinge, organizzato da Nestore Piril- lo; Firenze, 18 settembre 2010, Estasi laiche. Intorno a Elvio Fa- chinelli, organizzato da Adalinda Gasparini.

“Intramontabile Fachinelli”, scrive Paulo Barone,

4

precisando

1. “Corriere della Sera”, 11 dicembre 1998, p. 35.

2. E. Fachinelli, La freccia ferma. Tre tentativi di annullare il tempo, L’erba voglio, Mila- no 1979, pp. 108-122.

3. Ma Musatti si prende la rivincita su Google: 149.000 voci contro le 60.000 di Fachi- nelli.

4. “il manifesto”, 18 dicembre 2009, p. 25. Sulle stesse pagine Franco Lolli descrive Fa-

chinelli come Uno psicanalista a misura del mondo.

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subito che ciò che non tramonta è la grazia rivoluzionaria. In- somma, Fachinelli un mito? Perché no? Noi moderni siamo affa- mati di miti, come aveva ben capito Jung. In fondo i miti moder- ni sono molto pochi, solo due. Sono il Faust e il Don Giovanni, entrambi miti epistemici, come è giusto che sia in epoca scientifi- ca: uno, quello di Faust, il mito del falso sapere (mefistofelico?

scientifico?); l’altro, quello del Burlador de Sevilla, il mito del sa- perci fare con le donne (?) non più angelicate; in fondo, sapeva solo contarle una dopo l’altra, precisa Lacan.

5

A proposito di sapere, cosa sapeva Fachinelli? Tentano di ri- spondere i contributi raccolti in questo numero di “aut aut”, che si apre con una serie di suoi testi cosiddetti “minori”. Si comin- cia, simbolicamente, con uno scritto di Pier Aldo Rovatti, coevo a Claustrofilia. In quegli anni, dalle colonne di “Alfabeta” Rovatti dialogava con Fachinelli sulla nozione allora nuova e problemati- ca di co-identità. Rovatti è poi intervenuto anche al citato conve- gno di Trento sulla mente estatica come pratica di pensiero. La nozione foucaultiana di “pratica” sarebbe piaciuta a Fachinelli, che era un teorico sì, ma poco amante delle teorizzazioni astratte e generalizzanti.

Lo scritto maggiore per estensione è quello di Lea Melandri, costruito secondo il paradigma del viaggio mitologico dell’eroe, alla Otto Rank o, in tempi più vicini a noi, alla Joseph Campbell.

Il percorso intellettuale di Fachinelli diventa, allora, Il viaggio di Edipo alla radice dell’umano. Offre l’amorevole ripresa dei rischi che l’intellettuale affrontò nel suo attraversamento delle aporie della modernità, prima di tutte quelle insite nella dialettica indi- viduale/collettivo, dove il collettivo è visto anche dal punto di vi- sta del movimento delle donne.

All’estremo opposto, lo scritto minore, ma solo per numero di battute, e non meno denso di spunti di riflessione, è quello di Pau- lo Barone, che commenta il testo di Fachinelli su Cultura e necro- fagia nell’industria culturale, del 1978, qui riportato nei Materia-

5

5. J. Lacan, Le Séminaire. Livre

XX

. Encore (1972-1973), Seuil, Paris 1975, p. 15. Per la

precisione, Don Giovanni lascia la contabilità al proprio commercialista Leporello.

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li. Ogni sapere è destinato a superarsi, afferma Jung, citato da Ba- rone alla fine del suo pezzo. Ma c’è modo e modo di dileguare, tanto per dirla alla Hegel. Il modo della cultura necrofagica è quel- lo sterile della cadaverizzazione, che non consiste nel far sparire i prodotti culturali, gli oggetti, ma nel mummificarli in un tempo pseudoeterno senza presente e senza conseguenze di pensiero.

Seguono quattro interventi presentati al citato congresso di Fi- renze. Sono tutti incentrati sull’ultimo libro di Fachinelli, La men- te estatica, del 1989. Sergio Benvenuto rilegge il capitolo finale di Analisi finita e infinita di Freud alla luce del “significante nuovo”

proposto da Fachinellli: accoglienza, in antitesi alla nozione freu- diana di difesa.

6

Invita a pensare il rifiuto della femminilità, il gewachsener Fels freudiano, come resistenza ad accogliere il nuo- vo. Dobbiamo pensare una nuova ospitalità del e al pensiero. È qui forse il caso di ricordare che intorno alla questione dell’ospi- talità si era cimentato l’ultimo Derrida, un filosofo particolarmente vicino alla psicanalisi. Cristiana Cimino propone alcuni modi di coniugare nella pratica clinica l’“estasi laica” fachinelliana con il significante freudiano dell’Unheimliche. Adalinda Gasparini svi- luppa il tema del pensiero solitario e inattuale di Fachinelli. Esi- ste un pensiero solitario? Forse è ontologicamente impossibile.

Perciò va tentato e magari reso attuale. Luca Migliorini, matema- tico a Bologna, analizza i rapporti tra creazione matematica e crea- zione poetica: Proust contro Grothendieck, un bel match. Infine, su suggerimento di Rovatti, il sottoscritto parla di come leggeva Lacan l’allievo che Lacan non ebbe mai.

Una sintesi? Perché no, sapendo naturalmente quanto possa essere fallace. Ne propongo una esclusivamente mia, unicamente a giustificazione del titolo del numero della rivista, da me propo- sto e deciso in redazione con generale consenso ma, comprensi- bilmente, senza molto entusiasmo. Fachinelli seppe essere un freu- diano di giudizio. Accolse il freudismo, lo rielaborò e lo estese dal- la dimensione di pratica terapeutica individuale, cui l’avevano ri- dotto i freudiani ortodossi, alla dimensione di pratica politica col-

6. E. Fachinelli, La mente estatica, Adelphi, Milano 1989, p. 23.

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7

lettiva, pur senza indulgere alla moda di allora: il freudomarxismo, via impraticabile, tentata ai tempi e per un breve periodo da Wilhelm Reich. Fachinelli fu un freudiano di giudizio nel senso che applicò a Freud un giudizio critico “freudiano”. Accettò e ap- profondì la nozione freudiana di negazione che non nega (già in Hegel) e di meccanismo di ripetizione (già in Nietzsche),

7

ma re- spinse il “delirio” dei meccanismi di difesa,

8

espressione della men- talità bellicistica del fondatore della psicanalisi.

È questo per me un insegnamento che resta. Altrettanto “giu- diziosi” dovremmo essere anche noi, quando ci diciamo freudia- ni. Altrettanto e forse di più dovremmo esserlo nei confronti di Lacan, quando ci presentiamo come lacaniani. Suvvia, abbiamo il coraggio di essere freudiani senza freudismi, lacaniani senza laca- nismi. Non fu Fachinelli, “intellettuale lacaniano”, a darcene l’e- sempio? (Di un autore di tale spessore etico i miei nipoti atten- dono ancora le Opere complete.) [A.S.]

7. Cfr. Id., Il bambino dalle uova d’oro, Adelphi, Milano 2010, p. 21.

8. Cfr. Id., La mente estatica, cit., pp. 20 sgg.

(8)

Materiali

Quali testi di Elvio Fachinelli ripubblicare in una sezione della rivista dedicata alla sua memoria? Ha risolto per noi il problema la figlia Giuditta, che ringraziamo, la quale ha consentito la pubblicazione dei testi qui presentati. Coprendo un ventennio circa, i testi che seguono permettono di cogliere un tratto significativo dell’evoluzione intellettuale di questo singolare psicanalista, che mi piace definire un freudiano di giudizio.

Fachinelli di sinistra? Fachinelli freudomarxista? Fachinelli lacaniano?

