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vecchie centrali ad olio con il carbone non tiene conto della scarsa flessibilità di tali

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Academic year: 2021

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Conclusioni

Il ritorno all’utilizzo del carbone su larga scala nella generazione termoelettrica è oggi al centro di un acceso dibattito che coinvolge le grandi compagnie elettriche, la comunità scientifica, le istituzioni politiche, gli enti locali e l’opinione pubblica; le singole posizioni attribuiscono infatti un peso diverso alle conseguenze delle emissioni di inquinanti e di anidride carbonica in atmosfera. In realtà l’analisi, per le caratteristiche intrinseche del carbone, non si deve limitare solamente a questioni relative all’impatto ambientale, ma, data la complessità dei sistemi di conversione, deve recuperare innanzitutto aspetti di tipo termodinamico, ed inserirsi in una strategia di lungo termine che affronti problemi di ordine geopolitico, economico e logistico.

Se da un lato è vero che le riserve provate di carbone sono circa cinque volte più abbondanti rispetto a quelle di gas naturale e petrolio e geograficamente meglio distribuite, d’altra parte, essendo un materiale eterogeneo, bisogna tenere in considerazione la qualità della risorsa in relazione agli utilizzi. I carboni di alto rango corrispondono solo alla metà delle riserve provate mondiali, circa 480 Gtec, e sono gli unici a poter soddisfare i vincoli di qualità (alto tenore di carbonio, basso tenore di ceneri ed umidità) imposti dal settore siderurgico, che nell’ultimo decennio ha visto incrementare la domanda soprattutto dai paesi emergenti. Le riserve europee di hard coal sono concentrate esclusivamente in Russia, oltre il 58%, in Ucraina per il 19% ed in Polonia per il 18%; quelle di lignite, che corrispondono al 67% del carbone europeo totale, sono distribuite solo tra Germania, Turchia e paesi dell’Europa Orientale e Balcanica.

Dunque in Italia la giustificazione economica e geopolitica addotta al repowering di

vecchie centrali ad olio con il carbone non tiene conto della scarsa flessibilità di tali

impianti nei confronti del combustibile alimentato; ciò significa che, se in Germania le

riserve locali di lignite riescono ad essere sfruttate efficientemente in un parco centrali più

moderno e caratterizzato da soluzioni tecnologiche dedicate, l’Italia invece rimane ancora

vincolata a pochi paesi esportatori extra-europei che forniscono carboni con buon potere

calorifico e tenore di zolfo inferiore all’1% (vincolo tutto italiano). Quindi l’opportunità di

usufruire di un mercato europeo del carbone, visti i recenti propositi di allargamento

dell’UE, potrà essere colta dall’Italia solo abbandonando l’idea che le scelte della politica

energetica nazionale siano subordinate a ritorni economici immediati.

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Affinché il ritorno al carbone costituisca davvero una scelta strategica per il sostegno di una politica energetica nazionale è necessario individuare le prospettive e i limiti delle cosiddette “Clean Coal Technologies”. La tecnologia della combustione di carbone in letto fluido non sembra in prospettiva destinata a competere con le caldaie tradizionali, vuoi per i ridotti margini di sviluppo relativamente all’efficienza (40% per AFBC, 43% per PFBC), vuoi perché la possibilità della desolforazione interna, anche se permette concentrazioni al camino al di sotto dei limiti di legge (in alcuni casi grazie anche alla desolforazione in coda), comporta un consumo massiccio di calcare (pari a 0,32 kg per kg di carbone nei AFBC e 0,22 nei PFBC, per un carbone con 3,8% di zolfo) ed un’ingente produzione di scorie inutilizzabili (0,43 kg per kg di carbone nei AFBC e 0,33 nei PFBC). Nel breve termine le uniche applicazioni potrebbero risultare piccole installazioni (taglia inferiore ai 200-300 MW) alimentate con combustibili di qualità modesta ma non troppo impegnativi dal punto di vista ambientale, come ad esempio sta accadendo in Polonia con le ligniti locali a basso tenore di zolfo. La cosiddetta seconda generazione degli impianti a letto pressurizzato potrà raggiungere efficienze poco superiori alle attuali, perché sempre vincolata ai parametri del ciclo a vapore nonostante la presenza di un turbogas, ed oltretutto non prima della definitiva messa a punto di un sistema di filtrazione adeguato ad alta temperatura; a ciò si aggiungono problemi di regolazione e controllo, come anche quelli di movimentazione di flussi solidi tra il pirolizzatore ed il combustore a letto fluido del char.

