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Linee di una riforma della giustizia penale nella prospettiva europea. - Judicium

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SCUOLA DI PERFEZIONAMENTO IN PROFESSIONI LEGALI

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI ROMA “TOR VERGATA”

Linee di una riforma della giustizia penale nella prospettiva europea

Roma, sabato 30 novembre 2013, ore 11 Università degli Studi di Roma-Tor Vergata

Prolusione di

GIORGIO SANTACROCE

Primo Presidente della Corte Suprema di Cassazione

Nel rivolgere il più sentito ringraziamento a tutti gli intervenuti, desidero sottolineare che l’invito rivoltomi a tenere una prolusione su un tema di rilevante importanza teorica e pratica com’è quello della riforma della giustizia penale nella prospettiva europea mi è giunto particolarmente gradito per tre fondamentali ragioni: la prima è che in questa Università torno sempre volentieri; la seconda è l’opportunità che mi viene data di rivedere tante persone cui mi legano rapporti di sincera amicizia e di costante collaborazione (è con sentimenti di sincera vicinanza che saluto il Magnifico Rettore Professor Giuseppe Novelli, che ho il piacere di rivedere a distanza di pochi giorni: martedì scorso ero ancora qui a Tor Vergata per presentare un convegno sull’occupazione giovanile;

saluto il professor Gian Piero Milano, Direttore del Dipartimento di Giurisprudenza; e saluto il Professor Annibale Marini, Presidente emerito della Corte Costituzionale e oggi autorevole componente del CSM); la terza ed ultima ragione è che sono contento di trovarmi qui a riflettere con voi giovani su temi attuali di giustizia in un momento in cui si avverte un forte bisogno di “saggezza”

nell’amministrazione della giustizia e di quella penale in specie.

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1. I dati statistici che corredano le relazioni inaugurali dell’anno giudiziario offrono anno dopo anno la fotografia di uno sfascio quasi inarrestabile. Lo stato della giustizia penale è, sotto questo aspetto, illuminante. Non è facile, del resto, guardare con ottimismo al futuro se già una ventina d’anni fa Tullio Padovani, uno dei nostri più arguti studiosi di diritto penale, rispondendo a un questionario sulla crisi della giustizia penale e invitato a indicare quale riforma ritenesse più efficace per porre rimedio ai guasti del sistema punitivo e, più in generale, alle disfunzioni dell’apparato giudiziario penale, preferì cavarsela con una battuta di spirito:

l’intervento più efficace? Un pellegrinaggio a Lourdes.

Da allora molta acqua è passata sotto i ponti ma l’atteso miracolo non c’è stato. Non solo la situazione della giustizia penale é rimasta invariata, ma anzi è andata sempre più deteriorandosi, quasi a voler fornire riscontro all’antico adagio secondo cui al peggio non c’è mai fine.

Eppure le cause della crisi della giustizia penale sono facilmente identificabili perché sono cause essenzialmente tecniche e possono essere risolte solo adottando progetti mirati di giustizia fattibile e concreta: i quali non sono certamente quelli di istituire periodicamente, a ogni cambio di governo, commissioni di studio ministeriali chiamate a elaborare ogni volta nuovi programmi di riscrittura totale o parziale del codice penale e di quello di procedura penale, destinati a impolverarsi a futura memoria. La verità è che ora di finirla col metter mano a certe riforme solo ispirandosi alla logica sempre più teorizzata e praticata della difesa dal processo, anziché nel processo, lontana dalle garanzie del giusto processo. Ma soprattutto non è più tempo di alta ingegneria normativa, ma di rimedi pragmatici imposti dalla scoperta di una situazione di estremo pericolo: il nostro sistema penale non è più in grado di assicurare le condizioni essenziali per una convivenza pacifica e ordinata.

Ad essere sbagliato, purtroppo, è l’approccio alle riforme: che avviene nel contesto di un quadro politico

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generale al limite (e ormai oltre il limite) della decenza e di un’indescrivibile confusione, dove si fanno diagnosi senza studiare la cura, si richiama una costituzione materiale alternativa a quella formale che è l’unica Costituzione che si è tenuti a osservare almeno fino a quando una nuova Assemblea Costituente non ne proporrà una diversa, e si continua a privilegiare una politica del contingente, con interventi normativi improvvisati e disorganici, dannosi per il sistema e utili solo a favorire un’area di malaffare incredibilmente vasta, prospettando oltretutto una varietà di iniziative, nessuna delle quali però è in grado di concretizzarsi in rimedi capaci di superare questa o quella disfunzione, questa o quella specifica causa di ritardo. Un approccio, oltretutto, le mille miglia lontano dagli standard europei che propongono ben altri modelli di giustizia.

