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Capitolo 3 LO SVILUPPO SOSTENIBILE

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Academic year: 2021

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Capitolo 3

LO SVILUPPO SOSTENIBILE

3.1 Introduzione

Dopo aver preso in considerazione nel precedente Capitolo quello che è l’attuale stato della Terra, anche a fronte delle informazioni e riflessioni che ci giungono dalla teoria di Gaia, abbiamo ritenuto opportuno presentare, seppur in forma estremamente sintetica, anche alcune delle premesse storiche ed economiche che hanno portata alla formulazione dello sviluppo sostenibile nelle sue accezioni diverse, così come verrà presentato in questo Capitolo. Questo sempre allo scopo di dare il quadro contestuale significativo, ma anche allo scopo di tener presenti gli strumenti che hanno portato a tale formulazione e che sono stati utilizzati per contestarla, integrarla, rimodellarla.

In questo modo cercheremo di comprendere parte di quanto emerge dal dibattito in corso e di evidenziare alcuni aspetti, onde poterci orientare in ciò che viene proposto come ‘sostenibile’ e così da poter indirizzare lo sguardo, a nostra volta, verso strade e percorsi che possano dirsi, e in quale misura, sostenibili.

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3.2 Il concetto e le teorie dello sviluppo:

premesse storiche ed economiche, una sintesi

L’arco di tempo che principalmente andremo a considerare è quello che va dalla Seconda Guerra Mondiale ai giorni nostri, in considerazione del fatto che è in questo intervallo di tempo che si delineano e diffondono le principali teorie dello sviluppo che sono arrivate fino a noi o che hanno portato il loro significativo influsso sulle odierne; e tenendo presente comunque che “il faro dello sviluppo è stato innalzato subito dopo la Seconda Guerra Mondiale” (Sachs, 2000).

Ripercorrendo brevemente alcuni aspetti particolarmente rilevanti di questo periodo, dovremmo considerare la rinuncia ai loro imperi coloniali da parte di Gran Bretagna, Francia, Olanda etc. (secondo tempi e modalità molto diverse tra loro); a questo fenomeno (protrattosi con qualche eccezione fino alla metà degli anni ’60) si deve aggiungere il momento di grande fermento politico e sociale da parte di molti Paesi del sub-continente latino americano in reazione alla posizione di dipendenza delle loro economie da quelle dei Paesi industrializzati (Russo, 2003).

L’insieme di questi e altri fenomeni sembra aver richiamato l’attenzione istituzioni internazionali, governi, economisti spingendoli da un lato ad individuare le cause della condizione di sottosviluppo in cui si trovavano (e tuttora si trovano) buona parte del mondo (la gran parte di Africa, Asia, America Latina); dall’altro li ha spinti a ricercare ed indicare il percorso da seguire per questi Paesi per uscire da tale condizione

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di arretratezza. Bisogna tenere inoltre conto che molti Paesi “liberatisi dal giogo della colonizzazione” hanno mostrato in questi anni risultati in termini di crescita economica e situazione molto diversi tra loro, evidenziando, tra l’altro, la pur prevedibile necessità di adattare un unico modello alle diverse realtà ed esigenze locali. Inoltre i PVS hanno sperimentato cambiamenti socio-politici di varia natura in conseguenza delle diverse strategie e politiche adottate, su cui di volta in volta avevano esercitato la loro influenza gli orientamenti teorici prevalenti. Va considerato che alcuni indicano che tutte le teorie economiche e di politica economica avrebbero un’unica matrice, quella delle cosiddette società “avanzate”, di origine e cultura europea, o comunque occidentale (da Morasso, 2004).

Il panorama internazionale, poi, è profondamente mutato: il processo di globalizzazione che abbiamo visto in atto a partire dall’ultimo ventennio del secolo scorso soprattutto in conseguenza di innovazioni nella tecnica dei trasporti (diffusione di container e del trasporto intermodale), nel campo delle telecomunicazioni (internet, telefonia cellulare, televisione satellitare), nonché di cambiamenti istituzionali (liberalizzazione progressiva dei mercati delle merci e dei capitali), appare inarrestabile e sempre più pienamente compiuto; ne emerge anche una visione del mondo come un insieme di parti sempre più interconnesse (AA.VV., 2003; Russo, 2003).

Per quanto riguarda il dibattito scientifico, negli ultimi anni si è assistito ad una ripresa dell’ideologia neo-classica liberista cui però fa da contrappunto il pensiero di “nuovi dissidenti” (Stiglitz, 2002) che sostengono con forza l’irrealtà delle ipotesi neoclassiche (contratti completi, perfetta informazione degli agenti economici, mercati concorrenziali) e da ciò traggono la convinzione che sia ancora e più che mai necessaria

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una regolazione da parte dello Stato dell’azione privata. La definizione di una precisa cornice di regole, infatti, che assicuri la tutela della concorrenza, la trasparenza dei bilanci aziendali, l’impedimento dei comportamenti predatori, della speculazione finanziaria selvaggia, di comportamenti di moral hazard in capo agli intermediari finanziari - per fare gli esempi più importanti - contribuirebbe a dare certezze agli imprenditori locali e stranieri ed assicurerebbe stabilità al sentiero di sviluppo e neutralizzazione dei rischi della globalizzazione finanziaria (Russo, 2003).

Vedremo più avanti i sostanziali e interessanti contributi portati nel dibattito scientifico dall’economista Amartya Sen (Sen, 1998, 1999 e 2001) e altri.

Entriamo adesso nel pieno della sintesi di questo periodo dal secondo dopoguerra ad oggi, facendo particolare riferimento al lavoro e all’impostazione di F. Volpi (Volpi, 1999) e alle rielaborazioni e presentazioni dello stesso ad opera di Russo (Russo, 2003) e Morasso (Morasso, 2004).

Ritroveremo perciò una presentazione nella quale non figurano le strategie “radicali” del neo-imperialismo e della dipendenza1, concentrata sulle strategie proposte dai teorici del paradigma della modernizzazione, che anche “nella loro eterogeneità

1 La cui attuazione si è tradotta nel secondo dopoguerra nell’adesione all’impostazione

socialista. Le teorie del neo-imperialismo e della dipendenza sulla natura e l’origine del sottosviluppo sviluppano una forte critica del capitalismo, sostanzialmente affermando che terminato il colonialismo i Paesi imperialisti abbiano continuato ad opprimere le ex-colonie, sotto nuove forme. In quest’ottica, il superamento del sistema capitalistico e/o la separazione dal mercato mondiale sono considerati l’unica strada per il superamento della condizione periferica e la realizzazione di cambiamenti strutturali per questi Paesi. Tuttavia il “modello socialista” non ha rappresentato una soluzione soddisfacente al problema del sottosviluppo, con una esperienza storica che si è mostrata fallimentare. In tali Paesi si assiste negli ultimi anni ad una transizione di mercato accompagnata dall’introduzione sempre più massiccia dei meccanismi del mercato occidentale (Russo, 2003).

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hanno in comune il presupporre la permanenza del sistema capitalistico mondiale e quindi l’integrazione al suo interno dei Paesi periferici” (Russo, 2003).

3.2.1 Il dopoguerra sino agli anni ‘60

È in questo periodo che si attua la decolonizzazione e che nasce e prende campo l’economia dello sviluppo, con una tendenziale uniformità negli orientamenti delle strategie di sviluppo nei diversi Paesi (Morasso, 2004).

Si trova in questa fase l’idea fondamentale che il sottosviluppo sia determinato, definito essenzialmente in termini di scarsa accumulazione di capitale e di inefficiente impiego delle risorse produttive, individuati nell’esistenza di bassi redditi e bassi risparmi, carenza di strutture e capacità industriali e nel forte squilibrio fra esportazioni di beni primari e importazione di manufatti. Questo delineerebbe un circolo vizioso del sottosviluppo, che nell’interpretazione dominante verrebbe ad interrompersi solo innalzando il tasso di accumulazione di capitale e accelerando la crescita del settore industriale. Difatti, lo sviluppo è visto come modernizzazione, coincidente con un’accelerata industrializzazione e con la realizzazione di opere pubbliche.

