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Discrimen » Una domanda a Ferrando Mantovani. A proposito della sentenza della Corte costituzionale sul caso Cappato

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UNA DOMANDA A FERRANDO MANTOVANI. A

PROPOSITO DELLA SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE SUL CASO CAPPATO

Giovanni Flora

“Caro Ferrando, caro Maestro, hai visto il comunicato stampa della Corte costi- tuzionale relativo alla sentenza sulla questione di costituzionalità della fattispecie di aiuto al suicidio? Che valutazioni puoi fare?”.

FERRANDO MANTOVANI: “Caro Giovanni, premesso che una più compiuta valu- tazione potrà farsi solo dopo che sarà pubblicata la sentenza con le relative motiva- zioni, da quel che ho potuto leggere, posso fare le seguenti valutazioni.

Sotto l’eufemistica espressione del “suicidio assistito” sussistono due distinte e contrapposte realtà: (i) il tremendo dramma del “grande dolore” di soggetti affetti da certe malattie, che si impone alla nostra doverosa attenzione, e al nostro profondo rispetto; (ii) certe ideologizzazioni, con pretese libertarie, del suddetto suicidio.

E tre possibili soluzioni giuridiche: (i) la soluzione dell’incriminazione, adottata dal nostro codice penale, che all’art. 580 punisce l’istigazione o l’aiuto al suicidio, an- che se qualche magistrato-legislatore ne ha negato l’applicabilità con sentenza assolu- toria, costituente un atto non di giurisdizione (di jus dicere), ma di sovranità (di jus facere); (ii) la soluzione opposta della liberalizzazione, che lascia alla libera autodeter- minazione del soggetto – desideroso per le più diverse ragioni di cessare di vivere, senza il coraggio o la possibilità materiale di suicidarsi – il ricorso al suicidio assistito.

Una ideologica amplificazione, aperta a tutti i possibili abusi; (iii) la soluzione della regolamentazione, nel senso che al principio del divieto dell’aiuto al suicidio la legge apporta delle deroghe, legittimandolo entro precisi limiti e condizioni, imprescindibili nella prospettiva regolamentatrice.

È questa la soluzione adottata dalla recente sentenza della Corte costituzionale, che addita al legislatore parlamentare il perimetro della legittimazione del suicidio assistito, segnato da requisiti e limiti: a) del malato in fase terminale; b) della insop- portabilità del male; c) della risultata (accertata) impotenza dei mezzi antidolorifici ad

30.10.2019

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Giovanni Flora

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attenuare la intollerabilità delle sofferenze; d) della esplicita autodeterminazione, li- bera e valida, del soggetto di procedere al suicidio assistito; e) della esecuzione in strut- ture pubbliche, per evitare gli aspetti non condivisibili di certe strutture private.

Ma anche nella logica della soluzione legalizzatrice, coi relativi limiti, adottata dalla Corte costituzionale, tale soluzione si presta ad un quadruplice rilievo.

1) La non chiara previsione del requisito della previa sottoposizione del paziente alla medicina palliativa, che per gli imponenti e continui progressi può rendere sop- portabile il dolore prima insopportabile ed accettabile la residua vita, sempre che sia praticata in centri idonei e da esperti. Il che presuppone, però, una sempre più ampia diffusione di tale medicina, coi relativi impegni finanziari ed organizzativi, perché assurga a concreta realtà, cosa non facilmente prevedibile nei presenti tempi. E la non preferenza per le scorciatoie, più comode e meno costose, dell’aiuto al suicidio.

2) Il passaggio al suicidio assistito solo dopo l’accertamento della intervenuta im- potenza della medicina palliativa, una volta applicata, ad attenuare l’intollerabilità delle sofferenze.

3) La preoccupante previsione dell’intollerabilità non soltanto della sofferenza fisica, ma anche della sola sofferenza psichica, di non agevole accertamento, con la conseguente apertura al “suicidio assistito libero”, sulla mera base della volontà del soggetto. Come è avvenuto, per analoga ragione, anche in materia di aborto.

4) Il rischio della burocratizzazione delle pratiche del suicidio assistito in una sbrigativa apposizione di un visto. Docet, in questo senso, la prassi dell’aborto (con- trabbandato dalla legge come “terapeutico”, ma nella realtà “libero”).

E, per concludere, al di sopra delle opzioni a favore della illeceità o della liceità della assistenza al suicidio, la presa di coscienza che sotto le molte pressioni per la liceità: (i) sta certamente, in non pochi casi, il sincero desiderio della cessazione delle sofferenze di tanti malati; (ii) si cela, altresì, – come viene rilevato – una particolare concezione meno pietosa, per la quale solo la vita sana è autentica vita degna di ri- spetto e di protezione e solo la malattia curabile o, comunque, socialmente sopporta- bile va combattuta; (iii) viene in gioco non soltanto la riformulazione epistemologica, respinta dai più della classe medica, della medicina, con perdita della specificità tera- peutica e la trasformazione in una prassi formale e neutrale di manipolazione del corpo umano. Ma l’ulteriore riformulazione antropologica dell’idea stessa di vita non più come valore e come principio di ogni valore, ma che riceve o perde ogni valore in base alle opposte determinazioni di volontà; (iv) resta, più in profondità, l’inquietante in- terrogativo se sotto l’organizzazione, la gestione imprenditoriale (di cose, persone e

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Una domanda a Ferrando Mantovani

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strutture) e la pianificazione della “dolce morte”, programmata e attuata con gelide procedure burocratiche (che suscitano un insuperabile senso di sconcerto), si celi nel profondo collettivo una pulsione autodistruttiva, nichilistica, che assieme ai tanti altri noti sintomi, confluisca in quel prevalere del “senso di morte” sul “senso della vita”, che appare sempre più caratterizzare questa nostra civiltà occidentale”.

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