Diciamoci la verità, senza fare la minima demagogia.

Fino a quando si continuerà a parlare di giustizia in termini di eterna contrapposizione tra una magistratura politicizzata fatta di toghe rosse, blu e a pallini gialli e la necessità di una difesa a oltranza dei principi della Costituzione non si andrà da nessuna parte. Permarrà una paralisi propositiva e, rivolgendo lo sguardo agli altri sistemi che funzionano in Europa, ci si accorgerà di una serie di anomalie che sarebbe troppo lungo enumerare. Non ultima l’uso politico- mercantile del potere in tema di manette ai parlamentari a seconda delle convenienze del momento, facendo leva su un garantismo a targhe alterne, come è accaduto in un recente passato con Papa a Poggioreale, Milanese a Porta a Porta e l’ex Ministro Romano ospite di Lucia Annunziata a Mezz’ora. E come è avvenuto fino all’altro ieri con il triste e penoso spettacolo del dibattito sulla decadenza del senatore Berlusconi dall’incarico di parlamentare.

In una situazione di così grave squilibrio fra democrazia rappresentativa e rispetto dei diritti inviolabili dell’uomo, è difficile poter affermare che ci siano le condizioni per una riforma seria della giustizia penale. Una riforma globale – intendo - in grado di tracciare ex novo struttura e impianto dei reati e del processo. Al momento

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sembra più realistico pensare a una riforma per gradi, purché siano chiari gli obiettivi che si intendono perseguire.

Io stesso, dopo aver censurato in più di un’occasione l’inutilità di “piccoli aggiustamenti” che non hanno dato e seguitano a non dare alcun risultato, ho indicato alcuni temi prioritari, senza azzardarmi a suggerire le linee complessive di una riforma di sistema. Mi sono soffermato su alcuni interventi che veramente servono, su interventi per intenderci dall’anima eminentemente deflativa, capaci di ridurre il pesante arretrato accumulatosi negli uffici giudiziari (visto che per azzerarlo, tutto dovrebbe fermarsi per anni, senza l’arrivo di nuovi processi) e che vengono indicati dagli esperti come necessari a recuperare efficienza e funzionalità al servizio giustizia, perché senza di essi la durata ragionevole del processo è destinata a restare un mito irraggiungibile. Queste riforme però non sono nell’agenda politica del governo. Le riforme che ci sono e/o a tratti ritornano e vengono ostinatamente indicate come prioritarie e ineludibili provengono spesso da chi è il meno titolato a parlarne e sono comunque quasi tutte di natura ordinamentale e di struttura, ma – ciò che è più grave - non sono immediatamente realizzabili perché coinvolgono il quadro costituzionale e, come tali, richiedono una procedura e una maggioranza parlamentare che allo stato non esiste (cfr. art. 138 Cost.). Si tratta oltretutto di riforme di facciata, che non guardano alla sostanza dei problemi e che - si condividano o non si condividano - non sposterebbero di un millimetro la situazione di tendenziale paralisi che impedisce attualmente di far fronte alla sempre più pressante domanda di giustizia che cresce anche in aree marginali della collettività.

Separando le carriere dei magistrati tra giudici e pubblici ministeri e sdoppiando il Consiglio Superiore della Magistratura in due organismi (uno per i giudici e l’altro per i pubblici ministeri) non si accorcia di un solo giorno la durata dei processi penali. Sopprimendo tout court il principio dell’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale, difficilmente si riuscirebbe ad evitare il disorientamento

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provocato dal rimbalzo di certe inchieste giudiziarie come palline di ping pong tra varie Procure, come è avvenuto per la vicenda Why not aperta a Catanzaro dall’allora pubblico ministero e ora tanto bistrattato sindaco di Napoli, Luigi De Magistris. E ancora. Riformando il Consiglio Superiore della Magistratura e la Corte Costituzionale, rivedendone i criteri di composizione e le modalità di scelta dei componenti, non avremmo una giustizia ordinaria più celere.

Per non parlare di altre proposte di riforma elaborate in un recente passato, come quella del processo breve, della riduzione dei termini di prescrizione per gli imputati incensurati nei processi di primo grado e della ennesima rivisitazione del sistema delle intercettazioni telefoniche e ambientali, che gettano una luce inquietante su molte delle idee che circolano in materia di riforma della giustizia penale, in un’atmosfera di crescita esponenziale del prevalere di interessi privati su quelli generali del Paese, avente di mira ben determinati processi (che proprio per questo sembrano riguardare cittadini “più uguali degli altri”).