Il modello sottostante a questa visione è l’economia della crescita, che nell’impostazione di Harrod-Domar indica il tasso di crescita di un Paese come dipendente dalla propensione al risparmio, che andrà a finanziare investimenti, e dal rapporto capitale/prodotto. È questo un modello di crescita formulato su presupposti

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keynesiani1 ed in relazione alle problematiche dei Paesi occidentali; esso poteva essere riformulato come programma di sviluppo per aree arretrate assumendo il valore desiderato di crescita come obiettivo da raggiungere in presenza di determinati stock di capitale immessi dall’esterno. Obiettivo primario e metro di valutazione dei risultati è il prodotto nazionale (PNL)2. Numerosi sono gli economisti dello sviluppo che con sfumature diverse sono orientati verso l’accumulazione di capitale fisso industriale e sociale.

3.2.1.1

Il paradigma della modernizzazione

È da riferirsi agli anni ’50 e ’60 la genesi e lo sviluppo di questa che non è una teoria unitaria, ma che si compone di diversi filoni, riconducibili ad elementi comuni: l’idea fondamentale è che lo sviluppo coincida con la modernizzazione, intesa come convergenza verso quei tipi di sistemi sociali, politici ed economici che si sono

1 Nella visione keynesiana il mercato finanziario avrebbe effetti positivi sullo sviluppo e

sull’investimento solo perché rende quest’ultimo più liquido (attenuando il timore dell’irreversibilità dell’investimento). Il problema sorge allorché si verifica un’ondata di pessimismo che dai mercati e le borse raggiunge il sistema produttivo intrappolandolo in lunghe e costose fasi di recessione, poiché, in queste fasi, la liquidità promessa si manifesta come illusoria perché volendo disinvestire pochi ci riescono. La quantità di moneta, infatti, non basterà per assecondare tutte le richieste (da Russo, 2003; cui si rimanda per ulteriori approfondimenti, assieme a Volpi, 1989).

2 Altro modello da tenere in considerazione per il quadro teorico di riferimento è il

modello dualistico di Lewis che prevedeva l’esistenza nelle economie periferiche di un settore moderno (agricoltura specializzata, etc.) ed uno arretrato (agricoltura di sussistenza, bassa produttività, bassa occupazione, bassi salari), ipotizzando che il trasferimento dal secondo al primo della forza lavoro possa aumentare livelli di risparmio e conseguentemente di investimento e originando così un processo di crescita.

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sviluppati in Europa Occidentale e Nord America dal XVII al XIX secolo. Tra gli aspetti peculiari riportiamo in questa sintesi l’idea che il sottosviluppo sia dovuto ad aspetti insiti alle aree arretrate e la visione dello sviluppo come di un processo evoluzionistico, ovvero per stadi, cumulativo, irreversibile, unilineare, convergente. Il massimo rappresentante di questo tipo di visione (in cui l’idea di sviluppo come processo di industrializzazione e poi di terziarizzazione era prevalente) è spesso indicato nel modello a stadi di Rostow (1960), per il quale il processo di sviluppo presenta stadi tutti necessari e di durata determinata, che portano una società da una cultura tradizionale alla “maturità”1; interessante sottolineare come la condizione di sottosviluppo non fosse vista altrimenti che come un incidente di percorso o una fase di arretratezza alla quale doveva seguire la liberazione delle forze modernizzatrici insite in ogni società (Volpi, 1999; Russo, 2003; Morasso, 2004).

3.2.1.2

Crescita e progresso

L’idea di sviluppo caratteristica delle civiltà occidentali prende corpo in un particolare contesto storico: prima in Francia poi in Inghilterra, tra la metà del XVIII e la metà del XIX secolo, in connessione col progresso scientifico, la Rivoluzione

1 I 5 stadi sono: società tradizionale; premesse al “decollo” (aumento della produttività,

creazione di infrastrutture moderne, sviluppo di una nuova classe sociale con una nuova mentalità); “decollo” (in qualche decennio vengono eliminati gli ultimi ostacoli allo sviluppo economico); progresso verso la “maturità”; formazione di una società avanzata con consumi di massa.

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Industriale, l’emergere del capitalismo e l’affermazione della borghesia imprenditoriale come classe dominante (Morasso, 2004).

Ad ogni modo, si trattasse o meno di distorsione nell’interpretare un fenomeno esteso, ma comunque delimitato, circoscritto a modello universale, resta il fatto che si afferma l’idea che per svilupparsi sia necessario per le “nuove nazioni” imitare il modello occidentale secondo l’imperativo della modernizzazione (Nayar, 1972).

Elemento emergente come centrale in quest’idea di sviluppo è quello di crescita, considerata come immanente al processo, permanente, irreversibile e unidirezionale, che verrà identificata con quella di progresso, abbandonando le visioni del mondo greco e romano per cui la crescita era un processo ciclico, o quella medievale che vedeva la crescita come un processo degenerativo, acquistando così il senso di una civiltà occidentale che era progredita, stava progredendo e avrebbe progredito all’infinito (Morasso, 2004); processo che invece non può essere considerato indefinito anche per la limitatezza ed esauribilità delle risorse disponibili sulla Terra (Rondinara, 1996; si veda anche nel Capitolo 2).

È riconducibile anche a queste impostazioni l’affermarsi delle distinzioni tra arretrati e avanzati, primitivi e civilizzati, tradizionali e moderni.

Emerge una concezione evolutiva della storia, della scienza, della tecnologia dietro cui alcuni autori riconoscono la convinzione che lo sviluppo fosse essenzialmente

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un processo di modernizzazione, industrializzazione, occidentalizzazione1 (Hettne, 1986; Norberg-Hodge, 2000; Morasso, 2004).

3.2.2 Gli anni ’70 e ‘80

In questi anni si verifica un importante cambiamento, ovvero la rinuncia da parte di alcuni Paesi alle loro politiche commerciali protezionistiche sperimentando una maggior apertura al commercio internazionale, frutto della valutazione sostanzialmente negativa delle politiche “orientate verso l’interno” e positiva delle politiche “orientate verso l’esterno”, che dà nuova linfa alla teoria neoclassica del commercio internazionale mettendo ora in rilievo la liberalizzazione del commercio come elemento fondamentale per lo sviluppo (Russo, 2003).

Dall’altro lato è questo il periodo in cui nascono e guadagnano credito ed attenzione rilevante teorie basate sull’idea di soddisfare i bisogni fondamentali2; concetto che ha la sua forza rivoluzionaria nel voler ribaltare l’ordine delle priorità nella

1 “La dottrina dello sviluppo all’interno delle scienze sociali è in larga parte un prodotto

occidentale, in quanto è la visione del nostro sviluppo propria di un estraneo, e più precisamente di estranei che vengono dai Paesi che ci hanno colonizzato.” Susantha Goonatilake, in Hettne, 1986.

La percezione dello sviluppo come fondato su un’unica visione, quella occidentale (Norberg-Hodge, 2000; Shiva, 2002; e altri) verrà ripreso in chiusura di capitolo (si veda in 3.4).

2 Si apre con questo una tematica vasta, complessa e abbondantemente trattata in

letteratura specifica economica, politica, sociale e ambientale per quel che riguarda l’identificazione di tali bisogni fondamentali; vi fu una ricca attività di ricerca da parte di studiosi e organizzazioni internazionali, come l’ILO (International Labour Organisation, l’agenzia specializzata delle NU che cerca di promuovere la giustizia sociale, i diritti umani e dei lavoratori universalmente riconosciuti), che fece da punto di partenza per l’elaborazione di strategie di sviluppo dei Basic Needs (ILO, 1976; Higgins, 1980; Lederer, 1980; e altri).

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formulazione delle politiche di sviluppo: di fronte al persistere e aggravarsi della povertà in maniera sempre più estesa viene indicato il raggiungimento di un livello minimo di vita per gli strati più poveri della popolazione in luogo della crescita della produzione aggregata come obiettivo da perseguire.