A Elvio le etichette andavano strette. Fachinelli fu uno psicanalista che non ridusse mai il proprio mestiere a

specializzazione. Poteva parlare di Manzoni o sorvegliare l’asilo di Porta Ticinese come uno “zio” qualunque – così lo chiamavano tra l’affettivo e il canzonatorio i bambini di Porta Cicca. Un “uomo senza qualità” con l’unica qualità di essere un uomo senza dottrine. Prefigurava quella caduta delle ideologie che la caduta del muro di Berlino, quarantadue giorni prima della sua scomparsa, avrebbe poi imposto ai pensatori di buona volontà.

Fachinelli freudiano non specialista, allora. Talvolta critico con Freud, ma all’interno di una riappropriazione personale del freudismo. Forse la differenza maggiore con Freud non fu teorica ma pratica: Elvio la espresse sul piano politico. Fachinelli non condivise mai la politica lobbistica della psicanalisi.

Controcongressi a parte, fu freudiano ma non di parte. Non istituzionalizzò neppure la propria contestazione. Volle lasciarla mobile, “liquida”, direbbe oggi Bauman. Un insegnamento per noi – da non cristallizzare.

Passo brevemente in rassegna i testi fachinelliani selezionati.

Lo psicanalista deve definire la sua posizione in società (1970).

Ho esitato a lungo prima di ripubblicare questo testo. Per vari motivi: è un testo redazionale; si riferisce a una situazione di floridezza della psicanalisi, oggi non più attuale; indurrebbe a classificare l’autore Fachinelli come un ibrido freudomarxista, in triste assonanza con pseudomarxista.

Cosa mi ha convinto a inserirlo, allora?

Una “segreta simmetria” con l’ultimo testo del 1989, anno della

sua scomparsa. C’era una singolare prudenza politica nell’attività

intellettuale di Fachinelli, che per nulla smussava il filo tagliente

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9 delle sue analisi. Oggi, se mi guardo intorno, stento a ritrovare le tracce di un pensiero tagliente. Oggi sono scomparse le ideologie, si ama ripetere, per consolarsi del lutto più che per vera

convinzione. Il loro posto è stato preso da fondamentalismi più o meno religiosi, particolarismi più o meno fanatici, in singolare combutta con fascismi più o meno striscianti (anch’essi non ideologici), ma non meno arroganti delle vecchie ideologie.

Cosa direbbe il prudente Elvio di una situazione politica vuota di pensiero ma non poco complicata?

Cultura e necrofagia nell’industria culturale (1978).

“Mortui vivos docent” sta scritto sull’ingresso dell’anfiteatro anatomico della Facoltà di medicina dell’Università degli studi di Milano. Ogni medico sa che il proprio sapere si fonda sul cadavere. Ma Fachinelli, che era medico, sapeva qualcosa in più.

Sapeva che la cultura cadaverizza il sapere. Trasmette un sapere morto perché non produca temibili innovazioni. Questa prossimità del sapere alla morte fa parte del disagio del vivere civile, in quanto compromesso con la morte. Anche questo Fachinelli sapeva, non perché fosse medico, ma perché era freudiano.

Destra e sinistra: una coppia simbolica esaurita (1981).

Questo testo ha avuto una vasta eco sul web. La parola dello psicanalista tocca qui qualcosa di molto concreto. Le dicotomie simboliche non sono qualcosa di astratto che ci domina dalla profondità del tempo remoto. Non sono archetipi. Il freudiano ci insegna che le dicotomie simboliche proiettano sul corpo sociale le simmetrie che governano il corpo del singolo – le sue zone erogene, direbbe lui. Detto questo, si possono trasformare, magari abbandonare per adottarne di nuove. Il tradizionale sistema di equazioni: destra = libertà, sinistra = equità, è politicamente da riposizionare. Prima che la Lega vinca le elezioni.

E la passione unì macchina e paziente (1986).

Mente-corpo. Un dualismo rispetto al quale con qualche buona ragione la redazione di “aut aut” non si è dimostrata

particolarmente sensibile. Fachinelli lo affronta qui come

problema (o pseudoproblema) posto all’analista. Il corpo parla, si

sperimenta in psicanalisi. Questo vuole automaticamente dire che

esiste una mente? Non è detto. Esistono macchine parlanti: dal

grammofono ai programmi di computer che simulano la funzione

dell’analista. Come distinguerli dall’Homo loquens? E poi, se

esiste l’inconscio, esiste un sapere che non si sa di sapere. Quindi

esiste una mente che non sa di essere una mente? Una mente che

simula una mente che non esiste? Sappiamo la risposta di

Fachinelli e ci convince molto. Se esiste una mente, è una mente

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10

estatica. Una mente fuori dalla portata della mente ma non poco corporea.

Allora resta aperta la questione, che il filosofo non può lasciare nelle mani dell’uomo di scienza: cos’è una macchina? Cos’è il meccanicismo?

Pecorelle smarrite nell’ora di religione (1986).

Ritrovo lo psicanalista con il gusto del caso singolo e singolare, capace di smontare (smentire) l’ideologia politicamente corretta.

Ricordo che negli anni settanta Fachinelli aveva promosso a Porta Ticinese di Milano un asilo non autoritario.

A proposito di una legge impossibile (1988-1989).

Uno psicanalista che prenda posizione pubblica su un problema politico e sociale in nome della propria competenza, cioè del proprio saperci fare con il sapere inconscio, allora faceva scalpore.

Oggi non fa più scalpore semplicemente perché il fenomeno non esiste. Perché non esiste più la psicanalisi? A chi, in ultima analisi, abbiamo delegato la gestione dell’immaginario collettivo? Al pubblicitario? Allo psicoterapeuta? Al prete? Al medico?

Una breve osservazione sul binomio “legge impossibile”.

Certamente, Fachinelli aveva in mente le tre professioni

impossibili secondo Freud: educare, governare, psicanalizzare. Ma forse ha giocato nella scelta del binomio anche un’influenza lacaniana, frutto delle frequentazioni di Fachinelli con l’analista parigino, quando il lacanismo non era ancora di moda.

Impossibile, cioè reale, in senso lacaniano. Le mode passano, il reale resta.

Don Abbondio, il vittorioso (1989).

Fachinelli critico letterario? Non proprio. La sua parabola – a sei mesi dalla scomparsa – si conclude come è iniziata. Perché il posto del discorso dell’analista è sempre lì: è un invariante, come dice lo stesso Elvio, mutuando il termine dalla matematica, ma ignorando che in matematica invariante è un sostantivo maschile – perciò lo scrive con l’apostrofo. Il discorso dello psicanalista sta sempre lì – non cambia di posto – tra etica e politica: un luogo dove c’è posto per tanti – per i don Abbondi e per i cardinal Federighi, per i prudenti e per gli imprudenti, per i più e per i meno coraggiosi con una leggera simpatia per...

“Uno il coraggio non se lo può dare” è il motto dell’etica dei don

Abbondi. Cui lo psicanalista aggiunge incoraggiando: “Allora

usalo, quel tanto o poco che hai”. Magari per concludere la tua

analisi. [A.S.]

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aut aut, 352, 2011, 11-20

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Lo psicanalista deve definire la sua posizione in società [1970]

ELVIO FACHINELLI

L a psicanalisi sta attraversando in Italia una fase positiva di affermazione e di diffusio- ne. A sentire gli editori, un libro che ha come argomento la psicanalisi ha molte probabilità di essere venduto bene; a sentire gli analisti, le richieste di terapia si fan- no sempre più frequenti; Milano e Roma sono i centri in cui si svolge la maggior parte dell’attività analitica, ma le richieste giungono anche dalla provincia e da zone fino a oggi impensa- bili. La spiegazione di questo fenomeno può essere fatta risali- re alla divulgazione, che oggi avviene a livello di massa, dei pro- blemi psicologici e di una certa chiave psicanalitica con cui es- si vengono affrontati, nelle rubriche di corrispondenza con i lettori che ogni settimanale, femminile o no, tiene regolarmen- te con grande successo.

