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Academic year: 2021

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CAPITOLO 1

I metalli pesanti: aspetti sanitari e legislativi

Ogni organismo vivente necessita di sostanze precise ed insostituibili per l’espletamento delle proprie funzioni fisiologiche. Fra queste sostanze ritroviamo alcuni metalli che, in sinergia con specifiche molecole, contribuiscono al compimento di molti processi biochimici essenziali per la vita.

Si definiscono essenziali quei metalli che, se non vengono assunti in quantità adeguata, non consentono, agli individui di una determinata specie, la crescita ed il completamento del ciclo biologico. Un elemento essenziale, infatti, non può essere sostituito da un altro ed è caratterizzato da uno specifico apporto minimo giornaliero. In particolare, la categoria dei metalli essenziali comprende ferro, cobalto, cromo, rame, manganese, molibdeno, selenio, zinco.

Per tutti i metalli definiti non essenziali, non essendo nota alcuna funzione indispensabile all’organismo, non è ovviamente possibile riscontrare uno stato di carenza (tranne che per l’alluminio, anche se le informazioni in proposito sono ancora incomplete). Tali elementi sono invece definiti metalli tossici, poiché l’effetto biologico nei confronti dell’organismo a determinate dosi è soltanto sfavorevole. Fra questi, i più importanti sono: alluminio, arsenico, berillio, cadmio, mercurio, nichel e piombo. La loro tossicità è dovuta principalmente al fatto che l’organismo non possiede alcun meccanismo omeostatico che ne regoli e limiti l’accumulo corporeo. La tossicità sistemica dei metalli si manifesta

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pertanto attraverso interferenze nell’attività di vari sistemi enzimatici dell’organismo (è il caso tipico di mercurio e piombo).

Il numero di organi oggetto dell’azione tossica di un dato metallo è limitato, e fra questi ve n’è uno, detto “organo critico”, che per primo raggiunge la concentrazione critica, cioè la dose limite, ed è pertanto l’organo ove si osservano gli effetti più precoci.

L’assunzione di questi elementi nocivi sta diventando un problema sempre maggiore, soprattutto in relazione agli elevati livelli d’inquinamento che caratterizzano alcune regioni della terra. Infatti, la costante immissione di queste sostanze nell’ambiente ne determina l’accumulo nelle varie nicchie ecologiche influenzando, direttamente o indirettamente, anche la salute umana.

Di seguito verranno discussi i principali effetti dannosi sull’uomo di piombo, cadmio e cromo.

1.1 Piombo

La tossicità del piombo è nota fin dai tempi di Ippocrate, il quale denominò “saturnismo” la malattia indotta da questo metallo. Anche in epoca romana questa forma di avvelenamento, denominato “piombismo”, era ben conosciuta. Rispetto ad altri metalli nocivi o potenzialmente nocivi, gli studi sugli effetti dannosi del piombo negli organismi viventi sono stati particolarmente consistenti, anche alla luce della sua importanza a livello tossicologico. Infatti, il piombo è stato inserito al 2° posto nella lista delle sostanze pericolose indicate dall' ATSDR (Agency for Toxic Substances and Disease Registry, 1999), in testa alla quale troviamo l’arsenico.

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Recentemente, come è accaduto anche per numerosi altri agenti inquinanti, la dose considerata critica è stata notevolmente abbassata rispetto ai valori indicati nel passato. Infatti, sino a circa trent'anni fa, l'avvelenamento cronico da piombo era definito dalla presenza di una dose superiore a 80µg/dl nel sangue, mentre attualmente viene considerata “alta” una dose di piombo pari a 25 µg/dl e potenzialmente nocive, specie nello sviluppo, quantità uguali o superiori a 10µg/dl (0.1ppm) (Meyer e coll, 2003).

Assorbito essenzialmente attraverso la respirazione e la nutrizione, il piombo non viene metabolizzato, ma per larga parte escreto, mentre il resto (circa 20%) si distribuisce nei tessuti e in particolare nel sangue, ove circola quasi esclusivamente negli eritrociti, accumulandosi nei tessuti minerali (ossa e denti) e nei tessuti molli (reni, midollo osseo, fegato e cervello) (Barry, 1978).

La presenza di piombo nel sangue, all'interno dei globuli rossi e in massima parte legato all'emoglobina, provoca anemia, che deve però considerarsi non un sintomo, ma una manifestazione tardiva di avvelenamento (Lopez e coll., 2001). Attraverso il sangue, il piombo si distribuisce in tutti gli altri tessuti. Per la sua capacità di “imitare” il calcio, e quindi soprattutto in caso d’insufficiente assunzione di quest’ultimo, il piombo si accumula nelle ossa e vi costituisce una componente stabile. Tale componente può essere mobilizzata, e quindi rientrare in circolo nel sangue, in particolari stati fisiologici di stress (gravidanza, allattamento, malattie), ma anche come conseguenza di un accresciuto apporto di calcio nella dieta. Questo accumulo stabile di piombo nelle ossa rende molto lenta la guarigione dalla piombemia, anche dopo un completo allontanamento dell'agente tossico (Gwiazda e coll, 2005).