È da riferirsi a questi anni anche l’idea di ecosvluppo. Quest’espressione comparse nella Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente nel 1972, per iniziativa di Maurice Strong, poi chiarito e reso popolare da Wolfgang Sachs:

L’ecosviluppo è un tipo di sviluppo che, in ciascuna ecoregione, richiede specifiche soluzioni per particolari problemi regionali, alla luce dei dati culturali ed ecologici, nonché dei bisogni immediati e di lungo periodo. Di conseguenza, agisce in base a criteri di progresso che sono peculiari a ciascun caso particolar, e l’adattamento all’ambiente vi gioca un ruolo importante (Sachs, 1974, pag. 9.).

Così anche per la stessa elaborazione del concetto di sviluppo sostenibile attraverso il lavoro della commissione Bruntland1, che fa da riferimento per chi tratta la tematica (e non solo) e che non sarà l’unica degna di rilevanza in questo contesto.

In questi anni, dunque, si assiste ad una maggior attenzione posta verso una diversa distribuzione delle risorse (con aumento del loro impiego nei servizi sociali come igiene, sanità, istruzione e nell’agricoltura, ove era occupata gran parte degli strati poveri della popolazione), nonché verso l’ambiente: a questo proposito ricordiamo la crisi ambientale degli anni ’60 e ’70 (vedi in 1.2.4) e l’ammonimento sui limiti fisici della crescita (dalla pubblicazione del Club di Roma del 1972 The Limits of Growth al

1 È la pubblicazione, nel 1987, di Our Common Future, altrimenti noto come “Rapporto

Bruntland”, ad opera della Commissione Mondiale su Ambiente e Sviluppo (WCED; si veda in 2.A.1 e più avanti in 3.3.1 per una trattazione maggiormente estesa).

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successivo lavoro di Brown col Worldwatch Institute con Building a Sustainable Society del 1981 e lavori successivi1).

3.2.3 Gli anni ’90 fino ai giorni nostri

A partire dalla fine degli anni ’80 si era già manifestata in tutto il suo carattere di crisi profonda la questione del debito2, che coinvolge particolarmente proprio quei Paesi considerati PVS che già versavano in condizioni non facili o drammatiche.

Questo provoca negli economisti una critica piuttosto aspra alle politiche del passato, considerandole responsabili del disastro attuale e concentrandosi sulla stabilizzazione delle economie dei Paesi che viene ricondotta, in accordo ai modelli neoclassici3 predominanti in ambito accademico, a questi tre punti: i prezzi che assicurano l’efficiente allocazione delle risorse sono quelli di mercato; gli squilibri interni ed esterni hanno una spiegazione monetarista perché sono considerati il frutto di eccessi di offerta di moneta per il finanziamento degli ampi disavanzi; il protezionismo viene valutato alla luce della teoria welfarista (da Russo, 2003).

1 Meadows et al., 1972; Brown, 1981.

2 Si rimanda, per una trattazione adeguata che non includiamo in questo testo, a Volpi,

F. (a cura di). 1989. Debito Estero e Sviluppo del Terzo Mondo.

3 Modelli neoclassici di equilibrio generale, dell’economia del benessere e della

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A questo punto si presentano vere e proprie “ricette” che vengono proposte (o, piuttosto, imposte; Volpi, 1989 e 1999; Sforza et al., 2002; e altri) ai PVS che attraversano la crisi debitoria1.

Le ricette prospettano la soppressione del protezionismo, la liberalizzazione dei mercati e del commercio, la svalutazione dei tassi di cambio, la contrazione della spesa pubblica, la privatizzazione delle imprese pubbliche: tutte operazioni che avrebbero lo scopo di creare le condizioni macroeconomiche che consentano ai microsoggetti di operare liberamente e quindi ai mercati di funzionare. Queste ricette trovano loro espressione concreta e radicale nei programmi di aggiustamento strutturale del Fondo Monetario e della Banca Mondiale, al cui rispetto è condizionata la concessione di certe forme di prestito, pubbliche e private, ai PVS (Morasso, 2004). Il pesantissimo costo sociale sopportato da quei Paesi è oggi ancora sotto gli occhi di tutti, con critiche sempre più forti mosse da ogni parte, persino da alcune organizzazioni internazionali (quali, ad esempio, l’UNICEF2).

Il Washington Consensus, cioè l’identità di vedute di quegli anni tra il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale ed il Tesoro degli Stati Uniti circa le politiche giuste per i Paesi in via di sviluppo improntate al libero mercato ha segnato un approccio totalmente diverso allo sviluppo economico e alla stabilizzazione. Ma le politiche economiche in esso confluite si sono rivelate inadeguate per le nazioni

1 Ulteriore approfondimento meriterebbe la questione dei termini in cui si parlava (e nei

quali in parte ancora oggi se ne parla) del riconoscimento di crisi dato alla questione del debito estero: secondo numerosi autori, infatti, i termini della crisi nascono allorché si manifestò per i Paesi o istituti creditori nei confronti dei Paesi indebitati la concreta possibilità da parte dei primi di non poter riscuotere più nulla dai secondi che non erano effettivamente più in grado di pagare alcunché di quei debiti cresciuti in maniera esplosiva soprattutto in forza dei tassi di interesse così elevati applicati (tra i molti si veda ad esempio Sforza et al., 2002).

2 Si veda nel rapporto UNICEF del 1989, The State of World’s Children, in cui viene

documentato e messo in evidenza come l’attuazione dei piani strutturali è avvenuta con la contrazione della spesa sociale con aggravamento della mortalità infantile e denutrizione degli stessi e con un generale degrado delle condizioni generali di vita in quei Paesi.

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che si trovano in una fase iniziale dello sviluppo o della transizione (Stiglitz, 2002).

Proprio WB, IMF e WTO sono spesso additati come concause (se non aggravanti) della situazione in cui versano tali Paesi (Stiglitz, 2002), o sono comunque visti come i migliori garanti del mantenere o promuovere l’attuazione di tali modelli di sviluppo (Banerjee, 2003).

Ci troviamo di fronte, in maniera sempre crescente in questi ultimi anni, a voci di critica dei modelli e delle impostazioni riguardo lo sviluppo e le teorie che vi stanno alla base, cui comincia a seguire anche una seppur difficile crescente integrazione delle critiche a proposte e nuove prospettive, per quanto proprio una elaborazione di modelli e strategie organiche (alla stregua di quella che ha caratterizzato i periodi e le impostazioni precedenti) sia ancora in divenire e al centro di un dibattito crescente anche al di fuori degli spazi “limitati agli addetti ai lavori”.

Vale la pena di notare anche come sia a partire dagli anni ’90 che viene elaborato, proposto e sviluppo il concetto di Sviluppo Umano.

È con il lavoro dell’UNDP, in particolare, che si parla di Sviluppo Umano. Si afferma che l’obiettivo essenziale dello sviluppo è creare un clima favorevole per una vita sana, duratura e creativa. Lo sviluppo umano è un processo che dà maggiore libertà di scelta alle persone (UNDP, 1992; si veda anche per l’indice elaborato in tal senso in 3.3.3).

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3.3 Lo sviluppo sostenibile

Abbiamo precedentemente introdotto come periodo storico per la comparsa del concetto di sviluppo sostenibile nel dibattito internazionale l’arco di tempo che va dagli anni ’70 agli anni ’80, in particolare con il lavoro svolto e promosso dal Club di Roma e dalla WCED con le rispettive pubblicazioni nel 1972 nel 1987 de I Limiti della Crescita e del Rapporto Bruntland (si veda in 3.2.2).

Sembra ‘improvvisamente’ presentarsi il difficile compito di dare soluzione alle grandi problematiche che l’umanità si trova ad affrontare. Tra queste, la limitatezza e la finitezza delle risorse con danno all’ambiente naturale che preoccupa per il futuro dell’umanità stessa (si veda per la trattazione della tematica nel Capitolo 2); l’esplosivo aumento demografico di un’umanità che ha visto aumentare notevolmente e rapidamente la consistenza della sua presenza sul pianeta, con previsioni ancora maggiori per quel che riguarda il futuro prossimo1 (e con conseguente maggior pressione sull’ambiente e maggior domanda di risorse); l’incapacità di risolvere la condizione di sofferenza, disagio, indigenza, in cui versa gran parte dell’umanità, o il divario tra ricchi e poveri in aumento (tra gli altri: De Lorenzi et al., 2003).

