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Qualche giorno dopo tenevo in mano una copia di Casa «la Vita», seminascosta e un po’ consumata dalla cipria pulviscolare di una libreria dell’usato

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Academic year: 2021

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S’illude qualcuno di penetrare le nostre scritture? Di scoprire attraverso la parola scritta il segreto del nostro pensiero?

Come Narciso nello stagno, colui non vede noi ma se stesso, riflesso in questi specchi misteriosi e ingannatori che noi chiamiamo libri.

Questo paziente e fatale trascrivere ricordi e fantasie, in effetto non è se non un monologo geloso.

La lettera appare, ma come nelle scritture sacre, lo spirito rimane indecifrabile.

Perché scrivete dunque?

Per meritarci il paradiso.

(ALBERTO SAVINIO, Tragedia dell’infanzia)

Mi sono imbattuto in Alberto Savinio per puro caso, un paio di anni fa, all’interno di un corso seminariale sul racconto italiano tra Otto e Novecento.

Mi era stato detto di scegliere un autore, una novella in particolare, un romanzo di racconti o una silloge di schegge narrative, che l’avrei trattato in una lezione tenuta da me, in una simulazione di convegno, di studio monografico.

Qualche giorno dopo tenevo in mano una copia di Casa «la Vita», seminascosta e un po’ consumata dalla cipria pulviscolare di una libreria dell’usato. La guardai, indeciso e un po’ sorpreso; ne sventagliai qualche pagina, distrattamente.

La casualità delle cose.

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Ero andato in cerca di altri nutrimenti intellettuali e avevo trovato questo strano libro pieno di strani disegni e strane storie pubblicate da uno scrittore di cui ancora non sapevo nulla. Lo comprai a prezzo da discount, lo portai a casa, cominciai a leggerlo.

Gli occhi mi caddero su di un racconto divertente e tremendo, la storia di un uomo che una mattina realizza improvvisamente di essere morto, anni prima, chissà quando, al cinema? chissà dove. Un racconto dei primi Quaranta, mi dicevo, eppure così nuovo, così lussureggiante e insieme cinico e fresco: appena sbarbato. Un uomo non ucciso, ma morto dall’abitudine, dall’occhio basso di una vita; un uomo defunto da automatismi capaci di oltrepassare il pensiero in un bypass plastico e passivo che aveva per me l’aspetto di qualcosa di incredibilmente domestico. Quel personaggio così ridicolo e vivo stava parlando con me, goffo eppure lucidissimo nella sua attività di scavo, di presa di coscienza del dramma di cui egli non era che l’involucro animato. Federico Münster mi sussurrava sgraziato la sua avventura conformista e lo faceva nella lingua semplice, scremata ed eccentrica che stavo aspettando.

Il mio piccolo saggio sul Signor Münster venne apprezzato e Casa «la Vita» deposto come reliquia su cui tornare ancora, per nuovi esercizi

spirituali.

Guardavo il volume incassato nella diafanità della mia libreria Ikea;

riflettevo. Qualcosa mi era rimasto, una curiosità non completamente

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soddisfatta, la voglia di saperne di più, di conoscere meglio. Era stata una mia interpretazione oltranzista leggere nelle parole di Alberto Savinio la morte dell’eletta società italiana (allora durante il ventennio, ieri come oggi sotto altre bandiere) nell’inattività dell’organo della scelta? Nel boato metafisico e silenzioso della pagina, solo io avvertivo il corpo gonfio di una borghesia che ha rifiutato la Rivoluzione borghese deflagrare come una granata in mille pezzi?

Mentre io costruivo la mia coscienza, queste domande si sedimentavano.

Mentre io costruivo la mia coscienza, la verità di quelle parole emergeva dalla pagina; il suo riverbero si irraggiava ovunque intorno a me.

Se è vero – come dice il don Gaetano del Todo modo di Leonardo Sciascia – che «Le cose che non si sanno, non sono», ora che io sapevo, come avrei potuto non vedere?

