4. Il sistema degli enti locali nello Statuto toscano.
Il rapporto tra Regione ed enti locali è, nella normativa statutaria toscana, una delle principali aree di interesse, sia per la particolare struttura che è andata ad assumere questa tematica nel testo, sia per la sua valorizzazione che non trova analoga corrispondenza nella maggior parte delle altre “carte” regionali.
È bene chiarire da subito cosa si intenda per “particolare struttura”. Il titolo VI dello Statuto si intitola «il sistema delle autonomie», e contiene buona parte delle norme riguardanti la distribuzione delle competenze e il rapporto sussistente tra la Regione e gli enti locali; ma non solo questo. L’originalità del titolo VI sta nel descrivere le varie tipologie di istituti che caratterizzano l’ambito sub-regionale come un insieme composito e intercorrelato: in altre parole, una rete di entità pubbliche e private, profit e non, che offrono servizi ai cittadini. In questo senso il titolo in esame distingue tra enti locali (che una volta sarebbero stati definiti
“territoriali”
1, ossia Comuni e loro aggregazioni, Province, e Città metropolitane), autonomie sociali (quelle frutto dell’autonoma iniziativa dei cittadini, sia singoli che riuniti in soggetti come società o associazioni) e autonomie funzionali (ossia soggetti pubblici che si occupano di interessi collettivi o settoriali, come le Camere di commercio e le Università).
Per quanto riguarda l’oggetto di questo lavoro, quel che interessa maggiormente sono di certo le norme riguardanti i Comuni e le Province: tuttavia, il carattere sistematico del rapporto tra questi soggetti e l’importanza delle autonomie sociali e funzionali nell’ambito della “vita” regionale impongono alcune riflessioni riguardo le norme dello Statuto che le disciplinano.
Si andranno perciò ad analizzare in primo luogo i principi generali che informano il suddetto rapporto, per poi concentrare l’attenzione sulle norme dello Statuto regionale che affrontano la dialettica Regione-enti locali; infine un terzo
1
Inizialmente l’esatta estensione del concetto di “ente locale” non era molto chiara, determinando dibattiti in dottrina riguardo l’inclusione nel termine di enti territoriali non caratterizzati da un rapporto con la cittadinanza analogo a quello di Comuni e Province (ad esempio, le Camere di commercio). Ad oggi, grazie anche alle leggi degli anni novanta (come la 142/90), il significato del termine in questione non è più in dubbio.
Vedi anche il capitolo 2 riguardo i termini della controversia dottrinale nell’ambito dello Statuto del 1970.
paragrafo sarà dedicato ad una sommaria trattazione della sussidiarietà orizzontale come sviluppata nella norma statutaria toscana.
a) I principi del rapporto tra i livelli di governo.
Sussidiarietà, differenziazione, adeguatezza, e leale collaborazione: sono queste le “parole chiave” che dominano la disciplina delle relazioni che sussistono tra la Regione e gli enti locali. Si procederà ora ad un loro analisi sintetica.
La sussidiarietà è il principio fondamentale che ispira i rapporti tra i livelli istituzionali (sussidiarietà c.d. verticale) e tra le istituzioni e i cittadini (sussidiarietà orizzontale).
La sua prima formulazione compiuta viene tradizionalmente attribuita alla dottrina sociale della Chiesa Cattolica, in particolare all’enciclica di Pio XI Quadragesimo anno
2del 1931. In questo testo, Pio XI scrive che «è ingiusto rimettere a una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare. Ed è questo insieme un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine della società; perché l’oggetto naturale di qualsiasi intervento della società stessa è quello di aiutare in maniera suppletiva le membra del corpo sociale, non già distruggerle e assorbirle. […] è necessario che l'autorità suprema dello Stato rimetta ad associazioni minori e interiori il disbrigo degli affari e delle cure di minor momento».
Negli anni ’90 i governi europei avvertirono l’esigenza di avvicinare i cittadini alle istituzioni comunitarie, viste in maniera distaccata (e in qualche caso sospetta) dalla maggioranza degli abitanti del vecchio continente: in questo senso, l’introduzione di un meccanismo che prevedesse un ampliamento delle competenze delle istituzioni più vicine alla cittadinanza sembrò essere un valido
2
Tracce dell’idea di sussidiarietà si ritrovano nella filosofia greca, negli scritti di Sant’Agostino e, soprattutto, nell’enciclica Rerum Novarum (1891) di Papa Leone XIII. L’enciclica Quadragesimo anno fu pubblicata proprio in riferimento alla Rerum Novarum (il titolo si riferisce al quarantennale della
pubblicazione leonina).
strumento. Fu questo il contesto in cui nacque il principio di sussidiarietà così come è oggi comunemente inteso.
Nel 1992 il principio trova un riconoscimento formale nell’ambito delle fonti del diritto con il Trattato sull’Unione Europea, firmato a Maastricht nel 1992:
all’articolo 3 B possiamo leggere che «nei settori che non sono di sua esclusiva competenza la Comunità interviene, secondo il principio della sussidiarietà, soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell'azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono dunque, a motivo delle dimensioni o degli effetti dell'azione in questione, essere realizzati meglio a livello comunitario». In questo contesto, il principio (poi ribadito in atti successivi
3) è riferito ai rapporti tra istituzioni europee e Stati nazionali: ossia quella che chiamiamo sussidiarietà verticale. Una logica di questo tipo è applicata anche nel nostro ordinamento, nei rapporti tra Stato, Regioni ed enti locali: il “sostegno” costituzionale (molto importante prima della riforma del 2001, che lo ha introdotto nell’articolo 118, riguardo l’attribuzione delle funzioni amministrative) è offerto dall’articolo 5: «la Repubblica, una e indivisibile, promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento». La legge delega n. 59/97 contiene il primo compiuto richiamo alla sussidiarietà tra livelli istituzionali all’articolo 4, primo comma: «[..] le regioni, in conformità ai singoli ordinamenti regionali, conferiscono alle province, ai comuni e agli altri enti locali tutte le funzioni che non richiedono l'unitario esercizio a livello regionale». In definitiva, la sussidiaretà verticale è un criterio di attribuzione delle competenze che prescrive lo svolgimento di queste da parte del livello istituzionale più vicino al cittadino: solo nel caso in cui l’istituzione in questione non sia in grado di svolgere adeguatamente quel compito, la competenza risale la catena gerarchica fino ad un livello che coniughi la vicinanza ai cittadini con l’efficiente svolgimento della funzione. La legge n. 131/03, già commentata nel
3
Come il Protocollo sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità del Trattato di
Amsterdam (1997).
capitolo 1, specifica che la mancata attribuzione delle funzioni amministrative ai Comuni sia possibile «per motivi di buon andamento, efficienza o efficacia dell’azione amministrativa ovvero per motivi funzionali o economici o per esigenze di programmazione o di omogeneità territoriale».