Comunque sia, la psicanalisi è entrata nella società italiana co- me una componente culturale ormai imprescindibile, le cui riper- cussioni sono avvertite a tutti i livelli, sociali e di settore: nel co- stume, nei libri, nelle opere d’arte. Da qualche anno contenuti di tipo psicanalitico entrano regolarmente nei romanzi e nelle opere cinematografiche. Diario di una schizofrenica di Nelo Risi ha se- gnato recentemente una sorta di punto fermo in questo fenome- no di presa della psicanalisi sul pubblico; film tutt’altro che leg-

“Tempo medico”, 83, maggio 1970, pp. 32-37. Articolo non firmato, basato su un’intervista

a Fachinelli.

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gero e gradevole, il suo successo, anche di cassetta, è sicuramen- te sintomatico. Esso viene d’altra parte dopo altri esempi più o meno felici, e di sicuro meno rigorosi scientificamente, che tutta- via testimoniano anch’essi di un clima particolare. Gli esempi po- trebbero essere numerosi né si ha l’impressione che il fenomeno sia in fase calante.

È probabile che si stia vivendo in Italia il periodo esplosivo che la psicanalisi ebbe negli Stati Uniti vent’anni or sono; allora giun- sero in Italia solo le frange periferiche del ciclone, sotto forma di alcuni film melodrammatici e di risonanze culturali (si cominciò tra l’altro a ironizzare sul fatto che tutti gli americani andavano dallo psicanalista). Ora, con il solito intervallo, assolutamente ne- cessario tuttavia all’affermazione dei consumi e alla diffusione del benessere alla media e piccola borghesia, l’ondata psicanalitica è giunta anche in Italia. Le cause sono evidentemente da individuare nel fattore economico e produttivo. Il benessere consumistico, fat- tore notoriamente nevrotizzante, concede nello stesso tempo alle proprie vittime la possibilità economica di accedere al divano del- lo psicanalista. La società in altre parole crea con i mali anche i mezzi per affrontarli.

Ma cosa dicono gli psicanalisti di questo fenomeno? E dove sta andando la psicanalisi in Italia? “Tempo medico” ha pensato di rivolgersi al dottor Elvio Fachinelli, esponente di un nucleo di psi- canalisti milanesi (di cui fanno parte anche Luigina Balestri, Mau- ro Mancia, Anna Paganoni, Carlo Ravasini, Carla Rostagni [Som- maruga]) che al Congresso internazionale di psicanalisi, tenutosi a Roma nel luglio dello scorso anno, fecero un intervento, in col- laborazione con analisti stranieri, che portò seduta stante all’or- ganizzazione di un vivace “controcongresso”.

1

1. [“In quei giorni del luglio 1969,” ricorda Paolo Migone, “mentre all’Hotel Cavalieri

Hilton [di Roma] andava svolgendosi il 26° congresso della International Psychoanalytic As-

sociation (

IPA

), un gruppo di partecipanti [capeggiati da Elvio Fachinelli e Berthold Roth-

schild] incominciò a riunirsi quotidianamente in un vicino ristorante (allora si chiamava ‘Car-

lino al Panorama’) per contestare vari aspetti delle istituzioni psicoanalitiche e per discutere

delle implicazioni politiche e sociali della psicoanalisi. Il clima culturale era quello degli an-

ni sessanta, ricco di fermenti critici e di spinte ideali che dovevano poi svilupparsi negli

anni seguenti. Questa specie di ‘controcongresso’ attirò l’interesse di molte persone [...] e oc-

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13

La caduta degli dei borghesi

Della civile sommossa di Roma parlarono diffusamente i giornali;

ora, ad acque sedate, l’opinione di uno degli analisti contestatori appare la più adatta per indicare le vie inedite, i punti di rottura di una scienza che per sua natura corre parecchi rischi di cristal- lizzazione e di stasi.

Una contestazione, quella di Fachinelli, nata da esperienze vi- ve, vissute in proprio. Da Bolzano va a studiare a Pavia, allievo del Collegio Cairoli; entra come interno in clinica neurologica, spinto da interessi specifici, e prepara una tesi in caratterologia. Dopo un anno di lavoro il direttore della clinica lo incontra in corridoio e gli chiede chi sia e cosa stia facendo. Allora Fachinelli contesta come si faceva quindici anni fa, con un atteggiamento negativo e rimet- tendoci in proprio. Lascia la clinica e si laurea con Giulio Macca- caro in microbiologia: “Non perché amassi particolarmente i bat- teri, ma perché mi seduceva l’aspetto logico-matematico di questi studi”. Ma dove portava la microbiologia quindici anni fa, se il gio- vane medico non aveva alle spalle un padre ricco o altre fortunate combinazioni? All’industria farmaceutica. Alla Carlo Erba di Mi- lano, Fachinelli lavorò come microbiologo e fece altre esperienze istruttive, e beninteso assolutamente positive, come dimostra il fat- to che se ne andò dopo brevissimo tempo, per specializzarsi in psi- chiatria, fare l’analisi didattica con Cesare Musatti e iniziare la pro- fessione di psicanalista, individuale e di gruppo.

Bilingue di nascita, Fachinelli mise a profitto la conoscenza del tedesco traducendo molti testi di psicanalisi, fra cui l’Interpretazio- ne dei sogni di Freud.

2

In realtà egli è uno spirito inquieto, operan- te nel vivo della società. La vita culturale milanese lo vede sempre

cupò le pagine di vari giornali di allora e i notiziari televisivi. Fu da questo incontro che nac- que ‘Plataforma Internacional’ [...], un movimento che si proponeva di coordinare le inizia- tive e la riflessione critica nei vari paesi, soprattutto riguardo all’opposizione nei confronti dell’

IPA

” (P. Migone, I venti anni di Plataforma Internacional, “Il Ruolo terapeutico”, 53, 1990, p. 41). La storia del “controcongresso” di Roma è rievocata in dettaglio da Marianna Bolko e Berthold Rothschild in Una “pulce nell’orecchio”. Cronaca del controcongresso dell’Interna- tional Psychoanalytic Association di Roma del 1969, “Psicoterapia e scienze umane”, 3, 2006, pp. 703-718.]

2. In S. Freud, Opere, vol.

III

, Boringhieri, Torino 1966.

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aut aut, 352, 2011, 21-26

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Cultura e necrofagia nell’industria culturale [1978]

ELVIO FACHINELLI

S ono costretto per necessità di tempo a enunciare in modo essenziale ciò che, nel- la eventuale discussione, potrà essere spe- cificato e problematizzato.

1. Guardando all’insieme delle istituzioni culturali da una pro- spettiva né storica in senso stretto né storicistica, si è ben presto portati a vedere in esse le eredi legittime di quel mondo degli an- tenati che ha un’importanza fondamentale nei gruppi arcaici, quali li conosciamo attraverso le descrizioni tramandate, i ritrovamenti archeologici e i resoconti etnografici. Nei gruppi arcaici la comu- nità degli antenati si costituisce attraverso la negazione della mor- te individuale e il riassorbimento dei singoli morti, attraverso va-

“Quaderni piacentini”, 69, dicembre 1978, pp. 101-104.

È il testo della comunicazione presentata al convegno di Piacenza della Cooperativa scrit- tori, dedicato a Lavoro mentale: produzione e mercato (27-29 ottobre 1978). Essa fa parte di un lavoro più ampio sui sistemi ossessivi attualmente in corso [cfr. La freccia ferma, L’erba voglio, Milano 1979]. Forse per la prospettiva insolita da cui critica l’industria culturale, que- sto testo ha dato origine nei resoconti giornalistici a diversi equivoci. È stato interpretato per esempio come un commento ai lavori stessi del convegno, per la verità non troppo vivaci. La pubblicazione in “Quaderni piacentini” intende anche ristabilire l’obiettivo reale, che è, ap- punto, l’industria culturale nelle sue tendenze oggi prevalenti in Italia. (E.F.)