2. Cerchiamo allora di fare un po’ di chiarezza su alcuni punti. Quello dell’introduzione del processo “breve”, per esempio: che è un suadente slogan, che in teoria trova tutti d’accordo. E’ il modo di impostarlo che desta perplessità. Si tende a far credere che il c.d. processo “breve” sia imposto dalle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo. Ma non è assolutamente così. Sappiamo tutti che l’Italia ha riportato un altissimo numero di condanne per violazione del principio della durata ragionevole dei processi civili e penali, consacrato dall’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (e si può aggiungere, dall’art. 14 del Patto internazionale sui diritti civili e politici patrocinato dall’ONU), già molto tempo prima che questo principio venisse inserito nell’art. 111 della nostra Costituzione (rivisitato con una legge costituzionale del 1999). Ma una cosa è sostituire a

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una giustizia lenta e che arriva tardi una giustizia più efficiente e contenuta in limiti di tempo ragionevoli, altra cosa è sostituire a una giustizia tardiva una giustizia che non arriva più, il che è sinonimo di una giustizia negata, perché interrotta in itinere, impedendo al giudice di accertare la verità, ampliando così i margini di impunità.

Nessuno contesta poi la necessità di dover prima o poi affrontare certi temi di chirurgia costituzionale, ma per farlo occorre accantonare i toni accesi e i modi pretestuosi di una guerra di religione, sforzandosi di trovare un terreno comune di interlocuzione. Io, per primo, sono favorevole ad apportare temperamenti al principio dell’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale, che è un tema scivoloso perché non pochi lo considerano, specie nel nostro contesto politico e sociale, garanzia irrinunciabile di uguaglianza. Ma non vedo perché non si possa conservarlo, modificando i presupposti dell’esercizio dell’azione penale per una gamma di reati minori di scarsissimo disvalore penale, consentendo al pubblico ministero di depenalizzarli e di affidarli alle valutazioni di un’autorità diversa dal giudice penale.

E ancora. Nessuno dubita che le attuali norme sull’uso delle intercettazioni prima o poi debbano essere riviste, senza che si debba indebolire per questo uno strumento investigativo indispensabile per garantire la legalità contro il crimine. Purtroppo il tema delle intercettazioni viene spesso esasperato o ingigantito in modo distorto. C’è certamente il rischio di un uso improprio delle intercettazioni e ci può essere anche, a volte, una propensione alla concessione delle relative proroghe. Ciò che deve auspicarsi, però, è un intervento normativo che vieti la divulgazione dei contenuti delle conversazioni intercettate, tutelando i terzi e i fatti non rilevanti sotto il profilo penale e salvando il diritto a informare e a essere informati. Detto questo, bisogna stare molto attenti a non confondere il numero dei contatti con quello delle utenze intercettate e del numero dei soggetti coinvolti nelle conversazioni.

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Sono altre però le priorità da realizzare. Bisogna por mano immediatamente e senza altri indugi a una nuova disciplina della prescrizione: che resta la “riforma delle riforme” e s‘intreccia col tema dolente delle previsioni sanzionatorie. Senza un radicale ripensamento del tormentone della prescrizione regolato dalla c.d. legge ex Cirielli, la n. 251/2005 (ditemi voi in quale altro paese del mondo una legge prende il nome del suo ex, cioè di chi ha preso le distanze dal testo da lui originariamente proposto e rimaneggiato da altri!), ogni modifica legislativa in materia di giustizia penale rischia di risultare vana. Il meccanismo della prescrizione è stato progressivamente modificato per farne strumento di strategie processuali dilatorie. Da anni gli organismi internazionali (l’OCSE, il GRECO) chiedono all’Italia di punire “efficacemente” certi reati (come la corruzione e la concussione, ad esempio), deplorando l’alta percentuale di questi delitti che, a causa dell’attuale sistema di calcolo e della previsione di termini brevi di prescrizione, vengono dichiarati estinti, vanificando così la loro repressione e lasciando impuniti migliaia di corrotti e di corruttori. Le statistiche giudiziarie rivelano che, nel nostro sistema, che ha già tempi processuali lunghi stante l’esistenza di tre gradi di giudizio, la prescrizione comincia a decorrere dal momento della commissione del reato e questo tipo di reati, per sua natura, resta a lungo sommerso e viene scoperto di solito, nel corso di altre indagini, molto tempo dopo la commissione del fatto, bruciando così una larga fetta della prescrizione.