1 Si deve considerare come sia aumentata la consistenza della popolazione umana:

10.000 anni fa, allorché cominciano in alcune aree del pianeta processi di coltivazione agricola, la popolazione mondiale è stimata essere compresa tra i 2 e i 20 milioni; nell’anno 1 d. C. si stima che fosse tra i 170 e i 330 milioni; nel 1650 tra i 500 e i 600 milioni; nel 1804 la popolazione mondiale raggiunge il primo miliardo di abitanti; nel 1900 raggiunge 1 miliardo e 600 milioni; nel 1927 raggiunge il secondo miliardo di abitanti (dopo 123 anni); nel 1960 il terzo (dopo 33 anni); nel 1974 il quarto (dopo 14 anni); nel 1987 il quinto (dopo 13 anni); nel 2000 si superano i 6 miliardi; nel 2050 la previsione “media” secondo le Nazioni Unite è di 9,3 miliardi (Chambers et al., 2002; già presentato in 1.2.3, pag. 11, nota 1 e qui riproposto per praticità).

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Sono pubblicazioni, quelle del Club di Roma e della Commissione Mondiale per Ambiente e Sviluppo, che fanno scalpore1, ma che già trovano precursori negli anni precedenti per quel che riguarda la riflessione legata allo stato dell’ambiente e alla legittimità dell’operato dell’uomo nei confronti della natura, con un’attenzione da parte dell’opinione pubblica (almeno per quel che riguarda i Paesi occidentali) sempre crescente, anche in conseguenza della crisi ecologica di quegli anni (si veda in 1.2.4); precursori rintracciabili anche per quel che riguarda la riflessione sulla sostenibilità delle stesse attività umane (Blutstein, 2003).

Potremmo limitarci a ricordare Rachel Carson, che voleva allertare l’opinione pubblica riguardo i problemi di salute derivanti dall’inquinamento di pesticidi, paventando l’ipotesi di un futuro senza più il canto degli uccelli che le primavere inglesi ed europee sono abituate a conoscere: una primavera silenziosa (Carson, 1962); oppure Barry Commoner e Paul Elrich, coi loro lavori (Commoner, 1971; Elrich, 1968).

Mentre “profeti dell’apocalisse” sono stati da sempre caratteristici della storia del movimento ambientalista o della sua coscienza, i primi anni ’70 hanno visto due sviluppi positivi di risposta al cambiamento: in molti dei Paesi Sviluppati sono state create agenzie di protezione ambientale nazionale per fronteggiare l’inquinamento locale e l’interesse verso il raggiungimento di trattati globali crebbe notevolmente (Blutstein, 2003).

Vale la pena, però, di soffermarsi anche sul lavoro di Burnet Macfarlane, il quale anticipò una tra le prime formulazioni del concetto di sostenibilità: “The resources of

1 Forse anche in conseguenza della crisi energetica del 1973-74, che rese concreti ed

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the Earth must be mantained for the use and enjoyment of future generations in a measure not less than we now enjoy”1. Una formulazione che ha una somiglianza straordinaria con quella proposta dalla Commissione Bruntland (si veda più avanti in 3.3.1).

Nel 1972 abbiamo i lavori del Club di Roma (rivolti ai dubbi sulle possibilità di proseguire coi modelli di sviluppo promossi ed attuati fino a quel momento) e nello stesso anno la comunità internazionale ebbe un ruolo di prim’ordine nel dibattito convocando la Conferenza delle Nazioni Unite di Stoccolma; da allora ci sono stati numerosi forum internazionali ed una crescita del consenso globale a riguardo (Blutstein, 2003; si veda inoltre in 2.A.1 per un ragguaglio sui principali trattati, convegni e organismi preposti il monitoraggio, l’analisi o la valutazione delle possibili soluzioni per ciò che riguarda lo stato della Terra).

Arriviamo agli anni ’80 con la pubblicazione di Lester Brown (cui si deve una buona parte di responsabilità della nascita del Worldwatch Institute) del 1981, Building a Sustainable Society, in cui si afferma che nessun modello di sviluppo economico passato né futuro è realizzabile senza che siano preservati i sistemi biologici naturali che stanno alla base dell’economia globale; vengono identificate, inoltre, quattro aree cui ricondurre i problemi attinenti la sostenibilità: la lentezza della transizione energetica, il deterioramento dei principali sistemi biologici, la minaccia delle modificazioni climatiche e l’insicurezza alimentare globale (Brown, 1981).

1 Da Biology and the Appreciation of Life, Boyer Lecture, del 1966; benché il testo tratti

sostanzialmente di genetica e dell’abilità degli umani di raggiungere il loro vero potenziale, Macfalrlane identificò la dipendenza degli esseri umani dalla biosfera e altre risorse globali.

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3.3.1 Il Rapporto Bruntland

Nel 1983 il segretario generale delle Nazioni Unite propose a Gro Harem Bruntland (già ex Ministro per l’Ambiente e a capo del governo norvegese, aveva anche lavorato in seno alla Commissione Brandt per i problemi Nord-Sud e a quella Palme per i problemi della sicurezza e del disarmo) di costituire e presiedere una Commissione speciale e indipendente per sviluppare “Un’agenda globale per il cambiamento” (WCED, 1988). Dal 1983 al 1987 ha lavorato svolgendo un’analisi estesa ed approfondita sul problema ambientale su scala mondiale. Al termine di tale lavoro arriva la pubblicazione del Rapporto, in cui vengono a conglobare in una visione d’insieme le problematiche ambientali, la questione demografica, il problema urbano, il ruolo dell’economia internazionale, la sicurezza alimentare, le risorse energetiche, la produttività industriale, l’importanza della biodiversità, la gestione dei beni comuni internazionali, la pace. Tutto ciò si tradusse in proposte d’azione comune e in quella formulazione del concetto di sviluppo sostenibile con la quale si confronta la stragrande maggioranza degli autori che affrontano la questione (Banerjee, 2003; Franceschi, 2003).

La sua formulazione recita così:

Per sviluppo sostenibile si intende uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni (WCED, 1988, pag. 71).

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Come già nel Rapporto verrà espresso, per poi essere ripreso da numerosi autori (tra i tanti: Bucholz, 1998; Lanza, 2002; Morandini, 2003; Brown et al., 2002 e 2003; Bordeau, 2004; e altri) la riflessione sullo sviluppo sostenibile ci riporta al principio di equità (intragenerazionale ed intergenerazionale1), e all’idea di un interesse comune a tutta l’umanità.

La Commissione, inoltre, individua e presenta una serie di imperativi strategici per uno sviluppo sostenibile quali rianimare la crescita economica, mutandone la qualità (e introducendo l’idea di una ridistribuzione del reddito all’interno delle popolazioni); soddisfare i bisogni umani essenziali; assicurare un livello demografico sostenibile; conservare e aumentare la base delle risorse; riorientare la tecnologia e gestire i rischi ambientali; integrare ambiente ed economia nella formulazione delle decisioni (WCED, 1988).

A questi ne affianca altri da perseguire per una effettiva realizzazione di uno sviluppo sostenibile, quali un sistema politico che garantisca effettiva partecipazione dei cittadini al processo decisionale; un sistema economico in grado di generare surplus e conoscenza tecnica su base autonoma e costante; un sistema sociale che permetta il superamento delle tensioni derivanti da uno sviluppo disarmonico; un sistema tecnologico in grado di ricercare di continuo nuove soluzioni; un sistema internazionale che favorisca modalità sostenibili commerciali e finanziarie; un sistema amministrativo che sia flessibile e abbia la capacità di autocorrezione (WCED, 1988).

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Di fatto, il lavoro svolto è stato notevole e la sua importanza riconosciuta a livello accademico e di istituzioni, producendo un notevole dibattito e nuovi spunti di ricerca negli anni a seguire sino ai nostri giorni.

3.3.2 Altre interpretazioni e definizioni. Il dibattito

Il termine e il concetto di sviluppo sostenibile ha ricevuto molta attenzione a partire dalla seconda metà degli anni ’80 e dalla formulazione data dalla Commissione Bruntland, generando molte altre definizioni volte ad adattarsi al meglio alle differenti situazioni o ad esprimere alcuni aspetti in particolare (Franceschi, 2003).

