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La pittura di soggetto religioso e i rapporti con Angelo Franceschi.

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Capitolo 9.

La pittura di soggetto religioso e i rapporti con Angelo Franceschi.

1- Parallelamente all’attività di pittore ‘laico’, orientata verso l’approfondimento delle tematiche care alla cultura arcadica e al paragone tra le arti, Tempesti non disdegnò un pari impegno rivolto alla pittura religiosa, con inflessioni che non poterono dirsi estranee ai dibattiti che percorrevano la Toscana settecentesca.

Uno degli aspetti ancora da approfondire nella storiografia locale è quello della storia religiosa del tardo Settecento, che non ha ancora beneficiato di studi approfonditi e d’indagini aggiornate e sistematiche sul ruolo esercitato dai singoli arcivescovi. Non vi è dubbio però che il prelato che meglio sembrò incarnare lo spirito del tempo, misurandosi con le vicende istituzionali e di fede con un cipiglio che fu pari alla dottrina, fu Angelo Franceschi.

Di nobile e ricca famiglia, appassionato d’arte e collezionista di monete, educatosi a Parma, Franceschi operò importanti riforme sul territorio della sua diocesi, di cui del resto ebbe approfondita consapevolezza, grazie alla promozione di ben due visite pastorali. Nominato nel 1779 dopo aver ricoperto per un breve periodo la cattedra vescovile di Arezzo, il Franceschi esercitò le proprie funzioni a Pisa fino al 1806, per un periodo lungo quanto bastò per portare a termine i propositi di riforma. Il monumento che ancora oggi lo celebra sopra una delle porte laterali del Duomo – opera di Tommaso Masi, quello stesso scultore che eseguirà il monumento funebre a Giovanni Battista - ce lo consegna come un integro uomo di chiesa, che divise la cura delle anime a quella della mente, perché l’angelo bellissimo e atletico che ne sorveglia l’effige, sembra un frammento perfetto della Roma canoviana portata sull’Arno, e forse in qualche misura lo fu davvero

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.

                                                                                                               

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Il monumento funebre venne commissionato nel 1806, ma non è stato ancora chiarito il momento della consegna. Fu eseguito da Tommaso Masi, amico dei Tempesti, che si formò ad inizio Ottocento a Roma, allievo diretto di Canova.

Tornato a Pisa si divise essenzialmente tra un’attività di restauratore e d’insegnante di ornato presso la locale Accademia di Belle Arti, mentre piuttosto rara fu la sua produzione originale. In questa, oltre al Monumento Franceschi, va ovviamente menzionato quello a Giovanni Battista Tempesti (v. qui il capitolo introduttivo e il cap. 11).

Sullo scultore v. RENZONI 1997 a, pp. 177-80. Sul Monumento Franceschi: Il Duomo di Pisa 1995, p. 456, scheda di

C. Casini

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L’ambiente religioso che Franceschi si trovò a governare a Pisa fu reso complicato dalla diffusione in Toscana delle idee gianseniste, che come è noto incontrarono proprio in Pietro Leopoldo una sponda istituzionale formidabile, e che in città furono parimenti modulate in modo originale e variato da molti dei più importanti rappresentanti della classe dirigente locale, a cominciare da Angelo Fabroni, il potente Provveditore dell’Università

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.

Del resto la nomina del Franceschi a Pisa precedette di poco quella di Scipione de’ Ricci alla massima carica nella diocesi di Prato e Pistoia, nel 1780. La funzione svolta dall’Arcivescovo pisano nel Sinodo di Pistoia e nella quotidiana azione pastorale allo scopo di isolare il collega pistoiese e con lui la diffusione della dottrina portorealista è sufficientemente nota

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. L’ambiente fu assai teso, e l’iniziativa svolta dal Franceschi non mancò di avere ripercussioni sulla organizzazione del sistema d’immagini sacre, dal momento che i Giansenisti vi si erano opposti in un modo che sfiorava l’eresia. Assai significativa, come indizio di una ben più ampia interpretazione delle abitudini religiose, fu la difesa praticata dal Franceschi della devozione privata, che fu così assertiva da spingerlo al pieno sostegno del mantenimento delle cappelle nei palazzi magnatizi, con una perseveranza che non mancò di avere delle ripercussioni sulla produzione artistica. Anche del Tempesti.

Giova poi ricordare come fino al 1806 il confine della diocesi pisana si estendesse fino a Livorno, la cui Primaziale era retta da un Preposto sottoposto all’autorità arcivescovile pisana. Gli eventi che riguardavano la città labronica erano dunque accadimenti che, de jure et de facto, appartenevano anche alla comunità ecclesiastica pisana. Che il problema della diffusione giansenistica nel Granducato fosse un’urgenza non solo dottrinale, ma autentica e scandita quotidianamente sul piano di contenziosi spesso aspri che riguardardarono anche il sistema delle immagini, il loro uso e significato, come una minaccia che interpellava le coscienze e le intelligenze di tutti i fedeli, furono proprio alcuni fatti livornesi a dimostrarlo e a mobilitare il ruolo e la cultura del Franceschi.

Tra i primi problemi che Franceschi si trovò a dover affrontare nella diocesi pisana fu infatti quello relativo al contenimento dell’attività del Preposto di Livorno: Antonino Baldovinetti. Collaboratore                                                                                                                

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Per una lettura degli atteggiamenti del Fabroni assunti a Pisa nei confronti del Giansensismo, via via fattisi più tiepidi, come “una sorta di neutralità, che poteva forse coprire una certa inquietudine per il radicalismo imprudente dei riformatori”, fino a pervenire ad un distacco proprio a causa dell’ “offensiva contro Roma, guidata dal granduca stesso”, sono sempre fondamentali le osservazioni di: PASSERIN 1953-54, pp. 54-8. Il testo costituisce ancora oggi un riferimento imprescindibile per un’accurata panoramica del Giansenismo pisano nel secondo Settecento, che non fu certo di poco conto (v. le figure di Ferdinando Salesio Donati e di fra Giovanni Grisostomo Curini).

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GORI 1974; DASTOLI 1977-78; GRECO 1984, pp. 203-56; FANTAPPIE’ 1997.

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e sodale di Scipione de’ Ricci, il prete fiorentino era stato designato a reggere la prepositura livornese nel 1776 direttamente da Pietro Leopoldo, che evidentemente attribuì alla decisione un senso che esorbitava le semplici eppur cogenti necessità religiose, per assumerne altre d’intonazione perfino politica, di aperta conferma delle suggestioni su di lui esercitate dal riformismo portorealista

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. Il Baldovinetti caratterizzò la propria azione soprattutto per i suoi interessi pastorali, per un’ansia rigoristica e moralizzatrice molto accentuata, più che per un’originale elaborazione dottrinale.

Nel 1787 Baldovinetti commissionò a Francesco Pascucci, un pittore romano (coinvolto poi anche in alcuni fatti pisani), la realizzazione di due grandi tele per la Prepositura, che raffiguravano un’aperta e clamorosa affermazione dei principi neoagostiniani cari ai Giansenisti

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, il più temerario tentativo d’imporre in Toscana il punto di vista dei riformatori, e che fu vissuto in toni così apertamente trasgressivi, da costringere di lì a poco all’introduzione in quelle stesse mura del Sacro Cuore

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, e all’organizzazione di un nuovo ciclo oppositivo, che cancellasse quelle ipotesi contrarie alla Vera dottrina. Franceschi, in tutto questo, non fu solo spettatore

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.

Tuttavia, in quegli stessi anni Ottanta, il Preposto, in pieno accordo col Vescovo pistoiese, realizzò un altro obiettivo, che non mancò di avere importanti ripercussioni su Pisa. Nel convitto ecclesiastico di S. Leopoldo a Livorno, fondato dal Baldovinetti nel 1783, sopra le porte d’ingresso delle camere egli aveva pensato di far dipingere a chiaroscuro i “Padri di Porto Reale”, con una scelta che non tradiva solo la necessità di contenere le spese e di allontanarsi dagli squillanti esempi ancora barocchi di cui le chiese erano piene; ma che soprattutto rivelava la volontà di riecheggiare quella collezione di stampe raffiguranti i protagonisti del Giansenismo, che Scipione de’ Ricci si                                                                                                                

4

Sul Baldovinetti è sempre utile l’eccellente ricostruzione biografica di CAZZANIGA 1939, rinnovata dalla fondamentale voce di ROSA 1963. Recentemente il prelato è stato al centro di un importante convegno, che ne ha bene evidenziato la non secondaria funzione in seno alla chiesa e al riformismo toscano settecentesco: Antonino Baldovinetti 2002.