Per allungare i tempi di durata del processo penale le opzioni non mancano: si può scegliere di far scattare l’orologio della prescrizione dal momento in cui il reato viene scoperto e non da quando è commesso, o mantenere l’assetto attuale ma congelandone il corso dopo la richiesta di rinvio a giudizio o dopo il decreto di rinvio a giudizio, o ancora dopo la pronuncia della sentenza di condanna di primo grado. Oppure si può arrivare all’innesto di una prescrizione processuale: statuendo, secondo i gradi, tempi

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massimi per la decisione, decorsi i quali l’accertamento abortisce.

La richiesta di riforme davvero utili, in grado di assicurare la durata ragionevole del processo, deriva da una valutazione negativa del sistema penale vigente, al quale si rimprovera di non saper rispondere al suo obiettivo primario, che è quello di dare un’immagine di sé sicura e affidabile, tale da confortare la collettività e i singoli cittadini in ordine alla salvaguardia dei loro diritti fondamentali. Nella società italiana è radicata l’insoddisfazione per un sistema penale che non riesce a salvaguardare i più classici tra i beni giuridici contro forme primordiali di criminalità (dall’omicidio al furto, dalla rapina allo stupro): che non svolge un’apprezzabile azione dissuasiva contro fenomeni patologici tutt’altro che nuovi ma oggi particolarmente acuti (come la corruzione, la concussione, l’abuso dei minori, l’usura, il riciclaggio di denaro sporco) e che stenta a mettersi al passo con i tempi, fornendo risposte adeguate a forme di criminalità caratteristiche della nostra epoca (come la criminalità finanziaria, quella ambientale e quella a carattere transnazionale).

Ma allora che cosa si può e si deve fare per uscire da questa situazione di impasse? Di che cosa c’è bisogno per creare un sistema penale più efficiente a livello europeo?

Io ho provato a elaborare un programma e a buttar giù degli appunti, convinto che i grandi capitoli del libro nero della giustizia penale siano fondamentalmente tre.

Il primo capitolo è quello della durata del processo, che non ha una valenza esclusivamente processuale come si è portati comunemente a credere, perché tocca quella che già Francesco Carrara chiamava la nomorrea penale, e cioè l’esuberante proliferazione di reati che inflaziona l’attuale domanda di giustizia e che è destinata a intasarne i meccanismi per diffondersi come una gramigna in ogni fase del processo. E’ fin troppo ovvio che riducendo il numero dei reati e quindi dei processi per accertarli, si accorcia la durata di quelli che è opportuno celebrare.

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Il secondo capitolo è quello della crisi dell’effettività della pena, e cioè la perdita dell’effetto dissuasivo che è proprio della pena o, se si preferisce, la mancanza di pene certe. Questa crisi spinge a ripensare radicalmente la politica sanzionatoria penale vigente, concentrata da sempre su un catalogo di sanzioni bloccato alle due tipologie tradizionali della pena detentiva e della pena pecuniaria, secondo il prospetto offerto dall’art. 17 del codice penale (ergastolo, reclusione, arresto da un lato;

multa e ammenda dall’altro).

Il terzo capitolo investe la fase dell’esecuzione della pena, e, quindi, il sistema penitenziario, che, così com’è strutturato, rappresenta la negazione materiale del principio della rieducazione del reo enunciato dall’art. 27 comma 3 della Costituzione (il carcere da scuola di rieducazione è diventato scuola di perfezionamento in delinquenza).

3. Cominciamo dal primo capitolo: la durata eccessivamente lunga dei processi, che contrasta con il principio che ogni persona ha diritto ad avere un processo equo da svolgersi entro un termine ragionevole, enunciato espressamente dal § 1 dell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950, cioè da una fonte sovranazionale, e che, proprio per dargli maggiore vigore, è stato inserito anche nell’art. 111 della nostra Costituzione, per cui al vincolo di ordine internazionale si aggiunge per i giudici italiani (e non solo per loro, ma anche per gli avvocati, per i periti, per i consulenti tecnici e per chiunque a qualsiasi titolo entri nel processo) l’adempimento di un preciso obbligo costituzionale.

In Italia, la durata non ragionevole del processo dipende da una serie di fattori, quali la lentezza delle procedure codicistiche, un eccessivo formalismo, lo spaventoso aumento dell’arretrato, l’abnorme ricorso alla giurisdizione (in quale altro Paese esiste un giudice delle infrazioni stradali, come è diventato ormai il giudice di pace?), l’inadeguatezza degli organici dei magistrati e del

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personale amministrativo, la scarsità dei mezzi materiali a disposizione, il procedere a passo di lumaca dell’informatizzazione degli uffici giudiziari. Ma l’irragionevole durata del processo penale è figlia soprattutto dell’espansione ipertrofica dell’attuale diritto penale, che tende a sanzionare un numero esagerato di condotte anche di minima gravità, nelle materie più disparate, facendo girare a vuoto sin dall’inizio la macchina della giustizia ed esponendo la maggior parte dei reati (non solo quelli minori, ma anche quelli di una certa entità) alla spada di Damocle della prescrizione.