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La manifestazione più subdola e pericolosa dell'avvelenamento da piombo è quella a carico del sistema nervoso. Negli adulti il danno da piombo si manifesta soprattutto con neuropatia periferica, che si ritiene dovuta ad un processo di demielinizzazione delle fibre nervose. L'esposizione intensa ad elevate dosi di piombo (da 100 a 200µg/dl) provoca encefalopatia, i cui sintomi sono: vertigini, insonnia, cefalea, irritabilità e successivamente crisi convulsive e coma. La neuropatia da piombo colpisce soprattutto nello sviluppo, con turbe comportamentali e danni cognitivi (Ellis e Kane, 2000). Studi epidemiologici hanno mostrato una forte correlazione fra il livello di piombo nel sangue e nelle ossa e scarse prestazioni in prove attitudinali (test QI o psicometrici) (Rosen, 1995). Il processo di apprendimento avviene attraverso la formazione e il rimodellamento delle sinapsi e l'effetto tossico del piombo su tale processo suggerisce che questo metallo danneggi specificamente la funzione sinaptica (Refalowska e coll. 1996).

Infine, il piombo è stato classificato dall’IARC (International Agency for Research on Cancer) nel 1987 come cancerogeno di tipo 2B. Studi effettuati in proposito hanno dimostrato che, solo se si verifica uno stretto e prolungato contatto con questo metallo, vi è la possibilità di sviluppare neoplasie principalmente a livello polmonare e gastrointestinale, ma con possibile attacco anche del tessuto renale ed epatico (Casaret e Doull’s, 2000).

L'avvelenamento da piombo viene curato con farmaci che esercitano un'azione “chelante” sul metallo, ovvero molecole in grado di legarsi ad esso formando un complesso stabile che viene escreto. I farmaci più utilizzati per questa terapia sono il calcio-EDTA (calcio disodico edetato), il diemercaprolo (DMSA o BAL) e la penicillammina, un derivato della pennicillina che però non ha azione antibatterica, ma solo chelante (Morri Markowitz, 2000).

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Per quanto riguarda più strettamente i meccanismi tossicologici del piombo, si deve precisare che la sua tossicità deriva in larga misura dalla capacità di sostituirsi al calcio in molti dei processi cellulari fondamentali che dipendono dal calcio (Bressler e coll., 1999).

Il piombo può attraversare la membrana cellulare mediante diversi sistemi, non ancora completamente chiariti. Il trasporto del piombo attraverso la membrana degli eritrociti è mediato dallo scambiatore anionico Cl - /HCO 3 - in un senso e dalla pompa Ca-ATPasica in senso opposto. In altri tessuti, il piombo permea attraverso i canali del calcio dipendenti dal potenziale, o ancora attraverso altri tipi di canali che trasportano calcio (Kerper e Hinkle, 1997).

Una volta entrato nel citoplasma, il piombo continua la sua azione di mimica distruttiva, occupando i siti di legame per il calcio su numerose proteine calcio-dipendenti. La capacità del piombo di sostituirsi al calcio non ha spiegazioni molto ovvie dal punto di vista chimico: sia la struttura elettronica dei due elementi che il loro raggio ionico sono abbastanza diversi. Inoltre, mentre il calcio forma preferibilmente legami con ossigeno e azoto, il piombo forma complessi anche con altri ligandi, fra cui i gruppi sulfidrilidici e complessi ionici con OH-, Cl-, NO3

e CO3

2-. Il piombo si lega anche alla calmodulina, una proteina che, nel terminale sinaptico, funziona come sensore della concentrazione di calcio libero e da mediatore del rilascio di neurotrasmettitore. Inoltre altera il funzionamento dell'enzima proteina chinasi C, una proteina praticamente ubiquitaria d’importanza fondamentale per numerose funzioni fisiologiche (Markovac e Goldstein, 1988). La chinasi C viene normalmente attivata da un modulatore esterno alla cellula (ormoni, neurotrasmettitori ecc), attraverso una catena enzimatica e in modo dipendente dal calcio. La proteina attivata, fra l'altro, influenza direttamente l'espressione di geni IERG (immediate early response

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genes: geni a risposta immediata). Il piombo presenta un'elevata affinità per i siti di legame specifici del calcio su questa proteina; infatti, in dosi picomolari è in grado di sostituire il calcio in dosi micromolari. In sistemi cellulari modello, è stato mostrato come il piombo sia in grado di stimolare l'espressione genica con un meccanismo mediato dalla proteina chinasi C e si presume che tale effetto possa avere relazione con alterazioni del funzionamento sinaptico (Xu e coll., 2005).