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Le due grandi tele raffiguranti Mosè che mostra le tavole della Legge e il Sacrificio d’Isacco si trovano tuttora nella cattedrale livornese (RENZONI 2007 a, pp. 86-8).

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Per quanto manchino studi specialistici in proposito, secondo la storiografia più recente sembra che l’introduzione a Pisa del culto del Sacro Cuore risalisse al 15 ottobre 1789 – ad un’epoca dunque piuttosto tarda, e nel cuore della polemica antigiansenista -, per merito di un prete cileno, tale don Pietro de Vargas, che ne avrebbe donato una copia di un indecifrato allievo del Batoni alla chiesa di S. Eufrasia (PUTTINI 1996, pp. 64-5: il dipinto si troverebbe ora nella chiesa di S. Torpé).

7

Sui contrasti tra Franceschi e Baldovinetti sullo sfondo delle vicende del giansenismo toscano v. GREMIGNI 1995;

SANI 2009.

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stava in quegli stessi anni procurando dal Nordeuropea proprio grazie alla collaborazione del Preposto, e che il prelato pistoiese pensava di diffondere ai parroci della propria diocesi

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. Sulle pareti della villa di Igno, la residenza estiva del Vescovo, in quello stesso 1783 il Ricci aveva fatto affrescare scene non proprio indimenticabili dal punto di vista qualitativo, ma che avevano il merito di mostrare in modo esplicito – quasi oltraggioso – l’opposizione alla devozione del Sacro Cuore, col corredo dei ritratti di coloro che si erano opposti al suo culto

9

: “Una storiografia pittorica ammoniva gli animi sulla imperscrutabilità delle dottrine giansenistiche che traspariva dai volti composti, senza un sorriso, e sfrondati di serenità”

10

.

Ebbene, la sensibile vivacità di Scipione de’ Ricci e del Baldovinetti per i fatti figurativi, l’opposizione alla ridondante pedagogia delle immagini quando rischiavano l’idolatria e la distratta adorazione del Verbo, la concentrazione su una galleria d’immagini capace di costituirsi come probatoria della nuova dottrina e sostitutiva del discorso scritto (a vantaggio di un pubblico che sarebbe stato più facile raggiungere con l’immediata evidenza delle figure), provocò anch’essa una formidabile reazione da parte di Angelo Franceschi.

Nel 1787 l’Arcivescovo pisano commissionò a vari autori – alcuni allievi del Tempesti - l’esecuzione di una galleria di venti ritratti dei pensatori e degli scienziati che avevano segnato nel profondo lo Studio pisano: e furono tele poste nel palazzo arcivescovile, nella sala dei dottorati, laddove sotto lo scranno occupato dallo stesso Franceschi

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venivano consegnati i diplomi di laurea agli studenti

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.

Allo scelto areopago di pensatori Giansenisti proposto dal Baldovinetti e dal de’ Ricci, nel cuore della diocesi corrispondeva con un immediato gioco di specchi l’opposta università dei pensatori                                                                                                                

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Sui ritratti ‘giansenisti’ v. CAZZANIGA 1939, p. 21 (v. anche D’AFFLITTO 1986).

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Sulla villa di Igno ed il suo sorprendente ciclo di pitture, v. MATTEUCCI 1941, pp. 159-62; BRUSCHI 1983 (ma anche D’AFFLITTO 1986; MENOZZI 1986, pp. 323-40).

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MATTEUCCI 1941, pp. 158-59.

11

Il Vescovo ricopriva infatti anche la carica di Gran Cancelliere dello Studio pisano, e a lui comportava il compito di consegnare i diplomi di laurea.

12

DOLFI 2000, pp. 105-6. Autori dei ritratti furono Vincenzo Giuria, Giovanni Stella – allievi del Tempesti -, Nicola

Matraini e Angelo Battista Ricci. Quest’ultimo era un importante ritrattista aretino, che evidentemente il Franceschi

aveva conosciuto quando era stato a capo della diocesi di Arezzo, e a cui l’Arcivescovo commissionò anche un dipinto

con la Nascita della Vergine per la chiesa di S. Anna a Livorno (ANDANTI 1988, p. 284), e che impiegò anche nel

restauro di due tele con la Decollazione del Battista e la Guarigione di Tobia nella chiesa di S. Piero a Grado (AAP,

Mensa, E/U 64, c. 488, 6.10.1787). Allo scopo di renderli solenni, i ritratti furono dotati di ricche cornici dorate e,

soprattutto, di cartelle intagliate con i nomi dei personaggi (AAP, Mensa, E/U 65, c. 233, 28.1.1790; c. 275, 23.4.1791).

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cattolici, in un contrapposto che finiva col ribadire la necessità di rispondere sul piano eidetico alle aporie ricciane, riconoscendo così alle immagini una funzione didascalica e un contenuto morale di grande valore esortativo

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.

2- La circostanza è segna di nota perché suggerisce come l’attività pisana di Giovanni Battista a partire almeno dagli anni Ottanta dovesse confrontarsi con una cultura e una pastorale che riannettevano straordinaria importanza alle immagini, come fonte di sapere e di saggia custodia dei sentimenti, con un intreccio che, considerati gli interessi culturali dell’Arcivescovo, concertavano la mozione apologetica con la sensibilità artistica in senso stretto.

Uno dei punti fondamentali della posizione di Scipione de’ Ricci sulle arti figurative era del resto costituito dalla riduzione delle immagini poste sugli altari laterali, che spesso inducevano il popolo ad una venerazione eccessiva dei santi protettori della comunità – lì posti per l’appunto in effigie -, ben più di quanto non si facesse per l’adorazione eucaristica. Santi protettori che nell’austera religiosità del Vescovo diventavano dei veri e propri deus loci, che dirottavano e riducevano la venerazione divina, favorendo riti e pratiche religiose festive che ricordavano comportamenti pagani

14

.

Questo spiegò evidentemente i provvedimenti presi dal Franceschi nella campagna pisana contro i canti del maggio, di cui volle impedire gli abusi e limitare il coinvolgimento della popolazione nelle feste per il calendimaggio, dove come per inerzia si favoriva una pericolosa prossimità, anche fisica, della festa pagana con le immagini religiose

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. Ma la polemica ricciana stette alla base anche di un’altra circostanza. La dichiarata avversione per i culti locali entrava di fatto in collisione con l’opera di celebrazione di quei culti che da tempo stava avvenendo nella cattedrale pisana, il cui interno, scandito da altari ornati dalle ispirate imprese dei santi e beati locali, sembrava strutturarsi sempre di più come un luogo opposto alla predicazione ricciana. Il rovello ascetico, l’ansia mistica                                                                                                                

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D’AFFLITTO 1986. Sulle influenze gianseniste nello Studio pisano v. anche PAOLI 2000, pp. 448-57.

14

Per un panorama dei comportamenti spirituali settecenteschi, con interessanti riferimenti alle pratiche di culto, v.

ZOVATTO – CARGNONI 2002, pp. 445-64.

15

GRECO 1994, pp. 460-62: il Franceschi “mantenne costantemente un atteggiamento di vigilanza nei confronti delle

confraternite anche sul piano disciplinare, nel timore che nel loro seno si riproducessero i germi di quella socievolezza

conviviale e festaiola, contro la quale per secoli inutilmente si erano appuntate le armi spirituali degli uomini della

Quaresima”. In modo particolare si preoccupò di non mescolare le immagini sacre con quelle feste (“baccanali”) che

tenevano più della feria laica che non della celebrazione religiosa.