Il pericolo maggiore di una penalizzazione irrazionale (“alluvionale” l’ha chiamata qualcuno), specie nel settore del cosiddetto diritto penale speciale o accessorio, è quello di intaccare la funzione di prevenzione generale che è propria del diritto penale, contribuendo a indebolire fortemente la credibilità complessiva del sistema e la fiducia dei cittadini nelle istituzioni, perché un sistema punitivo che pretende di penetrare in modo pervasivo in tutti gli aspetti della vita sociale e minaccia di applicare sanzioni penali in modo indifferenziato, perde inevitabilmente la sua efficacia di deterrenza.

Ma è mai possibile - mi chiedo e vi chiedo - che si debba trovare nel catalogo del codice penale un reato contravvenzionale come il disturbo del riposo e delle occupazioni delle persone (art. 559 c.p.), che colpisce con una modesta pena pecuniaria (l’ammenda) il detentore di un cane che abbaia in modo insistente e petulante o chi ascolta un compact disc di Vasco Rossi ad alto volume dopo le undici di sera, rompendo le scatole ai vicini di casa?

Ma in quale altro paese del mondo, mi domando, l’abbaiare di un cane o l’ascoltare un cd ad alto volume è materia di interesse penale, tale da scomodare – nel vortice delle impugnazioni - perfino il supremo organo di giustizia ordinaria del Paese, che è la corte di cassazione?

Scontata, dunque, la necessità di ricorrere a istituti deflattivi, capaci di far diminuire il debito giudiziario che ci perseguita e di restituire coerenza e razionalità al diritto

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penale, tornando a concepirlo come extrema ratio di tutela della società. Tante condotte che oggi hanno una rilevanza penale potrebbero ben essere punite in via amministrativa, come avviene in altri paesi, facendo pagare al trasgressore una somma di denaro, più o meno pesante, allo stesso modo dell’inosservanza di un divieto di sosta o del mancato pagamento di un’imposta nei termini prescritti.

Ma non è finita. Ci si illude che l’azione chiave di una seria riforma penale consista nell’inasprire le pene detentive già esistenti, senza rendersi conto che se c’è un risultato solido, acquisito della ricerca empirica sull’illegalità è che la gravità delle pene produce un effetto deterrente minimo, mentre ne ha uno molto più incisivo ed efficace la probabilità di essere condannati e scontare subito la pena irrogata. Ciò é tanto più vero nel presente momento storico in cui é noto a tutti, e in primis ai criminali, che in Italia le pene sono e resteranno ancora a lungo puramente virtuali, visto che la magistratura è ingolfata di cause e le carceri sono sovraffollate.

Ma c’è di più. Oggi va di moda disquisire sulle parole.

Ed ecco che c’è chi pensa di introdurre nuove figure di reato, come il “femminicidio” e l’”omicidio stradale”, auspicando specifici interventi normativi tesi a inasprire, per finalità dissuasive, il trattamento punitivo degli autori di determinati fatti-reato (omicidi provocati dalla condotta di guida sconsiderata di determinati soggetti o dal susseguirsi di eventi di gravissima efferatezza in danno delle donne), per arginare l’allarme sociale che ne è derivato.

Sul primo fronte è noto che in data recentissima, prima che suonasse il gong della data limite del 15 ottobre le Camere hanno approvato un articolato “omnibus” che, con una certa improprietà di linguaggio e all’insegna di tre verbi (punire, proteggere, prevenire), è stato ribattezzato come

“legge sul femminicidio”. Per la verità e per fortuna il termine “femminicidio” non figura in nessuna delle nuove norme, né è stata introdotta alcuna fattispecie autonoma di omicidio al femminile come qualcuno aveva per la verità auspicato, perché la legge del 16 ottobre scorso interviene

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sulla disciplina di fattispecie già esistenti come i maltrattamenti in famiglia, gli atti persecutori e la violenza sessuale agendo essenzialmente sulla leva sanzionatoria e configurando nuove aggravanti. Qualche novità semmai è stata introdotta sul versante processuale, prevedendo inedite misure precautelari e meccanismi di tutela della persona offesa in occasione della revoca o della sostituzione di misure cautelari.