Il piombo supera agevolmente la barriera emato-encefalica, con una velocità tale da potersi considerare un potente neurotossico a livello centrale. In questo caso il meccanismo di penetrazione non è completamente chiarito, ma l'ipotesi più probabile è che esso sia trasportato passivamente come ione PbOH +. Nel cervello sembra che il piombo si accumuli negli astrociti, che lo sequestrano, proteggendo in questo modo i più vulnerabili neuroni. Evidentemente, questo accumulo origina spesso un danno cellulare. In queste cellule, come presumibilmente nei neuroni, l'ingresso del piombo è mediato attraverso i canali del calcio (Selvin-Testa e coll., 1997).

Gli effetti del piombo sul cervello, con il conseguente ritardo mentale e deficit cognitivo, sono mediati da una sua interferenza con i tre principali sistemi di neurotrasmissione: il sistema dopaminergico, quello colinergico e soprattutto quello glutammatergico. L'effetto del piombo sui primi di questi due sistemi (dopaminergico e colinergico) sono stati accertati (Lasley e Gilbert, 2002).

E' noto invece come il piombo interferisca direttamente con l'azione del glutammato, il fondamentale neurotrasmettitore del cervello. Il glutammato esplica la sua azione di stimolazione eccitatoria dei neuroni legandosi a recettori di membrana che appartengono a diverse famiglie. Dosi micromolari di piombo sono in grado di bloccare il flusso di ioni attraverso il canale di membrana associato ad una classe specifica di

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recettori del glutammato (denominati tipo NMDA). I recettori NMDA, attraverso il funzionamento del canale ionico, svolgono un ruolo fondamentale nella trasmissione sinaptica eccitatoria e, per certe loro caratteristiche peculiari, appaiono coinvolti nei processi di formazione delle reti neuronali e quindi nelle funzioni della memoria e dell'apprendimento. Sono proprio questi recettori che sembrano essere uno dei bersagli critici del piombo nei neuroni del sistema nervoso centrale. Come ciò sia in grado di alterare lo sviluppo cognitivo è tuttora ignoto (Lasley e Gilbert, 2000).

1.2 Cadmio

Il cadmio è un elemento altamente tossico per l’uomo, al settimo posto nella lista dei metalli pericolosi indicati dall’ATSDR. Il pericolo conseguente all’ingestione di cadmio ha richiamato l’attenzione dei sanitari, in seguito alla comparsa in Giappone, nel 1960, di una particolare forma morbosa che venne denominata “itai-itai”. L’insorgenza di questo episodio, che fu associato alla contaminazione ambientale operata dalle industrie, ha dato origine ad un’infinità di studi. L’interesse della ricerca è stato focalizzato soprattutto sulla sua tossicità per i reni e le ossa, che determina le conseguenze più consistenti in seguito ad un avvelenamento cronico.

La quantità media di cadmio nell’uomo adulto è di circa 30-40 mg, dei quali 1/3 localizzato nel rene e i rimanenti nel fegato, polmone, pancreas e ossa.

L’assorbimento a livello intestinale sembra essere limitato nell’adulto, mentre nei soggetti giovani sembra essere notevolmente più elevato. La

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solubilità di questo metallo lo rende facilmente assimilabile dai vegetali, mentre negli alimenti di origine animale il suo quantitativo risulta modesto, sebbene più consistente nei tessuti dove più facilmente accumulabile. Va sottolineato, però, che nel caso di animali che pascolano in zone contaminate o che vengono alimentati con mangimi contenenti elevati livelli di cadmio, le concentrazioni possono essere notevolmente maggiori.

La sua assunzione avviene prevalentemente per via respiratoria, mentre a livello intestinale viene assorbito un quantitativo minore, pari al 4-7% di quello ingerito con il cibo (Tiecco, 2001).

Studi epidemiologici hanno mostrato come l’esposizione al cadmio possa essere causa di tumori alla prostata e ai polmoni (Waalkes, 2000). Questo metallo è stato infatti inserito dall’IARC nel gruppo 1, classificazione riservata alle sostanze cancerogene, anche se la relazione esistente fra il cadmio e l’insorgenza di tumori è spesso difficile da valutare con precisione per il contributo sinergico del fumo da sigarette o di eventuali esposizioni a nickel e arsenico (Sorahan e Lancashire, 1997). Inoltre, non è stata dimostrata un’associazione diretta fra l’esposizione al cadmio e l’incidenza di questi tipi di cancro in persone viventi in aree contaminate, nelle quali l’ingestione orale, piuttosto che l’inalazione, è la principale via di assunzione (Nagakawa e coll., 1993). Studi effettuati su ratti hanno dimostrato come l’esposizione al cadmio provochi tumori al testicolo (Waalkes e coll., 1988), ai polmoni (Glaser e coll., 1990), alla prostata, al sistema ematopoietico (Waalkes e Rehm, 1994) alla pelle e ai muscoli (Waalkes e coll., 1988). Inoltre, diverse modalità di assunzione sono state dimostrate essere efficaci per l’induzione di tumori. Al contrario, anche se gli studi effettuati in proposito non sono numerosi, in altre specie non è mai stato dimostrato il potere cancerogeno del cadmio.

