Corso di Laurea magistrale
(ordinamento ex D.M. 270/2004)
in Economia e Gestione delle Aziende
Tesi di Laurea Magistrale
L’internazionalizzazione
d’impresa e il fenomeno
del reshoring
Inquadramento teorico, evidenze empiriche
e focus sul caso italiano
Relatore
Ch. Prof. Giancarlo Corò
CorrelatoreCh. Prof. Federico Etro
LaureandoClaudio Montenegro
Matricola 855550
Anno Accademico
Ai miei genitori, e a chi mi è caro.
INDICE
INTRODUZIONE ... 11 CAPITOLO 1 L’INTERNAZIONALIZZAZIONE D’IMPRESA 1.1 IL FENOMENO DELLA GLOBALIZZAZIONE ... 151.2 LE TEORIE SULL’INTERNAZIONALIZZAZIONE D’IMPRESA ... 21
1.2.1 LE TEORIE DI HYMER ... 23
1.2.2 LE TEORIE POST-‐HYMER ... 25
1.2.3 PORTER E IL VANTAGGIO COMPETITIVO DELLE NAZIONI ... 29
1.3 LA COSTRUZIONE DI UNA GLOBAL STRATEGY ... 33
1.3.1 LA GLOBAL AMBITION ... 34
1.3.2 IL GLOBAL POSITIONING ... 37
1.3.3 IL GLOBAL BUSINESS SYSTEM ... 40
1.3.4 LA GLOBAL ORGANIZATION ... 42
1.4 L’ENTRATA IN UN MERCATO ESTERO ... 47
1.4.1 LE MODALITÀ DI INGRESSO ... 47
1.4.2 LA SCELTA DELLA MODALITÀ DI INGRESSO ... 54
1.4.3 IL PROCESSO DI INTERNAZIONALIZZAZIONE ... 57
1.5 L’INTERNAZIONALIZZAZIONE PRODUTTIVA ... 59
1.5.1 LA LOCALIZZAZIONE DEGLI IMPIANTI ... 62
1.5.2 LE MODALITÀ DI DELOCALIZZAZIONE ... 64
1.5.3 IL SOURCING DELLA PRODUZIONE INTERNAZIONALE ... 66
1.5.4 LA CATENA GLOBALE DEL VALORE ... 73
CAPITOLO 2 IL FENOMENO DEL RESHORING 2.1 I RISCHI DELL’IMPRESA INTERNAZIONALE ... 76
2.1.1 DELOCALIZZAZIONE PRODUTTIVA E CRITICITÀ ... 79
2.2 STORIA DEL RESHORING E LETTERATURA ESISTENTE ... 83
2.2.1 IL RESHORING NEGLI USA ... 85
2.3 DEFINIZIONE E CARATTERIZZAZIONE DEL FENOMENO ... 90
2.3.1 I MODELLI DI RESHORING ... 96
2.4 MOTIVAZIONI E CAUSE ... 100
2.4.1 IL COSTO DEL LAVORO ... 104
2.4.2 LA PRODUTTIVITÀ ... 109
2.4.4 LA PRESENZA DI MANODOPERA SPECIALIZZATA ... 115
2.4.5 IL SISTEMA DI TASSAZIONE ... 117
2.4.6 I COSTI DI TRASPORTO ... 119
2.4.7 GLI «HIDDEN COSTS» ... 119
2.5 LE POLITICHE PRO-‐RESHORING ... 123
2.6 EVIDENZE EMPIRICHE DEL FENOMENO A LIVELLO MONDIALE ... 127
CAPITOLO 3 IL RESHORING A LIVELLO ITALIANO 3.1 L’OFFSHORING IN ITALIA ... 132
3.3.1 DELOCALIZZAZIONE PRODUTTIVA E PMI ... 133
3.2 IL RESHORING IN ITALIA ... 137
3.2.1 EVIDENZE EMPIRICHE DEL FENOMENO A LIVELLO ITALIANO ... 141
3.3 ANALISI DEL SETTORE CALZATURIERO ITALIANO ... 145
3.3.1 LA LOCALIZZAZIONE INIZIALE DELLA PRODUZIONE ... 146
3.3.2 LE CARATTERISTICHE DELLE IMPRESE CAMPIONE DI INDAGINE ... 149
3.3.3 LE SCELTE DI RI-‐LOCALIZZAZIONE DELLE ATTIVITÀ PRODUTTIVE ... 153
3.3.3.1 IL RESHORING DEL CALZATURIERO ITALIANO ... 155
3.3.3.2 LE MOTIVAZIONI DELLE «DELOCALIZZAZIONI SENZA RITORNO» ... 157
3.4 IL VALORE DEL MADE IN ITALY, TRA TRADIZIONE ED INNOVAZIONE ... 158
3.5 SCENARI FUTURI DEL RESHORING IN ITALIA ... 161
3.6 ALCUNI ESEMPI DI RESHORING ... 163
CONCLUSIONI ... 170 BIBLIOGRAFIA ... 174 SITOGRAFIA ... 178
INDICE DELLE FIGURE
CAPITOLO 1 L’INTERNAZIONALIZZAZIONE D’IMPRESAFigura 1.1 – IL DIAMANTE DI PORTER ... 32
Figura 1.2 – LE QUATTRO DIMENSIONI DI UNA GLOBAL STRATEGY ... 34
Figura 1.3 – LA GLOBAL AMBITION ... 35
Figura 1.4 – IL FRAMEWORK CAGE ... 39
Figura 1.5 – I RUOLI DEL GLOBAL POSITIONING ... 40
Figura 1.6 – ESEMPIO DI STRUTTURA DOMESTICA CON DIVISIONE INTERNAZIONALE ... 43
Figura 1.7 – ESEMPIO DI STRUTTURA GLOBALE DIVISIONALE PER PRODOTTO ... 44
Figura 1.8 – ESEMPIO DI STRUTTURA GLOBALE DIVISIONALE GEOGRAFICA ... 45
Figura 1.9 – ESEMPIO DI STRUTTURA GLOBALE A MATRICE ... 46
Figura 1.10 – LA SCELTA DELLA MODALITÀ DI INGRESSO (1) ... 55
Figura 1.11 – LA SCELTA DELLA MODALITÀ DI INGRESSO (2) ... 56
Figura 1.12 – I BENEFICI RICERCATI DALLA DELOCALIZZAZIONE ... 63
Figura 1.13 – I PAESI D’ORIGINE DELLE IMPRESE EUROPEE CHE DELOCALIZZANO ... 66
Figura 1.14 – I PAESI DI DESTINAZIONE DELLE IMPRESE EUROPEE CHE DELOCALIZZANO .... 67