La tecnologia EFCC esiste solo a livello di prototipo e non vi sono installazioni commerciali operative; nonostante sia l’unica configurazione che permette di sfruttare i vantaggi termodinamici di un ciclo combinato vero e proprio, essa è vincolata alla massima temperatura dei fumi in ingresso allo scambiatore, oggi inferiore ai 1000°C per apparecchiature commerciali. Un’altra barriera tecnologica è rappresentata dal sistema di filtrazione ad alta temperatura, che oggi si affida essenzialmente a depolveratori a candela in materiale ceramico. Se un impianto EFCC venisse costruito oggi, l’ottenimento di buoni rendimenti (intorno al 45%) sarebbe vincolato alla post-combustione con gas naturale, il che potrebbe suscitare dubbi sull’utilizzo di una risorsa pregiata come il metano in impianti diversi da quelli a ciclo combinato. A ciò si aggiunge il fatto che i bassi coefficienti di scambio termico delle apparecchiature gas-gas restringono il campo di applicazione a taglie inferiori ai 100 MW.

La naturale evoluzione delle tradizionali caldaie a polverino ha portato fino ad oggi

alla costruzione di centrali supercritiche avanzate (300 bar/600-620°C) con rendimenti fino

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al 45-47% (in condizioni ambientali favorevoli) che rappresentano il massimo per l’attuale generazione termoelettrica da carbone; la realizzazione invece di impianti ultrasupercritici (375 bar/700-720°C) al 50-52% (risultati probabilmente troppo ottimistici) non sarà possibile prima di una decina di anni, per motivi di resistenza dei materiali sia per i banchi in caldaia sia per la palettatura. Questi parametri risultano, ovviamente, un compromesso in termini di costi-benefici, dal momento che i vantaggi termodinamici tendono ad affievolirsi, mentre i costi relativi ai materiali crescono in maniera difficilmente prevedibile. Peraltro si deve sottolineare che i miglioramenti in tali impianti sono ottenibili soltanto attraverso un incremento dei parametri e non attraverso una vera evoluzione del sistema nella sua struttura complessiva; ciò significa che il vincolo termodinamico del ciclo a vapore costituisce il vero limite di tali impianti, che anche sotto il profilo ambientale non presentano innovazioni rispetto ai convenzionali trattamenti in coda. Dato che il margine di miglioramento delle prestazioni delle misure di abbattimento secondarie è minimo (gli FGD raggiungono già oggi fino al 97%, SCR fino al 90%, depolveratori a secco oltre il 99%), rimarranno in primo piano le questioni relative alla gestione territoriale dei flussi di risorse (circa 0,1 kg di calcare per kg di carbone con 3,8% di zolfo) e residui (0,17 kg di gesso per kg di carbone) in ingresso ed uscita da tali sistemi. Tali problematiche potrebbero anzi aggravarsi se si confermasse la tendenza a costruire centrali intorno ai 1000 MW, caratterizzate tra l’altro da serie difficoltà di regolazione. Gli impianti USC dovranno essere dunque alimentati solo con carboni caratterizzati da un buon potere calorifico (almeno 20 MJ/kg) per limitare le perdite per calore sensibile in caldaia associate ai fumi ed alle ceneri, e da un basso contenuto di zolfo per rientrare nei limiti sulle emissioni gassose.

Gli impianti a combustione esterna e quelli supercritici, anche se sono comunemente

classificati come “Clean Coal Technologies”, presentano aspetti innovativi solo nella

sezione di potenza e rimangono legati ai convenzionali sistemi di controllo delle emissioni

(prevalentemente misure secondarie). Sono quindi tecnologie che percorrono solamente la

via dell’efficienza, che non attenua in modo sostanziale gli impatti ambientali tipici

dell’alimentazione a carbone. Tra questi spesso è trascurato il consumo di acqua, che si

ripercuote sulle dimensioni ed i consumi dell’impianto di depurazione dei reflui liquidi ad

alta concentrazione di metalli condensati; d’altronde la quantità di acqua di processo

necessaria alla desolforazione dipende dal volume di gas trattati e non direttamente

dall’efficienza dell’impianto. Nonostante i limiti di legge a breve imporranno necessità di

controllo spinte anche per i principali gas acidi, microinquinanti inorganici (in particolare

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mercurio) ed organici, attualmente i sistemi per il controllo simultaneo non sono ancora maturi specialmente per impianti di grande taglia.