[La Cooperativa scrittori fu una casa editrice nata nel 1972 dalla costola romana del Grup-

po ’63, come reazione alla prima grande concentrazione editoriale attuata dalla Rizzoli. Tra

i suoi promotori vi erano Luigi Malerba, Angelo Gugliemi, Alfredo Giuliani, Nanni Bale-

strini, Elio Pagliarani e altri. Nel convegno di Piacenza, conformemente al titolo scelto dagli

organizzatori, si sarebbe dovuto discutere di “lavoro mentale tra produzione e mercato”: di

fatto si finì per dar voce, soprattutto attraverso i comportamenti dei singoli, ai molti dubbi

che allora gravavano sull’identità dell’intellettuale.]

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rie e complesse procedure di lutto, nell’unità di un gruppo di mor- ti-viventi, che continuano a far parte del gruppo stesso. Questo la- voro del lutto si distingue generalmente in due fasi. Una prima fa- se, caratterizzata da una serie di operazioni che interessano pre- valentemente il morto immediato, il cadavere, nei suoi difficili rap- porti con i superstiti. Una seconda fase, largamente successiva, in cui entra in gioco il destino finale del morto disincarnato nell’al- dilà e i suoi rapporti col mondo dei viventi.

A questo punto, il gruppo risulta quindi strutturato secondo due poli, quello dei viventi in senso stretto e quello dei morti-vi- venti. Come risulta da molteplici resoconti, il polo degli antenati svolge una funzione normativa nei confronti del polo dei viventi.

Sarebbe troppo lungo e complesso indagare qui sul perché gli an- tenati abbiano tale funzione; diciamo soltanto che la funzione nor- mativa esercitata dagli antenati è perlopiù estremamente rigoro- sa: il trasgressore è spesso punito con la morte. Oltre alla funzio- ne normativa, al gruppo degli antenati spetta un compito di teso- riere, di custode permanente dell’immaginario e del simbolico del gruppo attraverso i miti, i riti e così via.

2. La fine del mondo arcaico, segnata dall’accumularsi senza so- ste dell’esperienza preistorica che esso non riesce più a neutraliz- zare e a riassorbire nel tempo ciclico che lo contraddistingue, se- gna anche la fine di questo rapporto di dipendenza, in genere piut- tosto stretto, dal mondo degli antenati. Gli antenati muoiono. At- traverso però l’invenzione della scrittura e degli altri sistemi di con- servazione e riproduzione dei suoni e delle immagini, è assicura- ta la permanenza e, in misura minore ma sempre notevole, anche la normatività delle opere dei morti. Il rapporto stretto tra i mor- ti-viventi e i comportamenti abituali dei vivi si trasforma quindi a poco a poco nel rapporto tra i “maggiori” e l’operare intellettua- le, creativo, dei vivi.

Una conferma di questa transizione si può cogliere nell’aura re-

ligiosa che ancora oggi circonda, per la maggioranza forse degli

uomini, tale operare. La cultura si costituisce, dunque, da questo

punto di vista, come frutto di un lavoro di lutto, che porta al di-

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stanziamento, alla purificazione e alla stabilizzazione delle opere degne di essere conservate. Nasce un ideale luogo di permanenza.

A questo punto si instaura quell’ininterrotto scambio con i morti- viventi, che prende in buona parte il posto dell’antica dipenden- za da essi.

Si sente spesso ripetere, in tono di nostalgia, che il mondo mo- derno ha operato una “rimozione della morte”. Ora, quest’asser- zione ha del vero per ciò che attiene alla morte individuale, bio- logica, in senso stretto. Ma di solito non ci si avvede di questa so- stituzione operata dall’insieme delle istituzioni culturali. L’opera culturale sostituisce l’individuo e va incontro ai procedimenti di lutto cui questi era sottoposto. I libri, insieme alle altre opere de- gli uomini, sono nello stesso tempo i loro figli e i loro morti.

Come nel caso degli antenati, anche il rapporto tra i viventi e il tesoro culturale dei morti-viventi non è pacifico, assicurato una volta per tutte. Al contrario, conosciamo tutti le lotte secolari che periodicamente si riaccendono tra le ragioni dei viventi e la co- struttività della tradizione culturale. Il rapporto con gli antenati, anche nella cultura, è pacifico soltanto per chi lo guarda da lon- tano, o lo vuole vedere a tutti i costi tale.

3. Il processo di produzione industriale interviene a fondo anche

in questa situazione, cioè nel mondo dei morti-viventi della cul-

tura, con violenza forse superiore a quella conosciuta dal mondo

arcaico di fronte all’accumularsi dell’esperienza storica. Questo

processo, retto in larga misura dai principî economici del profit-

to e dell’aumento della produzione, dà luogo a una serie di effet-

ti, che devono essere esaminati dal punto di vista proprio della cul-

tura, che è, ripeto, la creazione di un luogo di permanenza e del-

lo scambio con le opere dei morti-viventi. In breve, questi effetti

possono essere così descritti. In primo luogo, un’intensificazione

prodigiosa della prima parte del lavoro del lutto, quella che ha a

che fare con l’opera come prodotto immediato, come cadavere, di

immediata rilevazione oggettuale e statistica. Dall’altra parte, un

assottigliamento meno visibile, ma altrettanto netto, della secon-

da parte di tale operazione, quella volta alla depurazione delle ope-

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aut aut, 352, 2011, 27-31

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Destra e sinistra: una coppia simbolica esaurita [1981]

ELVIO FACHINELLI

M i sia consentito di partire, per fissare i pochi punti del mio intervento, da un’osservazione storica a prima vista marginale, o tutt’al più laterale. Come certamente molti sanno, e come si legge nei testi di scienze politiche, la distinzione par- lamentare tra destra e sinistra sembra risalire all’assemblea det- ta Costituente, durante la Rivoluzione francese: i rivoluzionari moderati sedevano alla destra del presidente, i rivoluzionari ac- cesi alla sua sinistra. Rilevo questo particolare: i due lati erano e sono tuttora individuati rispetto al capo o centro dell’assemblea.

Non sarà allora azzardato supporre che in questa distribuzio- ne spaziale abbia inconsapevolmente giocato un riferimento sim- bolico ben noto in tutto l’Occidente e singolarmente coerente sia nella tradizione greco-romana che in quella ebraico-cristiana. Al- la destra del presidente: come alla destra del Signore stanno i san- ti e gli eletti; la destra, ossia il lato, secondo Eschilo, del braccio che brandisce la lancia; il lato maschile di Adamo, secondo i com- menti rabbinici che vedevano nel primo uomo un androgino; il la- to divino e diurno, secondo i teologi medievali; il lato dei buoni presagi, dell’abilità e del successo, secondo gli indovini romani. E la sinistra? Si può notare come i suoi principali predicati simboli-

“Lotta continua”, 27 ottobre 1981, con il titolo Una proposta: non usare i termini “sinistra” e

“destra” (il titolo qui dato è quello della ristampa in M. Cacciari et al., Il concetto di sinistra,

Bompiani, Milano 1982, pp. 21-24). Comunicazione presentata a un convegno sul concetto

di sinistra (Roma, ottobre 1981).

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ci si dispongano fondamentalmente in opposizione a quelli della destra: la sinistra è il lato dei dannati e dell’inferno, di Satana e della notte; il lato femminile di Adamo; il lato dei cattivi presagi e degli insuccessi: sinister è passato a significare, in alcune lingue tra cui la nostra, l’incidente o la sciagura. È quest’“assonanza”, que- sto aparentamiento che Fidel Castro, pochi giorni fa, ha fatto no- tare a Enrico Berlinguer.