È senz’altro significativo di tale processo annotare come già alla fine degli anni ’80 si annoverassero più di 35 definizioni diverse di sviluppo sostenibile (Pezzey, 1989), o come nei primi anni ’90 fossero oltre 100 (Holmberg et al., 1992).

Ne riportiamo alcune a titolo di esempio:

La sostenibilità è rappresentata dal massimo ammontare che una comunità può consumare in un certo periodo e rimanere, tuttavia, lontana dall'esaurimento delle risorse come all'inizio (J. R. Hichs). Per sviluppo sostenibile s'intende un miglioramento di qualità della vita, senza eccedere la capacità di carico degli ecosistemi alla base (ONU, WCU,UNEP,WWFN, 1992).

Lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che offre servizi ambientali, sociali ed economici di base a tutti i membri di una comunità, senza minacciare l'operabilità dei sistemi naturale, edificato e sociale da cui dipende la fornitura di tali servizi (ICLEI, 1994).

(20)

Lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che garantisce i bisogni del presente senza compromettere le possibilità delle generazioni future di fare altrettanto (Ministero dell'Ambiente).1

Con tutto questo, ancora oggi si coglie che la sua principale formulazione di riferimento resta quella del Rapporto Bruntland, e che in tutte le definizioni via via formulate l’aspetto ricorrente e comune è l’idea che uno sviluppo per essere sostenibile debba mantenere inalterate le prospettive per le generazioni future (Banerjee, 2003; Franceschi, 2003).

Un altro aspetto che si evidenzia in seguito alla pubblicazione del Rapporto è dato dal fatto che virtualmente ogni Paese ha incorporato i termini sostenibilità e sviluppo sostenibile nei loro vocabolari di programma e criteri decisionali (Franceschi, 2003). Ciononostante sembrano rimanere irrisolte la maggior parte delle questioni a riguardo, comprese l’attuazione concreta di tali riferimenti (Banerjee, 2003; Franceschi, 2003).

La stessa conferenza di Rio del 1992 (si veda in 2.A.1) finì con una Agenda 212 che avrebbe dovuto dare le linee guida per la politica ambientale del XXI secolo, ma che finì per orientare verso accordi internazionali non raggiunti o non rispettati (De Lorenzi et al., 2003). Anche la Conferenza di Johannesburg 2002 sullo Sviluppo Sostenibile (si veda in 2.A.1) ha suscitato reazioni e riflessioni diverse dividendo tra chi ha visto in maniera molto positiva il fatto di per sé che ci sia stato un evento di tale portata dove sviluppo e ambiente erano in agenda (Clarke, 2002) e chi considera

1 Tutte le definizioni sono tratte da Agenda 21, 2004.

2 L’Agenda 21 è un vasto programma di azione politica-programmatica; come tale non

contiene specifiche indicazioni relative alla non-attuazione, né indica specificatamente strumenti in grado di assicurare la cooperazione fra Paesi (Lanza, 1997).

(21)

conclusosi il Summit pressoché con un nulla di fatto (Brown et al., 2002) o col ritorno ad una visione in cui l’idea di sviluppo nel solo senso economico e produttivo resta centrale a discapito dell’attenzione che meritano ambiente ed esseri umani (De Lorenzi et al., 2003).

Ciò che di particolarmente significativo ci sembra di poter cogliere dal dibattito nato (con la fioritura di definizioni ed espressioni che ne è derivato), non è soltanto che questo sembra mostrare la necessità di esprimere un concetto ‘universale’ secondo le esigenze di un particolare luogo con una sua particolare storia ed identità (necessità questa espressa a vario titolo già negli anni ’70; ad esempio in Sachs, parlando di ecosviluppo: si veda in 3.3.2).

Ci sembra di estrema importanza anche considerare come la pluralità di visioni sia anche specchio della pluralità di riferimenti da cui si può partire e della pluralità di orizzonti cui si può o si vuol tendere.

A tal proposito è d’aiuto considerare una delle suddivisioni in cui le varie visioni e interpretazioni dello sviluppo sostenibile vengono raccolte da molti autori (come viene riportato da Lanza, 2002; Franceschi, 2003; Banerjee, 2003; Birkin, 2003; e altri): Weak Sustainability e Strong Sustainability.

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3.3.2.1 Weak

Sustainability

L’idea di fondo su cui si sviluppa questa visione della sostenibilità è che le risorse del pianeta (o le sue capacità di smaltire l’inquinamento umano) siano limitate1 per gli attuali livelli di consumo; il modello di riferimento continua ad essere in modo esplicito quello della teoria della crescita (Franceschi, 2003).

Questo significa che l’esigenza primaria non è rimettere in discussione il modello di sviluppo, quanto piuttosto approfondire gli studi per trovare nuove fonti di energia, o nuove tecniche energetiche2 o di produzione così da portare i consumi energetici o le emissioni di inquinanti a quella soglia che permetterà alle generazioni future di vivere secondo le attuali possibilità, o svilupparsi secondo le medesime (Lanza, 2002; Benton, 2002; Fernando, 2003; Franceschi, 2003; e altri).

In questa visione prevale l’idea che gli standard di consumo delle società e dei modelli occidentali non costituiscano un problema di per sé (Benton, 2002), quanto piuttosto il trovare come mantenerli.

Prevale anche l’idea di sostituibilità tra vari tipi di capitale (Franceschi, 2003): il bacino dal quale i più hanno attinto le basi teoriche comprende autori come Solow, Stiglitz, Dasgupta, Pearce e altri che negli anni ’70 parlavano di capitale naturale,

1 Per la limitatezza delle risorse naturali e loro esauribilità all’attuale ritmo di consumo:

Rondinara, 1996; Lanza, 1997 e 2003; Brown et al., 1996, 1998, 2000, 2001, 2002; Chambers et

al., 2002; Bright et al., 2003; Darton, 2003; Franceschi, 2003; e altri).

2 Per supportare una domanda energetica che secondo i modelli e le previsioni attuali è

destinata ad aumentare vertiginosamente nei prossimi 50 anni. Sempre secondo modelli attuali, tale domanda energetica è prevista esser esaudita, per quanto possibile, da combustibili fossili, una risorsa che oltre ad essere finita genera CO2, con conseguente surriscaldamento globale

(Darton, 2003). I legami tra emissioni di CO2 e surriscaldamento sono stati affrontati nel

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capitale umano, etc., visti come variamente sostituibili fra loro con impostazioni diverse in base alle differenti concezioni di sostituibilità (da Franceschi, 2003).

A questo proposito, vale forse la pena di sottolineare che alcuni autori notano come un fatto curioso che nel 1987 venisse insignito del Premio Nobel a Stoccolma Robert Solow per la sua teoria della crescita basata sulla “superfluità” della natura (Shiva, 2002): “Il mondo può, in effetti, andare avanti senza risorse naturali, cosicché il loro esaurimento è solo un avvenimento, non una catastrofe” (R. Solow citato in N. Singh1), proprio nello stesso anno in cui dopo i suoi quattro anni di lavoro la

Commissione Bruntland pubblicava il suo Rapporto in cui presenta come necessario un cambiamento di rotta ed una presa di coscienza dell’importanza dell’ambiente e delle sue risorse per l’uomo.

All’interno di questo filone di sviluppo del concetto di sostenibilità sembra, inoltre, passare in secondo piano l’idea di equità all’interno della medesima generazione, a meno di considerare una condizione “sostenibile” quella di povertà estrema e di forti squilibri fra popolazioni di Paesi diversi o fra individui all’interno di uno stesso Paese.

Di fatto, la risoluzione di tale squilibrio è demandata interamente all’applicazione del modello di crescita e delle teorie economiche capitalistiche (Fernando, 2003) e neoliberiste (Benton, 2002; Hartwick et al., 2003).