Un diverso scenario si presenta con gli impianti IGCC, che non solo sarebbero avvantaggiati in un contesto regolatorio più restrittivo sulle emissioni o, ad esempio in Italia, più tollerante sulla qualità del carbone utilizzabile, ma soprattutto permetterebbero di utilizzare efficienti processi di depurazione con reagenti rigenerabili (non a perdere) e di produrre zolfo elementare liquido. Le buone prestazioni ambientali sono ottenute grazie a processi a freddo, di affidabilità consolidata grazie all’esperienza maturata nell’industria chimica, che operano su un flusso concentrato di syngas e non sui fumi di combustione. La forte caratterizzazione “chimica” degli impianti IGCC (tra l’altro presenti in diverse raffinerie in Italia) fornisce loro una particolare vocazione multiprodotto, data la possibilità di inserire tra l’unità di gassificazione e quella di potenza, una sezione di produzione di combustibili sintetici o altri prodotti di interesse per l’industria chimica. La precedente caratteristica d’altra parte risulta un ostacolo all’affermazione degli impianti IGCC nel settore elettrico, in quanto il loro sviluppo necessita ancora oggi di una maggiore standardizzazione.

Un altro aspetto da considerare in prospettiva riguarda i margini di incremento

dell’efficienza di conversione di tali impianti: dai risultati riportati nel Capitolo 5 si può

quindi concludere che la stretta integrazione che caratterizza gli impianti IGCC, se da un

lato permette buoni rendimenti anche con configurazioni semplici (i casi di ottimo

termodinamico sfiorano anche il 48% per la configurazione standard), dall’altro non

consente netti miglioramenti solamente attraverso modifiche, anche spinte, sul recupero

(con ASU integrato, rigenerazione, recupero ad alta temperatura e saturazione dell’azoto si

giunge nel migliore dei casi al 50%). Si deve sottolineare che i risultati dell’ottimizzazione

non sono importanti per il loro valore in assoluto, visto che il modello si basa comunque su

una serie di ipotesi semplificative (ad esempio considerando la gassificazione un processo

all’equilibrio chimico), ma l’obiettivo del lavoro, d’altra parte, consisteva nell’individuare

i limiti termodinamici, che anche con le apparecchiature più sofisticate non si potranno

oltrepassare. Tali risultati contrastano evidentemente con alcune stime molto diffuse in

letteratura, secondo le quali pochi anni saranno sufficienti per innalzare il rendimento degli

impianti IGCC fino a valori anche del 53-55%. In realtà negli ultimi anni l’efficienza di

tali impianti risulta di fatto ferma al 42-43% della centrale di Puertollano e al 38% circa

tipico delle raffinerie, proprio per cercare di rafforzare quelli che ancora oggi, purtroppo,

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sono i punti deboli degli impianti IGCC, e cioè la scarsa affidabilità (se non dopo numerosi anni dall’avvio) e la complessità operativa.

Per questo motivo gli IGCC non si porranno come diretti concorrenti dei supercritici a vapore, che già oggi forniscono prestazioni superiori, ma piuttosto come complementari ad essi, nell’ottica di valorizzare ciascun tipo di carbone nell’impianto più idoneo. Ad esempio carboni con modesto potere calorifico e con alto contenuto di zolfo, ceneri, idrogeno e ossigeno potrebbero essere efficientemente convertiti tramite gassificazione, in impianti appositamente studiati per tali tipologie di combustibile. Come si è visto, infatti, le condizioni operative ottimali variano molto tra i vari tipi di carbone, sia come quantità di vapore ed ossigeno immessi nel gassificatore (rapporto in massa ossigeno/carbone pari 0,80, 0,65 e 0,41 e rapporto in massa vapore/carbone pari a 0,20, 0,13 e 0 rispettivamente per Pittsburgh, Illinois e Genesse) sia come temperature ottimali di conversione (oltre 1200°C, 1100°C e circa 1000°C rispettivamente per Pittsburgh, Illinois e Genesse).