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I test standard per la valutazione del potere mutageno di una sostanza, effettuati in Salmonella ed E. coli, non hanno dato risultati preoccupanti per questo metallo (Kazantzis, 1987). Tuttavia, studi più recenti su colture cellulari di mammifero ne hanno provato la capacità di indurre mutazioni (Meplan e coll., 1999), rottura della catena del DNA (Misra e coll., 1998) ed aberrazioni cromosomiche (Sofuni e coll., 1996). Inoltre, sembra che la genotossicità del cadmio sia aumentata dalla tendenza ad inibire i meccanismi di riparazione dei danni genetici (Hartwig, 1994). Negli organi riproduttivi, la dannosità del cadmio riguarda soprattutto l’induzione alla necrosi nei testicoli e nei dotti efferenti, la riduzione della motilità degli spermatozoi, la diminuzione di testosterone serico, e per quanto riguarda il feto, l’aumentata tendenza all’aborto e l’azione teratogena, anche se i meccanismi che sottendono tali effetti non sono ancora del tutto chiari (Masahiko e coll., 2002). Tuttavia, l’azione nociva del cadmio nei confronti dell’apparato riproduttore è stata osservata solo in animali da laboratorio, mentre non esistono studi epidemiologici convincenti effettuati sulla popolazione umana sia maschile che femminile.

E’ stato dimostrato che un’esposizione prolungata al cadmio causa ipertensione e arteriosclerosi nei ratti (Subramanyan e coll., 1992), accompagnata da tossicità ai reni, ad alto dosaggio del metallo. Nell’uomo è stata riscontrata un’incidenza di arteriosclerosi significativamente più elevata nelle aree contaminate (Houtman, 1993), mentre le manifestazioni d’ipertensione sembra rimangano a bassi livelli (Kagaminori e coll., 1986).

In letteratura è riportato che il cadmio influisce sulle funzioni cellulari alterando i segnali di traduzione, come i patways dell’AMP ciclico (Kumar e Bhattacharya, 2000) e alcuni enzimi ad essi associati, come la proteina chinasi C (Bagchi e coll., 1997) e la proteina chinasi

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fitogeno-attivata (Ding e Templeton, 2000). Le modalità di interferenza del cadmio in questo contesto e la relativa tossicità indotta non sono ancora state chiarite. Tuttavia, è stato mostrato che i processi di apoptosi sono associati alla tossicologia relativa a vari tessuti, compresi quelli dei reni e del fegato. In particolare, l’esposizione ad elevati livelli di cadmio provoca necrosi, mentre a livelli più contenuti provoca apoptosi (Zhou e coll., 1999).

Secondo quanto riportato dalla Joint Export Committe of Food Additives (JEFCA), organizzata dalla Food and Agricolture Organization and World Health Organization, una concentrazione di cadmio di 200 µg/g di tessuto, nella corteccia renale, è in grado di causare una disfunzione renale nel 10% dei casi. In studi sulla tossicità subacuta, disfunzioni renali sono state riscontrate in ratti con una concentrazione del metallo pari a 150 µg/g di tessuto (Horiguchi e coll., 1996). La concentrazione critica alla quale sono stati rilevate disfunzioni dello stesso genere in scimmie Rhesus è invece di 300-500 µg/g di tessuto (Umemura, 2000). Inoltre, i livelli di tossicità per i tubuli renali sembrano essere strettamente correlati al rapporto fra cadmio legato alle metallotioneine e la sua forma libera (Kita e coll., 2001).

I dati sopra riportati ci aiutano a comprendere come le manifestazioni dell’intossicazione cronica da cadmio, riferiti comunemente ed in sintesi in letteratura, siano proteinuria conseguente a lesioni a livello glomerulare e tubulare, osteomalacia ed osteoporosi, fratture ossee spontanee, danni al testicolo, neurotossicità ed intolleranza al glucosio. La tossicità del cadmio può essere anche in forma acuta, causata da ingestione accidentale di concentrazioni relativamente alte del metallo o in caso di contaminazione di alimenti e bevande, con manifestazioni cliniche quali nausea vomito e dolori addominali. Un’altra possibile via

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di intossicazione acuta può essere dovuta ad inalazione di vapori che può sfociare in polmonite ed edema polmonare (Tiecco, 2001).