Sul fronte della sicurezza della circolazione stradale è noto il tentativo operato da alcuni giudici di merito di inquadrare l’omicidio riconducibile alla violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale nel reato di

“omicidio volontario”, previsto dall’art. 575 c.p. e punibile con la reclusione non inferiore a 21 anni, in quanto sorretto – si dice - da dolo eventuale ed è altrettanto nota la proposta di creare una nuova figura tipologica di reato, rubricata come “omicidio stradale”, modificata nella sua fisionomia sociale e criminologica rispetto al passato, in quanto espressione della più grave forma di pirateria stradale, perché sintomatica di una totale indifferenza nei confronti dei beni della vita e dell’incolumità altrui. Una figura di reato, punita con la reclusione da 8 a 18 anni e con l’arresto in flagranza, cui si aggiungerebbe, per il soggetto condannato, il ritiro della patente di guida.

La Cassazione tuttavia, agendo sul delicato crinale tra colpa cosciente e dolo eventuale, non ha finora mai avallato in materia di circolazione stradale la tesi del dolo eventuale in termini generali, osservando che l’elemento dell’accettazione del rischio è comune sia al dolo eventuale che alla colpa cosciente, ma i due istituti si differenziano a livello rappresentativo, dal momento che, in caso di colpa cosciente, l’evento è immaginato dall’agente come

“astrattamente realizzabile” anche se non voluto, mentre nel dolo eventuale l’evento è previsto come “concretamente realizzabile” e perciò voluto. Dolo eventuale e colpa cosciente condividerebbero infatti lo stesso coefficiente normativo costituito dalla violazione di una regola cautelare.

Il quid pluris che connota il dolo eventuale rispetto alla

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colpa cosciente o con previsione non consiste quindi nella mera consapevolezza della generica situazione di pericolo innescata dalla violazione della regola cautelare, bensì nella accettazione hic et nunc della concreta possibilità che l’evento “non direttamente voluto, abbia a realizzarsi, non desistendo l’agente dalla sua condotta”.

L’idea di configurare una fattispecie di omicidio stradale doloso (sub specie di dolo eventuale) non mi trova d’accordo. Non tanto perché si corre il rischio di incrementare un’inflazione penale già di per sé di notevoli dimensioni come sostiene qualcuno, quanto perché non esiste alcun reale vuoto di tutela in questa materia.

Ipotizzare un omicidio stradale sorretto dalla previsione espressa del dolo eventuale non risolve il problema delle stragi stradali perché, a legislazione invariata (lasciando cioè sopravvivere la definizione di “colpa cosciente” fornita dal vigente art. 61 n. 3 c.p.), resterebbe pur sempre al giudice il potere di stabilire se e in che misura la temerarietà e la sconsideratezza di una certa condotta di guida sia rilevante ai fini del corretto inquadramento nelle categorie classiche del dolo e della colpa.

Sempre nell’ottica della durata del processo e sul versante processuale non ci si stancherà mai di stigmatizzare il gigantismo del nostro sistema di impugnazioni. Pochi sanno che la Cassazione italiana è investita di una valanga di ricorsi che non ha eguali in Europa. Che la Cassazione italiana prevede un organico di magistrati di numero elevatissimo, quasi 400 contro i 12 della Corte Suprema inglese, i 102 della Corte di cassazione francese, i 18 della Corte Suprema Finlandese.

E’ poi quanto meno curiosa la tendenza a mantenere il giudizio di appello così com’é, senza interrogarsi sul perché la Costituzione non parla di appello e non lo considera un passaggio obbligato dell’iter processuale, e senza domandarsi neppure se è giusto mantenere un grado di appello che per sua natura è incompatibile con un sistema processuale di tipo accusatorio come è quello vigente dal 1988 in Italia, il processo all’americana o alla Perry Mason,

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dove, per dirlo in due parole, quando un testimone è stato sottoposto in primo grado al tiro incrociato delle domande e dell’accusa e della difesa, non ha più senso sentirlo di nuovo in appello sperando che dia risposte diverse.

Per carità so bene che un sistema di civil law come il nostro non può competere con il pragmatismo di un sistema di common law che ti propone un Perry Mason, mezzo avvocato e mezzo investigatore, che difende solo innocenti, accusati da un procuratore distrettuale deficiente e da un ufficiale di polizia giudiziaria anziano e malandato come il tenente Tragg, che avrà 80 anni e quindi è chiaramente uno che non ha fatto carriera.