Difficilmente perciò un impianto studiato per un certo tipo di combustibile potrà convertirsi con lievi modifiche ad altre alimentazioni (come spesso invece si legge), proprio perché già nella fase progettuale è necessario selezionare, ad esempio, la tipologia di gassificatore che più si adatta alle specifiche caratteristiche fisico-chimiche.

Anche in un contesto regolatorio sulle emissioni di CO

2

, gli impianti IGCC potrebbero risultare competitivi, dato che la sezione di cattura si integrerebbe nella linea di trattamento del syngas senza stravolgere la configurazione impiantistica, né le prestazioni globali. A ciò si aggiunge il fatto che la possibilità di variare le condizioni operative del gassificatore permetterebbe di adattare la composizione del syngas a quelle che sono le effettive richieste della sezione di cattura, magari spostando leggermente la composizione verso maggiori concentrazioni di CO

2

, in modo da non dover ricorrere a massicce conversioni nella sezione di CO-shift, che comportano sempre una perdita di energia chimica.

Dopo aver individuato la soluzione IGCC, seppur con i suoi limiti di efficienza ed

affidabilità, come miglior compromesso tra prestazioni termodinamiche ed ambientali, la

parte finale della tesi si è prefissata l’obiettivo di fornire una valutazione integrata delle

prestazioni delle centrali a carbone avanzate. Appurato che non esistono in letteratura

metodi condivisi per l’analisi multi-dimensionale dei sistemi energetici, il metodo

environomico ha dimostrato almeno il pregio di proporre una visione multicriteriale, a

differenza dell’adozione di un approccio puramente economico, come quello delle carbon

tax, o regolatorio. Se il rispetto dei limiti di legge è una soluzione idonea al problema delle

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emissioni di particolato e di mercurio, la questione invece relativa all’inquinamento da ossidi di azoto e di zolfo può essere affrontata con il metodo environomico; esso è infatti l’unico approccio in grado di rappresentare adeguatamente l’ambiente come un fornitore di risorse (ad esempio ammoniaca e calcare, oltre al combustibile) ed un recettore di residui (gesso ed emissioni in atmosfera).

L’analisi environomica di una centrale supercritica fornisce come risultato di ottimo il massimo grado di abbattimento di SO

x

e NO

x

, ed un rendimento d’impianto inferiore al massimo termodinamico (47,2% rispetto a 48,7%). D’altra parte l’ottimo dell’efficienza consente, rispetto alla soluzione environomica, un risparmio di carbone valutabile con una diminuzione del costo annuale del combustibile; questo risparmio potrebbe rappresentare l’occasione per promuovere il progetto di centrali a maggior rendimento (cioè di tecnologia avanzata e penalizzate da alti costi d’investimento) se venisse convertito in un sussidio economico. Tale “ricarico termodinamico” sui costi di produzione potrebbe tradursi in un permesso per emettere un’equivalente, sempre su base economica, portata di SO

x

(o NO

x

);

il permesso di emissione equivale ad un grado di abbattimento degli SO

x

del 93%, cioè di circa quattro punti inferiore al massimo tecnologico, e ne conseguono anche minori portate di calcare e gesso.

In future applicazioni del metodo environomico bisognerebbe aggiungere come variabile indipendente la taglia dell’impianto per confrontare i costi generalizzati di centrali di differenti dimensioni. A maggior ragione un’ottimizzazione del grado di sequestro della CO

2

dovrebbe far variare le dimensioni del sistema, poichè questo problema, diversamente dall’abbattimento di tutte le altre sostanze, è indivisibile dall’aspetto termodinamico essendo legato direttamente al consumo di carbone in ingresso.

Inoltre l’isola di sequestro della CO

2

, a differenza dei sistemi DeNO

x

e DeSO

x

, comporta

non tanto il trattamento di flussi materiali aggiuntivi in ingresso o uscita quanto piuttosto

flussi energetici “sottratti” alla sezione di potenza. Quindi il problema deve essere

innanzitutto affrontato da un punto di vista puramente termodinamico, utilizzando ad

esempio le sintetiche funzioni multi-obiettivo su base energetica. Allo stato attuale dei

consumi dei sistemi di post-cattura (assorbimento con MEA) non è giustificabile un grado

di abbattimento di CO

2

vicino all’unità, e quindi, solo dopo aver individuato un range di

gradi di sequestro accettabili, potrebbe essere intrapresa un’ottimizzazione di tipo

environomico.

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