Nel 1993 la JEFCA indicò 7 µg/Kg di peso corporeo come la quantità tollerabile di cadmio assunto nel periodo di una settimana, dose, questa, da non superare per non correre il rischio di andare incontro ad effetti collaterali dovuti all’esposizione cronica al metallo. Questo valore si basa sulla stima che durante la vita di un uomo, in condizioni normali, la concentrazione di cadmio nella corteccia renale non eccede i 50 µg/g di tessuto.

Stranamente, l’aspettativa di vita di popolazioni esposte in aree contaminate è risultata più alta rispetto alla media calcolata in altre aree di riferimento (Shigematsu, 1984). Infine, è stato riportato che la durata della vita in aree contaminate sia notevolmente più breve in pazienti affetti da disfunzioni renali, rispetto a pazienti sani (Nishijo e coll., 1995).

1.3 Cromo

Il cromo trivalente è un elemento essenziale necessario per numerose funzioni fisiologiche; in particolare, è stato dimostrato un ruolo attivo nella sintesi del fattore inducente tolleranza al glucosio, necessario per l’azione periferica dell’insulina. L’assunzione alimentare giornaliera necessaria è dell’ordine dei 60-70 µg, quantità garantita dalle normali diete. Il cromo, seppur facente parte dei metalli essenziali, è considerato un elemento nocivo se assunto in quantità elevate o in seguito ad esposizione cronica. L’ATSDR lo ha inserito al diciassettesimo posto nella lista delle sostanze pericolose indicate.

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La via digerente rappresenta la via fisiologica di assorbimento del cromo come elemento essenziale. L’entità dell’assorbimento dipende da numerose variabili quali la valenza, l’idrosolubilità, l’acidità gastrica, il tempo di transito gastroduodenale (De Flora e coll., 1987). L’entità di assorbimento è maggiore per i composti di cromo esavalente rispetto a quelli di cromo trivalente. Occorre rilevare che, nelle quantità presenti nella normale dieta, lo stomaco riduce il cromo esavalente a cromo trivalente. Il digiuno e l’achilia incrementano la quota di metallo assorbita per via gastroenterica. L’assorbimento cutaneo è influenzato dal tipo di composto (maggiore per cromo esavalente), dalla sua concentrazione nella soluzione e dal tempo di contatto. Condizioni favorenti la penetrazione del cromo esavalente attraverso la cute sono l’aumento del pH cutaneo, le flogosi, le soluzioni di continuità, l’utilizzo di tensioattivi.

La via inalatoria rappresenta la più importante via di assorbimento nell’esposizione professionale, sia per il cromo trivalente che per quello esavalente (Baranowska-Dutkiewicz, 1981). Mentre l’inalazione di composti idrosolubili è caratterizzata da un rapido assorbimento a tutti i livelli, comprese le vie aeree profonde, la dinamica dell’assorbimento delle particelle meno solubili è poco nota. Fino al 97% delle particelle contenenti cromo trivalente di dimensioni inferiori a 5 µm vengono trattenute nei polmoni. I composti molto solubili del cromo esavalente possono essere invece assorbiti anche in corrispondenza delle prime vie aeree (Foà e coll., 1988).

Nel sangue, i composti di cromo trivalente si legano prevalentemente a proteine plasmatiche. I composti esavalenti possono essere trasferiti all’interno degli eritrociti e lì essere ridotti allo stato trivalente (Langard, 1982). La distribuzione del cromo nell’organismo dipende dalla sua

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valenza e dalla permeabilità delle membrane ai diversi composti. Una volta nella cellula, il cromo esavalente viene in parte ridotto allo stato trivalente ed in piccola percentuale rimane allo stato esavalente. L’anione cromato attraversa facilmente le membrane cellulari e vi ene ridotto all’interno delle cellule, attraverso meccanismi complessi che coinvolgono il contributo di sistemi riducenti (ascorbato, glutatione, 4 cisteina, acqua ossigenata) e di attività enzimatiche (citocromo P-450, aldeide ossidasi e NADP(H), chinoneossidoreduttasi o DT-diaforasi) (Aiyar e coll., 1992). La riduzione del cromo esavalente a cromo trivalente facilita anche la formazione di legami al DNA. La riduzione metabolica del cromo rappresenta quindi un meccanismo di soglia limitante per gli effetti biologici in vivo (Petrilli e De Flora, 1988). Nei soggetti non professionalmente esposti, la concentrazione di cromo nei vari tessuti è estremamente bassa; fenomeni di accumulo delle specie assunte si verificano in polmoni, milza, reni e fegato, senza chiare relazioni con l’età. Nei soggetti professionalmente esposti, il polmone rappresenta il più importante sito di accumulo di cromo, come è stato evidenziato nella categoria dei saldatori (Aitio e Jarvisalo, 1986). Dopo l’assorbimento e l’interazione con i diversi componenti biologici, il cromo si ritrova esclusivamente nella forma trivalente e come tale viene escreto, principalmente per via renale e, in minor misura, per via gastro-enterica, rilevante soprattutto per i cromati con bassa solubilità in acqua (Langard, 1982). L’escrezione di cromo varia nei singoli individui. La ragione principale di questa variabilità biologica è rappresentata dal metabolismo renale del metallo il quale, una volta filtrato, viene riassorbito dai tubuli renali (Mutti e coll., 1979). Il cromo urinario, per la rapidità di eliminazione di una quota rilevante del metallo assorbito, rappresenta l’indicatore di dose che meglio riflette l’esposizione corrente.