1

Ma non si tratta di assonanza, o di affi- nità etimologica; si tratta di correlazione simbolica – e il simboli- co è molto più ampio del verbale, e per sbarazzarsene non basta di- chiarare, come ha dichiarato Berlinguer, che la gente sa distin- guere.

Se infatti la destra siede alla destra del Presidente-Signore, nel- la piena luce del successo virile e legittimo, a sinistra si dispongono gli altri, la massa confusa e tenebrosa di coloro che dicono di no, di coloro che sono votati allo scacco o che nel loro essere testi- moniano, come una piaga, di una debolezza femminea. Nell’am- bito di una società patriarcale, non mi par dubbio che la sinistra abbia assunto simbolicamente il posto della manchevolezza, quan- do non del Male che eternamente si oppone al Bene, del Male che eternamente dà l’assalto al cielo e ne viene ricacciato...

Si dirà che di questa collocazione simbolica non vi è traccia in alcuna delle definizioni che la sinistra politica ha dato o cercato di se stessa, comprese quelle che in questi giorni molti di noi stanno cercando. Ma se nessuno, a quel che so, ha evocato la coppia sim- bolica a cui ho accennato, è la storia stessa della sinistra da un cen- tinaio d’anni che testimonia come essa ne abbia incarnato uno dei termini nel modo più intenso e radicale. Quando Marx circolava ancora sotto le bandiere rosse delle grandi sfilate, probabilmente pochi tra le centinaia di migliaia sapevano che oltre al Marx del

1. [L’episodio è così ricordato da Sandro Veronesi, L’arma del ridicolo per battere il ter-

rorista, “Corriere della Sera”, 16 marzo 2005: “Viene in mente la lezione che Fidel Castro im-

partì a Berlinguer in una sua remota visita a Cuba, riguardo all’handicap linguistico che in

Italia, e solo in Italia, accompagnava le forze progressiste: in tutti gli altri paesi, spiegò il Lí-

der Máximo, vige una netta distinzione tra il termine ‘sinistra’ intesa come la mano del dia-

volo (sinistra, sinistre, sinister) e la parola che invece identifica la parte politica più vicina al

popolo (izquierda, gauche, left). In Italia no. È per questo, disse Castro a Berlinguer, che non

vincete le elezioni: perché il vostro nome fa paura. Cambiatelo, e vincerete”.]

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Capitale c’era il Marx che aveva parlato del “comunismo dell’in- vidia”

2

– e che cos’è l’invidia se non l’attacco maligno, anzi l’at- tacco del Maligno al Bene che lo sovrasta al punto da accecarlo?

Pochi lo sapevano, ma nelle loro lotte quotidiane e persino nei lo- ro più intimi pensieri essi erano nelle file del popolo di Satana o, se volete, dal lato della parte mancante.

Ciò che questo popolo si proponeva ci risulta chiaro: era la tra- mutazione in valori di quei disvalori che la simbolica della destra continuamente espelle da sé. La debolezza espulsa dalla forza do- veva diventare solidarietà comune e giustizia; la fragilità femmini- le davanti alla virilità fallica doveva tramutarsi in delicatezza e fi- nezza; l’oscurità rispetto al giorno doveva acquistare profondità così come, rispetto al centro, doveva prevalere l’eccentrico e al po- sto dell’uomo riuscito doveva comparire lo spostato, lo sbagliato, il nuovo protagonista di una inedita uguaglianza.

Che questo tentativo di rivincita nel simbolico si trovi oggi da- vanti a una situazione di grave scacco, risulta – mi pare evidente – a ciascuno di noi. Ed è appunto la situazione odierna che ce ne of- fre ripetute conferme. Nel campo politico in senso stretto, la po- larità sinistra-destra è andata perdendo via via la sua forza di ten- sione ed è ormai adibita in prevalenza a operazioni di localizza- zione spaziale, per così dire, di ripartizione e classificazione del- l’esistente. Di sinistra è perciò quel che viene fatto o avviene nel- l’ambito di uno spazio politico occupato da forze di sinistra. Ciò che prevale insomma è un’attività nomenclatoria essenzialmente tautologica: sinistra è sinistra è sinistra...

Il depotenziamento della polarità sinistra-destra avviene dun- que attraverso una sua prevalente spazializzazione e la perdita del- l’incisività temporale. La sinistra rimedia, lavora nel presente, non è più in grado di operare in un orizzonte più ampio e lontano. E la sua spazialità è immobile, definita, coartata. Un indizio di que- sta situazione è facilmente leggibile nel terrore della mobilità che di fatto, a vari livelli, e con risultati indubbiamente notevoli, ha

2. [Cfr. K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, 3, Proprietà privata e comuni-

smo, a cura di N. Bobbio, Biblioteca di Repubblica, Roma 2006, p. 86.]

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aut aut, 352, 2011, 32-37

E la passione unì macchina e paziente [1986]

ELVIO FACHINELLI

U n giovane e promettente studioso del cervello viene avvicinato da alcuni fun- zionari del Pentagono, che gli propon- gono una missione segreta molto pericolosa. Nel corso dello scavo di una galleria sotterranea, un dispositivo posto a un chi- lometro e mezzo di profondità è diventato produttore di radia- zioni altamente lesive per i tessuti cerebrali. Si tratta di recupe- rarlo a ogni costo: ma per far ciò, occorre che l’avventuroso smi- natore, per così dire, lasci il cervello a casa. I funzionari pro- pongono perciò allo studioso, noto per la sua faustiana curio- sità e per il suo ardimento, un complesso intervento neurochi- rurgico; il suo cervello verrà isolato e mantenuto in vita in un li- quido adatto, mentre tutti i collegamenti con le radici nervose del cranio svuotato saranno rimessi in funzione mediante com- plessi ricetrasmettitori miniaturizzati. In questo modo, dicono, lo studioso avrà subìto un semplice allungamento dei nervi, che gli consentirà di indagare a fondo la sua nuova e inaudita con- dizione, oltre che, naturalmente, di recuperare senza rischi il dispositivo malefico.

Allibito, riluttante, impaurito, alla fine il benemerito studioso accetta. L’intervento riesce perfettamente, è ovvio, e al risveglio l’operato nota alcune minuscole antenne che si rizzano dalle loro basi di titanio saldate al cranio... Chiede subito di vedere il suo cervello, disposto nello speciale laboratorio di mantenimento in

“Corriere della Sera”, 10 marzo 1986.

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vita. E infatti, tra lo scrosciare degli applausi e le congratulazioni, bioingegneri e chirurghi gli fanno vedere, sospeso in un liquido che a dir la verità sembra birra, il suo cervello quasi tutto coper- to da piastrine con circuiti stampati, tubicini di plastica, elettrodi ecc. “Be’, eccomi qui, seduto su uno sgabello, a contemplare il mio cervello attraverso una lastra di vetro...”

Come si sarà capito, questo è l’inizio piuttosto incisivo, è il ca- so di dirlo, di un racconto di fantascienza. E l’immagine dell’uo- mo seduto perplesso davanti al proprio cervello è il punto nevral- gico del racconto e insieme la figura emblematica dell’intero libro in cui esso è contenuto.

1

In questo curioso e divagante assem- blaggio di racconti, riflessioni, saggi, dialoghi pseudozenoniani, si pongono domande che da qualche anno, in modo più o meno espli- cito, anche altri libri si pongono: dov’è la mente? Cos’è la mente?

E cos’è che nella mente dice io? E che rapporto hanno entrambi con il cervello?