Per quanto riguarda la sussidiarietà orizzontale, può essere utile, prima di addentrarci in un’analisi specifica, una breve digressione sul concetto di “servizio pubblico”: una delle maggiori applicazioni del principio in esame è proprio la distribuzione di questi servizi tra enti pubblici e associazioni private (sul vero significato del termine “associazioni” in questo contesto si tornerà a breve).
Dobbiamo innanzitutto dire che la nozione di servizio pubblico è tutt’altro che univoca, a causa del suo essere una materia al confine tra vari settori di studio:
economia, sociologia, diritto, eccetera. In generale, possiamo dire che non esistano servizi “in assoluto” pubblici, ma che ci siano «attività che in un determinato contesto socio-economico presentano caratteristiche di pubblica utilità»
4: così il contesto politico-sociale stabilisce quali siano quei servizi per i quali l’erogazione debba dipendere in qualche modo da un ente pubblico. Il principio di sussidiarietà orizzontale opera proprio cercando di stabilire in quali casi il servizio debba essere erogato da un’autorità pubblica e quando invece la sua produzione possa/debba essere affidata ad un privato (nel qual caso il settore pubblico provvede a costituire specifichi obblighi a carico del privato erogatore,
«al fine di favorire o permettere l'assolvimento della missione di interesse generale»
5.
La sussidiarietà orizzontale trova applicazione nell’ordinamento interno dell’Italia, ma non in quello dell’Unione Europea. Essa trae fondamento dall’articolo 2 della nostra Costituzione, che «riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». Questo principio si riferisce alle
4
L. Marinò, L. Del Bene in L. Anselmi (a cura di), L’azienda “Comune”, Maggioli, Rimini, 2001, pagina 102.
5
Dal glossario dei termini riguardanti le istituzioni e le attività dell’Unione Europea, disponibile
all’indirizzo internet http://europa.eu.int/scadplus/glossary/index_it.htm
relazioni che intercorrono tra i cittadini e soggetti pubblici riguardo lo svolgimento delle attività di pubblico interesse, puntando a un coinvolgimento dei cittadini «nella conduzione della “cosa pubblica” sia per quanto riguarda la partecipazione all’individuazione dei modi con cui deve essere perseguito l’interesse pubblico sia con riferimento al concreto soddisfacimento di esso»
6. Come per la sua versione “verticale”, possiamo vedere che la legge n. 59/97 conta, tra i principi da seguirsi da parte del Governo, la sussidiarietà, prescrivendo che le attribuzioni di competenze avvengano «anche al fine di favorire l'assolvimento di funzioni e di compiti di rilevanza sociale da parte delle famiglie, associazioni e comunità, alla autorità territorialmente e funzionalmente più vicina ai cittadini interessati»: articolo 4, comma 3. Anche qui la sussidiarietà si configura come un criterio di attribuzione di competenze, ma in questo caso la distribuzione avviene tra settore pubblico e privato, disponendo di preferire il secondo nei casi in cui la funzione possa essere da lui svolta in maniera adeguata. L’articolo 118 secondo comma parla di «autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati»: sono quindi ricompresi in questa definizione (potendo così partecipare alla gestione della “cosa pubblica”) i più vari soggetti, non solo associazioni ma anche imprese. Questo secondo aspetto del principio che stiamo esaminando è certamente il più vicino alla logica della Quadragesimo anno, in quanto si allinea alle correnti di pensiero liberale che valorizzano l’autonoma iniziativa individuale e la riduzione del ruolo dello Stato
7.
Il principio di differenziazione, anch’esso richiamato dall’articolo 118 della Costituzione, si riferisce alle specificità che ogni ente possiede in confronto con gli altri, anche dello stesso livello istituzionale. È infatti innegabile come enti analoghi possano essere profondamente diversi; si pensi ad esempio ad un piccolo comune di montagna rispetto a quelli di Roma o Milano: non possiamo
6
F. Dal Canto in P. Caretti – M. Carli – E. Rossi (a cura di), Statuto della Regione Toscana.
Commentario, G. Giappichelli editore, Torino, 2005, pagina 302.
7
La logica di fondo del variegato panorama liberale è la libertà individuale, l’uguaglianza formale e il
rifiuto di condizionamenti esterni alla persona. «Nessuno mi può costringere ad essere felice a suo modo
(come cioè egli si immagina il benessere degli altri uomini), ma ognuno può ricercare la felicità per la
via che a lui sembra buona, purché non rechi pregiudizio alla libertà degli altri di tendere allo stesso
scopo». (Immanuel Kant).
assolutamente paragonarne le strutture, le risorse umane e finanziarie, le caratteristiche territoriali e demografiche. Gli enti hanno tutti delle peculiarità che fanno sì che non sia possibile pretendere una uniformità di svolgimento delle funzioni conferite rispetto a differenze così grandi. Proprio per questi motivi, l’ente che attribuisce le funzioni, si trova davanti ad una situazione eterogenea, che non può affrontare con normative indifferenziate: in questo senso opera il principio di differenziazione. Questo principio permette cioè di attribuire funzioni ad un ente e di non attribuirle ad altri che appartengono allo stesso livello gerarchico, ma che hanno caratteristiche completamente diverse. Anche qui un chiarimento arriva dalla legge n. 59/97, che all’articolo 4 comma 3 specifica quali siano quelle caratteristiche che possono dare dei conferimenti di funzione differenziati: qui si dice infatti che il principio di differenziazione opera
« in considerazione delle diverse caratteristiche, anche associative, demografiche, territoriali e strutturali degli enti riceventi». Possiamo dire fin d’ora (ma il discorso sarà approfondito nel prossimo paragrafo relativamente al caso toscano) che saranno molto importanti, per i piccoli Comuni, le forme associative che riusciranno a costituire: in caso contrario, saranno costretti a rinunciare alla diretta gestione di varie funzioni a favore della Provincia o della Regione.