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Il cromo nel sangue (CrB) di soggetti appartenenti alla popolazione generale presenta valori medi di 0,23 mg/l (Apostoli e coll., 1990). I valori medi delle concentrazioni di cromo nel siero di soggetti non professionalmente esposti risulta compresa fra 0,1-1 mg/l. In un’indagine multicentrica nazionale italiana la media geometrica di cromo urinario di soggetti non professionalmente esposti è risultata 0,08 mg/l, con un range di concentrazioni comprese fra “non determinabile” e 0,34 mg/l (Apostoli e coll., 1997).

Il cromo metallico, come tutti i metalli, ha carica neutra e scarsa o nulla reattività biologica. Non si hanno evidenze di effetti negativi sull'uomo, sugli animali e sull'ambiente. Il cromo trivalente, stabile e poco reattivo, non può attraversare le membrane. Questa è la ragione che ha spinto a classificare il cromo trivalente come privo di pericolosità per tessuti e il DNA. Allo stato attuale delle conoscenze questo metallo non causa allergie. Il cromo esavalente è altamente reattivo e con un potenziale ossidativo elevato. Attraversa facilmente le membrane ed ha proprietà fortemente irritanti-corrosive, sensibilizzanti, mutagene e cancerogene. La patologia da cromo esavalente è essenzialmente cronica e da esposizione professionale. Le manifestazioni sono generalmente localizzate e riguardano principalmente la cute e l’apparato respiratorio (Barceloux, 1999). Le alterazioni cutanee comprendono dermatiti irritative da contatto ed ulcere croniche dovute all’azione ossidante del cromo esavalente, e dermatiti allergiche conseguenti all’azione sensibilizzante (Bock e coll., 2003). L’apparato respiratorio costituisce il bersaglio dell’azione ossidante e corrosiva del metallo, con riscontro di bronchite cronica per l’esposizione professionale a composti di cromo esavalente (Langard, 1980). I composti contenenti cromo esavalente sono sensibilizzanti polmonari che, in lavoratori sensibilizzati, possono causare broncospasmo (Olaguibel e Basomba, 1989). La

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nefrotossicità del cromo si estrinseca come tubulopatia lieve, è da attribuirsi principalmente ad assorbimenti elevati ed appare transitoria (Franchini e Mutti, 1988). Non esistono studi conclusivi circa gli effetti del cromo sull’apparato digerente o sul fegato (ATSDR, 2000).

L’esposizione a cromo esavalente è in grado di indurre una serie di alterazioni a carico del DNA, quali mutazioni puntiformi ed aberrazioni cromosomiche (DNA strand breaks, DNA interstrand cross-links, DNA-protein cross-links con formazione di addotti) e modificazioni alle macromolecole provocate dalla produzione di specie ossigeno reattive, nonché fenomeni di perossidazione lipidica con conseguente danno strutturale e funzionale alle membrane (Dayan e Paine, 2001). I dati sperimentali disponibili indicano l’importanza della riduzione del cromo esavalente a cromo trivalente all’interno dell’organismo. La reazione di riduzione alla quale possono andare incontro i composti esavalenti, così come l’interazione con altri bersagli molecolari, soprattutto rappresentati dagli acidi nucleici, costituirebbe la base per gli effetti genotossici. Il prodotto finale di questa reazione è rappresentato dal cromo trivalente. Nel corso della riduzione a cromo trivalente si formerebbero dei legami molto stabili con il DNA e le proteine, quali l’actina, e gli aminoacidi cisteina, istidina, serina, treonina e tirosina (Costa, 1993). I cromati a valenza intermedia possono comportarsi da co-cancerogeni per composti che causano danno ossidativo tramite generazione di 8-oxo-Guanina (Sugden e coll., 2002). De Flora (2000) ha riconsiderato i risultati di circa 650 studi riportati in letteratura impiegando 32 differenti composti di cromo in saggi di genotossicità a breve termine con diversi bersagli od end-points genetici. La grande maggioranza degli studi positivi sono stati ottenuti con composti di cromo esavalente. I composti di cromo trivalente, benché maggiormente reattivi con gli acidi nucleici purificati, non indurrebbero effetti genotossici nella maggior

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parte degli studi condotti su cellule intatte, mentre produrrebbero una varietà di effetti su bersagli subcellulari ed in sistemi acellulari.