1 Singh, N.: “Robert Solow’s Growth Hickonomics”, Economics and Political Weekly,

(24)

3.3.2.2 Strong

Sustainability

Generalmente vengono ricondotti a questa visione una moltitudine di autori che hanno in comune soprattutto l’indicare nell’equità all’interno della generazione presente uno dei bisogni e delle condizioni fondamentali dell’idea di sviluppo sostenibile; il ritenere che l’attuale modello di sviluppo non sia sostenibile sul lungo periodo aldilà delle soluzioni di maggior “efficienza ambientale” che si potranno trovare; l’adottare il principio di precauzione nel cercare valutazioni e previsioni; il non ritenere, in generale, sostituibili capitale naturale e capitale umano col capitale economico; si rintraccia frequentemente anche il chiedersi se (o l’affermare che) la natura abbia di per sé un valore che l’uomo non è in diritto di intaccare (Rammel et al., 2002; Bordeau, 2004; Scalfari et al., 2004; e altri).

Il principio di equità emerge secondo molti autori (WCED, 1988; Lanza, 2002; Morandini, 1999 e 2003; Sen, 2001; Banerjee, 2003; Borghesi et al., 2003; Franceschi, 2003; De Lorenzi et al., 2003; e altri) come ugualmente importante e interdipendente della condizione ambientale come condizione di sostenibilità (Borghesi et al., 2003).

Considerazione spesso accompagnata all’idea che la globalizzazione corrente aumenti i problemi sociali, pur avendo in sé la potenzialità di dare gli strumenti per ridurli, suggerendo una sua insostenibilità sul lungo corso a meno di introdurre nuove istituzioni e politiche in grado di governarle (Borghesi et al., 2003).

La rapida crescita dei mercati globali è stata accompagnata da un aumento su scala mondiale in disuguaglianza e degrado ambientale (Benton, 2002; Borghesi et al., 2003).

(25)

Tra l’altro, che gli squilibri siano aumentati appare evidente anche dal considerare che la popolazione dei Paesi industrializzati rappresenta il 20% circa della popolazione mondiale, ma utilizza oltre il 70% dell’energia mondiale, il 60% delle risorse energetiche della Terra e l’80% delle restanti risorse1 (Benton, 2002); si veda anche nella Figura n.1 riportata qui sotto.

Figura n. 1 – Pochi ricchi, molti poveri. Anno 1999

2417 2667 891 410 2000 25730 0 5000 10000 15000 20000 25000 30000 Paesi a basso reddito

Paesi a reddito intermedio

Paesi ad alto

reddito

Popolazione (milioni) PNL per abitante (dollari USA)Fonte:World Bank,

Fonte: D’Antonio, Scarlato, Flora, Economia dello Sviluppo, 2002

Ancora, attualmente si stima che su 6 miliardi circa di popolazione mondiale, tre miliardi vivono con meno di meno di 2 dollari al giorno e di questi, circa 1 miliardo e

1 In particolare in questo studio emerge come la popolazione degli USA pur

rappresentando il 5% circa della popolazione mondiale usa il22% della ricchezza mondiale ed emette oltre il 25% dei gas serra totali.

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200 milioni di persone vive al di sotto della soglia internazionale della povertà, cioè con meno di 1 dollaro al giorno (Russo, 2003).

Agli studi condotti sulla distribuzione ed utilizzo di risorse e ricchezza, soprattutto negli ultimi 5-10 anni si sono affiancati ed hanno fatto seguito calcoli condotti per valutare l’effettiva capacità di carico del pianeta Terra rispetto agli standard di produzione e consumo, dai quali emergono dati interessanti e significativi. Tra i vari vale la pena di riportare che se ogni abitante della Terra consumasse come un Americano medio, ci sarebbe bisogno di quattro pianeti identici alla Terra, ma disabitati, oltre alla Terra stessa per poter supplire alla domanda di risorse ed assorbire l’inquinamento prodotto derivante (Taylor, 20001): questo tipo di dati sembra mostrare l’esigenza di una condotta umana diversa da quella attuale (ovvero sostenibile), con un’aperta dichiarazione di fallimento del modello di sviluppo in corso e con le problematiche esistenti riguardo il principio di equità emerso.

3.3.2.3

Il principio di equità

Difatti, appare evidente che seguendo il modello di sviluppo attuale non sia attuabile sulla scala di tutta l’umanità2 (e verrebbe così a decadere il principio di equità

1 Taylor, Betsy. 2000. “The Personal Level” in Juliet Schor et al.: Do Americans Shop Too Much?

2 Si manifesterebbe così anche un ulteriore prova a sostegno delle tesi di vari autori che

vedono le attuali teorie capitalistiche e neoliberiste basate su un indiretto mantenimento di quelle stesse condizioni di sfruttamento e dipendenza da parte dei Paesi sviluppati, i Paesi

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infragenerazionale), dunque ancor meno attuabile per le generazioni che verranno (decadendo così anche il principio di equità intergenerazionale).

Per il principio di equità si deve anche riportare che molti autori sottolineano la difficoltà di valutare oggi i bisogni reali delle generazioni future, in considerazione della difficoltà di realizzare nell’oggi il soddisfacimento dei bisogni della presente generazione, ed anche in considerazione del fatto che le generazioni future possono rivendicare i loro diritti con una certa difficoltà, ed anche con una certa complessità ontologica da parte nostra nel valutarli (Beg, 2002; Benton, 2002; Shiva, 2002; Banerjee, 2003; Borghesi et al., 2003; e altri); a ciò si aggiunge la considerazione che già questa generazione abbia molto spesso una difficoltà drammatica nel rendere la propria voce ascoltata, anche per quanto riguarda idee e diritti (Norberg-Hodge, 2000; Sen, 2001; Shiva, 2002; Borghesi et al., 2003; De Lorenzi et al., 2003; Morasso, 2004; e altri).

In aggiunta, le nozioni di equità e giustizia differiscono ampiamente tra Paesi, eppure sono queste nozioni quelle che presumibilmente guideranno le decisioni dei PVS per qualunque accordo futuro (Beg, 2002).

occidentali (i Paesi ex-colonizzatori) nei confronti dei Paesi a diverso grado di sviluppo o indebitati (i Paesi ex-colonie e non solo; si veda in Zanghì, 1990; Coda, 1990; Bucholz, 1998; Shiva, 2002; ed altri).

(28)

3.3.3 L’unità monetaria e gli indicatori di sviluppo e di benessere

Un altro aspetto importante nella valutazione del dibattito intorno alla sostenibilità e allo sviluppo sostenibile all’interno dei parametri presi a riferimento è rappresentato dalla visione sostanzialmente economica che sta alla base dei modelli di sviluppo presi in esame (Brown et al., 2002; Banerjee, 2003; e altri).

Questo ha portato con sé (come sostengono molti autori essere verificato alla prova dei fatti) la tendenza a ricondurre anche i danni ambientali ad un costo valutato (o considerato valutabile) in termini economici monetari (Brown et al., 2002; Shiva, 2002; e altri; si veda, inoltre, in 3.3.2.1 per le teorie della sostituibilità fra capitali umano, ambientale, monetario), incorrendo in alcuni assurdi quali il monetizzare il canto di un uccello (Funtowicz, 1994), o il ricondurre tutto soltanto al valore che il mercato gli conferisce (Funtowicz, 1994; Shiva, 2002), mentre appare più indicato passare dalla sola visione quantitativa caratteristica delle scienze anche ad una visione qualitativa (parlando a tal proposito di una scienza post-normale, che inglobi anche la cittadinanza in un dialogo costruttivo; da Funtowicz, 1994).

Da un lato appare legittimo e molto complesso chiedersi come i diritti umani (e non solo) rientrino in un simile sistema di riferimento, o se l’ambiente naturale, i viventi non umani, etc., non abbiano piuttosto valore o dignità in sé, a prescindere dal valore che l’uomo conferisce ad essi (Funtowicz, 1994; Bordeau, 2004; e altri; si veda anceh in 1.2.4.1).

Ciò non soltanto, quest’impostazione (come già introdotto) sembra limitata anche dal fatto che un approccio tradizionale (i modelli di crescita e sviluppo

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neoclassici) tende a focalizzare solamente il problema di accumulo di capitale artificiale (fatto dall’uomo, dunque manufatti o capitale monetario), entrando in conflitto con la presa di coscienza della limitatezza delle risorse (Rondinara, 1996; Franceschi, 2003).