Strettamente collegato al principio di differenziazione è quello di adeguatezza, ultimo dei tre ad essere elencato nell’articolo 118. Per adeguatezza intendiamo
«l’idoneità organizzativa delle amministrazioni a garantire, anche in forma associata con altri enti, l’esercizio delle funzioni»
8. In poche parole l’ente che attribuisce le competenze ha l’obbligo di valutare le caratteristiche del ricevente, in modo da riuscire a capire se potrà essere in grado di svolgere correttamente i nuovi compiti. C’è da notare che questa “variabile” di scelta può essere molto influenzata dall’ente sovrastante: utilizzando le parole di S. Cassese «le leggi distribuiscono le competenze ma i bilanci distribuiscono i poteri perché sono le
8
G. Rolla in T. Groppi – M. Olivetti (a cura di ), La Repubblica delle autonomie. Regioni ed enti locali
nel nuovo titolo V, G. Giappichelli editore, Torino, 2001, pagina 157.
risorse finanziarie che danno la misura reale dei compiti da svolgere»
9. La reale adeguatezza di moltissimi enti locali ad esercitare nuove funzioni dipende infatti molto dalla volontà di effettuare trasferimenti finanziari e “organizzativi” presso gli enti locali: la stessa formulazione dell’articolo 118 della Costituzione prima della riforma
10prevedeva che le Regioni esercitassero le propri funzioni amministrative preferibilmente delegandole agli enti locali, e ciò non poteva avvenire senza un trasferimento di personale o di mezzi. Il principio di adeguatezza potrebbe così rivelarsi un’arma a favore di chi ostacola l’attribuzione di competenze agli enti locali, favorendone la permanenza presso gli uffici statali o regionali. L’attuale formulazione dell’articolo 118, che istituisce una forte preferenza per il Comune, renderà probabilmente difficile l’esercizio di una tale forma di ostruzionismo: questo anche se la riforma costituzionale del 2001 non permette agli enti locali di ricorrere alla Corte costituzionale.
Già in seguito all’emanazione degli statuti degli anni ’70, si creò in dottrina un dibattito sulla possibilità, che la Regione potesse delegare materie solo ad alcuni enti locali, tralasciandone altri in funzione delle loro particolari caratteristiche:
quello che oggi chiamiamo differenziazione in base all’adeguatezza. In particolare, ci si chiedeva se la differenziazione non si scontrasse con il principio di uguaglianza: in un commento di Sorace
11si sottolinea come una delega indiscriminata sarebbe addirittura una violazione del principio di uguaglianza, perché il trasferimento delle medesime funzioni a tutti provocherebbe il collasso degli enti più piccoli.
Il principio di leale collaborazione è stato formalmente introdotto in Costituzione dalla legge costituzionale n. 3/01 ma sono ormai molti anni che fa parte del nostro ordinamento, nato e specificato da una consolidata giurisprudenza della
9
S. Cassese citato in L. Violini, Considerazioni sulla riforma regionale, in Le Regioni, n.3-4, Bologna, 2000.
10
Per il commento di questa norma si rimanda al capitolo 2.
11
D. Sorace in E. Cheli – U. De Siervo – G. Stancanelli – D. Sorace – P. Caretti (a cura di ), Commento
allo Statuto della Regione Toscana, Giuffrè editore, Milano, 1972, pagina 327. Vedi anche il capitolo 2,
che si occupa proprio dello Statuto toscano del 1970.
Corte costituzionale derivante dall’interpretazione dell’articolo 5 della Costituzione. La funzione di questo principio è quella di fornire un contesto preciso alle relazioni tra i diversi livelli di governo, da impostarsi su forme di cooperazione reali e non esclusivamente formali anche in assenza di puntuali disposizioni normative. Tra le molte decisioni che si rifanno a questo concetto, la n. 242/97 spiega molto bene che il principio di leale collaborazione, «secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, deve governare i rapporti fra lo Stato e le Regioni nelle materie e in relazione alle attività in cui le rispettive competenze concorrano o si intersechino, imponendo un contemperamento dei rispettivi interessi (cfr. sentenza n. 341 del 1996). Tale regola, espressione del principio costituzionale fondamentale per cui la Repubblica, nella salvaguardia della sua unità, "riconosce e promuove le autonomie locali", alle cui esigenze "adegua i principi e i metodi della sua legislazione" (art. 5 Cost.), va al di là del mero riparto costituzionale delle competenze per materia, e opera dunque su tutto l’arco delle relazioni istituzionali fra Stato e Regioni, senza che a tal proposito assuma rilievo diretto la distinzione fra competenze legislative esclusive, ripartite e integrative, o fra competenze amministrative proprie e delegate».
Molto significativa è anche la sentenza n. 341/96, citata dalla precedente, con la quale vediamo l’importanza attribuita dai giudici costituzionali alla leale collaborazione. L’oggetto del ricorso del Governo era un atto di indirizzo politico del Consiglio regionale sardo, con il quale si invitava la Giunta a non trasmettere più i provvedimenti adottati in materia paesistica al Ministero dei beni culturali per impedire il controllo statale: l’assemblea basava la sua posizione sulla vicinanza tra tutela del paesaggio e materia urbanistica, di competenza regionale.
La Corte rafforza qui il principio di leale collaborazione, mettendolo al riparo da
ogni tentativo di aggiramento da parte delle istituzioni pubbliche: «Nella
prospettazione del ricorrente, alla Regione e' infatti richiesto, nella specie,
l'adempimento di un dovere di informazione, espressivo a sua volta del più
generale dovere di leale cooperazione. […] Tale principio – alla cui osservanza
non può certo sottrarsi il Consiglio regionale che, quale organo di
rappresentanza politica della Regione, ne e', se possibile, ancor più strettamente
avvinto – può risultare leso anche in presenza di atti che, pur senza generare alcuna immediata alterazione dell'ordine delle competenze, non abbiano il valore di una semplice opinione, confinabile nella sfera del pregiuridico, ma vadano ad incidere, in quanto produttivi di un vincolo -- seppure meramente politico -- sul contesto di lealtà e trasparenza entro il quale devono appunto essere esercitate le rispettive competenze ed adempiuti i reciproci doveri».
b) Il titolo VI e le altre norme dello Statuto sulle autonomie locali.