Numerosi studi epidemiologici indicano un’associazione tra attività lavorativa in settori industriali che utilizzano cromo e l’insorgenza di neoplasie a carico dell’apparato respiratorio. La metodologia ed i risultati ottenuti da vari studi di mortalità sono stati raccolti in una rassegna della letteratura effettuata da Langard (1990). Esiste una forte evidenza di associazione fra rischio di cancro al polmone, alle fosse nasali ed ai seni paranasali e produzione di cromati e bicromati esavalenti, produzione di pigmenti, cromatura galvanica. Il fatto che l’induzione di tumori dell'apparato respiratorio da parte del cromo esavalente sia documentato solo in tre realtà occupazionali, nonostante il grandissimo numero di individui esposti in varie attività lavorative, potrebbe dipendere dalla necessità di dosi molto elevate di cromo esavalente per indurre tumori (De Flora, 2000). Non vi sono evidenze adeguate circa il rischio di cancro derivante dall’esposizione ad aerosols contenenti cromo metallico (Gruppo 3) o composti di cromo trivalente (IARC, 2000); infatti, non esistono attualmente in letteratura casi riportati o studi epidemiologici che supportino l’ipotesi che i composti del cromo trivalente rappresentino un rischio di cancro per l’uomo, fatta eccezione per i composti di cromo trivalente insolubile. La IARC ha dichiarato che esiste una sufficiente evidenza di cancerogenicità per i composti di cromo esavalente (Gruppo 1). Inoltre, esiste un’evidenza inadeguata di cancerogenicità per il cromo metallico ed i composti di cromo trivalente. Nell’animale, esiste una sufficiente evidenza per la cancerogenicità dei cromati di calcio, di zinco, di stronzio e di piombo ed un’evidenza limitata per la cancerogenicità dell’acido cromico e del sodio bicromato. L’evidenza è inadeguata per la cancerogenicità del cromo metallico e dei

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composti di cromo trivalente. Pertanto, il cromo metallico ed i composti di cromo trivalente non sono classificabili come cancerogeni per l’uomo.

1.4 Aspetti legislativi

La tossicità di cui sono responsabili i metalli pesanti nei confronti dell’organismo umano, in seguito all’ingestione di alimenti contenenti elevati livelli residuali, rappresenta un pericolo per la salute pubblica e come tale rientra a pieno titolo nell’ambito del campo di applicazione della legislazione alimentare.

Il problema del controllo dei residui nelle derrate alimentari di origine animale si è acuito con il passare del tempo per l’attenzione e l’interesse sempre maggiori che il consumatore ha rivolto a questa tematica. Già dal 1992, in Italia, con la promulgazione dei Decreti Legislativi n. 118/92 e n. 119/92, applicazione di Direttive CEE, si è cercato di risolvere questo problema prevedendo una serie di registrazioni obbligatorie da effettuarsi essenzialmente su due linee guida strettamente coordinate fra loro e che possono riassumersi nella "filiera farmaco" (dalla produzione all’entrata in allevamento ed alla applicazione sugli animali e nella "filiera animale"; dall’allevamento alla tavola del consumatore). In ambito europeo erano già state adottate regole relative all’individuazione ed al controllo delle sostanze ad azione ormonale e tireostatica, estendendole anche ad altre sostanze utilizzate in allevamento a scopo auxinico o terapeutico e disposizioni relative al controllo su alcuni residui di sostanze ad azione farmacologica o contaminanti dell’ambiente naturale, negli animali in produzione e nei prodotti da loro derivati. Con la Direttiva 96/22/CE l’Unione europea ha deciso di mantenere il divieto di

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utilizzazione di talune sostanze ad azione ormonica o tireostatica, estendendolo alle sostanze ß-agoniste ad effetto anabolizzante. Inoltre, considerata la necessità che la Comunità abbia un sistema efficace ed uniforme di controlli e che i singoli Stati membri rafforzino la sorveglianza ed i controlli sull’impiego di sostanze illecite, è stata emanata la Direttiva 96/23/CE "concernente le misure di controllo su talune sostanze e sui loro residui negli animali vivi e nei loro prodotti". In Italia è stato promulgato il 4 agosto 1999 il Decreto Legislativo n. 336, attuazione delle due direttive precedentemente citate concernente "il divieto di utilizzazione di talune sostanze ad azione ormonica, tireostatica e delle sostanze ß-agoniste nelle produzioni di animali e le misure di controllo su talune sostanze e sui loro residui negli animali vivi e nei loro prodotti" (Signorini e coll., 1999).