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del Ricci si erano infatti esplicitamente orientati verso una rappresentazione del fatto miracoloso accostante e domestico, che favorisse l’identificazione del fedele in una narrazione per niente eroica ma ‘accessibile’. L’opposto delle grandi macchine narrative della Primaziale pisana dove, nonostante l’agiografia si dispiegasse nel rispetto dei Bollandisti, la rappresentazione dei santi e beati era talmente scenografica e clamorosa, da orientare il fedele verso la richiesta dell’intercessione miracolosa più che verso l’identificazione e l’imitazione del percorso di santità

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. L’azione del Franceschi sul piano dottrinale e della riorganizzazione della vita della comunità che era stato chiamato a governare fu dunque costretta a fare i conti con un pensiero che sollecitò nel prelato un intervento assai cauto (sullo sfondo di quelle vicende c’era pur sempre Pietro Leopoldo), ma in qualche modo ancipite, perché diretto a confrontarsi con l’osservanza dell’ortodossia delle norme ecclesiali e liturgiche (riorganizzazione delle parrocchie, istituzione di un Seminario …), ma anche su quello dei costumi e delle abitudini della pietà, dove le immagini recitavano un ruolo decisivo.

Qui, in questo intervento sull’adeguamento delle arti figurative al nuovo clima percorso dai contrasti religiosi di fine secolo, l’Arcivescovo Franceschi trovò nel Tempesti un riferimento costante e sicuro, un interprete capace di ben illustrare il senso di un’azione che fu pastorale non meno che attenta alla revisione della prassi della pietà quotidiana affidata alle immagini. E la collaborazione finì con lo svilupparsi su binari distinti ma vicini, arricchiti da qualche indizio che fanno pensare ad una forma di affettuosa riconoscenza spesa dal prelato nei confronti del pittore

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.

3- In anni che sarà conveniente situare all’inizio degli Ottanta (agli esordi dunque del governo di Angelo sulla Chiesa pisana), il Nostro aveva affrescato assieme al Tarocchi il palazzo della famiglia                                                                                                                

16

Sulla distinzione praticata dai Giansenisti nel “vedere nei santi anzitutto modelli da imitare e poi anche santi intercessori” (che già era stata di Muratori), con importanti considerazioni sull’atteggiamento dei Giansenisti verso le immagini dei santi, v. STELLA 1980.

17

Giova segnalare come nel 1790 sia documentato un contributo dal Franceschi al Tempesti al fine di consentirgli di pagare i contributi annui per l’iscrizione all’Arcadia (DOLFI 2000, p. 116). Era probabilmente il segno di una stima che esorbitava la ristretta sfera professionale. Allo scopo di ribadire la qualità di un contatto che fu costante e profondo, occorre segnalare come Tempesti assieme a Pasquale Cioffo avesse affrescato la cappella Franceschi nella pieve di S.

Lucia di Montecastello presso Pontedera, dove tra l’altro lasciò anche una tela raffigurante La Vergine, S. Sebastiano e

S. Ranieri: MARIANINI 2007, p. 29 (la chiesa è andata completamente distrutta nell’ultimo conflitto, e delle opere

segnalate non sembra restare più niente).

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Franceschi sul lungarno: splendide quadrature, intrigate prospettive d’angolo, e una ridda di moltiplicate illusioni spaziali da togliere il fiato, arricchite da inserti di figura. Tra questi, oltre al raffinato Tempo che scopre la Verità (fig. 143 B) (probabilmente a commento di una vicenda di famiglia, ma che piacerebbe tanto poterlo pensare come indirizzato alle controversie religiose), trovava posto un Gesù Bambino con i simboli della Passione

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(fig. 143 A), che costituiva un riflesso di fatti di grande attualità. Quella franca esibizione dei simboli evidenti della Passione divina, apparivano come una risposta alla polemica giansenista sulla Via Crucis, a quel Giuseppe Maria Pujati, monaco benedettino, che nel 1782 aveva pubblicato a Firenze un libretto – dedicandolo a Scipione de’ Ricci - contro l’esibita pregnanza delle ferite e del doloroso congedo di Cristo, che aveva provocato non poche polemiche e una interessante controversia che conobbe l’onore delle stampe

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. Eravamo nel vivo delle polemiche religiose toscane.

Negli stessi anni, o in quelli appena successivi, tra 1782 e 1783, Giovanni Battista assunse l’incarico di affrescare alcune sale della residenza arcivescovile, che Angelo Franceschi stava per l’appunto trasformando in modo profondo. I lavori di ristrutturazione dell’edificio, che pure non era così malmesso se è vero che vi avevano appena lavorato i Melani e lo Zocchi

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, non fu un’operazione asettica e rispondente ad una logica albertiana esaltante la sola venustas architettonica. La vasta ristrutturazione della sede vescovile mirava a riassegnare alla mansione pastorale una funzione e una visibilità che faceva velo ad un rilancio del ruolo della carica ecclesiastica. In opposizione alla politica pietroleopoldina che voleva la chiesa sottoposta all’autorità granducale, il Franceschi, che fu assertore dell’autonomia della propria carica dal potere politico rifiutando di essere eterodiretto nel nome del buongoverno (peggio se venato da motivazioni illuministiche e gianseniste)

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, il Franceschi vide nel rilancio della propria sede, intesa anche come luogo fisico, un necessario correlato della propria autonomia, Principe tra i principi.

                                                                                                               

18

Su questi v. DA MORRONA 1798, p. 192; FROSINI 1981, p. 157; RASARIO 1990, p. 176. In una descrizione di primo Ottocento del palazzo si ricava che al primo piano vi era “una sala ben grande e corrispondente sul lung’Arno, con ringhiera di macigno sulla facciata, pitturata a prospettiva ed architettura dagli estinti Tarocchi e Tempesti”

(ZAPPELLI 2007, p. 109). Di recente la critica ha individuato in queste composizioni la ricorrente insorgenza di ricordi genovesi, mentre più vaga, e direi di routine, è una presunta tangenza con motivi stilistici francesi (CIAMPOLINI 1993, p. 179 n.).

19

PUJATI 1782 (sulle polemiche, sorte immediatamente cfr. Esame 1782).

20

Sui Melani v. qui cap. 2. Per la stanza affrescata da Giuseppe Zocchi nel 1751, TOSI 1997, pp. 125-36.

21

DASTOLI 1977-1978, pp. 20-3.

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In questa sede Tempesti realizzò numerose imprese. La prima fu nel 1782 la decorazione della cappella privata del Franceschi, nella cui volta dipinse un cielo delimitato da una cornice mistilinea – l’ultima dipinta dal Tarocchi prima della sua morte -, e una scena al centro raffigurante S. Ranieri invoca su Pisa la protezione della Vergine

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(fig. 128 A). Dal punto di vista del contenuto, l’affresco rientrava nella gora dell’esaltazione dell’identità religiosa cittadina, sottolineata anche dalla presenza in primissimo piano della bandiera pisana e dai simboli più immediati della propria antica potestà marinara. Ma giova ricordare che la diretta rappresentazione della città avveniva anche per mezzo del recupero di una sua allegoria ormai desueta, ma che si era ben sviluppata tra Cinque e Seicento, nel pieno del governo mediceo: l’immagine di Pisa come una donna che allatta i propri figli, dunque come Charitas. Non vi è dubbio che l’esaltazione di S. Ranieri e la sua funzione protettrice sulla città altrimenti umiliata, assumevano una funzione non solo religiosa, ma politica.

L’autonomia della storia della città e la sua ricchezza culturale s’identificavano nella sua tradizione religiosa e nel rispetto di questa. Dal punto di vista compositivo mai come in questo caso Tempesti, rifacendosi all’affresco dei Melani in palazzo Gambacorti raffigurante l’Allegoria di Pisa

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, ribadiva un processo d’immedesimazione in una lingua pittorica peculiare: Pisana, ed appartenente alla cultura e alla fede dei Pisani. E se nel vasto affresco dei Melani la figura femminile di Pisa incarnava l’immagine della Vergine (dunque sposa di quel Cristo incombente sul cielo basso e gremito), qui, nel Tempesti, il Bambino e la Madre venivano per l’appunto trasfigurati in una Virtù, dunque in un traslato che fa cara la città a Dio e felice per gli uomini

24

.