Concludo su questo punto. Sono favorevole a un drastico ridimensionamento del giudizio di appello, che non si può continuare a considerare un rimedio routinario solo perché noi italiani partiamo dal preconcetto che la sentenza del giudice di prime cure è di regola sempre “ingiusta” (ben diverso è il sistema anglosassone, che lascia allo stesso giudice che ha emesso la sentenza impugnata il compito di verificare l’ammissibilità dell’appello).

4. E veniamo al secondo capitolo del libro nero della giustizia penale: la crisi dell’effettività della pena.

La necessità di un nuovo e più moderno diritto penale non è solo e semplicemente un problema di contrazione dell’area delle fattispecie penali e, quindi, un problema di diminuzione del numero dei reati. E’ anche, e forse maggiormente, un problema di riforma del sistema delle pene attualmente previste (che o non sono efficaci o non vengono eseguite) ed è, fondamentalmente, un problema di consapevolezza critica del ruolo della pena carceraria, che non è più certa.

Il male profondo della nostra giustizia penale è lo

“sfaldamento dell’apparato sanzionatorio”. Nella pratica legislativa di questi ultimi anni si è sviluppata una curiosa linea di tendenza (ma forse a questo punto sarebbe meglio chiamarla di controtendenza): per un verso, come si è già

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accennato, si procede a inasprire i limiti edittali delle pene soprattutto detentive (basti pensare al consistente aumento delle pene previste per il delitto di omicidio colposo commesso con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale o commesso in stato di ubriachezza o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti: art. 589 c.p.), nella convinzione che più le pene sono elevate e più possiedono un effetto intimidatorio (ignorando che le pene elevate servono solo a selezionare una delinquenza più sofisticata), e, per un altro verso, si sono studiati tutti gli accorgimenti possibili e immaginabili per evitare in concreto di applicarle.

Alla stagione che sembrava ormai conclusa delle amnistie cicliche (con periodicità abbastanza frequente) è seguita in tempi recenti la stagione dell’indulto svuota- carceri ed è stata riproposta in tempi recentissimi la necessità di introdurre un’amnistia anch’essa svuota- carceri, a riprova dell’ottica puramente emergenziale in cui si continuano ad affrontare i problemi della giustizia penale e dell’esecuzione della pena (lo sfoltimento delle carceri troppo affollate), senza tener conto dei costi e dei rischi di questa pericolosa clemenza. E’ certamente vero che l’Europa non manca di stigmatizzare la nostra impostazione dell’assetto sanzionatorio e quindi in prospettiva, il nostro modo di gestire il sistema carcerario, ma è anche vero che non è con l’amnistia e con l’indulto che si risolve il problema del sovraffollamento delle carceri.

Per non parlare dei guasti provocati dalla disciplina, rimaneggiata a più riprese, della sospensione condizionale della pena (che da beneficio rimesso alla discrezionalità del giudice in presenza di determinati presupposti ha assunto nella prassi quasi la veste di un diritto che non si nega a nessuno che sia condannato per la prima volta a una pena non superiore a due anni) e dalle modifiche apportate alla disciplina della prescrizione dalla già ricordata legge ex Cirielli che hanno introdotto una fascia di sostanziale franchigia sanzionatoria per un elevato numero di imputati e di condannati.

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Bisogna rivedere, dunque, il sistema sanzionatorio, ridimensionando innanzitutto il ruolo del carcere che, in una concezione moderna del diritto penale, deve essere utilizzato entro i confini più ridotti possibili, solo nei casi in cui appare assolutamente necessario per garantire un’efficace prevenzione generale e un’adeguata difesa della società. La pena detentiva, nella sua forma attuativa più severa, dovrebbe essere la pena residuale per criminali ad altissima pericolosità (quelli che, per dirla tutta, si sono resi responsabili di delitti di criminalità organizzata, di aggressioni alla vita e all’incolumità fisica delle persone, di attentati alla sicurezza dello Stato, dei delitti più gravi contro la pubblica amministrazione: come il peculato, la corruzione e la concussione); ovvero per coloro che, condannati a scontare sanzioni non detentive, cercassero di sottrarsi ad esse. Ma quando il carcere non appare indispensabile, esso deve essere sostituito da sanzioni penali di natura diversa. Il problema - si badi - non è politico, ma strutturale, non concerne le modalità di applicazione delle pene, ma la loro stessa natura, il tipo di pena da infliggere. Prevedendo, per esempio, per reati di non particolare gravità pene non carcerarie irrogabili dai giudici di merito, destinate ad essere effettivamente e immediatamente eseguite (come sanzioni interdittive, prescrittive, ablative, lavori socialmente utili o finalizzati al risarcimento dei danni, lato sensu riparatorie). Venticinque anni fa, trovandomi per un’inchiesta a Milwaukee, il paese di Fonzie, quello di

“Happy days” (qualcuno forse se lo ricorderà), mi colpì la sanzione inflitta al direttore di un quotidiano che aveva definito un giudice “poco imparziale”. Coi tempi che corrono, una frase del genere ci lascerebbe indifferenti.