Anche in vista di queste considerazioni sono molti gli autori che invocano uno spostamento dei parametri di riferimento (e di paradigma; si veda più avanti in 3.4), assieme ad una visione più ampia e interdisciplinare (si veda ancora in 3.4).

Sta di fatto, comunque, che per lungo tempo è stato adoperato come indicatore di sviluppo il PNL, poi il PIL, che è stato ritenuto da molti essere limitato anche per dare una reale fotografia economica di un Paese o di una società, oltre che inadeguato a descrivere il loro reale stato di benessere (Sen, 2001; Latouche, 2003; De Lorenzi et al., 2003; e altri).

A questo proposito, proprio in considerazione del fatto che per lungo tempo è stato il principale indice e metro di valutazione dello sviluppo dei vari Paesi (e tutt’ora mantiene un ruolo cruciale), riportiamo una breve considerazione sulla “particolarità” del PIL come indicatore di sviluppo: in una società industrializzata in cui si verificano un numero di incidenti stradali maggiore dell’anno precedente, o in cui vengono completamente abbattute tutte le foreste, o in cui si ha una maggior produzione di rifiuti (sono solo tre fra numerosissimi esempi) avremo un aumento riscontrabile del PIL in forza del movimento del volume d’affari riscontrato in conseguenza di tali avvenimenti, mentre il Bhutan viene messo all’ultimo posto della classifica economica internazionale dalla Banca Mondiale perché il suo PIL è praticamente nullo1.

(30)

In tal modo:

(…) non esistono differenze riconoscibili tramite tale indice tra un senzatetto a New York ed un contadino bhutanese che soddisfa da sé ai suoi bisogni e che passa molto più tempo di un occidentale con famiglia, amici, svolgendo attività di svago e producendo arte e musica di pregio (Norberg-Hodge, 2000).

La realtà dietro le statistiche spesso è diversa da come la si immagina.

Il PIL si riduce ad essere un misuratore del volume di affari, che somma le spese alle entrate anziché sottrarle (Chambers et al., 2002).

È parallela alla formulazione dei concetti di sviluppo umano e sviluppo sostenibile (e sempre più al centro dell’attenzione degli specialisti del settore) la riflessione su cosa sia il benessere cui lo sviluppo deve tendere e quali siano i parametri in grado di valutarlo; a questo proposito è estremamente importante il contributo di Amartya Sen (Sen, 2001; ma anche in Russo, 2003; Morasso, 2004; e altri) che evidenzia come il benessere di un individuo o di una popolazione non possa essere rappresentato solo dal suo grado di ricchezza (in termini monetari), ma da un’ampia serie di fattori (Sen, 2001).

Così sono stati elaborati una serie di indici allo scopo di integrare aspetti di crescita economica e sociale o ambientale, come l’ISEX (Index of Sustainable Economic Welfare, 1989) o il GPI (Genuine Progress Indicator)1, oppure l’Indice di Sviluppo Umano (l’ISU, altrimenti noto come HDI), elaborato dall’UNDP (United Nations Development Programme, che li presenta nella sua pubblicazione del 1990, ovvero il primo Rapporto sullo Sviluppo Umano; UNDP, 1992; De Lorenzi, et al., 2003; Morasso, 2004; e altri).

(31)

Non entrando più specificatamente nel merito di questi (o altri) indici, con relativi pregi e difetti nel definire e mostrare le situazioni in un Paese o addirittura renderle confrontabili tra Paesi diversi1, vogliamo solo notare come questo rappresenti

un passo avanti notevole nel cercare un approccio più ampio al concetto di sviluppo e maggiormente comprensivo di ambiti diversi (oltre quello economico), con una maggior attenzione per l’uomo e il suo benessere (in un senso a sua volta sempre più ampio), che torna dunque a rivestire un ruolo centrale nelle finalità dello sviluppo.

3.3.4 Curva di Kuznets ed Ecoimperialismo

Vogliamo annotare brevemente un’altra considerazione, molto sentita da numerosi autori e significativa anch’essa della comprensione delle categorie legate ai modelli di sviluppo e alla percezione che se ne può ricavare (nel mondo “sviluppato” così come in quello “in via di sviluppo”).

Nel 1992 in un suo documento la Banca Mondiale riferì in merito alla relazione esistente tra alcuni fattori di degrado ambientale e i livelli del PNL pro-capite. Tale relazione mostra come il degrado ambientale cresca all’aumentare del reddito medio quando quest’ultimo si colloca a bassi livelli, mentre decresce all’aumentare del reddito medio quando quest’ultimo ha superato il livello della soglia critica che si aggira

1 Rimandiamo ancora per un approfondimento a UNDP, 1992; Chambers et al., 2002;

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intorno agli 8.000 $ di reddito pro-capite all’anno (Dollari USA 1985). La curva in questione è nota come Curva di Kuznets dell’Ambiente (CKA; Rondinara, 2004).

Le indicazioni che si possono trarre da tale studio sono che alcuni indicatori di degrado ambientale quali emissioni di anidride carbonica, rifiuti solidi urbani, etc., aumentano (ovvero peggiorano) all’aumentare del reddito pro-capite; altri (mancanza di acqua potabile, indicatori di igiene, etc.) diminuiscono (ovvero migliorano) all’aumentare del reddito pro-capite; altri ancora (emissione di anidride solforosa e nitrati, etc.) dapprima aumentano e poi diminuiscono.

Bisogna così considerare che la popolazione del Nord col suo 20% circa della popolazione mondiale si trova a destra di tale curva, oltre il valore soglia, mentre la maggior parte della popolazione del resto del mondo è ancora lontana da tale soglia; da questori evidenzia ulteriormente come sia necessario intervenire con urgenza onde evitare che il grosso della popolazione mondiale manifesti il suo rilevante impatto ambientale per il conseguimento del modello di sviluppo in atto. Appare chiaro anche che è necessario un trasferimento di tecnologie “pulite” a quei Paesi che si avvicinano alla soglia in modo da abbassare la CKA e conseguentemente ridurre il loro impatto sull’ambiente (Rondinara, 2004).

Secondariamente si evidenzia ulteriormente il legame tra il problema della povertà e quello della sostenibilità dello sviluppo.

Va rilevato anceh che la politica internazionale riguardo le politiche di sviluppo e di protezione ambientale sia ricca di contraddizioni: da un lato i Paesi del Nord utilizzano tecnologie sempre meno impattanti sull’ambiente, ma trasferiscono ai Paesi del sud tecnologie obsolete a maggior impatto ambientale, chiedendo, inoltre,

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l’applicazione di parametri restrittivi per tali Paesi che iniziano il loro sviluppo industriale sulle orme dei Paesi occidentali, il cui rispetto prevedrebbe ben altre tecnologie di quelle da loro stesse vendute (e non cedute): è un vero e proprio dumping ecologico, in piena contraddizione con le prospettive di sostenibilità dello sviluppo (Rondinara, 2004).

Questo rappresenta un ulteriore esempio della visione “The West and The Rest” ritenuta da molti tipica dei Paesi occidentali (Benton, 2002; Lanza, 2002; e altri) e sarebbe motivato, secondo molti autori, dalla piena volontà da parte dei Paesi ricchi di mantenere in pieno il loro standard di vita senza mettere in discussione nulla né pagarne il prezzo, piuttosto mantenendo quella condizione “coloniale” e imperialistica che ha caratterizzato il grande sviluppo economico e tecnologico di tali Paesi, garantendosi inoltre il mantenimento (per quanto possibile) di condizioni ambientali “appropriate”: si tratterebbe di un vero e proprio “imperialismo ecologico”, o Ecoimperialismo (Benton, 2002).

3.4 Considerazioni

conclusive.

L’esigenza di cambiare il modello di riferimento

Abbiamo studiato il moderno concetto di sviluppo, con la sua evoluzione, collocandone la nascita nell’Età dell’Illuminismo. Si osserva una visione dello sviluppo

(34)

antropocentrica, individualistica ed etnocentrica1, con una visione che poi diventa immanente ed unicamente economica, per acquistare anche una visione del cosmo strumentale e passiva2 (Zanghì, 1990). Da ciò si avranno inevitabili conseguenze

sull’approccio che l’uomo ha nei confronti della natura e relative visioni sottostanti, concorrendo a dare le basi per uno sfruttamento eccessivo delle risorse naturali (siano esse biologiche o meno).