L’articolo 58, che apre il titolo VI, richiama la sussidiarietà in senso sia verticale che orizzontale, stabilendo che la Regione «conforma la propria attività» a questo principio e si adopera per avvicinare ai cittadini «l’esercizio delle funzioni pubbliche». C’è innanzitutto da dire che questa è la tipica norma di apertura, che espone la chiave di lettura della normativa seguente: l’articolo non è infatti direttamente attributivo di funzioni o poteri, ma espone in maniera chiara quale sia la posizione dello Statuto nell’ambito delle autonomie. Con l’articolo 58 abbiamo quindi l’esposizione del criterio interpretativo da utilizzare nello studio e nell’applicazione delle norme di questo titolo, riaffermando in questo modo l’importanza data dalla Regione al tema della sussidiarietà. Già da questo articolo possiamo vedere la “pari dignità” che lo Statuto riconosce alle due espressioni della sussidiarietà, quella verticale e quella orizzontale: in questo la normativa regionale fa un passo avanti rispetto alla Costituzione, che attribuisce una posizione centrale alla direttrice Stato-Regioni-enti locali, mettendo un po’ in disparte il tema dei rapporti tra istituzioni e cittadinanza.
Il rilievo che il legislatore statutario ha voluto dare a questo principio è
riscontrabile anche nell’articolo 3, dove leggiamo i principi generali dell’azione
regionale. Il comma due prevede infatti che «la Regione sostiene i principi di
sussidiarietà sociale e istituzionale; opera per l'integrazione delle politiche con
le autonomie locali; riconosce e favorisce le formazioni sociali e il loro libero
sviluppo».
È singolare notare come nel tenore letterale dell’articolo ci sia una sorta di
“rovesciamento” tra fine e mezzi. Abbiamo visto che l’obiettivo del principio di sussidiarietà sia avvicinare le istituzioni ai cittadini, coinvolgendoli nella gestione della cosa pubblica: quindi la sussidiarietà è lo strumento per raggiungere un determinato fine. L’articolo 58 configura invece come fine la conformità delle attività regionali al suddetto principio, mentre i mezzi con il quale raggiungere questo traguardo sono operazioni di coinvolgimento dei cittadini nella «organizzazione della vita sociale e [nel]l’esercizio delle funzioni».
L’articolo 62 è dedicato alla distribuzione delle competenze amministrative tra Regione ed enti locali: è la sussidiarietà verticale o, come la definisce il titolo dello stesso articolo, la «sussidiarietà istituzionale». Al primo comma leggiamo che «La Regione, sulla base dei principi di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione, conferisce con legge agli enti locali le funzioni amministrative nelle materie di propria competenza»: poche righe che illustrano un aspetto fondamentale della nuova normativa. La norma presenta quei caratteri di genericità già propri delle analoghe previsioni della Costituzione
12: non è infatti possibile attribuire all’articolo un’applicabilità diretta e quindi un’immediata attribuzione di funzioni. Questo primo comma si configura piuttosto come una norma di principio che espone il criterio attraverso il quale la Regione dovrà attribuire le competenze. Con la formula «dovrà attribuire» si intende sottolineare il fatto che la discrezionalità regionale dovuta al principio di adeguatezza (e a possibili reticenze nel concedere finanziamenti agli enti locali, come detto nel paragrafo precedente) non potrà sfociare in un mantenimento dello status quo protratto nel tempo al fine di evitare la spoliazione di competenze a favore degli enti locali. La “clausola di preferenza” per i Comuni sembra infatti configurare un vero e proprio obbligo a carico delle Regioni, temperato solo da esigenze di tempo per l’elaborazione necessaria. A pregiudicare ulteriormente possibili tentazioni di “centralismo regionale” è la previsione dell’articolo 39 dello Statuto (già commentata nel capitolo 3) che obbliga alla motivazione tutti gli atti
12
Per il commento delle quali si rimanda al capitolo 1.
normativi regionali: il Collegio di garanzia (articolo 57) potrà obbligare al riesame un atto che non motivi adeguatamente (ed in maniera convincente) un mancato rispetto della preferenza per il livello comunale. A ciò si aggiunga la possibilità di una pronuncia della Corte costituzionale per violazione dell’articolo 118 Cost. (possibilità per la verità limitata dalla mancata concessione del potere di ricorso in via principale agli enti locali). Il comma in esame specifica che le materie saranno attribuite agli enti locali nell’ambito delle competenze regionali:
anche se può sembrare una puntualizzazione persino ovvia, all’atto pratico potranno nascere dei problemi anche per quanto riguarda la poco chiara qualificazione dei termini «proprie» «fondamentali» e «conferite», che la Costituzione utilizza per definire le funzioni degli enti locali
13. Il termine utilizzato dall’articolo 62 per definire l’attribuzione delle competenze è
«conferisce», nel quale la legislazione ante 2001 comprendeva l’istituto della delega
14: l’idea di potenziamento degli enti territoriali che emerge dal nuovo titolo V sembrerebbe escludere l’istituto della delega a favore di reali spostamenti della titolarità delle funzioni, ma non è possibile trarre conclusioni definitive
15. Il primo comma precisa inoltre che i conferimenti saranno fatti con legge: questa precisazione discende dal secondo comma dell’articolo 118 della Costituzione, che circoscrive alle leggi statali e regionali la responsabilità di attribuire le funzioni amministrative. Il secondo comma prevede l’azione regionale a favore della gestione associata delle funzioni da parte degli enti locali e la loro collaborazione, proprio ai fini di un efficace svolgimento dei compiti assegnati: vengono qui menzionate le Comunità montane, regolate attualmente dalla legge regionale n. 82/00 (in attuazione del T.U. sugli enti locali n. 267/00).
Possiamo vedere anche dai lavori preparatori come ci fossero molte forze politiche favorevoli ad una maggiore valorizzazione delle Comunità montane, magari prevedendo una diretta attribuzione di funzioni amministrative: la
13
Del dibattito sul reale significato di questi termini si è dato conto nel capitolo 1, cui si rimanda per approfondimenti.
14
«per "conferimento" si intende trasferimento, delega o attribuzione di funzioni e compiti», legge n.
59/97, articolo 1.
15
Possiamo aggiungere che altri statuti (ad esempio quelli di Lazio, Liguria ecc.) hanno previsto esplicitamente il potere di delega per la Regione, quindi la mancanza di tale riferimento nella “Carta”
toscane sembra far propendere per una inapplicabilità di questo strumento.
formulazione finale non ha poi accolto queste istanze. Possiamo infine dire che il rapporto tra Regione ed enti locali dovrà sicuramente informarsi al principio di leale collaborazione: in questo senso, sarebbe auspicabile (e certamente più prudente, in caso di giudizi della Corte costituzionale) che il conferimento di funzioni avvenisse con il coinvolgimento di rappresentanti degli enti destinatari.
A tale scopo il ruolo del Consiglio delle autonomie locali (di cui si parlerà a breve) sarà certamente centrale.