Figura 1.15 – LE MODALITÀ DI PRODUZIONE INTERNAZIONALE ... 69
Figura 1.16 – STOCK DI IDE GLOBALI E COMMERCIO MONDIALE (in % del PIL) ... 70
Figura 1.17 – FLUSSI DI IDE GLOBALI PER AREA DI DESTINAZIONE (in milioni di dollari) ... 70
Figura 1.18 – DISTRIBUZIONE PER AREA GEOGRAFICA DEGLI STOCK DI IDE GLOBALI IN ENTRATA ... 71
Figura 1.19 – LA CATENA DEL VALORE ... 74
CAPITOLO 2 IL FENOMENO DEL RESHORING Figura 2.1 – I MODELLI DI RESHORING ... 97
Figura 2.2 – LE MOTIVAZIONI DEL RESHORING ... 101
Figura 2.3 – LE PRINCIPALI MOTIVAZIONI DEL RESHORING ... 104
Figura 2.4 – CRESCITA PERCENTUALE DEI SALARI NEL MERCATO DEL LAVORO ASIATICO .... 105
Figura 2.5 – CRESCITA MEDIA DEI SALARI IN CINA (su base annua) ... 106
Figura 2.6 – CRESCITA MEDIA DEI SALARI IN UE (su base annua) ... 107
Figura 2.7 – CONFRONTO DEL LIVELLO MEDIO DEI SALARI TRA UE E CINA (su base annua) . 107 Figura 2.8 – CONFRONTO DEL LIVELLO MEDIO DEI SALARI TRA CINQUE PAESI DELL’UE (su base annua) ... 108
Figura 2.9 – LA FORMULA DELLA PRODUTTIVITÀ DEL LAVORO ... 109
Figura 2.10 – LA PRODUTTIVITÀ DEL LAVORO DI ALCUNI PAESI ... 110
Figura 2.11 – CONFRONTO TRA PRODUTTIVITÀ E COSTO DEL LAVORO DI ALCUNI PAESI DELL’ASIA ... 111
Figura 2.12 – LA PRODUZIONE PRO-‐CAPITE DEI LAVORATORI ... 112
Figura 2.13 – IL MODELLO DI SCHULTE ... 121
CAPITOLO 3
IL RESHORING A LIVELLO ITALIANO
Figura 3.1 – I NUMERI DELLE PMI ITALIANE ... 134
Figura 3.2 – PAESI DI DESTINAZIONE DELLE PMI ITALIANE ... 136
Figura 3.3 – EVOLUZIONE TEMPORALE DEL FENOMENO IN ITALIA ... 137
Figura 3.4 – IL COSTO DELLA PRODUZIONE NELLE PRINCIPALI VENTICINQUE ECONOMIE DEL COMMERCIO INTERNAZIONALE ... 139
Figura 3.5 – IL RESHORING IN ITALIA: I SETTORI INTERESSATI ... 140
Figura 3.6 – RIPARTIZIONE PER POSIZIONAMENTO NEL SETTORE ... 145
Figura 3.7 – RIPARTIZIONE PER PERCENTUALE DI ESPORTAZIONI SUL TOTALE DELLE VENDITE ... 146
Figura 3.8 – SCELTA LOCALIZZATIVA INIZIALE E DIMENSIONE DELL’IMPRESA ... 147
Figura 3.9 – SCELTA DELOCALIZZATIVA INIZIALE E SEGMENTO DI SETTORE DI APPARTENENZA ... 148
Figura 3.10 – COMPOSIZIONE DELLA SCELTA DELOCALIZZATIVA INIZIALE ... 148
Figura 3.11 – LE FONTI DEL VANTAGGIO COMPETITIVO (imprese Made in Italy) ... 149
Figura 3.12 – LE MOTIVAZIONI DELLA MANCATA DELOCALIZZAZIONE (imprese Made in Italy) ... 150
Figura 3.13 – IL FENOMENO DELLA DELOCALIZZAZIONE PRODUTTIVA NEL SETTORE CALZATURIERO ITALIANO (imprese delocalizzate) ... 150
Figura 3.14 – LE MOTIVAZIONI DELLA DELOCALIZZAZIONE (imprese delocalizzate) ... 152
Figura 3.15 – LE PROBLEMATICHE DERIVANTI DALLA DELOCALIZZAZIONE (imprese delocalizzate) ... 153
Figura 3.16 – IL PROCESSO EVOLUTIVO DELLE SCELTE DI LOCALIZZAZIONE PRODUTTIVA DELLE IMPRESE CAMPIONE DI INDAGINE ... 154
Figura 3.17 – LA REVISIONE DELLA SCELTA INIZIALE DI DELOCALIZZAZIONE ... 154
Figura 3.18 – IL RESHORING CALZATURIERO: LE SCELTE DI DELOCALIZZAZIONE INIZIALE E IL SEGMENTO DI SETTORE DI APPARTENENZA DELLE IMPRESE ... 155
Figura 3.19 – IL RESHORING CALZATURIERO: I PAESI “ABBANDONATI” ... 156
Figura 3.20 – IL RESHORING CALZATURIERO: LE FONTI DEL VANTAGGIO COMPETITIVO ... 156
Figura 3.21 – IL RESHORING CALZATURIERO: LE MOTIVAZIONI AL RIENTRO ... 157
Figura 3.22 – OPINIONI SUL RESHORING (indagine Ipsos per KPMG) ... 162
INDICE DELLE TABELLE
CAPITOLO 1 L’INTERNAZIONALIZZAZIONE D’IMPRESATabella 1.1 – L’EVOLUZIONE DEL COMMERCIO INTERNAZIONALE ... 18
Tabella 1.2 – LA DISTRIBUZIONE DEL REDDITO IN ALCUNI PAESI ... 20
Tabella 1.3 – LE MODALITÀ DI ENTRATA IN UN MERCATO ESTERO ... 48
CAPITOLO 2 IL FENOMENO DEL RESHORING Tabella 2.1 – I RISCHI DELLA DELOCALIZZAZIONE PRODUTTIVA ... 80
Tabella 2.2 – IL RESHORING NEGLI USA: SETTORI E POSTI DI LAVORO RICREATI ... 89
Tabella 2.3 – SCHEMA RIASSUNTIVO DELLE STRATEGIE DI RI-‐LOCALIZZAZIONE PRODUTTIVA ... 95