Domande antiche, antiche quanto la filosofia, che però negli ul- timi anni sembrano aver assunto un’improvvisa urgenza per il com- parire, a fianco dell’uomo, di macchine – gli elaboratori elettroni- ci – che sono o saranno capaci di pensare come l’uomo, secondo alcuni, o che simulano e sempre simuleranno di pensare, secondo al- tri. In proposito, i pareri degli operatori sul campo, dei virtuosi del- la programmazione (icosiddetti hacker), divergono fortemente. C’è chi considera del tutto irrilevante, per diagnosticare la presenza di una mente, tener conto del substrato specifico da cui essa a un cer- to punto emerge (sia esso un tessuto biologico come il cervello o la parte solida di un computer): la mente è una prestazione o funzio- ne di un dato livello e si può riconoscere, anzi si deve riconoscere a porte chiuse, come nel famoso test di Turing.

2

E c’è chi invece so-

1. D.R. Hofstadter, D.C. Dennett, L’io della mente. Fantasie e riflessioni sul sé e sull’ani- ma (1981), a cura di G. Trautteur, Adelphi, Milano 1985. [Il racconto, Dove sono? (1978), di Daniel C. Dennett, è a pp. 213-225.]

2. [Criterio introdotto da Alan Turing nell’articolo Computing Machinery and Intelligence

(1950) per determinare se una macchina sia in grado di pensare (A.M. Turing, “Macchine

calcolatrici e intelligenza”, in Intelligenza meccanica, 1992, a cura di G. Lolli, Bollati Borin-

ghieri, Torino 1994, pp. 121-157). Cfr. D.R. Hofstadter, Il test di Turing. Una conversazione

al caffè (1981), in D.R. Hofstadter, D.C. Dennett, L’io della mente, cit., pp. 76-100.]

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stiene che l’elaborazione di simboli formali non ha di per sé alcun senso: l’intenzionalità attribuita o attribuibile in futuro alle mac- chine programmate risiede in ogni caso nella mente dei program- matori.

Comunque sia, nessuno pone in dubbio l’obiettivo ultimo di questo tipo di ricerche. Tra le dichiarazioni di sobrietà scienti- fica e le cavalcate ariostesche degli altri, spunta in questi anni la realizzazione dell’antico e segreto mito dell’homunculus, sia es- so in tutto e per tutto un nostro fratello gemello, copia, replica della nostra mente o soltanto un suo raffinatissimo e subdolo imitatore. L’influsso di questi homunculi sulla nostra vita quoti- diana è già notevole, anche se a volte si ha l’impressione che es- so sia più magnificato ed esaltato che realmente sperimentato.

Forse è più significativa la prospettiva che essi contribuiscono a creare.

In che cosa dunque è toccata la prospettiva di uno psicanalista dall’emergere dei nuovi “sistemi esperti”? A questo punto sem- bra necessario parlare di Eliza e di Parry, vale a dire dei due pro- grammi ormai storici, ormai famosi, che simulano, il primo i di- scorsi di uno psicoterapeuta (ed è opera di Joseph Weizenbaum) e l’altro (di Kenneth M. Kolby) quelli di un paranoico.

Nei due casi, si tratta di imitazioni sorprendenti, ma piuttosto

approssimative, di ciò che possono dire abitualmente uno psico-

terapeuta, di scuola cosiddetta non direttiva, e un paziente para-

noico (e non è detto che varie volte psicoterapeuta e paziente rea-

li non somiglino a queste macchine...). Qui basti dire che Eliza,

perlomeno nelle sue versioni iniziali, lavora sulla base di un “ri-

specchiamento” di ciò che dice la persona che sta conversando

con lui (o con lei?). Si comporta insomma da analista-specchio,

secondo l’antica formulazione di Freud, e per far questo si giova

di alcune sostituzioni grammaticali, alle quali aggiunge qualche

espressione standard pescata in un elenco a sua disposizione. Per

esempio, se il paziente (umano) dice: “Ho dei problemi con la mia

ragazza”, Eliza ribatte un po’ sorniona: “Capisco, ha dei proble-

mi con la sua ragazza”, oppure: “Perché mi dice che ha dei pro-

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aut aut, 352, 2011, 38-39

Pecorelle smarrite nell’ora di religione [1986]

ELVIO FACHINELLI

S i discute sull’insegnamento della religio- ne nelle scuole.

1

Giorni fa, degli adole- scenti interpellati dichiaravano di vedere nell’ora di religione un’occasione di “dibattito” e “partecipa- zione”. Il problema si presenta in termini molto diversi ai li- velli inferiori. Faccio due esempi minimi, dei quali sono venu- to a conoscenza recentemente. In una scuola materna della pe- riferia di Milano, i bambini “che rifiutano la religione” (così si esprimono abitualmente le maestre, ed è già un fatto significa- tivo) sono tre: (il figlio di) un musulmano, un testimone di Geo- va, un comunista. Le maestre non sanno cosa inventare per lo- ro nei corridoi, e per ora, come si dice, soprassiedono. In una seconda elementare alle porte di Milano, l’unico rifiutante è il figlio di una madre nubile. Qui le cose sono già organizzate, tutto è pronto per il via, ma al momento dell’ingresso dell’in- segnante di religione il bambino si mette a piangere e non vuo- le uscire. Rifiuto meditato dell’ateismo materno o rifiuto di la- sciare i suoi compagni?

Non intendo usare parole grosse, del resto già usate, come ghet-

“Corriere della Sera”, 17 novembre 1986.

1. [Nel dicembre 1985 l’allora ministro della Pubblica istruzione, la democristiana Fran-

ca Falcucci, aveva firmato con il presidente della

CEI

, cardinale Ugo Poletti, un’intesa per re-

golamentare l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole italiane. L’intesa prevedeva,

per chi non se ne avvaleva, l’istituzione di attività “formative” alternative. Ma all’apertura del

nuovo anno scolastico la palese impraticabilità dell’insegnamento alternativo suscitò un’on-

data di agitazioni da parte di docenti, studenti e genitori, tanto che il Parlamento dovette tor-

nare a interessarsi della vicenda.]

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aut aut, 352, 2011, 40-46

A proposito di una legge impossibile [1988-89]

ELVIO FACHINELLI

I drogati e Beccaria

Siamo dunque al punto di svolta, o almeno così sembra: dopo lo squillo di tromba di Craxi, eccoci alla proposta di legge del go- verno, secondo la quale, stando alle ultime notizie, qualunque con- sumatore di droga si troverà esposto a un ampio ventaglio di san- zioni, decise a discrezione del giudice;

1

il drogato si trova dunque davanti alla maestà della legge. Uso deliberatamente il termine on- nicomprensivo di drogato, aborrito dagli esperti, ma potrei usare anche i termini utente, o fruitore, dato che il disegno di legge coin- volge in diversa misura chiunque faccia uso di droghe, e dunque stabilisce un mondo variegato, disposto in strati o gironi, ma in fin dei conti solidamente unitario.

È una situazione che ha dato luogo nelle scorse settimane a un dibattito su posizioni contrapposte – illecito sì, illecito no – che è risultato in definitiva statico e ripetitivo. In questo, nulla è davve- ro cambiato negli ultimi dieci-quindici anni, se non in peggio, e il peggio è l’avanzare del disastro, di cui fa parte il fatto che d’ora in

“La Repubblica”, 9 dicembre 1988 (parte prima) e “il manifesto”, 24 gennaio 1989 (parte se- conda), con titolo generale redazionale.

1. [Disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri il dicembre 1988, poi conver-

tito nella legge sull’uso, la produzione e lo spaccio di sostanze stupefacenti del 1990, che se-

gnò una svolta autoritaria nella politica repressiva dello stato (la cosiddetta legge Jervolino-

Vassalli, dai nomi della democristiana Rosa Russo Jervolino e del socialista Giuliano Vassal-

li, all’epoca rispettivamente ministro degli Affari sociali e di Grazia e giustizia). Tra i primi

firmatari, il socialista Bettino Craxi, secondo cui era “insano e riprovevole consumare dro-

ga” e bisognava “introdurre il principio della punizione del tossicodipendente”.]