L’esuberanza dei contenuti andò di pari passo ad un riallineamento stilistico. In questo affresco infatti Giovanni Battista sanzionò l’altezza del discorso usando una lingua altrettanto rarefatta. La Vergine ad esempio, risolta in una fisionomia purissima e quasi ascetica e priva delle grazie di altre occasioni tempestiane, articolata nel cerchio perfetto ed immoto di un classicismo neomarattesco,                                                                                                                

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Pagamenti al Tempesti per la volta della cappella e per “due statue dipinte nella nuova cappellina del palazzo” sono registrati dal maggio all’ottobre del 1782, quando venne pagato anche il Tarocchi per “pitture d’architettura” (AAP, Mensa, E/U 64, c. 282, 18.5.1782; c. 288, 9.81782; c. 299, 31.10.1782; v. anche DA MORRONA 1793, III, p. 351;

DOLFI 2000, p. 116; RASARIO 1990, passim). Sulle decorazioni della cappella v. ora NOFERI 2011, pp. 123-59. I due santi monocromi che si fronteggiano lungo le pareti laterali, realizzati su cartoni composti dal Tempesti, raffigurano S. Pietro e un Santo Vescovo (figg. 128 B-C), finora non identificato. La presenza però ai piedi del santo del calice eucaristico, consente di identificarlo in S. Donato, patrono di Arezzo, la prima sede vescovile del Franceschi.

23

FROSINI 1981, p. 156 (che vi notava anche delle influenze dandiniane).

24

Di passaggio va detto come il Bambino che compare a fianco della Vergine e di fronte a S. Ranieri sia pressoché

identico al coevo Gesù Bambino con i simboli della Passione di palazzo Franceschi, a ulteriore testimonianza del vasto

e ripetuto utilizzo degli stessi cartoni.

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ma con un ipercorrettismo che sfidava le cose del Guercino

25

, e che si ritrova nelle due belle figure monocrome lungo le pareti (S. Pietro e S. Donato) (figg. 128 B-C), di una plasticità così assidua e solenne da rammentare le statue di Innocenzo Spinazzi.

L’anno dopo, nel 1783, Tempesti venne pagato per aver eseguito alcune decorazioni nella Sala delle Udienze dello stesso palazzo, di tono minore ma ugualmente significative. Esse sulle pareti laterali si articolarono in un medaglione raffigurante il Papa regnante, Pio VI, sovrastante un grande riquadro monocromo con S. Paolo che brucia i libri eretici in Efeso

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(fig. 129 B). L’attualità dell’azione di S. Paolo non poteva che giustificarsi proprio di fronte all’urgenza storica del momento, alla necessità di porre un argine alla rinnovata eresia giansenistica, e fu anche questo un modo per sottolineare nell’icastica ed espressiva risorsa narrativa, un contenuto di fede legato all’attualità.

Nella volta dominata dalla Fede

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(fig. 129 A), la necessità di sottoporre la scena raffigurata ad una tensione pedagogica costrinse l’artista a sgretolare il racconto in episodi, non sempre di felice e immediata comprensione. Eppure in una pagina dominata da qualche difficoltà sintattica (probabilmente anche a causa dell’intervento di allievi), Giovanni Battista concepì una grande macchina narrativa, che, sebbene talvolta fondata sul recupero di s frasi già dette (v. i putti volanti, le figure accasciate, gli scorci dei nudi), fu legata da un linguaggio che non disdegnava il confronto con Pier Dandini (specie nella natura precipite delle figure), segnato da una ricchezza cromatica cangiante e persuasiva, che ancora rimandava – specie nei rossi accesi - alla pittura genovese di primo Settecento. Anche se quel cielo grande e segnato da gruppi di figure affannate e dinamiche, riecheggiando la distribuzione degli spazi della cupola fiorentina di S. Frediano al Cestello del                                                                                                                

25

Del resto un disegno del Tempesti conservato al Louvre e raffigurante un Ritratto di giovane donna – noto anche come Donna a mezzo busto di profilo. Studio di costume (fig. 156) è stato interpretato come un esemplare che “riflette moduli guercineschi così ampiamente diffusi nel mercato calcografico”: TONGIORGI TOMASI – TOSI 1990, pp. 311, 328 n.

26

Nel maggio del 1783 si paga Tempesti “per un ovatino rappresentante il Sommo Pontefice, e un basso rilievo a chiaro scuro rappresentante S. Paolo fatto sopra il caminetto della stanza dell’Udienza” del vescovo nel suo palazzo (AAP, Mensa, E/U 64, c. 318, 19.5.1783). Per Baldassare Benvenuti nel palazzo arcivescovile Tempesti fece “uno sfondo nella gran Sala, con virtù sacre allegoriche, e sul caminetto a chiaro scuro altro bel dipinto, ed altri piccoli sfondi”

(CIAMPOLINI 1993, p. 167: B. Benvenuti, Biografia del Tempesti; v. anche DOLFI 2000, pp. 116-17).

27

I pagamenti al Tempesti per la sala dell’Udienza si registrano nel 1783 (e nel marzo si pagano anche gli eredi del

Tarocchi, “ora defonto”, per aver dipinto le quadrature): AAP, Mensa, E/U 64, c. 309, 17.1.1783; c. 313, 10.3.1783.

(10)

 

Gabbiani (ma perfino il vuoto gremito del Volterrano nella SS. Annunziata), ci rammenta come Giovanni Battista non dimenticasse mai la propria radice toscana, che oggi sappiamo sostenuta da appositi viaggi di studio e di aggiornamento svolti nella capitale del Granducato

28

.

La scena è stata interpretata come La Fede con la Mansuetudine che allontana Minerva e precipita la Vanità e l’Invidia

29

, ma forse la figura di Minerva, inginocchiata al centro, non viene allontanata, ma dipinta come sottoposta alla Mansuetudine. Una Minerva che riceve il cuore ardente della Carità, a testimoniare come la prima senza la seconda rischi il vuoto esercizio letterario, la sterile pratica accademica. Purtroppo, non esistendo studi recenti sulla pastorale e sull’omeletica dell’Arcivescovo, è difficile legare il senso della grande macchina tempestiana a una precisa mozione culturale. L’azione svolta dal Franceschi nella diocesi sul terreno della riforma delle pratiche devozionali può tuttavia spiegare qualcosa, a partire dall’estesa e profonda ristrutturazione del patrimonio edilizio ecclesiastico, che si concretizzò innanzi tutto nella fondazione di numerose chiese

30

. Per finire poi all’edificazione – iniziata nel 1784 – del nuovo Seminario arcivescovile di S. Caterina, che rientrava nella più vasta azione – che fu anche del Granduca – di riorganizzazione del clero regolare toscano, mediante l’erezione di una vera accademia ecclesiastica utile per la formazione culturale e il tirocinio dei sacerdoti

31

. Quanto basta per pensare che quella Minerva che nell’affresco tempestiano concordato col Franceschi per il proprio palazzo vescovile appariva come sottoposta alla Carità, alla Fede e alla Mansueta accettazione delle regole, non dovesse apparire come una bizzarra esibizione culturale, ma come la parte viva ed esibita di un vero programma di governo.

Che questa riflessione sui rapporti tra Fede ed emancipazione culturale non fosse legata al caso, ma il risultato semmai in una calibrata strategia di Angelo Franceschi, lo dimostrano altri fatti pittorici                                                                                                                

28

Il 7.10.1779 ad esempio Giovanni Battista visitò gli Uffizi, e la data è appena precedente gli episodi di cui nel testo (v. FLORIDIA 2007, nell’allegato elettronico alla data segnalata).

29

Per l’identificazione del soggetto v. FROSINI 1981, p. 156; CIAMPOLINI 1993, p. 180 n. (cui si rimanda anche per gli altri affreschi tempestiani del palazzo).