Tabella 2.4 – I PERCORSI DEL RESHORING IN BASE AL MODELLO DI GESTIONE DELLA PRODUZIONE E ALLA SUA LOCALIZZAZIONE ... 98
Tabella 2.5 – IL COUNTRY BRAND INDEX ... 103
Tabella 2.6 – RIPARTIZIONE DELLE DECISIONI PER AREA GEOGRAFICA E PAESE D’ORIGINE ... 128
Tabella 2.7 – RIPARTIZIONE DELLE DECISIONI PER AREA GEOGRAFICA E PAESE “ABBANDONATO” ... 129
Tabella 2.8 – RIPARTIZIONE DELLE DECISIONI PER SETTORE MERCEOLOGICO ... 130
Tabella 2.9 – RIPARTIZIONE DELLE DECISIONI PER MOTIVAZIONE ... 131
CAPITOLO 3 IL RESHORING A LIVELLO ITALIANO Tabella 3.1 – RIPARTIZIONE DELLE DECISIONI PER DIMENSIONE AZIENDALE ... 141
Tabella 3.2 – RIPARTIZIONE DELLE DECISIONI PER REGIONE ITALIANA D’ORIGINE ... 142
Tabella 3.3 – RIPARTIZIONE DELLE DECISIONI PER PAESE “ABBANDONATO” ... 143
Tabella 3.4 – RIPARTIZIONE DELLE DECISIONI PER SETTORE MERCEOLOGICO ... 143
Tabella 3.5 – RIPARTIZIONE DELLE DECISIONI PER MOTIVAZIONE ... 144
Tabella 3.6 – SCELTA LOCALIZZATIVA INIZIALE E PERCENTUALE DI ESPORTAZIONI ... 147
Tabella 3.7 – I PAESI ESTERI DI DESTINAZIONE (imprese delocalizzate) ... 151
Tabella 3.8 – LE FONTI DEL VANTAGGIO COMPETITIVO: UN CONFRONTO TRA IMPRESE DELOCALIZZATE ED IMPRESE MADE IN ITALY ... 151
INTRODUZIONE
Gli sviluppi della tecnologia, dell’informatica e dei sistemi di comunicazione, la liberalizzazione dei mercati, l’innalzamento del livello culturale e della qualità di vita di parte della popolazione mondiale, hanno nel tempo trasformato l’ambiente in cui le imprese sono chiamate a competere l’una con l’altra. Oggigiorno, infatti, è possibile considerare l’esistenza di un’unica arena competitiva globale, che appare sostituire per importanza, opportunità e ovviamente per dimensione, l’idea di mercato fino a non molte decine di anni fa predominante.
In questo contesto, naturale è stato l’affermarsi di un modello di impresa di tipo internazionale, sistema aziendale che alla base delle proprie attività ha il concetto di abbattimento e superamento dei confini territoriali nazionali. Migliaia sono state le imprese di ogni dimensione che in tutto il mondo hanno deciso di delocalizzare la propria produzione in Paesi i cui vantaggi comparati e le cui condizioni politiche, sociali ed economiche potessero permettere di realizzare maggiori profitti, soprattutto a fronte di notevoli risparmi nei costi.
Ciononostante, negli ultimi anni ricercatori ed economisti hanno cominciato a discutere dell’esistenza di un particolare fenomeno di controtendenza, definito “reshoring”, di rientro nazionale e di ri-‐localizzazione delle produzioni – precedentemente trasferite – nei Paesi d’origine. Secondo gli studiosi, alla base di tali comportamenti ci sarebbero due principali ordini di motivazioni: uno di tipo quantitativo, in virtù di una sostanziale delusione circa gli effettivi vantaggi di costo realizzati, l’altro più qualitativo, conseguentemente ad un ripensamento della catena del valore aziendale, e quindi di un’attribuzione di importanza maggiore a fattori quali la qualità del prodotto e l’immagine dell’impresa.
Per la prima volta indagato negli Stati Uniti, attualmente anche in Italia si contano numerosi casi di reshoring, specialmente nel settore «aggregato» dell’abbigliamento, e si prospetta che col passare degli anni, anche in virtù di una probabile diffusione di politiche finalizzate a promuovere gli investimenti, questo numero possa solamente essere destinato a crescere.
Nel presente lavoro di tesi, pertanto, vengono descritte, sia teoricamente sia attraverso rappresentazioni numeriche e casi di studio, le tematiche di internazionalizzazione d’impresa e di rimpatrio produttivo, illustrando, inoltre, i processi che inducono le imprese ad intraprendere ognuno o entrambi di questi percorsi.
Nello specifico, l’elaborato è diviso in tre principali sezioni.