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41

2. [G. Flesca, V. Riva, Polvere. Una storia di cocaina, Sperling & Kupfer, Milano 1988.]

3. [Vincenzo Muccioli, fondatore della Comunità di San Patrignano per il recupero dei tossicodipendenti, noto per i metodi coercitivi (catene, percosse ecc.) utilizzati per trattene- re gli ospiti durante le crisi di astinenza.]

poi il rapporto prevalente della società con i drogati sarà di ordi- ne giudiziario. E a questo proposito, è significativo che nel corso del dibattito ci si sia interrogati sull’uso della legge nei confronti dei drogati, diventati ombre senza voce alle quali si tratta di ap- plicare o non applicare determinati dispositivi punitivi o riabilita- tivi. Non ci si è interrogati sul rapporto che i drogati hanno con la legge. Ora, è proprio questo rapporto dei soggetti coinvolti il pun- to nodale della questione; non averlo considerato è il segno certo dell’impasse a cui si troverà di fronte, a mio avviso, il disegno di legge ora proposto.

Consideriamo per primo il rapporto di ogni drogato con la pro- pria legge interna, con la propria istanza di controllo, quale che sia il nome che vogliamo darle. Risulta chiaro che il rapporto tra questa istanza e ciò che egli si aspetta dalla droga (piacere, po- tenza, intelligenza o semplicemente ripristino dello stato anterio- re) è variabile, non può essere ricondotto a una proporzione defi- nita una volta per tutte.

Prendiamo il caso del giornalista Giancesare Flesca, che ha rac- contato in un libro recente la sua avventura con la cocaina.

2

Dopo essere arrivato a sniffarne ben due grammi in una volta sola, quin- di una chiara overdose, Flesca ci dice di essere riuscito a liberarsi della droga senza alcuna cura specificamente disintossicante, sen- za alcun ricovero in una comunità terapeutica alla Braccio di Fer- ro Muccioli,

3

“per una sorta di miracolosa ancorché laica meta- noia”, secondo il commento di Enzo Forcella su questo giornale.

Forse non è il caso di evocare una eccezionale metanoia. Basta am-

mettere che si è ricostituito in lui, internamente, un processo di

controllo che era stato messo da parte. E si tratta chiaramente di

un consumatore massiccio, ingordo – non di un consumatore oc-

casionale, saltuario, un consumatore del sabato sera. Con la sua

esperienza, Flesca mette dunque in crisi proprio ciò che [si] vuole

dimostrare, vale a dire l’ineluttabilità del destino di drogato.

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42

Nelle situazioni di questo tipo e in quelle più lievi, che sono poi la grande maggioranza sommersa dei consumatori di droghe, che cosa produrranno le nuove disposizioni previste? Tralasciamone pure l’aspetto a volte pedantesco, o grottesco – dall’obbligo di fir- mare ogni giorno un registro di polizia al “vincolo di non allonta- narsi dal luogo di residenza”, come dice pudicamente il ministro Jervolino, fino alla sospensione dall’albo professionale meditata da qualche giudice. Sono misure che non avranno alcun effetto di dissuasione globale; si presteranno piuttosto a qualche clamorosa

“scoperta” di casi singoli, a qualche “denuncia” di grande effet- to, secondo lo stile spettacolare ora vigente e secondo la fantasia

“discrezionale” di giudici e inquirenti... L’unico effetto globale, seppur non appariscente, sarà forse un incremento della tenden- za alla trasgressione, all’avventura della trasgressione, già così evi- dente nelle partite di guardie e ladri che, nelle periferie urbane o nei parchi pubblici ormai deserti, da tempo si giocano tra adole- scenti e forze di polizia. Per convincersene basta, a Milano, ascol- tare i discorsi che si fanno a tarda sera nelle ultime stazioni della metropolitana.

Diverso il caso dei drogati cronici, e ben più grave. Qui l’istanza di controllo interno sembra spesso sostituita da un procedimen- to di tipo punitivo primordiale, di cui fa parte integrante la de- gradazione personale, spinta fino al vero e proprio suicidio. Qui c’è un nesso stretto tra il consumo di droga e la sua punizione in- terna; in definitiva, tra il “farsi” di droga e il “disfarsi” di sé in un generale comportamento autodistruttivo. Ora, il progetto di mi- sure punitive esterne rischia di aggiungersi a questa condanna in- terna, rischia di entrare in collusione, in nascosta alleanza con il feroce sistema di punizione autoctono. Anziché dissuadere dalla droga, le misure preventivate rischiano di rafforzare il comporta- mento suicida del drogato. Si crea un circolo chiuso, un girone inaccessibile, rispetto al quale le proposte di intervento terapeu- tico, obbligato o no, risulteranno più vane di prima.

Mi sono spesso chiesto, in questi giorni, perché tra i politici, in

Italia, nessuno legga o dimostri di aver letto il testo straordinario

di un autore italiano, che su tutto questo ha scritto cose indimen-

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aut aut, 352, 2011, 47-51

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“Leggere”, 12, giugno 1989, pp. 19-21.

1. A. Manzoni, I promessi sposi, a cura di G. Pampaloni, De Agostini, Novara 1988, p. 32.

2. Ivi, p. 27.

Don Abbondio, il vittorioso [1989]

ELVIO FACHINELLI

N el romanzo di Alessandro Manzoni, la vicenda di don Abbondio è scandita da due incontri. Il primo, scena inaugurale di tutto l’intreccio, pone in primo piano le minacce dei bravi di don Rodrigo e colloca giustamente don Abbondio nella posizio- ne del “vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro”.

1

Il suo sistema di quieto vivere, la sua “neu- tralità disarmata” di fronte a qualsiasi conflitto, sono brusca- mente messi in crisi. Davanti al divieto che gli viene fatto, l’uni- ca reazione immediata si esprime nella frase: “Disposto... dispo- sto sempre all’ubbidienza”.

2

Verranno in seguito i sotterfugi con cui il povero prete tenta di salvare la propria pelle.

Il secondo incontro, estremamente significativo, è quello con il

cardinale Federigo, in cui questi gli chiede ragione del suo com-

portamento nei confronti dei due promessi sposi. Ora però la si-

tuazione è completamente diversa. Di fronte al parlare alto del car-

dinale, don Abbondio si rifugia in un borbottio continuo, inter-

rotto da qualche breve autodifesa, che risulta in netta antitesi con

la “predica” del suo superiore. Egli mormora le consuete spiega-

zioni del suo comportamento, nelle quali spiccano i “comanda-

menti terribili” ricevuti, il suo trovarsi solo davanti alle minacce

di un “gran signore”, mentre il cardinale “quelle facce” non le ha

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viste... Sono giustificazioni che il lettore conosce già, che gli sono state anticipate nei soliloqui di don Abbondio, ma questa volta av- vertiamo in esse una sorta di tranquillità di fondo, di sicurezza qua- si, che le trascende. Infatti, tra le parole che egli si lascia sfuggire, spicca un argomento quasi filosofico: “Torno a dire, monsignore, che avrò torto io... Il coraggio, uno non se lo può dare”.

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Qui la pavidità del curato trova una spiegazione finale, defini- tiva, che gli consente di percepire come estranei, salvo un breve momento di commozione, i discorsi del cardinale. Il quale, ed è opportuno rilevarlo, non obietta nulla a questo supposto limite naturale proclamato da don Abbondio, ma tenta di aggirarlo, di rimediarlo, richiamandosi ai “doveri del ministero”, che vanno ol- tre il pericolo di morte, al coraggio che Cristo fornisce infallibil- mente, quando glielo si richiede, e all’“amore intrepido” per il pro- prio gregge, che doveva nascere nel prete da tanti anni di vita pa- storale.