Oggi sui giornali si dice ben altro dei giudici! Certo, essere etichettati “poco imparziali”, se ci pensate bene, è un’accusa gravissima, perché vuol dire accusare un giudice di non essere terzo e super partes. Fatto sta che il giudice americano offeso aveva querelato l’autore dell’articolo per diffamazione ed era riuscito ad ottenere, nel giro di un

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mese, 120.000 dollari di risarcimento danni e la chiusura per tre giorni del giornale.

5. L’ultimo dei mali della giustizia penale è quello dell’esecuzione della pena. Tarda la definizione dei processi e tarda, inevitabilmente, l’esecuzione della pena che, quando arriva, è quasi sempre inattuale e inadatta ad assolvere le funzioni che le assegna la Costituzione: la rieducazione del reo, la prevenzione generale e speciale, la soddisfazione delle ragioni della vittima. Per non parlare della sensazione di inutilità della conclusione di tanti processi, vanificati dal graduale svuotamento di contenuto sanzionatorio reale delle pene comminate dal giudice, per effetto dell’indulto o dell’applicazione di misure alternative alla detenzione (come l’affidamento in prova al servizio sociale, la semilibertà, la liberazione anticipata, la detenzione domiciliare) da parte di un altro giudice. Che è poi il Tribunale di sorveglianza, il quale, avvalendosi dell’ampio potere discrezionale concessogli dalla normativa penitenziaria, può ridimensionare ex post la pena comminata dal giudice della cognizione con la sentenza di condanna.

In pratica succede questo. Per effetto della legge penitenziaria (la legge Gozzini, dal nome di chi originariamente la propose; la legge Simeoni dal nome di chi ne ha proposto una riforma ancora più blanda nel 1998), il giudice della cognizione infligge con la sentenza di condanna una determinata pena. Quando la sentenza diviene definitiva e inizia la fase dell’esecuzione della pena un altro giudice, il Tribunale di sorveglianza appunto, sulla base di conoscenze spesso evanescenti, provvede a rimescolare le carte e determina la pena che dovrà essere concretamente eseguita.

E’ difficile digerire per i non addetti ai lavori l’idea che, dopo che un giudice ha inflitto legittimamente una pena detentiva all’atto della condanna, ci sia un altro giudice, quello di sorveglianza, che, pure legittimamente,

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intervenendo in un momento però molto distante dalla commissione del fatto, può commutare l’esecuzione della pena irrogata in altre misure meno afflittive, senza che si siano delineate nel corso dell’esecuzione situazioni nuove o diverse da quelle prese in considerazione dal giudice della cognizione. L’idea di un carcere le cui porte si aprono e si chiudono (e che ricorda molto un bellissimo film di qualche anno fa “Sliling doors” con un’indimenticabile Gweneth Paltrow) non può non lasciare perplessi.

L’esperienza vissuta per circa 12 anni in cassazione presso la Prima Sezione Penale, che tra le tante materie di competenza ha anche quella del diritto penitenziario, mi ha convinto che si debba arrivare a codificare nella disciplina dell’esecuzione penale una serie di principi-chiave volti, da un lato, a precludere l’accesso alle misure extramurarie ai condannati che non abbiano maturato una revisione critica del proprio vissuto rispetto al reato commesso, e, dall’altro, a imporre a ogni condannato ammesso a usufruire una misura alternativa di adoperarsi concretamente in favore della vittima del reato, oppure di attivarsi attraverso forme di riparazione sociale sussidiarie (quali l’attività di volontariato presso enti o istituzioni pubbliche).

A conclusione di questa esposizione (che si è rivelata più lunga di quanto mi ero sforzato di contenere) viene naturale domandarsi perché sino ad oggi non è decollata una seria riforma del sistema penale e si continua a eluderla con interventi settoriali ispirati a esigenze contingenti e a volte tutt’altro che commendevoli. La risposta è, come sempre, di natura politica: c’è chi vuole stravolgere principi fondanti della nostra democrazia costituzionale e c’è chi cerca di impedire ogni cambiamento in grado di dare al paese una giustizia penale realmente al servizio dei cittadini. L’auspicio è che tutti coloro che sono interessati davvero a una giustizia penale che funzioni sappiano unire le loro energie e far prevalere la forza della ragione.

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