L’articolo 63 si occupa del potere regolamentare degli enti locali
16, attribuendo loro il potere di organizzare le funzioni conferite e prevedendo una legge regionale che, «nei casi in cui risultino specifiche esigenze unitarie», possa assicurare una minima uniformità di organizzazione e svolgimento. Il primo comma ripete la regola che deriva dall’articolo 117.6 della Costituzione e dalla legge n. 131/03, che permette all’ente cui è stata attribuita la funzione di organizzarla e svolgerla in autonomia: in questo senso la potestà normativa locale è aumentata molto, seguendo un trend di crescita di cui si è dato brevemente conto nel capitolo 1. Maggiori problemi sono dati dal secondo comma, che autorizza la Regione ad emanare leggi che disciplinino le funzioni conferite in modo da assicurare, in caso di esigenze unitarie, requisiti minimi di uniformità. Il Governo aveva impugnato questa norma di fronte alla Corte costituzionale, sostenendo che se ci sono esigenze unitarie, le funzioni devono essere mantenute dalla Regione e non essere conferite per poi menomare l’autonomia normativa in materia degli enti locali (costituzionalmente garantita dall’articolo 117.6). La Corte ha respinto il ricorso sostenendo che questa sorta di deroga all’attribuzione
“completa” ai Comuni è accettabile in quanto un trattenimento di funzioni a livello regionale sarebbe certamente peggiore nei riguardi del principio di sussidiarietà. In questo senso, anche la legge 131/03 permette allo Stato e alla Regione di emanare norme che assicurino i requisiti minimi di uniformità, secondo le rispettive competenze, conformemente a quanto previsto dagli articoli 114, 117, sesto comma, e 118 della Costituzione». Il terzo comma statuisce la possibilità che la Regione emani norme “suppletive” destinate decadere quando i
16
Per la parte generale, vedi il capitolo 1.
regolamenti degli enti locali andranno a disciplinare le funzioni conferite. Questa tipologia di atto era molto diffusa nell’ambito della legislazione statale “di cornice”: la dottrina aveva espresso molte perplessità non tanto rispetto alla possibilità di regolamentare determinati ambiti fino a che l’ente preposto non vi avesse provveduto, quanto sulla capacità abrogativa della legge statale suppletiva rispetto alle norme regionali già vigenti (non “ispirate” ai principi della legge- cornice). Il terzo comma non è stato oggetto di ricorso alla Corte: sarebbe stato interessante sapere il parere dei giudici costituzionali sulla possibilità di emanare norme suppletive di fronte al mutato quadro istituzionale.
Per quanto riguarda l’articolo 64, che tratta dell’autonomia finanziaria, il discorso non può prescindere dalla mancata attuazione dell’articolo 119 della Costituzione, che si occupa proprio di questo argomento. Lo Statuto toscano ha infatti attuato una linea di “basso profilo” in materia, lasciando solo a questo breve articolo (e all’inciso del primo comma dell’articolo 49) il tema della finanza regionale e locale, altrove regolato in maniera molto più ampia
17. In generale, l’articolo 119 della Costituzione prevede autonomia di entrata e di spesa per Regioni ed enti locali, compartecipazione al gettito erariale del loro territorio e possibilità di stabilire e applicare propri tributi ed entrate, «in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario»; è prevista, da parte dello Stato, l’istituzione di un fondo perequativo senza vincoli di destinazione e la possibilità di destinazione di risorse aggiuntive per rimuovere gli squilibri regionali
18. La difficoltosa attuazione dell’articolo 119 è probabilmente alla base del fatto che la norma statutaria in esame si rivolge prevalentemente ai rapporti con gli enti locali, lasciando alle leggi future di precisare i termini del rapporto con lo Stato. Il primo comma dell’articolo 64 dello Statuto prevede un fondo per finanziare le funzioni loro conferite «in attesa dell’attuazione dell’articolo 119 della
17
Lo Statuto toscano è l’unico, tra quelli approvati, a non avere un titolo dedicato al tema della finanza.
18
L’articolo 3 della legge finanziaria 2003 (n. 289/2002) ha istituito «l'Alta Commissione di studio per indicare al Governo […] i principi generali del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, ai sensi degli articoli 117, terzo comma, 118 e 119 della Costituzione»; la commissione è stata poi denominata «Alta Commissione per la definizione dei meccanismi strutturali
del federalismo fiscale (ACoFF)». E’ attualmente operativa.
Costituzione». Più interessante è il secondo comma che prevede l’emanazione di una legge regionale regolatrice dei tributi degli enti locali, limitandone l’applicazione ai «profili coperti da riserva di legge» e facendo salva la loro potestà di istituirli. In primo luogo, c’è da dire che la norma si preoccupa di definire il campo di applicazione della futura legge, che non dovrà invadere le competenze degli enti locali di istituzione e organizzazione tributaria garantite dall’articolo 119 Cost. In secondo luogo, una legge di questo tipo sembra essere necessaria date le previsioni dell’articolo 23 della Costituzione: «nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge». In particolare, questa ultima “giustificazione” era stata addotta dalla Regione nelle controdeduzioni presentate in seguito al ricorso del Governo alla Corte costituzionale contro lo Statuto regionale
19. L’Avvocatura dello Stato sosteneva che la norma stabiliva un rapporto tra fonti normative (legge regionale- regolamento dell’ente locale) che è solo uno tra quelli possibili: la Corte aveva infatti stabilito, con una sentenza precedente
20, che la disciplina normativa dei tributi locali può configurarsi sia a tre livelli (legge statale, legge regionale, regolamento ente locale) che a due (legge statale e regolamento ente locale, oppure legge regionale e regolamento dell’ente locale). Con la sentenza n. 372/04 la Corte ha dichiarato infondata tale questione di legittimità costituzionale
21, in quanto lo Statuto ha scelto uno dei due sistemi previsti dalla sentenza n. 37/04 e la legge regionale conseguente dovrà necessariamente «attenersi ai principi fondamentali di coordinamento del sistema tributario appositamente dettati dalla legislazione statale “quadro” o, in caso di inerzia del legislatore statale, a quelli comunque desumibili dall’ordinamento
22». Questa scelta è ascrivibile anche all’impossibilità di prevedere, nel nuovo assetto costituzionale, una disciplina che tagli fuori la Regione dalla disciplina tributaria; a parere dello scrivente, tale decisione configura un passo importante (ma anche “dovuto”, visto il nuovo apparato istituzionale) per l’autonomia delle Regioni.
19
Del ricorso e della sentenza si da brevemente conto nel capitolo 1, nell’ambito del discorso sulle norme
“di principio” degli statuti regionali.