30

Le chiese che vennero costruite o radicalmente ristrutturare nel periodo in cui la diocesi fu diretta dal Franceschi furono tantissime. La tipologia adottata fu quasi sempre la stessa e cioè improntata alla massima sobrietà: aula unica (talvolta con un brevissimo transetto), pareti semplicemente intonacate e scandite da rari stucchi, pochissimi e semplici altari laterali, altar maggiore alla romana. Questa semplicità fu certamente il risultato dell’adeguamento alle direttive pietroleopoldine in materia di commissioni artistiche, particolarmente attente agli sprechi e alle eccessive decorazioni non solo per una perfino banale esigenza di risparmio (assai cara all’illuminato sovrano), ma anche perché in esse si rispecchiava quell’esigenza di rigore morale frutto delle posizioni gianseniste in materia di architettura religiosa.

31

FABBRI 2007.

(11)

 

di quei fitti anni Ottanta. Nel 1784 su incarico del professore Cesare Malanima, Tempesti dipinse un affresco nella cappella del palazzo della Sapienza, raffigurante la Madonna col Bambino

32

(fig.

140), oggi purtroppo perduto e documentato solo da una fotografia. Malanima era Rettore del Collegio della Sapienza, Bibliotecario, docente di lingue orientali e legatissimo al Collegio arcivescovile di cui Franceschi stava riprogettando ruolo e funzione. Era un affresco di notevole qualità, dove la torsione della Vergine nel sostenere il Figlio accusava una qualche riflessione sul linguaggio pittorico cinquecentesco, ma il tutto giocato su di un tono medio che si apriva a esiti di pacato classicismo.

Il dipinto è stato giustamente considerato

33

come stilisticamente contiguo ad uno dei capolavori del Tempesti di appena un paio d’anni successivo: la Divina Sapienza che illumina Pisa, affrescata nella ricordata “stanza dei dottorati” della residenza arcivescovile (fig. 153 A). Anzi, ne fu in qualche modo la prova generale.

L’affresco nel palazzo Arcivescovile, pur segnato da una densità semantica che risentiva del concettismo seicentesco, ribadiva con sufficiente evidenza come la Vergine fosse l’autentica Sedes Sapientiae, che si faceva tramite tra Dio e gli uomini per la diffusione di un Sapere che, sceso sull’allegorica precisazione di una Pisa vista ancora come Carità, diventava mozione emotiva e dono di se stessi

34

. In quella stanza dove gli studenti prendevano dalle mani dell’Arcivescovo il diploma dottorale che ne garantiva l’esito degli studi, su una di quelle pareti coperte dai ritratti di pensatori cattolici dello Studio pisano (e sotto una volta dominata al centro dallo stemma Franceschi trascinato in cielo dagli angeli

35

), l’affresco ricordava come la giustificazione ultima del Sapere                                                                                                                

32

La datazione del 1784 proposta dalla critica più recente (FROSINI 1981, p. 158 e n.), solo apparentemente contrasta con l’indicazione del 1782 dichiarata dal Da Morrona, che verosimilmente si riferiva all’anno di edificazione della cappella destinata a contenere il dipinto (DA MORRONA 1793, III, p. 373; ID., 1816, p. 172). L’affresco è andato completamente distrutto nel 1907, durante i lavori di ristrutturazione del palazzo della Sapienza: strappato dalla parete, cadde rovinosamente a terra nel tentativo di trasportarlo nel Museo Civico (LOMBARDO 1943, p. 66).

33

TONGIORGI – TOSI 2004, p. 16.

34

L’affresco venne liquidato nell’ottobre del 1786 (AAP, Mensa, E/U 64, c. 449, 30.10.1786; cfr. anche DOLFI 2000, pp. 104-105). Già Da Morrona aveva apprezzato il “tinto armonico e pastoso” del dipinto, ma soprattutto “le figure tutte con buona iconologia espresse”, segno che l’urgenza comunicativa veniva percepita come decisiva (DA MORRONA 1793, III, p. 351). V. anche DA MORRONA 1816, p. 203, dove lo storiografo giudicava il dipinto come uno dei capolavori del Tempesti.

35

L’affresco con l’Arme Franceschi venne dipinto al centro della volta da Giovanni Stella, allievo del Tempesti, nel

1786 (DOLFI 2000, pp. 104-105). Sulle influenze esercitate dal Franceschi sull’affresco v. FROSINI 1981, p. 159 (ma

(12)

 

fosse Dio, e come non vi fosse conoscenza se non congruente a quella Bibbia, posta con plastica evidenza dalla Vergine all’adorazione dei fedeli. Una Madonna tra l’altro di notevole e ben fatta dolcezza, segnata da un volto che evocava la sovrumana perfezione delle Madonne del Sassoferrato, ma con una strategia compositiva generale fatta di contrapposti e di corrispondenze, che sembravano riallacciarsi alla lezione di Mengs

36

, ma a cui non era estranea nemmeno l’ispirazione tratta dalla scultura: l’Angelo in volo recante la lente (l’evocazione del mistero eucaristico), che ricorda i voli degli angeli del Bernini.

Mossa da una analoga determinazione pedagogica fu un’altra importante e vasta tela inaugurata nel 1786 nella chiesa domenicana di S. Caterina a Pisa, raffigurante Pio V che istituisce il Rosario (fig.

136). L’opera è stata censurata dalla critica più recente, che vi ha letto un tono “scostante” e ostico

37

, quelle stesse perplessità che probabilmente fecero già moderare gli elogi a Baldassare Benvenuti, quando ne parlò come di un quadro “studiato”, nel senso di artificioso

38

.

La tela è in effetti piuttosto macchinosa e come spezzata in episodi che esitano nella ricerca di una loro unità, circostanza almeno parzialmente giustificata dalla sua lenta gestazione: perché se essa, già conclusa nel 1783, venne posta sull’altare della Congregazione del SS. Rosario solo dopo tre anni

39

, il lungo periodo d’incubazione si giustificò probabilmente proprio con ripensamenti e

                                                                                                               

v. anche CIARDI 1990 c, p. 136, che ha suggerito di vedere nella struttura della scena una rielaborazione dell’antiporta dell’Encyclopédie, che rinforzerebbe il senso della sottomissione della cultura all’ispirazione divina).

36

Sul classicismo espresso qui dal Tempesti v. CIAMPOLINI 1993, pp. 180-81 n.

37

Secondo Frosini la tela, ritenuta affine a quella analoga con i Santi Pio V e Rosa da Lima di Felice Torelli per S.

Giovanni in Monte a Bologna, era un “Lavoro di non particolari pregi, se non in qualche frammento come nella figura allegorica dell’eresia abbattuta” (FROSINI 1981, p. 159). Secondo Ciardi il “Dipinto scostante […] denuncia la difficoltà del Tempesti […] di organizzare la pala d’altare secondo gli schemi tradizionali”, “collage di motivi d’uso”, che l’artista non riuscì ad amalgamare “in una dimensione unitaria” (CIARDI 1990 c, pp. 132-36, 147 n.).

38

CIAMPOLINI 1993, p. 167: B. Benvenuti, Biografia del Tempesti. Cfr. anche DA MORRONA 1793, III, pp. 113-14;

DA MORRONA 1816, p. 142.

39

Nel dicembre del 1783 Tempesti venne pagato “per il nuovo quadro rappresentante la Madonna del Rosario con altri santi da porsi all’altare di d.o titolo in nostra chiesa in luogo di quello che rimase incendiato il 31 luglio 1781” (dove si specificava che il dipinto, inizialmente a carico della Congregazione del Rosario, soppressa questa nel 1782 “restò il quadro a carico del convento”): AAP, S. Caterina, Entrata/Uscita, C. 258, 26.12.1783 (anche BIANCHI 2001-2002, p.

24). Esso fu però posto sull’altare solo nel 1786: CORALLINI s. d., p. 22.

(13)

 

diatribe, pentimenti e indecisioni, di cui si è perso il contenuto e che non giovarono al risultato finale.

Nella tela il Nostro forzò il tono didascalico e simbolico, con un risultato che stilisticamente parve immedesimarsi nel periodo storico dell’episodio narrato: perché quel Papa posto in primo piano sotto la Vergine, e l’Eresia disperata (peraltro splendida: il più bello degli episodi del dipinto)

40

, e S.