Nel Capitolo 1 sarà descritto il modello di impresa internazionale, partendo dal presupposto che ad oggi sempre più imprese decidono di interfacciarsi coi mercati esteri, in virtù di un contesto competitivo che progressivamente induce i propri attori a relazionarsi con economie distanti dalla propria, sia geograficamente sia culturalmente. I processi di «globalizzazione economica», infatti, nel tempo hanno fatto sì che le catene del valore aziendali si sviluppassero oltrepassando i confini nazionali, connettendo tra loro imprese localizzate in tutto il mondo. Ad un’introduzione di tipo teorico, in cui si descriverà il processo storico dell’approccio accademico e letterario al fenomeno dell’internazionalizzazione, seguirà la caratterizzazione delle fasi della crescita estera di un’impresa. Il punto di vista descrittivo sarà prettamente di tipo economico-‐gestionale, nell’ottica di fornire uno schema riassuntivo dei momenti salienti del processo, e di come manager e imprenditori organizzano le risorse a propria disposizione per il raggiungimento degli obiettivi prefissati in termini di global strategy e modalità di entrata nel mercato estero selezionato. Dopo, l’analisi si concentrerà sul fenomeno dell’internazionalizzazione produttiva, nato dal comportamento delle imprese di trasferire in Paesi esteri la totalità o parte dei processi produttivi interni.
Il fenomeno del reshoring è introdotto nel Capitolo 2, nel quale si cerca di dare un’esauriente esposizione dei principali contenuti inerenti alla tematica. Allo stato attuale delle cose, considerato il livello di novità che contraddistingue il tema, la letteratura esistente risulta scarsa e molto spesso contrastante. C’è da dire, a proposito, che numerosi ricercatori, studiando i comportamenti delle imprese che decidevano di rimpatriare i processi produttivi precedentemente delocalizzati, si sono domandati se potesse trattarsi di un vero e proprio fenomeno economico oppure solamente di casi episodici. Ad oggi, attraverso lo studio dei dati, perlopiù raccolti mediante indagini di tipo “esplorativo”, è possibile affermare che il
molte imprese e già da più di vent’anni. La descrizione del fenomeno, quindi, parte proprio dall’elencazione delle motivazioni e dalle cause più rilevanti che inducono le imprese a ritornare nei propri Paesi d’origine, ponendo particolare attenzione anche nella descrizione delle criticità e dei rischi ai quali possono andare incontro le imprese che operano su scala internazionale.
Nel Capitolo 3, infine, si effettuerà l’analisi del reshoring con particolare attenzione al contesto italiano, oggetto d’analisi anche per via del fatto che ad oggi in Italia si possono contare più di un centinaio di decisioni di rimpatrio produttivo, un numero il cui valore intrinseco aumenta se si considera che solamente gli USA hanno fatto registrare di meglio. Tale studio sarà supportato da numerose ed articolate evidenze empiriche – raccolte dal gruppo di ricerca italiano sul reshoring “Uni-‐CLUB MoRe Back-‐Reshoring” – grazie alle quali si riuscirà a comprendere la reale entità del fenomeno, e le sue peculiarità a livello italiano. Dopo, si passerà all’analisi dei processi di ri-‐localizzazione con particolare riferimento al settore del calzaturiero, uno dei più attivi in Italia. Pertanto, si porrà il focus sull’importanza del Made in Italy e della necessità di promuovere e tutelare il più efficacemente possibile le produzioni 100% italiane.
CAPITOLO 1
L’INTERNAZIONALIZZAZIONE D’IMPRESA
1.1 IL FENOMENO DELLA GLOBALIZZAZIONE
Molti storici affermano che con la caduta del muro di Berlino, il 9 Novembre 1989, si sia dato simbolicamente avvio all’era della globalizzazione. Il crollo dell’Unione Sovietica, il fallimento del sistema produttivo basato sulla pianificazione
economica1 e l’ascesa ideologica del modello neo-‐liberalista2 hanno permesso che
si sviluppasse quel fenomeno oggi più che mai ritenuto essere in progressiva espansione e che, negli ultimi decenni, ha permesso che si raggiungessero globalmente risultati economici, sociali e culturali, probabilmente difficili da prevedere in tale misura.
Viviamo in un periodo storico in cui “tutto è alla portata di tutti”: è possibile disporre di un qualsivoglia prodotto nei tempi e nei modi più desiderati e disparati, si può viaggiare e ritrovare proprie tradizioni altrove, o addirittura videochiamare un proprio caro situato dall’altra parte del mondo. Gli sviluppi della tecnologia, dell’informatica e dei sistemi di comunicazione, la liberalizzazione dei mercati, la diffusione della conoscenza e l’innalzamento del livello culturale e della qualità di vita di parte della popolazione, sono solo alcune delle cause che hanno condotto alla trasformazione del pianeta e alla “riduzione della distanza” tra le persone.
Il fenomeno si riconosce a più livelli:
• a livello culturale, con la propagazione di modelli e stili di vita unici, e grazie a fattori quali l’omologazione linguistica e l’abbattimento delle differenze tra popoli. Tali fenomeni, infatti, hanno permesso alle aziende di iniziare a
1 Tra il 1929 e il 1933, Iosif Stalin, alla guida dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS), adottò un sistema di produzione, scambio e distribuzione – gestito dall’ente pubblico Gosplan – basato su una pianificazione economica quinquennale che prevedeva il raggiungimento di determinati obiettivi quantitativi in ogni ambito dell’economia e di definite quantità fisiche di beni da produrre.