20
La n. 37 del 2004
21
Insieme ad altre, vedi il capitolo 1.
22
Punto 6 del Considerato in diritto.
L’articolo 65 riveste una particolare importanza in quanto dispone che la formazione degli atti di programmazione regionale deve necessariamente tener conto degli analoghi documenti prodotti dagli enti locali. Il passaggio è fondamentale, in quanto passiamo definitivamente da un tipo di amministrazione
“a cascata” ad una formula “circolare”, in cui gli enti locali non sono dei meri
“terminali esecutivi” dell’azione regionale, ma dei centri di interazione col cittadino, che grazie alla loro particolare posizione sono in grado di fornire informazioni agli organi più lontani dal territorio
23. Il potenziamento di questi nodi periferici della pubblica amministrazione segue in un certo senso una logica aziendale, verso cui la pubblica amministrazione è orientata a partire dagli anni
’90.
La cosiddetta “aziendalizzazione” della P.A. si può definire come il
«miglioramento della qualità dei servizi offerti, intesa in senso ampio e, pertanto, una qualità che riguardi la soddisfazione dell’utente sotto il profilo dei servizi forniti, del loro costo, della loro adeguatezza alla domanda, delle modalità di erogazione
24». Gli strumenti per raggiungere questi obiettivi sono dati da pratiche tipiche del mondo aziendale, come l’orientamento al cliente, una contabilità economico-finanziaria, un sistema di controllo manageriale, un’organizzazione che dia autonomia di scelta e di risoluzione dei problemi agli organismi “periferici”, responsabilizzandone i membri rispetto ai risultati ottenuti. La struttura organizzativa “reticolare”, molto in voga nell’ambito degli studi aziendalistici
25, ha trovato una sua espressione nella riforma del titolo V e in quel che, non a caso, viene definito sistema degli enti locali.
Gli articoli 66 e 67 si occupano rispettivamente del Consiglio delle autonomie locali e dei casi in cui esso si riunisce congiuntamente con il Consiglio regionale.
Questo organo era presente in Toscana da prima della riforma del titolo V, come dato conto nel capitolo 2: proprio per questo dobbiamo da subito dire che la
23
Questo passaggio è ben delineato da P. Carrozza in P. Caretti – M. Carli – E. Rossi (a cura di), Statuto della Regione Toscana. Commentario, G. Giappichelli editore, Torino, 2005, pagina 331.
24
L. Anselmi in L. Anselmi (a cura di), L’azienda “Comune”, Maggioli, Rimini, 2001, pagina 17.
25
Per approfondimenti Costa G., Gubitta P., Organizzazione Aziendale, McGraw-Hill, Milano, 2004. Per
quanto riguarda le reti un’interessante applicazione alle imprese artistiche è in Salvemini S., Soda G.,
Artwork & Network, Egea, Milano, 2001.
disciplina statutaria è qui piuttosto deludente, interpretando in maniera piuttosto restrittiva il dettato costituzionale. L’articolo 66 ci dice che il Consiglio delle autonomie locali è istituito «presso» il Consiglio Regionale, indicando già a questo punto una visione dell’assemblea delle autonomie locali come un organo di supporto. Le sue funzioni sono di rappresentare le autonomie territoriali con funzioni «consultive e di proposta»: come detto sopra, lo Statuto accoglie un’interpretazione della norma costituzionale piuttosto restrittiva, che cancella ogni ipotesi di “seconda camera delle autonomie” regionale. La Costituzione configura all’articolo 123 il Consiglio delle autonomie locali come «organo di consultazione fra la Regione e gli enti locali»; la normativa statutaria toscana, che in altre parti ha cercato sempre “il limite” della costituzionalità, ha sposato qui la tesi più “comoda”, quella che meglio si uniforma alla scarna previsione dell’articolo 123.
I poteri “consultivi e di proposta” di cui al comma 1 dell’articolo 66 non trovano limiti nella disciplina statutaria; in questo senso sarà la legge attuativa a stabilire eventuali ambiti di intervento piuttosto che a precluderne altri. D’altra parte, le autonomie locali coprono una elevata quantità di tematiche anche di carattere molto eterogeneo: non solo, ma sono molti i casi in cui le varie materie si intrecciano e vanno a sovrapporsi l’una all’altra. In questo senso, una rigida
“compartimentazione” dei poteri di consultazione e di proposta del Consiglio delle autonomie locali, oltre che deleteria sarebbe certamente difficile da attuare.
Il terzo comma specifica alcune fattispecie in cui il parere dell’organo è obbligatorio sul «bilancio regionale, sugli atti della programmazione regionale, sulle proposte di legge e di regolamento che riguardano l'attribuzione e l'esercizio delle competenze degli enti locali»: alcune riflessioni su questo comma. Innanzitutto, c’è da dire che queste previsioni sono un po’ poche:
prevedere la consultazione obbligatoria del Consiglio delle autonomie locali per
gli atti fondamentali della disciplina economica e programmatica della Regione e
per le leggi riguardanti l’attribuzione di competenze agli enti locali stessi, sembra
francamente il minimo. La norma non sembra inoltre scritta benissimo, con il
riferimento al «bilancio regionale» che non si trova in nessun’altra parte dello
Statuto (all’articolo 11 si parla di «bilanci preventivi [...] rendiconti della Regione»): il sistema contabile di una Regione è composto da una pluralità di documenti intercorrelati, l’indicazione “al singolare” dell’articolo 66 non è certo un monumento alla chiarezza. L’ordinamento contabile toscano è regolato dalla legge regionale n. 36/01; l’articolo 24 bis di questa legge può aiutare a chiarire la questione. Leggiamo qui infatti che «la Giunta sottopone al Consiglio delle autonomie locali la legge di bilancio e l’eventuale legge finanziaria, con i relativi allegati, nonché la legge di assestamento di bilancio, affinché esprima su di essa il proprio parere». Questo articolo è stato aggiunto dalla legge regionale n. 76/04, denominata modifiche alla legge regionale 6 agosto 2001, n. 36, emanata circa cinque mesi dopo la pubblicazione dello Statuto
26: è in effetti una norma attuativa dell’articolo 66, in quanto specifica quali siano gli atti che rientrano nelle previsioni del terzo comma. Altre leggi attuative potranno in qualche modo ampliare il potere coercitivo dell’organo istituendo pareri obbligatori anche sua altre materie.