Domenico nell’atto di ricevere il Rosario, sembrano singoli brani di un dipinto controriformato (suggeriti anche dalla cupa gravezza del tono medio dell’opera), pur temperati da un evidente richiamo al classicismo romano postmarattesco: al Chiari, forse, ad Agostino Masucci di sicuro, specie nella Vergine, così vicina a quella della Madonna con i sette santi fondatori dei servi di Maria di S. Marcello al Corso a Roma.

Una pagina pur così faticosamente narrata, trovava qualche nesso col suo tempo. Pio V viene visto nell’atto di esibire quel Rosario di cui egli con la Bolla Consueverunt romani Pontifices istituì la ricorrenza nel 1569. La festa del Rosario fu ben presto però trasformata da Gregorio XIII nella celebrazione della vittoria di Lepanto, suggerendo così un accostamento – anzi: una identificazione – tra devozione del Rosario e lotta all’eresia e all’infedele che si prestava all’ostensione figurativa e alla sottolineatura parenetica. Circostanze interpretative queste, che rendono impossibile giudicare come casuale la pubblicazione del dipinto nel 1786, l’anno del Sinodo di Pistoia.

5- Il ritrovamento in collezione privata di un inedito disegno recto/verso illustrante con qualche variante la medesima e affollata scena, consente qualche precisazione sugli orientamenti maturi del pittore. Non ci sembra che esistano infatti dubbi sul fatto che i due studi rappresentino possibili ma non realizzate versioni di una composizione di vasto respiro, concepite per una tela assai animata e risolta in registri drammaturgici. Così come esistono pochi dubbi sul fatto che quella figura femminile sulla porta di un edificio, ritratta nell’atto di soccorrere personaggi appoggiati al suolo e sofferenti, sia una S. Ubaldesca che guarisce gl’infermi (figg. 150). Questi tirocini grafici saranno allora da mettere in rapporto alla decisione presa nel 1786 dai Deputati ai parati del Duomo di                                                                                                                

40

Nelle collezioni del Louvre esiste un bellissimo disegno preparatorio della figura dell’Eresia (fig. 136.3), che è stato

messo in rapporto all’Allegoria della Fama, Fede e della Pace, dipinta da Francesco Conti nella volta del Casino di

Gualfonda a Firenze (il quale aveva comunque lavorato anche a Pisa): Acquisitions 1990, pp. 94-5; MONBEIG

GOGUEL 2005, p. 396. In collezione privata esistono poi due disegni di studio della composizione generale, con poche

varianti dell’architettura d’insieme rispetto all’esito finale: segno che l’opera fu il risultato di una gestazione lunga e

meditata (figg. 136.1-2).

(14)

 

collocare in Cattedrale un quadro con tale soggetto, poi affidato – grazie anche alla mediazione di Ranieri Tempesti – a Domenico Corvi

41

. I disegni tempestiani a parer nostro potrebbero costituire quello che resta del tentativo operato dal pittore di ottenere per sé la commissione, magari sfruttando la sempre maggiore influenza che il fratello stava assumendo in seno alle cose pisane, grazie anche al ruolo svolto nella Colonia Alfea. Del tentativo, se davvero vi fu, dalle carte ufficiali non emerge nulla, a testimonianza di come non si fosse mai formalizzato in gesti ufficiali, forse perché l’isterica animazione della scena così come era stata concepita da Giovanni Battista mal si conciliava col metro solenne della galleria. Ma se vi fu, riteniamo che non possa essere collocato in un periodo troppo distante dal coinvolgimento del Corvi.

I due, Corvi e Tempesti, si conoscevano del resto dai tempi del pensionato romano di questi (e bene se ne rammenterà il Viterbese, che nel carteggio con Ranieri lo pregherà di ricordarlo al fratello

42

), e l’arrivo a Pisa della grande tela definitiva – che fu messa sull’altare nel 1787, ma che era nota almeno dall’anno prima, grazie all’invio del bozzetto -, dovette comunque funzionare come un vero e proprio choc per Giovanni Battista, chiamato a misurarsi con un nuovo corso dell’arte romana, ad aggiornarsi sulla temperie di un linguaggio affatto imprevedibile.

Il dipinto del Corvi non è uno dei suoi migliori. Esplicitamente centrato sull’approfondimento dei contrasti luminosi, sullo studio – come garantì personalmente al Da Morrona – de “gli effetti del lume di notte”

43

, la grande tela compare oggi come un pozzo nero e indistinguibile, ma al momento della sua pubblicazione non mancò d’interrogare i Pisani sugli orientamenti della pittura romana, preludio a quell’abbandono dei colori pastello ancora Rococò, che invece erano stati a fondo indagati a Pisa, proprio grazie al Tempesti. Era insomma un separazione dalla grande pittura francese alla Natoire, che lasciava il passo a qualcosa di molto diverso e di cui forse si aveva solo un breve presentimento. Due anni prima, a Roma, Jacques-Louis David aveva presentato al pubblico il suo Giuramento degli Orazi, parimenti affogato in una caligine disperata e drammatica, ma segnata da gesti pausati e come scolpiti. Corvi, forse, con la sua teatrale dinamizzazione della

                                                                                                               

41

Sulla commissione del dipinto al Corvi (piuttosto laboriosa sia per la scelta del soggetto che per il riconoscimento del compenso), che probabilmente andò a buon fine proprio grazie alla mediazione di Ranieri Tempesti (altrimenti mai presente nelle commissioni per la cattedrale e che, in effetti, non ebbe alcun ruolo ufficiale nel Negozio dei Parati) e ai buoni uffici vantati dalla famiglia di Giovanni Battista presso il Viterbese: Settecento Pisano 1990, pp. 395-403. Cfr poi Il Duomo di Pisa 1995, I, scheda di A. Ambrosini, pp. 486-87; CURZI 1998, pp. 44-6.

42

Settecento pisano 1990, pp. 396-97 (lettera del Corvi da Roma a Ranieri Tempesti, in data 11 marzo 1786).

43

DA MORRONA 1787, I, p. 44.

(15)

 

scena, costituiva una chiave di accesso ancora percorribile per la nuova pittura; di certo, un allarme inaspettato e stringente. Un avvertimento.

L’atteggiamento oppositivo nei confronti delle infusioni cromatiche primo settecentesche, sostenuto a Roma da tutta la nouvelle vague pronta ad avere una propria formalizzazione nell’Accademia dei Pensieri di Felice Giani

44

, non mancò di sollecitare un almeno parziale adeguamento stilistico da parte del Tempesti, come evidenziato da alcune opere da lì a poco composte. Al 1786 è infatti databile la tela con S. Pietro liberato dal carcere

45

(fig. 155), dipinta per l’altare della cappella dei Roncioni nella loro villa di Pugnano

46

. L’opera è per molti aspetti addirittura esemplare del momento di riflessione stilistica del pittore e della sua scelta di misurarsi con le novità del Corvi. Se infatti l’angelo è ancora solidamente ancorato alla scrittura consueta di Giovanni Battista, con eleganze di gesti e un timbro slavato e febbrile, l’insieme della scena è concepita con una contrastata resa cromatica, con la luce divina in disaccordo col buio intorno, e il bellissimo riflesso sullo sgherro accoccolato in primo piano, una lontana rievocazione raffaellesca. Una schermaglia profonda tra luci e ombre da sfidare il virtuosismo, sottolineato dall’espediente del grande anello in primo piano sulla destra, a segnalare come si trattasse di una porta aperta: un’epifania dunque, al di là della cortina.

In un dipinto del genere non vi è dubbio che Corvi fosse stato ben meditato. Fu questa una piccola svolta nella biografia artistica del Tempesti, che marcava un aggiornamento che traeva motivo dalla necessità di confrontarsi con le novità non toscane, che godevano dello straordinario viatico dei quadroni del Duomo. Una nuova attitudine in realtà, più che una svolta, misurata da una serie di telette di carattere allegorico di buona tenuta qualitativa ma di misteriosa destinazione e committenza (ma tra quelle forse facenti parte della riserva di bottega del pittore, buone per

                                                                                                               

44

Sulla cosiddetta Accademia dei Pensieri - non un luogo accademico vero e proprio, ma un “raduno di artisti […] allo scopo di cimentarsi in libera competizione” - , fondata a Roma da Felice Giani e operante nell’ultimo decennio del Settecento circa, cfr. RUDOLPH 1977; L’officina Neoclassica 2009.