2 Pensiero socio-‐economico che assumeva come dogma l’idea che l’individualismo di mercato fosse l’unico modo per gestire le relazioni economiche. La propaganda sosteneva la necessità dell’adozione di un pensiero unico globale e dell’attuazione di politiche di deregolamentazione e di privatizzazione, riducendo il peso dello Stato nella vita pubblica.
commercializzare prodotti standardizzati anche a livello mondiale, e quindi a modificare le proprie strutture organizzative, seguendo modelli gestionali
innovativi come, ad esempio, quello del lean management3;
• a livello politico, con la riconfigurazione dello scenario governativo internazionale e la sempre più costante erosione della sovranità statuale, circostanze che stanno favorendo la diffusione di sistemi politici uniformati e unificati, dove la governance si trasferisce verso istituzioni sovranazionali. Infatti, uno degli effetti della globalizzazione è stato quello di indurre a riflettere circa la necessità di ridurre i gap regolativi esistenti, non in linea con le caratteristiche di un contesto in fase di trasformazione. Nello specifico,
sono due i paradigmi che spiegano il cambiamento normativo in atto4: il
«paradigma della concorrenza regolatoria», che riconosce l’esistenza di un vero e proprio mercato legislativo, nel quale gli ordinamenti nazionali divengono in competizione tra loro e sono alla ricerca di capitali esterni da attrarre per garantire la più efficiente localizzazione produttiva, e il «paradigma libero-‐scambista», in cui si sanciscono processi come quello della liberalizzazione del commercio e della integrazione dei mercati. Col tempo, queste manifestazioni hanno portato al verificarsi di forme evidenti di
dumping5, normativo e sociale, e di law shopping6;
• a livello sociale, attraverso la continua integrazione tra differenti culture e civiltà, avvantaggiata dai crescenti sviluppi tecnologici, delle reti di trasporto, delle forme di comunicazione e dalla diffusione di standard sia ideologici sia di stili di vita. Il rovescio della medaglia, però, evidenzia come la
3 Il lean management o lean production, in italiano «produzione snella», è un approccio organizzativo e gestionale che cerca di eliminare ogni tipologia di spreco (tempo, sforzo umano, risorse economiche) all’interno dei processi produttivi, in ordine del raggiungimento di obiettivi di efficienza dei costi, efficacia delle scelte strategiche e nell’utilizzo delle competenze, combinando competenze interne ed esterne e valorizzando le attività dal più elevato valore aggiunto (spesso esternalizzando quelle con più basso).
4 cfr. Perulli A., Brino V. (2015), Manuale di Diritto Internazionale del Lavoro, Giappichelli
5 Per dumping si intende una strategia “con cui i prodotti di un Paese sono immessi in commercio in un altro
Paese ad un prezzo inferiore al valore nominale del prodotto” (GATT, General Agreement of Tarifs and Trade,
1994). E’ considerato una forma di concorrenza sleale e una barriera al commercio internazionale, finalizzata all’appropriazione fraudolenta dei mercati esteri. Dumping normativo, invece, è in riferimento a quelle forme di eccessiva deregolamentazione interna, dei Paesi che intendono attrarre investimenti esteri. Infine, il dumping sociale esamina la sfera dei diritti umani e del lavoratore, e situazioni in cui essi non sono garantiti nella corretta misura.
6 Comportamento assunto dalle imprese che intendono ricercare i sistemi regolativi più vantaggiosi e meno restrittivi. In tale processo esse sono assistite sia dagli Stati meno virtuosi, disposti a praticare forme di dumping normativo, sia dalle organizzazioni internazionali, come la Banca Mondiale, che annualmente pubblica un rapporto valutativo sui diritti nazionali al fine di indirizzare le scelte verso la miglior de-‐ localizzazione capitalistica.
globalizzazione negli anni abbia portato anche ad un aumento delle disuguaglianze, specialmente come prodotto del contemporaneo aumento della ricchezza e della povertà, sia a livello internazionale che all’interno dei Paesi. E’ anche per questa ragione, quindi, che negli anni si sono sviluppati movimenti internazionali di resistenza alla logica neo-‐liberalista. Infatti, i “No Global”, comunemente così identificati, intendono combattere quelli che sono gli effetti negativi del processo di globalizzazione: la povertà, il mutamento
anti-‐democratico dell’economia, l’insostenibilità ambientale, la
precarizzazione del lavoro;
• infine, a livello economico, principalmente con la destrutturazione aziendalistica dei processi produttivi e delle relazioni intercorrenti la sfera politica e quella economica. Infatti, le leggi del mercato, e la “mano invisibile” che lo regola, prendono sempre più piede nel panorama regolativo internazionale del commercio tra Stati e imprese multinazionali, e permettono che quest’ultime possano svilupparsi incrementando la mobilità dei propri investimenti e processi di integrazione sia verticale, ma soprattutto orizzontale, attraverso esternalizzazioni e delocalizzazioni internazionali di interi processi aziendali. Tali scelte organizzative, infatti, lasciano che le imprese cerchino l’ambiente normativo e il contesto economico a loro più adatto e più conveniente, al fine di accrescere quanto più il valore dell’impresa secondo le priorità del management.
Come tutti i termini inflazionati, anche quello della globalizzazione risulta difficile da definire in modo univoco. Una possibile definizione, comunque, presenta il fenomeno come quel processo di integrazione storico e dinamico su scala globale, che esercita i propri effetti sui Paesi, sul grado di interdipendenza tra loro e sul sistema capitalistico di mercato. E’ un fenomeno dal carattere ciclico e che cambia caratteristiche e dimensione nel tempo. Infatti, c’è chi ritiene che la globalizzazione viva diverse fasi, sia temporali sia di significato, e che: l’epoca presente possa essere considerata di globalizzazione moderna e, addirittura, la scoperta dell’America, secondo un’accezione squisitamente storica, possa rappresentare una fase iniziale dell’intero processo. Inoltre, sebbene abbastanza semplicistica, un’interessante interpretazione aziendalistica del processo economico e di trasformazione in atto, è suggerita dal ricercatore statunitense Timothy J.
Sturgeon7, che identifica e rileva il cambiamento principale non solo nel flusso di
beni, servizi e investimenti che Paesi e imprese muovono oltre i confini nazionali, ma anche nell’insieme delle attività che tali organizzazioni realizzano per avviare,
sostenere e gestire questi flussi8.