Il quarto comma dell’articolo 66 illustra le conseguenze giuridiche del parere negativo: l’organo che ha emanato l’atto può disattendere il parere semplicemente motivando la decisione. La reale possibilità di influenzare la politica di Consiglio regionale e Giunta è abbastanza bassa, in quanto il Consiglio delle autonomie locali si configura quasi come un organo di supporto, titolare di una funzione che non va molto oltre la moral suasion
27e sprovvisto di strumenti formali per modificare la linea degli altri organi. In dottrina si tende a pensare che l’obbligatorietà del parere e l’obbligo di motivazione siano riferibili esclusivamente alle materie elencate al terzo comma, e che le uniche strade da percorrersi riguardo l’ampliamento dei poteri del C.A.L. siano quelle dei pareri facoltativi
28. Prevedere l’obbligatorietà del parere anche per materie non
26
La legge è del 27 dicembre 2004 mentre lo Statuto è stato approvato in seconda lettura il 19 luglio 2004 ed è entrato in vigore il 12 febbraio 2005, dopo la sentenza sul giudizio di costituzionalità dello Statuto n.
372/04 e decorso il periodo di richiesta di referendum.
27
Con questo termine anglosassone si intende l’attività di pressione “informale”, esercitata spesso da persone titolari di funzioni di garanzia e controllo, come ad esempio il Presidente della Repubblica o il Governatore della Banca d’Italia.
28
Vedi A. Andreani in P. Caretti – M. Carli – E. Rossi (a cura di), Statuto della Regione Toscana.
Commentario, G. Giappichelli editore, Torino, 2005, pagina 335.
menzionate al terzo comma rischierebbe forse di essere una forzatura (in fondo il primo comma qualifica le funzioni del Consiglio delle autonomie locali come
«consultive e di proposta»), ma andrebbe certamente nella direzione di una maggiore incisività dell’organo. Dai lavori preparatori possiamo vedere come la possibilità di un aggravamento “reale” dell’iter legislativo in caso di parere negativo del C.A.L. era contemplata e affidata alla disciplina di un’apposita legge: in particolare il comma 4 della Bozza per le consultazioni, diffusa dalla Commissione Statuto nel luglio 2003, prevedeva che in caso di parere negativo,
«l’approvazione sia subordinata al voto favorevole della maggioranza dei componenti il consiglio regionale o agli esiti di particolari modalità conciliative disciplinate dalla stessa legge regionale. Se l’atto è di competenza della giunta regionale, questa può approvarlo con motivazione espressa del mancato accoglimento del parere». Nella versione definitiva si è quindi optato per una formula unica per Consiglio e Giunta, quella che lega meno le mani a questi due organi.
Il secondo comma dell’articolo 66 si occupa della composizione del Consiglio delle autonomie locali. Possiamo vedere come non è data un’indicazione sul numero dei componenti, nemmeno sotto forma di soglia massima, lasciando una precisa quantificazione alla legge: la normativa che regola attualmente questo settore, ossia la legge regionale n. 36/00, prescrive un numero di cinquanta membri, pari al Consiglio regionale dell’epoca. La scelta di non indicare un numero preciso per quanto riguarda i membri del C.A.L. potrebbe derivare proprio dall’aumento dei consiglieri regionali: questo ampliamento è stato giustificato dalla crescita delle competenze regionali, così si è probabilmente voluto lasciare alla legge la possibilità di modificare il numero di rappresentanti delle autonomie locali in funzione dell’attività effettiva del C.A.L. Non viene detto niente neanche su chi debba comporre il Consiglio, lasciando così in vigore la previsione dell’articolo 1 comma 2 della già citata legge regionale n. 36/00
29.
29
«Del Consiglio delle autonomie locali fanno parte: a) i presidenti delle Province; b) 2 presidenti dei
Consigli provinciali; c) i sindaci dei Comuni capoluogo di provincia; d) 23 sindaci di Comuni non
capoluogo; e) 2 presidenti di Consigli comunali; f) 3 presidenti di Comunità montane».
Il comma 5 prevede la possibilità del C.A.L. di proporre al Presidente del Consiglio regionale il ricorso presso la Corte costituzionale contro «le leggi e gli atti aventi forza di legge dello Stato»: una previsione che permette alle autonomie locali di avere voce nel capitolo dei ricorsi contro le leggi ritenute incostituzionali (la riforma del titolo V non ha infatti ampliato la possibilità di ricorso in via principale fino a comprendere gli enti locali). Quello in questione è comunque solo un potere di proposta: probabilmente niente di più sarebbe stato accettato dalla Corte costituzionale, in quanto avrebbe ampliato indirettamente (e contro il dettato costituzionale) l’accesso in via principale alla Suprema corte. Il sesto comma attribuisce al C.A.L. la competenza a nominare i rappresentanti negli organi regionali del sistema delle autonomie locali: una previsione certamente auspicabile, che potrà però trovare difficoltà applicative rispetto alle leggi regionali in materia, che si riferiscono attualmente a singole categorie di enti attraverso le loro associazioni di categoria. Gli ultimi due commi si riferiscono all’autonomia di questo organo, dal punto di vista economico- finanziario (garantendogli le risorse necessarie per funzionare), organizzativo e regolamentare.
L’articolo 67 prevede la fattispecie della riunione congiunta del Consiglio delle autonomie locali con il Consiglio regionale, con l’obiettivo di discutere problemi di comune interesse. La disciplina costituzionale e statutaria preclude la possibilità che siano approvati, durante questa sedute, atti di una particolare
“forza”, come intese o programmi; allo stesso tempo, la prescrizione della necessaria intesa dei presidenti dei due organi per stabilire l’ordine del giorno sembra rendere impossibile una convocazione in caso di conflitto tra i due Consigli. Il primo comma prescrive che la seduta congiunta si svolga per lo meno una volta all’anno.
Il giudizio (sostanzialmente positivo) sulla disciplina della sussidiarietà verticale
nello Statuto regionale non può prescindere dalle norme sul Consiglio delle
autonomie locali: gli articoli 66 e 67 sono sicuramente aderenti al dettato
costituzionale e alle prevalenti interpretazioni della dottrina, ma l’importanza
dell’esperienza toscana precedente la riforma del titolo V (già ricordata nel
capitolo 2) e l’attenzione dedicata alle autonomie locali da parte della Regione Toscana contribuiscono al rammarico per una scelta così conservatrice. Abbiamo già visto infatti come la Regione abbia cercato di “aggirare” la lettera e lo spirito della Costituzione nei casi in cui ha ritenuto giusto farlo: si pensi solo ai principi fondamentali di cui agli articolo 3 e 4 dello Statuto, o alle norme di rafforzamento del Consiglio regionale come l’approvazione del programma di governo (articolo 32) o le mozioni contro singoli assessori (articolo 36)
30. Nel capitolo 5 vedremo come altre Regioni abbiano optato per soluzioni più
“coraggiose”.