Non si può sfuggire all’impressione che il coraggio, per il car- dinale, derivi in sostanza dalla fiducia in Dio e dalla richiesta a lui rivolta – dunque una richiesta a un ente esterno rispetto alla crea- tura umana, che viene così confermata nella sua pochezza. Don Abbondio non è abbastanza credente per inserire le considera- zioni etiche del cardinale nel proprio comportamento abituale ed è abbastanza ateo per avvertirle come parole di un eroico “sant’uo- mo”, lontanissime dalla sua esperienza concreta, sorretta per co- sì dire da un solido principio di assenza: io non ho coraggio, non c’è niente da fare, sono altri ad averlo. Il Dio di cui parla Federi- go gli è ignoto; anzi, è un Dio “seccatore”, secondo l’efficace com- mento di Geno Pampaloni.

In questo senso, don Abbondio risulta alla fine vittorioso ri- spetto al cardinale. Infatti, al termine del romanzo, lo vediamo ri- comparire tale e quale, liberato dai suoi timori nei confronti di don Rodrigo soltanto perché ne ha appreso la morte per peste. “Ah è morto dunque! e proprio se n’è andato! Vedete, figliuoli, se la Provvidenza arriva alla fine certa gente [...]. È stata un gran fla-

3. Ivi, p. 503 (corsivo mio).

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4. Ivi, p. 746 [corsivo dell’autore].

5. [“...un’invariante” nel testo.]

6. [A. Manzoni, I promessi sposi – Storia della colonna infame, a cura di L. Caretti, Ei- naudi, Torino 1971, p. 908.]

gello questa peste; ma è anche stata una scopa”.

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Anche il “gran flagello” della peste tende a ridursi a un’evenienza personale, a un accidente che libera la strada dalle pietre che la ostruivano – e con ciò si dimostra come don Abbondio sia sostanzialmente invariato rispetto all’inizio, un invariante

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della situazione generale.

Una scelta etica, autonoma, giocata all’interno delle diverse com- ponenti della personalità, per lui non esiste; esiste l’accettazione dogmatica di una presunta carenza naturale del suo essere, che il cardinale non riesce a scalfire. Quest’assenza di coraggio, che sem- bra una pacifica constatazione di partenza, è in effetti la conclu- sione di un processo, in cui la cancellazione del coraggio serve a eliminare ogni alternativa di condotta, a rendere il più possibile tranquillo e senza dubbi il corso della vita – ma all’ombra della violenza dei potenti, che in questo modo diventa padrona del cam- po, senza più rivali. E così che don Abbondio non ha più il pro- blema di che cosa fare della propria paura, più che legittima, e nor- male in ogni uomo: ha soltanto da obbedirle in ogni circostanza (“Disposto... disposto sempre all’obbedienza”).

Si può pensare che qui si palesi quella curvatura pessimistica

del pensiero di Manzoni, che trova la sua espressione forse più

compiuta nella Storia della colonna infame: “Ci par di vedere la

natura umana spinta invincibilmente al male da cagioni indipen-

denti dal suo arbitrio, e come legata in un sogno perverso e af-

fannoso, da cui non ha mezzo di riscotersi, di cui non può nem-

meno accorgersi. [...] Rimane l’orrore, e scompare la colpa; e, cer-

cando un colpevole contro cui sdegnarsi a ragione, il pensiero si

trova con raccapriccio condotto a esitare tra due bestemmie, che

son due deliri: negar la Provvidenza, o accusarla”.

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Forse questo

è lo sfondo, il cuore nero dell’universo umano che ha tormentato

Manzoni e ha consentito un’interpretazione giansenistica del suo

cattolicesimo, probabilmente inesatta su uno stretto piano specu-

lativo.

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aut aut, 352, 2011, 52-57

Co-identità

PIER ALDO ROVATTI

L a freccia ferma (L’erba voglio, Milano 1979) era una singolare riflessione a parti- re da un caso: un modo bloccato di vivere la scansione temporale. Ma il caso del tempo vissuto ossessiva- mente – notava Fachinelli – ha una verità implicita che riguarda l’esistenza individuale di ciascuno, verità retrodatata al momen- to di una difficile scelta infantile tra appartenenza e distacco dal- l’altro. L’immagine evocata era quella di una stretta passerella in cui, come un equilibrista, ciascuno deve cercare di mantenersi.

Il tempo lineare e progressivo, il nostro “tempo sociale”, can- cella il ritmo più profondo che scandisce l’equilibrio instabile a cui continuamente dobbiamo provvedere. Così il quadro curioso disegnato da Fachinelli andava dilatandosi nel corso della narra- zione, e dal caso di un ossessivo giungeva a considerazioni poco rassicuranti sulla nostra scena storico-sociale, ormai svuotata di ogni relais simbolico o rituale in grado di far circolare il dilemma individuale attraverso l’unico medium – la scena sociale, appunto – che possa attenuarne l’irrigidimento e il blocco.

Questa dilatazione non sembrava comunque la cifra più ge- nuina della ricerca, la quale visibilmente era percorsa da una ten- sione verso qualcos’altro. Come osservatore non specialista di que-

Pubblicato originariamente in “alfabeta”, 46, marzo 1983. Successivamente ho valorizzato i

temi di La mente estatica (Adelphi, Milano 1989) nel capitolo 7 dell’Esercizio del silenzio (Raf-

faello Cortina, Milano 1992) e nell’intervento Un esercizio di pensiero del 2009 a Trento, in

occasione del convegno dedicato a Fachinelli (cfr. Elvio Fachinelli e la domanda della Sfinge,

a cura di N. Pirillo, Liguori, Napoli 2011, pp. 169-173).

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stioni psicanalitiche, ero rimasto colpito dal tentativo di Fachinelli di costruire una “narrazione teorica”, estranea ai modelli saggisti- ci correnti e anche ai moduli psicanalitici che pure si servono da sempre del racconto dei casi.

Inseguendo un tema che già di per sé sembrava domandare un trattamento non codificato in una forma comune di esposizione, mi pareva che Fachinelli mirasse a un’operazione ambiziosa quan- to interessante: stringere in un unico impasto espositivo registri diversi, saggistico, autobiografico, narrativo (una narrazione con colpi di scena e ritrovamento dell’incastro sulla base di indizi non congruenti), ma senza rinunciare al risultato conoscitivo.

Questo tipo di narrazione non voleva funzionare come un ma- teriale da consegnare, alla fine, alla riflessione interpretante: mi sembrava che, all’inverso, l’intenzione fosse, pur con le molte e dovute cautele, quella di rifondere l’interpretazione nella narra- zione, e di conseguenza quella di conservare la molteplicità dei piani e degli spunti, anche abbozzati o solo suggeriti; e inoltre di non collocarsi, come autore, fuori della scena ma, nella misura del possibile, di venirne a costituire un elemento interno.

Claustrofilia è uscito a breve distanza di anni, come una conti- nuazione (Adelphi, Milano 1983). Mantiene questo carattere, no- nostante siano alquanto cambiati i temi e ora l’ambizione scienti- fica punti a un bersaglio più grande (correggere Freud integran- dolo su un punto non secondario). La questione del tempo – qui i tempi dell’analisi, quello spezzettato della singola seduta (che tende ad abbreviarsi) e quello lento, quasi immobile dell’intero trattamento (che tende ad allungarsi indefinitamente) – si trasfor- ma più che espandersi. La scena si sposta in un prima che prece- de la zona in cui la regressione freudiana poneva i suoi limiti: si supera a ritroso il confine della nascita e si entra in un’area ipote- tica, seppure già indagata da ricerche sullo psichismo prenatale (Fachinelli si rifà a quelle dell’argentino Raskovskij e dell’italiano Mancia). Contemporaneamente è la cosiddetta “scena primaria”

a fornire il riferimento: il bambino che osserva da fuori qualcosa e qualcuno (la madre) che però vive anche pienamente da dentro.

Ma una terza scena è sotto gli occhi, e certamente è la più prossi-

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