45

Sulla tela, ora nella collezione di Palazzo Blu, v. GRASSINI 1838, p. 80; CIAMPOLINI 1993, p. 168: B. Benvenuti, Biografia del Tempesti; MARIANINI 2007, p. 83; Da Cosimo III 1990, pp. 97-8, scheda di R. P. Ciardi; CIARDI 1990 c, p. 137; CAROLLO 2009, p. 88; Palazzo Blu 2010, pp. 143-44, scheda di F. Tognoni.

46

Per il tabernacolo della stessa cappella dei Roncioni a Pugnano, Tempesti eseguì pure un Cristo risorto (ora nella

Collezione della Fondazione Pisa): Da Cosimo III 1990, pp. 111-12 (dove si ricordano altre opere analoghe realizzate

dal Tempesti, in S. Marta e in S. Sisto) (fig. 151).

(16)

 

l’esercizio degli allievi e per mostrar campionario ai clienti)

47

, che incrementarono il profilo di un artista che dovette ponderare sul serio le novità romane del Corvi, i cui chiaroscuri caliginosi e profondi, ma ricchi di contrasti senza riverberi e cangiantismi, mostrano come il buio acre delle tele tarde di Giovanni Battista, come queste appena dette, stilisticamente avessero presenti le novità romane, sebbene la scelta dei soggetti - i putti (figg. 152)-, si allineassero anche ad esempi toscani, come quelli analoghi di Tommaso Gherardini, o nei Baccanali di putti di Giuliano Traballesi.

Nella tela del 1788 sull’altare di S. Ranieri della Certosa di Calci, S. Ranieri in estasi davanti alla Vergine sostenuto da putti

48

(fig. 160), Tempesti ribadì la sua propensione per un confronto col pittore viterbese, perché se pure vi sono singoli argomenti cavati dal repertorio batoniano e mengsiano (lo stesso S. Ranieri ad esempio), arricchiti da quell’orientamento verso le fonti della pittura del primo Cinquecento che mai lo abbandonerà del tutto, l’insieme si dispiega sulla traccia del Vittorio Amedeo che scaccia la peste del Corvi

49

, ma con una accentuazione didascalica (bello l’angelo che sostiene il modellino del Duomo di Pisa) che ne fa di nuovo un’opera non priva di umori ‘controriformati’

50

.

                                                                                                               

47

Si tratta di cinque telette raffiguranti: Allegoria della Notte; Apollo e Diana bambini; Cristo bambino con i simboli della Passione; Il Sonno; La Pace e la Giustizia (figg. 152). Già nella collezione Bonci-Casuccini, per via matrimoniale passarono ai Simoneschi, e da qui alla Fondazione Pisa.

48

MANGHI 1911, p. 184; ID. 1931, p. 126; FROSINI 1981, p. 159; GIUSTI – LAZZARINI 1993, p. 100. Il dipinto sostituì una Maddalena di Bernardino Poccetti, dispersa a seguito delle soppressioni napoleoniche, segno che inizialmente la sua destinazione all’interno della Certosa era altra (ma sconosciuta). Secondo una testimonianza ottocentesca (MARIANINI 2007, p. 40), all’interno della Certosa Tempesti dipinse alcuni affreschi – tra i quali un S.

Sebastiano -; ma si tratta delle decorazioni eseguite nel 1791 da un allievo del maestro, Giovanni Corucci, nella cappella omonima (ASP, Corporazioni Religiose Soppresse 326, 28.11.1791; v. anche LAZZARINI 1990, p. 204;

GIUSTI – LAZZARINI 1993, p. 97).

49

CIARDI 1990 c, p. 137; CIAMPOLINI 1993, p. 182 n.; MARIANINI 2007, p. 40.

50

A proposito degli interventi del Tempesti nella Certosa, di recente Lazzarini ha segnalato che il Priore Maggi

commissionò al pittore diversi “quadri destinati ad alcuni altari delle cappelle” della Certosa, ma senza specificare tale

affermazione, tantomeno col sussidio delle carte d’archivio, che pertanto rimane ancora sospesa. Nella stessa occasione

la studiosa assegnava per via stilistica al pittore i Ritratti di Pietro Leopoldo e della moglie, conservati

nell’appartamento granducale della Certosa, ma l’assegnazione presenta ampi margini d’incertezza (LAZZARINI 2008,

p. 272). Furono infatti acquistati nel 1768 ad un’asta pubblica pisana dall’ex Governatore della Maremma De Corny, e

da questi donati alla Certosa (D’ANIELLO – DIGILIO 2000, pp. 1771-72). Non solo pare difficile immaginare che un

quadro del pisano Tempesti sia stato acquistato ad un’asta pisana – anziché direttamente commissionato -, ma

stilisticamente i due ritratti sono assegnabili ad un pittore fiorentino e non ad uno che, come il Tempesti, in date così

precoci non aveva ancora mostrato interessi specifici per il ritratto e che comunque, nei suoi primi volti conosciuti

(17)

 

Così sarà ad esempio per altre opere d’intonazione religiosa dipinte nel decennio. Il S. Pietro orante nella periferica chiesa di S. Frediano a Settimo

51

(fig. 157), databile ad anni assai prossimi al 1787, che conserva – pur nell’evidenza concreta dei simboli e delle accostanti trascrizioni dalla pagina evangelica – una solennità predicata dal drammatico isolamento del santo, che nell’Ottocento fece ipotizzare una sua frammentaria identità, come reperto di un’opera più grande

52

, perché l’inusitata amplificazione narrativa dell’episodio suggeriva una concentrazione sull’evento affatto inconsueta.

E invece anche questo fu un caso da manuale, perché la scelta stilistica e il taglio dell’immagine non fu il risultato di un accidente, ma di una attenta riflessione sui dibattiti religioso coevi e verosimilmente su indicazioni mutuate dal Franceschi. Perché l’isolato S. Pietro in adorazione di un Dio già trascendente dava un esito figurativo alle serratissime pagine dell’Istoria dell’Eresie di Alfonso Maria de’ Liguori, dove in un testo dedicato al ‘pisano’ Bernardo Tanucci, tra le accuse mosse esplicitamente ai Giansenisti emergeva quella che li riteneva responsabili del tentativo di diminuire la grazia e la maestà di S. Pietro, eguagliandola a quella di S. Paolo, solo perché i due Apostoli venivano dipinti affiancati

53

. Un altro modo dunque per ribadire, nella tragica e isolata esaltazione di S. Pietro, la funzione fondamentale del carisma pontificio e la sua autorità assoluta.

Nel 1789 Giovanni Battista realizzò poi un affresco per l’oratorio dei SS. Vito e Ranieri, caro alle memorie e al culto dei Pisani perché legato per l’appunto alla vita e alla morte del patrono

54

. Il                                                                                                                

(come quello della Contessa Strozzi), mostrava di appoggiarsi alla maniera del fiorentino Domenico Tempesti, non identificabile in questa coppia di ritratti.

51

Sul dipinto v. BARSOTTI 2004, p. 19 (dove attesta che l’opera è firmata in basso a sinistra, probabilmente sotto la cornice). L’esecuzione della tela sarà probabilmente da porre in relazione all’anno – il 1787 – in cui la chiesa subì radicali rifacimenti.

52

Annibale Marianini intorno al 1863 vide infatti in chiesa “Un San Pietro discretamente buono dal lato almeno del colore e del chiaroscuro, sembra porzione di quadro più grande […] dipinto dal Tempesti restaurato da Miniati”

(MARIANINI 2007, p. 84). Il Miniati (o Miniaty, o Mignaty), è da individuare in quel pittore di nome Giorgio, di origine greca, che a lungo operò in Toscana a cavallo dell’Unità come modesto pittore, copista e restauratore.

53

DE LIGUORI 1773, p. 186 (ma cfr, tutto il cap. XII). Del resto l’attualità del prolifico vescovo di S. Agata de’ Goti era accentuata dall’essere egli deceduto, in odore di santità, in quello stesso 1787 della probabile esecuzione del dipinto.