Il progetto di riforma costituzionale in corso di approvazione
31(manca l’ormai certo referendum confermativo) contiene un potenziamento del ruolo del Consiglio delle autonomie locali, che potrà diventare (nel caso in cui il progetto di revisione costituzionale venga approvato dalla maggioranza dei votanti) un attore del procedimento legislativo. Il testo indica infatti nel C.A.L. un organo di
«consultazione, di concertazione e di raccordo» tra la Regione e gli enti locali, aprendo la strada a vere e proprie procedure di codecisione su determinate materie. Tutto ciò naturalmente solo nel caso questa riforma venga approvata.
c) Le autonomie sociali e quelle funzionali.
Gli articoli 59, 60 e 61 dello Statuto si occupano della sussidiarietà orizzontale.
L’articolo 59, denominato “sussidiarietà sociale”, definisce l’attività della Regione nel favorire «l’autonoma iniziativa dei cittadini e delle loro aggregazioni per il diretto svolgimento di attività di riconosciuto interesse generale». Nonostante l’uso del termine “favorisce”, l’attuazione della sussidiarietà orizzontale è da intendersi come un obbligo per la Regione, considerando anche le norme costituzionali più volte richiamate: naturalmente,
30
Per la cui analisi si rimanda al capitolo 1.
31
Quella che è stata denominata dai suoi promotori “devolution”. È interessante notare il fatto che il
termine si riferisce a un istituto simile alla nostra delega, che quindi mantiene la titolarità della funzione
conferita in capo all’ente conferente. Ciò che viene “devoluto” è così solo l’esercizio della funzione; il
titolare mantiene così la possibilità di riappropriarsi della competenza per via legislativa.
l’applicazione del principio stesso farà si che le funzioni attribuite ai privati possano essere a loro revocate nel momento in cui si ritenga che quelle attività possano essere meglio svolte dall’ente pubblico. Lo Statuto non menziona esplicitamente criteri preferenziali riguardo alla tipologia di “aggregazioni”
private oggetto dell’articolo: non si fa alcuna distinzione tra soggetti profit e non, né si privilegiano situazioni che, ad esempio, favoriscano l’inclusione sociale piuttosto che la partecipazione
32. Il comma 2 dell’articolo specifica alcune attività cui l’attuazione della sussidiarietà è «prioritariamente diretta», ossia il miglioramento dei servizi offerti, il superamento delle disuguaglianze socio- economiche e la valorizzazione della persona e dello sviluppo della comunità regionale. Naturalmente quello in questione non è un elenco chiuso, in quanto la stessa scelta dell’avverbio “prioritariamente” indica che l’iniziativa privata può essere promossa anche riguardo altri fini. Per quanto riguarda il tema della partecipazione privata all’erogazione dei servizi pubblici, c’è da dire che il loro coinvolgimento non si limita alla mera fase dello svolgimento del servizio stesso ma anche alla «definizione dei processi decisionali finalizzati alla elaborazione delle politiche e […] alla verifica e al controllo sia dell’operato dell’amministrazione regionale che di quello degli stessi privati»
33: l’articolo 59 va infatti letto alla luce della previsione di cui all’articolo 72, che descrive la partecipazione dei cittadini come «iniziativa autonoma verso l'amministrazione, come libero apporto propositivo alle iniziative regionali, come intervento nelle fasi formali di consultazione, come contributo alla verifica degli effetti delle politiche regionali».
L’articolo 60 si occupa delle autonomie funzionali, una fattispecie sconosciuta al testo costituzionale ma ben presente nella dottrina. A tutt’oggi la legge non fornisce definizioni precise di questa particolare tipologia di ente locale: la legge n. 59/97 richiama (articolo 1, comma 4, lettera d) il «regime di autonomia funzionale dalle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e
32
Lo Statuto dell’Emilia Romagna, ad esempio, istituisce (articolo 19) un apposito albo delle associazioni che intendono partecipare all’attività della Regione.
33
F. Dal Canto in P. Caretti – M. Carli – E. Rossi (a cura di), Statuto della Regione Toscana.
Commentario, G. Giappichelli editore, Torino, 2005, pagina 302.
dalle università degli studi»; tuttavia nel resto del documento non troviamo niente di simile ad una definizione di questi enti. La situazione è rimasta immutata anche dopo la riforma del titolo V e le successive leggi attuative: la già richiamata legge n. 131/03 si limita a richiamare il rispetto delle attribuzioni di questi enti, senza però caratterizzarli in maniera precisa. Attualmente il dibattito dottrinale tende a qualificare le autonomie funzionali come «soggetti pubblici esponenziali di collettività o interessi settoriali (Università, Camere di commercio, Istituzioni scolastiche, ecc.) [...] collocate, pur con differenze non marginali tra le diverse tipologie, in una zona di confine tra la sussidiarietà orizzontale e la sussidiarietà verticale, come enti cui si ricollegano caratteri tradizionalmente tipici sia del settore pubblico che di quello privato, esercitando funzioni di interesse generale attraverso una relativa autonomia organizzativa, normativa e decisionale»
34. La normativa statutaria in materia è piuttosto scarna, limitandosi a valorizzare questi enti e a favorirne la partecipazione all’attività regionale e a quella degli enti locali territoriali: come in molti altri punti dello Statuto, ci troviamo di fronte ad una norma di principio, dallo scarso valore prescrittivo. Saranno anche qui le norme attuative e la prassi a stabilire la portata e la reale incisività dei principi espressi nella politica regionale. Mentre altre Regioni hanno scelto strade simili a quella toscana, (come la formulazione dell’articolo 17 dello Statuto umbro, quasi identica a quella dell’articolo 60 dello Statuto toscano) altre hanno scelto opzioni più “pragmatiche” come l’Emilia Romagna, che non fa riferimenti alla categoria delle autonomie funzionali ma dedica gli articoli 57 e 58 del suo Statuto rispettivamente al rapporto con le Università (e la scuola) e con le Camere di commercio.
Con l’articolo 61 abbiamo una novità nel panorama istituzionale, ossia la creazione di una conferenza che raccoglie le autonomie sociali di cui all’articolo 59. La sua corretta denominazione è “ Conferenza permanente delle autonomie sociali”: una formulazione scelta in base al timore che l’istituzione di un
“Consiglio delle autonomie sociali” potesse risultare formalmente invasiva delle
34