In ogni caso, al di là di qualunque “restrizione” definitoria, e per comprendere al meglio il fenomeno, è possibile qualificare la politica economica della
globalizzazione neo-‐liberalista attorno a cinque elementi essenziali9:
1. la liberalizzazione del commercio internazionale e il maggiore grado di apertura delle economie nazionali verso i mercati esteri. La tabella 1.1 riporta i dati globali di export, import e investimenti diretti esteri dal 1969 al 2015 evidenziando, infatti, un’evoluzione costantemente crescente;
Tabella 1.1 – L’EVOLUZIONE DEL COMMERCIO INTERNAZIONALE
1969 1979 1989 1999 2009 2015
Esportazioni totali
(mondo – trilioni di dollari a prezzi costanti)
0.266 1.621 3.055 5.752 12.638 16.576 Importazioni totali
(mondo – trilioni di dollari a prezzi costanti)
0.276 1.646 3.137 5.879 12.745 16.705 Investimenti esteri diretti
(afflusso netto – trilioni di dollari a prezzi costanti)
... 0.040 0.189 0.962 1.361 2.040
Fonte: World Development Indicators, World Bank Group
2. la finanziarizzazione dell’economia, con un’importanza sempre maggiore del
mercato finanziario rispetto a quello reale10;
3. la deregolamentazione del mercato del lavoro (che comunque, in virtù dei rischi legati ai flussi migratori internazionali e alla sfera dei diritti umani, non può essere completamente liberalizzato);
7 Timothy J. Sturgeon è un ricercatore statunitense del Massachusetts Institute of Technology (MIT) e collaboratore presso varie agenzie internazionali di ricerca e sviluppo. Le sue ricerche e i suoi progressi scientifici hanno contribuito in maniera rilevante agli sviluppi delle teorie in materia di globalizzazione, global
integration e Global Value Chain (GVC).
8 cfr. Sturgeon T. J. (2013), Global Value Chains and Economic Globalization, Eurostat Report 9 cfr. Figini P. (2005), La Politica Economica della Globalizzazione, Sistemaeconomico
10 È il mercato dei beni e dei servizi, che si distingue da quello finanziario, dove vengono scambiati strumenti finanziari di vario genere.
4. la privatizzazione, e la conseguente diminuzione del peso dello Stato nell’economia;
5. il trasferimento di sovranità circa la politica economica verso istituzioni meno democratiche e organismi indipendenti – come ad esempio la Banca Centrale, il Fondo Monetario Internazionale (FMI) o l’Organizzazione Mondiale per il Commercio (OMC) – nei quali il potere decisionale dei cittadini è esercitato in maniera indiretta e spesso poco incidente, anche per via del ruolo cruciale a favore degli interessi economico-‐politici capitalistici giocato dalle lobby.
Ma quali sono gli effetti della globalizzazione economica? Studiosi del settore, sociologi, economisti, costantemente analizzano le conseguenze micro e macroeconomiche che tale processo, di crescente integrazione internazionale, continua a far registrare. È un argomento che “spacca” a metà l’opinione generale: seppure le teorie tradizionali sul commercio internazionale dei vantaggi assoluti e
comparati11, che sostengono la maggiore efficienza degli scambi rispetto
l’autoproduzione, dimostrino che l’apertura internazionale delle imprese porti benefici diffusi, è bene comprendere che tali benefici, dati alla mano, tra i diversi Paesi sono rilevati in maniera disuguale. I Paesi ricchi del pianeta risultano beneficiare in maniera più che proporzionale dei Paesi in via di sviluppo (PVS), che addirittura, in alcune casistiche, non traggono alcun tipo di vantaggio. Trattasi sempre più di un meccanismo concorrenziale “a somma zero”, in cui ci sono perdenti e vincitori. In aggiunta, è importante considerare come il processo di liberalizzazione internazionale preveda necessariamente dei costi di aggiustamento, che possono propagarsi e crescere nel lungo periodo e richiedere maggior tempo affinché variabili macroeconomiche quali occupazione, prezzi,
capitali, scorte, possano stabilizzarsi12.
11 La teoria del vantaggio assoluto, formulata nel 1776 dall’economista scozzese Adam Smith (Kirkcaldy, 5 giugno 1723 – Edimburgo, 17 luglio 1790), rientra nell’insieme di teorie sul commercio internazionale ed afferma che gli scambi tra Paesi si basino sul vantaggio assoluto: una nazione esporta quei beni che produce ad un costo inferiore assoluto rispetto alle altre nazioni. La teoria dei vantaggi comparati (1817), invece, elaborata dall’economista inglese David Ricardo (Londra, 19 aprile 1772 – Gatcombe Park, 11 settembre 1823), si basa sull’assunto che un paese tenderà a specializzarsi nella produzione del bene su cui ha un vantaggio comparato (cioè la cui produzione ha un costo opportunità, in termini di altri beni, minore che negli altri paesi). Il modello ricardiano prevede che tutti traggano benefici dal commercio. Infatti, si può considerare il commercio come una produzione indiretta, ma più efficiente di quella diretta. Inoltre, il commercio garantisce una scelta più vasta per i consumatori (non più vincolati dalle possibilità di produzione interna).
I dati elencati in tabella 1.2, infatti, indicano la percentuale di reddito detenuta dal 20% più povero della popolazione di alcuni Paesi in due momenti storici differenti. Una diminuzione di questo valore rappresenta un peggioramento della disuguaglianza, e quindi l’affermazione della tesi che, nonostante l’aumento della ricchezza globale, la globalizzazione abbia portato nel tempo alcune nazioni ad uno stato di sostanziale iniquità redistributiva e di peggioramento della povertà.