Per questo motivo, in Italia e negli altri Paesi membri, viene effettuato fin dal 1988 un piano nazionale di monitoraggio per la ricerca, negli animali da macello e nelle loro carni, di residui di sostanze ad azione ormonale illecitamente somministrate, di residui di farmaci ad uso veterinario e di contaminanti ambientali. Tali piani annuali sono aggiornati di anno in anno e modulati sulla base dei risultati conseguiti e dalla scoperta di eventuali nuove molecole a potenziale rischio e dalle relative tecniche d’identificazione. Complessivamente, nel nostro Paese, vengono eseguite, con metodi ufficiali o validati, circa 60.000 accertamenti all’anno. In relazione all’elevato numero di analisi effettuate ed alla diversità delle molecole ricercate, tali piani nazionali rappresentano un valido strumento di monitoraggio e, in quanto tale, forniscono utili informazioni sulle problematiche sanitarie.

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L’evoluzione in ambito normativo ha portato all’emanazione di numerosi riferimenti legislativi sia a carattere generale, relativi al controllo degli alimenti, sia a carattere specifico inerenti contaminanti d’interesse ispettivo.

Per quanto riguarda i riferimenti legislativi comunitari inerenti al controllo degli alimenti ricordiamo:

- Dir. 89/397/CEE, relativa al controllo ufficiale dei prodotti alimentari;

- Reg. (CE) n. 315/93, che stabilisce le procedure comunitarie relative ai contaminanti dei prodotti alimentari;

- Dir. 93/99/CEE, riguardante misure supplementari in merito al controllo ufficiale dei prodotti alimentari;

- Reg. (CE) n. 882/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio, relativo ai controlli ufficiali intesi a verificare la conformità alla normativa in materia di mangimi e di alimenti e alle norme sulla salute e sul benessere degli animali.

Mentre inizialmente i residui dei metalli pesanti venivano presi in considerazione insieme a normative relative ad altre molecole vietate in campo zootecnico (vedi 118 e 119), con il passare del tempo, sono divenuti oggetto di specifiche norme riguardanti le diverse tipologie di alimenti:

- Reg. (CE) n. 194/97 che stabilisce tenori massimi ammissibili per alcuni contaminanti presenti in prodotti alimentari;

- Dir. 2001/22/CE relativa ai metodi per il prelievo di campioni e ai metodi d'analisi per il controllo ufficiale dei tenori massimi di piombo, cadmio, mercurio e 3-MCPD nei prodotti alimentari;

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- Decisione n. 2001/873/CE del 4 dicembre 2001 che rettifica la Dir. 2001/22/CE di cui sopra;

- Reg. (CE) n. 466 dell'8 marzo 2001 che definisce i tenori massimi di taluni contaminanti presenti nelle derrate alimentari (vedi tabelle riportate di seguito);

- Reg. (CE) N. 78/2005 del 19 gennaio 2005 che modifica il regolamento (CE) n. 466/2001 per quanto riguarda i metalli pesanti.

PIOMBO Tenore max (mg/Kg di peso fresco) Criteri di prestazione per il campionamento Criteri di prestazione per i metodi di analisi

Carni di bovini, ovini, suini e pollame secondo quanto definito all’art. 2, lettera a) della direttiva 64/433/CEE del Consiglio modificata da ultimo dalla direttiva 95/23/CE del Consiglio e all’art. 2, paragrafo 1, della direttiva 71/118/CEE del consiglio modificata da ultimo dalla direttiva 97/79/CE de l Consiglio escluse le frattaglie secondo quanto definito all’art. 2, lettera e), della direttiva 64/433/CEE e all’art. 2, paragrafo 5, della direttiva 71/118/CEE

0.1

Direttiva 2001/22/CE

Direttiva 2001/22/CE

Frattaglie commestibili di bovino, ovin o, suino e pollame secondo quanto definito all’art. 2 lettera e), della direttiva del consiglio 64/433/CEE e all’art. 2, paragrafo 5, della direttiva 71/118/CEE. 0.5 Direttiva 2001/22/CE Direttiva 2001/22/CE

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CADMIO Tenore max (mg/Kg di peso fresco) Criteri di prestazione per il campionamento Criteri di prestazione per i metodi di analisi

Carni di bovini, ovini, suini e pollame secondo quanto definito all’art. 2 , lettera a) della direttiva

64 /433 /CEE e all’art. 2 paragrafo 1, della direttiva 71/118/CEE escluse le frattaglie secondo quanto definito all’art. 2, lettera e), della direttiva 64/433/CEE e all’art. 2, paragrafo 5, della direttiva 71/118/CEE.

0.05

Direttiva 2001/22/CE

Direttiva 2001/22/CE

Fegato di bovini, ovini, suini e pollame 0.5

Direttiva 2001/22/CE

Direttiva 2001/22/CE

Rognoni di bovino, ovino, suino e pollame 1.0

Direttiva 2001/22/CE

Direttiva 2001/22/CE

Figura

Tabella estratta dal Reg 466/2001/CE
Tabella estratta dal Reg 466/2001/CE

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