E mentre mi trasfiguravo in Federico Münster, in me nasceva l’amore per uno scrittore.

Per caso.

Se trovare una bella storia era tutto ciò che volevo, il mio scandagliamento poteva dirsi concluso: c’ero riuscito. Ma se era un manifesto programmatico quello che intendevo distillare, se era la Rivoluzione mentale quella che invece andavo ricercando tra le pagine di Savinio, questa – ne ero

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certo – non poteva abitare là dove l’uomo già formato esercita le sue ridotte capacità di pensiero: avrei dovuto procedere all’indietro, alla scoperta di una fase aurorale; dovevo trovare l’uomo totale, l’uomo non «dimezzato», l’uomo libero dal quotidiano perdurare della prigionia, dalle mortificanti consuetudini che animano la civiltà, l’uomo autentico, ferino, primigenio.

Dovevo trovare un bambino.

Emerse Nivasio Dolcemare.

L’artista-fanciullo dagli echi vichiani e dai modi surrealisti, il preideologico e quindi puro e dunque poeta; un profilo straordinario da ammalato di grecità e di volontà d’Italia come il suo ideatore anagrammato, superficiale e profondissimo, il bambino che non vuole farsi adulto perché non vuole svuotarsi, diventare vizzo di pensiero come i «grandi» da cui è invaso come in una guerra già persa; un bambino avviluppato alla stasi ma che attratto dai magnetismi gravitazionali del «Mistero del Sesso» rischia la frattura insanabile, la dispersione del midollo, la fine del sé. Un piccolo eroe indisciplinato, un «maskarà» al servizio di una Rivoluzione «rosa» che non può essere vinta se non da uno sguardo che immortalata la cognizione del reale la metamorfizzi in testimonianza, in una resistenza plastica dai colori dell’iride.

Rimasi affatturato da Nivasio Dolcemare, e di questa infatuazione oggi io ne faccio tesi di Laurea, documento – per quanto mi è possibile –

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espressivo di una rotta pensata e proseguita all’interno della mia persona, catabatica ed emulsionante, capitale perché linfatica.

Una rotta che mi ha dischiuso le porte di un’opera attraverso la chiave opalescente di una maschera che eccede i limiti del reale e che, dopo averla digerita, io restituisco alla pagina nell’immortalità del cerchio dei discorsi.

Una rotta che ho strutturato in tre momenti, che ho dipinto nelle tre facce del trittico, tre capitoli, tre piccoli saggi indipendenti eppure raccordati dal comune dinamismo centripeto diretto al cuore pulsante dell’ideologia saviniana e da una continua riflessione sull’arte e sul mestiere di scrivere.

Tre arie:

ne I convegni della dea Mnemosine analizzerò il peso fondamentale della grecità in Savinio, che altro non è per lui che sinonimo di infanzia;

l’armonico corrispondere di questa a una «poetica della memoria» che è fondale di pensiero su cui si staglia, feroce, il tragico;

in Un surrealismo tutto per sé, traccerò con il perno del compasso il viaggio metafisico e balcanico che l’autore ha compiuto tra la Grecia ottocentesca e la Parigi del cosmopolitismo intellettuale, concentrandomi in particolare sulla sintesi delle avanguardie e sulla definizione di surrealismo

«civico» che Savinio stesso dà di sé;

nel Nivasio Dolcemare: un «Maskarà» al servizio della Rivoluzione entrerò invece nell’agone del testo, grattando la superficie del racconto in

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uno scavo dell’«avventura colorata» che anima il doppio di Savinio e dal quale distillerò i momenti più gravi di quell’eterno passaggio all’altro stato che è l’evoluzione umana.

Tre momenti, tre riti ellittici che conducono alla crosta morbida dell’idea.

Ma sono io penetrato nella scrittura, ho realmente compreso nella parola il segreto del pensiero, o come il Narciso nello specchio non ho visto che il mio riflesso, non ho percepito che quello che volevo vedere?

Nella mia blasfemia, spero di meritare anch’io il paradiso.

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