Tabella 1.2 – LA DISTRIBUZIONE DEL REDDITO IN ALCUNI PAESI
1990 2010 Brasile 3.2 2.5 Cile 4.3 3.7 India 8.8 9.1 Stati Uniti 6.4 5.7 Regno Unito 8.7 7.5 Finlandia 10.8 10.6 Olanda 10.6 10.1
Fonte: World Income Inequality Database
Un’ulteriore conferma, ad esempio, proviene dall’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) su dati del 2015, affermando come l’1% della popolazione italiana detenga ben il 14,3% della ricchezza nazionale netta, e definendo una situazione di squilibrio in cui il 20% della popolazione di prima fascia possieda il 61,6% delle attività finanziarie e non, il seguente 20% al di sotto il 20,9% ed il restante 60% della popolazione della penisola solamente il 17,4%. Le più grandi questioni sulla globalizzazione, fonte e argomento di dibattito mondiale, valutano quanto essa stia contribuendo ad accelerare la crescita economica, a redistribuire l’economia e a combattere la povertà. Attualmente l’analisi è controversa, infatti, sebbene molte delle teorie economiche moderne,
come quelle di Heckscher-‐Ohlin e di Stolper-‐Samuelson13, farebbero pensare che
13 Il modello di Heckscher-‐Ohlin (1933) è un modello matematico di equilibrio economico generale sviluppato nell’ambito della teoria del commercio internazionale. Prende il nome dai due economisti svedesi, Eli Heckscher (Stoccolma, 24 novembre 1879 – Stoccolma, 23 dicembre 1952) e Bertil Ohlin (Klippan, 23 aprile 1899 – Valadalen, 3 agosto 1979), che originariamente lo proposero. Esso afferma che “un Paese
esporterà il bene la cui produzione richiede l’utilizzo intensivo del fattore che nel Paese è relativamente abbondante e poco costoso, mentre importerà il bene la cui produzione richiede l’impiego intensivo del fattore che nel Paese è relativamente scarso e costoso”. Un Paese nel suo complesso per effetto del commercio
internazionale starà meglio, anche se il modello prevede che i titolari dei fattori scarsi vedranno peggiorare la propria condizione in assenza di compensazione. Il modello, inoltre, prevede il pareggiamento dei prezzi
gli effetti positivi debbano sovrastare senza dubbio quelli opposti, i dati pubblicati nel “Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo” duramente affermano che 2,8 miliardi di persone ancora vivono con meno di due dollari al giorno, con scarso accesso all’acqua, al cibo, all’istruzione e alla sanità. L’OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro) dichiara che esistono nel mondo 250 milioni di bambini lavoratori, 3 miliardi di disoccupati e che il 75% dei lavoratori rurali si trova in
condizione di povertà14. Sono numeri raccapriccianti, e che fanno riflettere tanto.
Sono numeri che esprimono come il processo di globalizzazione in atto non abbia assolutamente ancora diminuito le disuguaglianze tra e all’interno dei Paesi, anzi, le stia accompagnando ad un progressivo aumento, in virtù di un crescente arricchimento di chi già lo era. Ciononostante, oggi non è ancora possibile parlare di successo o fallimento della globalizzazione, del modello di mercato che pian piano si cerca di imporre e dei rinnovati stili di vita delle persone del nord del pianeta. Si è infatti in una fase in cui tutto è ancora sensibilmente in continuo cambiamento, e ogni importante evento a livello economico o politico può destabilizzare i sottili equilibri esistenti.
1.2 LE TEORIE SULL’INTERNAZIONALIZZAZIONE D’IMPRESA
I progressi tecnologici, dei sistemi di comunicazione e di quelli di trasporto, assieme ai cambiamenti precedentemente descritti, stanno trasformando l’ambiente in cui le imprese sono chiamate a competere l’una con l’altra. Infatti, indirettamente, anche una piccola azienda familiare manifatturiera si trova “rimbalzata” in un contesto in cui deve concorrere con imprese situate dall’altra
relativi dei beni e dei fattori, che tuttavia non si osserva nella realtà. Infatti, l’evidenza empirica a sostegno del modello di H-‐O è debole, eccetto per i casi di commercio tra Paesi ad alto reddito e Paesi a basso/medio reddito o quando si considerano differenze nel livello tecnologico.
Il teorema di Stolper-‐Samuelson, formulato nel 1941 da Wolfgang Stolper (Vienna, 13 maggio 1912 – Ann Arbor, 31 marzo 2002) e Paul Samuelson (Gary, 15 maggio 1925 – Belmont, 13 dicembre 2009), non fa altro che studiare gli effetti dell’apertura al commercio internazionale del modello H-‐O sulla distribuzione del reddito, collegando i prezzi relativi dei beni con le remunerazioni reali dei fattori produttivi, e affermando che:
“un aumento nel prezzo relativo di un bene produce un incremento nella remunerazione relativa del fattore (in particolare, salari o rendimento del capitale) che ha più alta intensità nella produzione di tale bene e, allo stesso tempo, una diminuzione nella remunerazione dei fattori a minore intensità”. La validità empirica del teorema è
stata messa in discussione già a partire dal Paradosso di Leontief del 1954 e dall’aumento nelle disuguaglianze salariali che hanno accompagnato l’apertura al commercio dei Paesi in via di sviluppo.
parte del mondo, che vendono i medesimi prodotti, e magari anche alla metà del prezzo. Viviamo in un’epoca in cui i colossi del commercio internazionale affidano la maggioranza del proprio fatturato e dei propri profitti alla vendita di prodotti standardizzati verso l’intera popolazione mondiale. Coca Cola, Apple, Starbucks, Zara, sono solo alcuni esempi di imprese che competono nel mercato globale e che hanno cambiato, accomunandoli, i modelli di vita e le abitudini delle persone. La situazione economica moderna, comunque, con la comparsa e l’affermazione di un modello di impresa globalizzata, è frutto di un processo storico di trasformazione che, nel corso del tempo, è stato oggetto di indagine e ricerca di molti economisti e numerosi sociologi.