Abbiamo visto come il periodo chiave per le teorie dello sviluppo, loro applicazioni e conseguenze sia quello che va dalla Seconda Guerra mondiale ai giorni nostri. Così si vedono la teoria del recupero (dalla crisi del conflitto bellico) con il grande boom economico susseguente che, però, mostrava già agli inizi degli anni ’60 i suoi pericolosi limiti: un processo forzato di occidentalizzazione (Coda, 1990; Norberg-Hodge, 2000; Shiva, 2002; e altri).

Nasce la teoria della dipendenza (Coda, 1990; Morasso, 2004; e altri) con la quale nasce l’idea del sottosviluppo (Morasso, 2004; e altri; con obbiettivo prefissato nel modello occidentale). Il concetto di sviluppo ha dunque mostrato “idealizzazioni” per giustificare i propri metodi (Coda, 1990; si veda anche in 3.2.1.1, 3.2.2.2 e 3.2.3).

Il quadro conclusivo che ne emerge è quello di uno sviluppo caratterizzato da: antropocentrismo; individualismo; etnocentrismo (sviluppo e progresso visti come tipici della cultura occidentale); visione strumentale e possessiva del cosmo; ottimismo (ciò

1 Il modello dello sviluppo è rappresentato da Inghilterra, Francia e via via i Paesi che

saranno colonizzatori, ma comunque rappresentanti dell’occidente sviluppato (prima Europa Occidentale, poi anche USA; in seguito troveremo anche altri Paesi come il Giappone che pur avendo storia diversa si riconoscono nel “modello occidentale”).

2 Che come abbiamo affrontato in precedenza (si veda in 1.2.4) condurrà alla crisi

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che verrà necessariamente è migliore di ciò che attualmente è; da esso si ha anche il necessitarismo); concezione maschilistica1 (dal modello della razionalità maschile); a tutto questo si deve aggiungere il dogma del libero scambio (Coda, 1990).

Si è visto come la sempre maggiore presa di coscienza dell’inefficacia (o negatività) dell’attuazione del modello di sviluppo in corso in riferimento alle situazioni disagiate, gravi, di gran parte della popolazione umana, assieme alla sempre maggior comprensione della finitezza delle risorse sfruttate (e sovra-sfruttate) dall’uomo, coi rischi ambientali ed ecologici che l’attività umana provoca, hanno portato ad una sempre maggior messa in discussione del modello di sviluppo attuale e alla formulazione di nuove impostazioni: si arriva così a parlare di sviluppo umano e sviluppo sostenibile.

Ciò che si vuole sottolineare adesso è che nella letteratura specifica (e non solo) si va sempre più diffondendo la convinzione che non si possa raggiungere uno sviluppo che sia sostenibile, né che sia possibile rielaborarlo, se si continua a basarsi sulle stesse categorie di base con le quali il concetto di sviluppo è nato e si è sviluppato.

A questo proposito viene ricondotta la necessità di un mutamento culturale (Morandini, 2003); la necessità di spostare il baricentro dall’efficienza a breve termine del mercato alla minimizzazione dei rischi su lungo termine, per la qual cosa servono politiche non influenzate dal mercato, varietà di strade e percorsi, e dunque un ripensamento generale (Rammel et al., 2002); riaffrontare il rapporto uomo-natura e

1 A riguardo sono numerose le voci soprattutto dal Sud del mondo che riconoscendo una

forte impostazione maschilistica nei modelli di sviluppo e nell’approccio “scientifico” imposto dall’occidente richiedono il recupero di un principio femminile necessario anche al recupero di un più corretto rapporto con la natura: si veda in Shiva, 2002.

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riconsiderare un paradigma della sostenibilità a fronte di una necessaria etica globale (Bourdeau, 2004); bisogna porre domande su cosa abbia realmente valore per parlare di sostenibilità, e dunque ripensare le categorie di base (Lehman, 2004); bisogna ripensare lo sviluppo economico-industriale con nuove soluzioni (Cook, 2003); è necessario abbassare drasticamente questo sovra-consumo, e per farlo è necessario abbandonare la cultura del consumo in cui ci troviamo mediante una informazione pubblicitaria trasparente, un consumo critico, un generale ripensamento della nostra cultura (Bucholz, 1998); si devono trovare nuove tecniche di produzione (metodi sostenibili), comprare meno ma comprare meglio, ma un cambiamento reale richiede l’abbandonare la nostra abitudine storica di pensare in maniera lineare causa-effetto per pensare che tutto è connesso con tutto il resto e conseguentemente cambiare lo stile di vita in funzione di un nuovo modello di pensiero; per ripensare lo sviluppo bisogna studiare e comprendere la nostra cultura di over-consumo. E uscirne. Passo fattibile solo vivendo un’altra cultura (Benton, 2002); per una soluzione del problema [il modello di sviluppo insostenibile] si richiede pertanto un radicale ripensamento del nostro modello di sviluppo e delle politiche relative alla tecnologia, tali da recuperare il duplice primato dell’uomo sullo stesso processo di sviluppo e sull’attività scientifica e tecnologica, la cui praticabilità sarà condizionata dalla capacità di piegare il sistema mercato a nuovi valori, quali il bene comune e la destinazione universale dei beni (Rondinara, 1996); è necessario parlare di sostenibilità tenendo conto dei diversi aspetti economico, sociale, ambientale (Shiva, 2002; Darton, 2003), riconoscendo il profondo intreccio esistente tra modi di pensare e stili di vita e la necessità di un ripensamento del paradigma di riferimento (Shiva, 2002); si rende necessaria una nuova epistemologia per uno

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sviluppo sostenibile (Moracci, 2003); da certi errori nel pensiero e negli atteggiamenti della cultura occidentale si comprende che i nostri valori sono sbagliati e vanno dunque profondamente ripensati per la sopravvivenza dell’umanità (Bateson, 1983); siamo in una società centrata sulle teorie economiche capitalistiche e non c’è dubbio che esiste un imperativo etico morale per indicare disuguaglianze socioeconomiche e degrado ambientale (identificabile nel capitalismo) del quale bisogna cambiare le basi (Fernando, 2003); sulla vecchia base teorica il termine sviluppo non resta che un altro nome per indicare la crescita economica: bisogna cambiare le premesse concettuali (Banerjee, 2003); la messa in opera di uno sviluppo sostenibile richiede un cambiamento culturale (e una contabilità ecologica rappresentante parte di questo cambiamento sia all’interno delle organizzazioni che della società più ampia; Birkin, 2003); il paradigma della sostenibilità dev’essere portato fino al livello di un’etica globale che riconosca e promuova il mutualismo di valori ecologici e sociali (Bordeau, 2004), senza la quale non si possono neanche sperare cambiamenti di condotta (Lanza, 2002; Morandini, 1999 e 2003).

Non possiamo basarci su di un’economia di mercato monetaria che deve massimizzare la produzione di capitale pensando di raggiungere la sostenibilità: bisogna cambiare non solo le politiche, ma anche le persone che fanno le politiche e i valori di riferimento, e i cittadini dovrebbero poter essere informati ed anche, successivamente, decidere spingendo a loro volta le politiche ambientali (Brown et al., 2002); bisogna abbandonare il paradigma universale di sviluppo e pensare in termini di paradigmi di sviluppo diversi, culturalmente sensibili, ripensando le prospettive di una giustizia

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sociale (Fernando, 2003); bisogna abbandonare i modelli neoclassici all’interno dei quali non è possibile realizzare percorsi di reale sostenibilità (Franceschi, 2003).

A queste considerazioni riportate ne andrebbero aggiunte molte altre, comunque in massima parte convergenti all’idea, emersa con forza, che sia necessario abbandonare gli attuali modelli di sviluppo, le relative teorie sottostanti e il solo approccio economico (recuperando una visione d’insieme dialogante delle varie discipline e culture); abbandonare con essi, inoltre, il sistema culturale cui hanno dato origine e sul quale poggiano, attuandone un vero e profondo ripensamento.

Figura

Figura n. 1 – Pochi ricchi, molti poveri. Anno 1999

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