54

L’oratorio, di proprietà della Comunità, venne completamente restaurato negli anni Ottanta del Settecento, fino a

perdere l’aspetto romanico che ancora possedeva. Nell’agosto del 1788, a lavori architettonici pressoché terminati, si

deliberò l’esecuzione dell’affresco affidandolo al Tempesti (ASP, Comune D 170, 9.8.1788, c. 63). Nel febbraio

dell’anno successivo fu approvato il progetto di Pasquale Cioffo per le riquadrature architettoniche. Nel settembre del

1789 Tempesti dichiarava di aver quasi terminato l’affresco.

(18)

 

dipinto, raffigurante il Transito di S. Ranieri, è stato purtroppo distrutto nell’ultima guerra assieme alle quadrature che lo delimitavano, ma ci è noto attraverso il disegno preparatorio e una fedele stampa di traduzione

55

(figg. 161.1-161.2), che sebbene non ci risarciscano dalla grave perdita, riescono almeno a farci intuire i motivi della benevola accoglienza dell’opera da parte dei cittadini, efficacemente coadiuvata da una analoga ricezione degli intendenti

56

.

L’affresco era palesemente ispirato a due tele precedentemente pubblicate dal pittore, raffiguranti altrettanti transiti: quello di Chiara Gambacorti in S. Domenico, e quello di S. Romualdo a Faenza.

Di entrambi i dipinti l’artista riprendeva l’impostazione generale, la regia complessiva, il santo posto in tralice sul pavimento, l’accolta sofferente dei fedeli, il volo degli angeli, l’ostensione di un dolore quasi rustico e immanente, il cui effetto era di nuovo sottolineato da citazioni quotidiane, da frammenti autentici di una realtà vissuta e prensile, di cui s’intuiva il rumore

57

. Altrove le brocche e la pesante grana delle vesti, qui lo splendido espediente del retablo medievale sull’altare dove s’intravede la Madonna e un Santo martire – due ante di un trittico immaginario -, cui il pittore attribuì una funzione autenticante, ma anche l’ufficio di un arredo che diceva tutta la dimestichezza e l’attenzione del pittore per le testimonianze pittoriche medievali (suggerito almeno dal fratello Ranieri, di cui è nota l’attenzione rivolta verso la pittura medievale, che volentieri collezionò

58

).

Pochi anni prima l’esecuzione della scena di S. Ranieri, in un altare della cattedrale era stato alloggiato lo scenografico dipinto di Laurent Pecheux con Il battesimo del figlio di Nazaradeol, re delle Baleari, che l’artista francese aveva ambientato come se l’evento fosse accaduto all’interno dello stesso tempio destinato a contenere il dipinto, con un gesto d’immedesimazione che non                                                                                                                

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Sul disegno, ora nelle collezioni di palazzo Blu, e sulla stampa, incisa da Antonio Poggioli cfr. TONGIORGI TOMASI – TOSI 1990, pp. 320-21; Da Cosimo III 1990, pp. 110-11, scheda di L. Tongiorgi Tomasi, A. Tosi;

CIAMPOLINI 1993, pp. 182-83 n. ; Palazzo Blu 2010, p. 475, scheda di F. Tognoni.

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I giudizi sull’opera furono unanimemente positivi, fino ad essere considerata uno dei capidopera del pittore. Da Morrona ad esempio dichiarava con sicurezza di godere “Rivolgendomi or’ all’amatore delle arti belle”, nel “mostrargli in questa Chiesa [di S. Vito] una delle opere in buon fresco, giustificante il merito per tal genere” del Tempesti, “che per uno de’ suoi capodopera si addita” (DA MORRONA 1816, p. 130). Anche per l’altro allievo biografo del Tempesti, Baldassare Benvenuti, l’affresco “si reputa il suo gran capo d’opera” (CIAMPOLINI 1993, p. 168), sì che nel XIX secolo si ebbe buon gioco nel dichiarare che “secondo li scrittori contemporanei [è] il suo capolavoro” (MARIANINI 2007, p. 70). Cfr. anche POLLONI 1837, p. 88 n.

57

Ma cfr. STELLA 1980, sulle scelte di giustificare l’aura divina e miracolosa dei santi con una scrupolosa e credibile ambientazione, che rendesse ragione della figura anche storica, oltre che mistica, del santo.

58

Qualche riflessione sulla collezione di tavole medievali di Ranieri in BADALASSI 1999, passim.

(19)

 

sfuggì ad un osservatore come il Da Morrona

59

, che di fatto inscrisse la ricerca del Tempesti in un panorama articolato e mosso, che coinvolse le sensibilità di molti: e se il soggetto scelto per il pittore francese fu alla fine quello relativo ad una conversione, in luogo dell’iniziale proposta della Traslazione del cadavere di Eugenio III

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, stentiamo a interpretare il cambiamento come un fatto casuale, perché non erano quelli i tempi del ricordo, ma di una rievocazione religiosa che si faceva testimonianza.

In modo analogo, nella cura posta dal Tempesti nell’ambientare il Transito di S. Ranieri in un contesto storicamente delimitabile, si volle ricordare come l’evento fosse accaduto proprio dentro l’oratorio che quella scena conteneva, come culmine di un processo d’immedesimazione di grande effetto teatrale, diretto ad accentuare il coinvolgimento emotivo e spirituale dei fedeli

61

.

6- In anni di poco successivi alla difficile impresa per S. Vito, Giovanni Battista, riannodando i rapporti con i Curini, compì una delle sue opere più celebrate nella cappella del palazzo di campagna della famiglia, in quel piccolo tempio di Lari che era stato appena edificato dall’ingegnere Bombicci

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. La pala d’altare, tuttora benissimo conservata, raffigura la Maddalena                                                                                                                

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DA MORRONA 1787, I, pp. 147-48; Da Cosimo III 1990, pp. 122-23, scheda di C. M. Sicca. Per una precisazione riassuntiva delle vicende del dipinto, datato 1784 ma posto in Duomo l’anno successivo v. Il Duomo di Pisa 1995, I, pp.

437-38, scheda di A. Ambrosini. Da segnalare che nel 1779 Pecheux aveva firmato la tela con l’Adorazione dei pastori, posta in quella chiesa di S. Marta dove già vi era un quadro del Tempesti (Da Cosimo III 1990, pp. 41-2, scheda di C.

M. Sicca); dal momento che il Francese nel 1777 venne appositamente a Pisa, non è certo da ritenere bizzarra l’ipotesi di una conoscenza diretta dei due pittori, e che dunque certe assonanze legate all’ambientazione dei loro dipinti pisani fosse il frutto di uno scambio d’idee (BOLLEA 1942, pp. 122-25).

60

Sulla iniziale proposta del soggetto v. ASP, Comune D 225, c. 532, Francesco Maria della Seta (e Cosimo Agostini) ai Priori, s. d. (ma maggio-giugno 1777).

61

Che alla base dell’intervento tempestiano vi fosse un progetto teso a sollecitare la pietà, con un gesto intellettuale che ribadiva implicitamente il coinvolgimento del pittore nella politica religiosa del Franceschi, lo dimostra il rifiuto della proposta decorativa avanzata da un giovanissimo Antonio Niccolini (allievo tra l’altro sia del Cioffo che del Tempesti), di cui sopravvive un disegno ben più elegante di quello poi realizzato dal Napoletano, dove però l’intonazione generale era prossima ad un apparato laico che non religioso, da “atrio magnifico” che non per un luogo dedicato alla pietà (RENZONI 1999 a).

62

L’affresco è databile a dopo il 1790, anno di costruzione della cappella, come attestato da una lapide (CIAMPOLINI

1993, p. 182 n.). Più precisamente sembra di poterlo circoscrivere al 1792-94, dal momento che il Mariti, nel suo

sopralluogo del 1795, dichiara la cappella appena decorata: MARITI 2001 a, p. 285. Sul dipinto v. anche CIAMPOLINI

1993, p. 167, B. Benvenuti, Biografia del Tempesti; POLLONI 1837, p. 88 n.; GRASSINI 1838, p. 80; GIULI 1841. La

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