Il contributo più importante riguardante gli studi dei processi di internazionalizzazione aziendale è ritenuto essere dell’economista canadese
Stephen Herbert Hymer15. Nel suo elaborato, intitolato “The International
Operations of National Firms: A Study of Direct Foreign Investment” (1960), egli
individua e spiega dettagliatamente quali sarebbero le motivazioni alla base dell’allargamento dei confini aziendali, cogliendo criticamente anche il portafoglio di vantaggi insito a queste scelte. Tale apporto teorico, dal peso specifico così elevato, nella storia economica moderna ha fatto sì che alcuni economisti
(Kindleberger, 1984 16 ) arrivassero persino a suddividere le teorie
sull’internazionalizzazione in contributi pre-‐Hymer e post-‐Hymer. Prima del 1960, infatti, gli studi sull’economia internazionale ancora non ponevano l’attenzione sull’attività d’impresa e sull’istituto azienda, bensì si soffermavano sull’analisi di variabili solamente macroeconomiche e sul comportamento delle nazioni e i
rapporti tra loro, sulle differenze e le similitudini17.
Come già citato nel paragrafo 1.1, sono due i modelli principali delle teorie pre-‐ Hymer: il primo, proposto nel 1776 dall’economista scozzese Adam Smith attraverso il “modello del vantaggio assoluto”, ed il secondo, teorizzato dall’economista britannico David Ricardo nel 1817, conosciuto sotto il nome di “modello del vantaggio comparato”. Entrambi dimostravano come il commercio
15 Stephen Herbert Hymer (Montreal, 15 novembre 1934 – Shandaken, 4 febbraio 1974) è stato un economista canadese ed è considerato essere il padre dell’international business per via dei suoi contributi in merito ai processi di investimento diretto estero, così come grazie ai suoi studi e le sue produzioni accademiche nel campo delle teorie dell’impresa multinazionale.
16 cfr. Kindleberger C. P. (1984), Multinational Excursions, MIT Press
internazionale di beni e capitali producesse importanti vantaggi da più punti di vista, ma sempre a livello di Paese. Dopo più di un secolo, nel 1933, gli studiosi svedesi Heckscher e Ohlin, misero a punto un ulteriore modello – che poi prese il nome degli stessi autori (H-‐O) – a completamento della teoria ricardiana, ma che dopo pochi anni fu contraddetto dal “paradosso di Leontief” (1954), un insieme di risultati empirici che misero in discussione e ruppero le colonne portanti della teorie classiche, oramai inadeguate.
1.2.1 LE TEORIE DI HYMER
Stephen Hymer è stato il primo ricercatore ad elaborare una teoria sulla internazionalizzazione delle imprese, ponendo il focus dei suoi studi sugli investimenti diretti esteri (IDE), per lui non semplicemente movimentazioni di capitale, “bensì un insieme complesso e organizzato di transazioni che permettono il
trasferimento di capitali, tecnologia e competenze organizzative da un Paese all’altro e, come tali, riconducibili più propriamente all’attività di impresa”18.
L’economista canadese, pertanto, considera gli investimenti esteri non più solamente come fenomeno a sé stante, ma li analizza come prodotto della attività di impresa, frutto di scelte aziendalistiche e della crescita fisiologica dell’impresa stessa. Questo punto di vista di carattere microeconomico pone l’attenzione, quindi, sul processo di crescita dell’impresa, in una prima fase concentrato solo a livello nazionale, per ottenere profitti sempre maggiori e con l’obiettivo di raggiungere un livello di ricchezza tale – anche di monopolio – da poter permettere investimenti all’estero e superare i confini nazionali, stadio ultimo della crescita aziendale. Questo passo finale, però, sarà compiuto solamente se saranno posseduti gli specifici vantaggi necessari per superare le generali barriere all’entrata del mercato internazionale e per permettere di operare validamente
all’estero. Tale teoria si basa sul modello della cosiddetta “liability of foreigness”19,
un costrutto che definisce la natura dei costi addizionali che un’impresa in fase di internazionalizzazione deve necessariamente sostenere per competere, rispetto ad
18 cfr. Hymer S. (1960), The International Operations of National Firms: A Study of Direct Foreign Investment, MIT Press
19 cfr. Nachum L. (2014), Multinational Enterprise and International Business, The Palgrave Encyclopedia of Strategic Management
un’altra che opera solo localmente; tra questi troviamo, ad esempio, i costi derivanti dalla conoscenza limitata del contesto ospitante, quelli provenienti da una iniziale discriminazione degli stakeholder chiave, così come tutte le difficoltà di gestire un’organizzazione le cui sotto-‐unità sono separate temporalmente e geograficamente.
In ogni caso, Hymer classifica i suddetti vantaggi in:
• vantaggi di costo:
− economie di scala legate a maggiori volumi produttivi e poteri contrattuali;
− tassi inferiori sui mercati finanziari in seguito a condizioni di favore; − controllo o proprietà di fattori produttivi strategici (risorse scarse) o
sfruttamento delle imperfezioni di mercato per risorse base (materie prime, manodopera, ecc.);
− tecniche di produzione innovative mediante la registrazione di brevetti; • vantaggi di differenziazione:
− controllo o proprietà dei punti vendita strategici;
− possesso di un marchio che indirizzi le preferenze dei consumatori; − economie di scala legate a politiche di advertising e marketing; − prodotti dal design unico, protetti da brevetti.
Un’impresa, pertanto, si internazionalizza se possiede vantaggi di costo o di differenziazione in maniera superiore rispetto alle barriere che frenano l’accesso ai mercati esteri, e in virtù di tali vantaggi potrà decidere se esportare prodotti e servizi, vendere o concedere in licenza uno o più vantaggi, o infine effettuare in maniera diretta investimenti esteri.
Con focus rispetto ai benefici che un’impresa otterrebbe internazionalizzandosi, Hymer crede che in primo luogo essi siano vantaggi di ordine superiore rispetto a quelli acquisibili a livello nazionale, poi afferma che le utilità maggiori influiscano principalmente sul pacchetto interno di risorse e competenze possedute, necessarie per guadagnare un vantaggio competitivo solido e fruttifero. Affacciarsi al mercato estero, infatti, creerebbe un consistente e cosiddetto “differenziale di vantaggio” nei confronti dei concorrenti locali, che determinerebbe e guiderebbe in un secondo momento anche le strategie di azione future, consentendo quindi di