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Capitolo Quinto La news management theory e l’informazione negli Stati Uniti

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Capitolo Quinto

La news management theory e l’informazione

negli Stati Uniti

5.1

Introduzione

Una delle caratteristiche fondamentali del modello democratico americano è la centralità del rapporto tra i cittadini ed il loro presidente. Questo rapporto è legato all’organizzazione costituzionale di questo paese: il presidente è eletto direttamente, e gran parte del suo potere è legato al supporto delle lobby, ma anche − proprio per la sua natura particolare − ai mass media ed ai partiti politici. [Bonafede, 1990, p.1]. Proprio i mass media hanno radicalmente modificato il significato del ruolo del presidente, sempre più “commander in chief” degli Stati Uniti. Alle sue origini il ruolo del capo dell’esecutivo negli Stati Uniti era decisamente diverso, in particolare nell’architettura istituzionale pensata dai padri fondatori il presidente, che in origine era fortemente legato ai partititi politici e, soprattutto, al congresso, avrebbe dovuto svolgere il ruolo di mediatore tra la Federazione ed i singoli stati. Scrive Valladao:

« − la costituzione del 1787 aveva istituito un governo diviso, in cui il processo decisionale doveva essere difficile e passare

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obbligatoriamente attraverso lunghe negoziazioni − checks e ballances− tra centri di potere concorrenti». [Valladao, 1993, p.101].

L’intenzione dei padri fondatori era infatti quella di investire il presidente del ruolo di mediatore e coordinatore tra le diverse autonomie locali, organizzate nel quadro del sistema federale.

Con l’ascesa degli Stati Uniti ad unica potenza mondiale il presidente ha espanso il suo ruolo politico ed istituzionale, utilizzando i progressi compiuti dai nuovi media ed arrivando addirittura a stabilire direttamente i termini dell’agenda politica, rivolgendosi senza mediazioni agli elettori.

Il cambiamento del ruolo del presidente è stato talmente radicale che negli ultimi anni si è iniziato a parlare della democrazia americana come di un sistema media centered.1

Non dovendo più dipendere come in passato dai canali tradizionali, come i partiti politici o la burocrazia, i presidenti dell’età contemporanea hanno potuto dialogare senza intermediari con il pubblico. Ecco perché per parlare dei casi di disinformazione nel sistema di comunicazione di questo paese è necessario focalizzare l’attenzione sul giornalismo politico, in particolare sul rapporto tra informazione e poteri presidenziali.

Rispetto ad altri sistemi infatti, quello americano ha bisogno di un attenzione particolare al ruolo dell’informazione, che deve necessariamente essere trasparente e critica nei confronti del potere, proprio a causa della particolare evoluzione istituzionale subita dall’istituto presidenziale nell’ultimo secolo. E’ per questo motivo che

1 Il modello media centered mira a creare una copertura delle notizie usando le tecniche del

marketing. In questi casi i politici tendono a rivolgersi agli elettori come a dei consumatori a cui vendere la propria immagine. Per un approfondimento si veda RIZZUTO (2001), RONCAROLO (1994).

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il giornalismo americano ha assunto fin dalle sue origini la funzione di

watch dog, sviluppando una forte indipendenza dalle pressioni della

politica e dai poteri economici.

Negli Stati Uniti non esiste inoltre un sistema di carte deontologiche e di regolamentazione paragonabile a quello Europeo perchè le regole professionali sono fortemente interiorizzate da coloro che lavorano nel campo dell’informazione giornalistica.

Nel corso dell’ ultimo scorcio del secolo XX il ruolo di unica super potenza planetaria, assieme ad uno sviluppo ed un ulteriore emancipazione della presidenza dal congresso, hanno contribuito a modificare l’atteggiamento dei presidenti americani nei confronti dei media, portandoli a cercare sempre più il consenso della pubblica opinione nelle scelte dell’agenda politica [Rizzuto, 2000, p. 52 e seg.]

Oltretutto l’apparato presidenziale si è dotato, a partire dagli anni ’80, di un gruppo di esperti della comunicazione, che soprattutto sotto la presidenza Reagan, hanno iniziato una nuova fase del rapporto tra le istituzioni e l’elettorato.

Le tecniche di news management hanno cambiato radicalmente lo stile di comunicazione della Casa Bianca, letteralmente dando in pasto ai media qualsiasi notizia. Ciò ha reso molto difficile il controllo della effettiva veridicità delle informazioni, che spesso si sono rivelate false o ingigantite. La news management ha infatti come scopo principale la gestione diretto della news agenda, cercando così di scavalcare, o di gestire in modo favorevole, la mediazione dei giornalisti.

Nei prossimi paragrafi cercheremo di approfondire la dottrina della news managment theory, ponendo l’accento su alcuni casi di vera e propria deformazione perpetrati dalle amministrazioni Reagan e

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G.W. Bush. Abbiamo focalizzato l’attenzione su queste presidenze in quanto risultano essere quelle che hanno fatto un uso più spregiudicato del news management. Sia Reagan che Bush jr. hanno dovuto affrontare il giudizio dell’opinione pubblica riguardo a scelte di politica estera molto difficili, necessitando quindi di un sistema di comunicazione assai sofisticato.

5.2

La news management theory

Sin dalla presidenza di Theodore Roosvelt, l’istituto presidenziale americano ha iniziato un radicale e veloce cambiamento rispetto alle prerogative istituzionali che l’avevano caratterizzato fino alla fine dell’800.

Durante il secolo, seguendo un percorso non sempre lineare, l’istituto presidenziale si è modificato privilegiando fortemente l’indipendenza del presidente dal congresso. Di pari passo si è verificata un’ evoluzione delle tecniche di comunicazione politica, che si è raffinata negli anni, soprattutto a seguito della diffusione della Tv. Tuttavia, fino agli anni Ottanta, i presidenti sono stati vittime e non fruitori delle potenzialità dei mezzi di comunicazione nei confronti della pubblica opinione.

Gli esempi più lampanti sono le presidenze Nixon, Johnson e Carter, i quali, pur avendo compreso l’importanza di una strategia di comunicazione, hanno fallito proprio nel loro rapporto con i media; in altre parole non sono riusciti a creare con i media la necessaria base di consenso necessaria a garantire un indice di popolarità alto presso gli elettori [Rizzuto 2000, Roncarolo 1994].

Solo con il grande comunicatore Ronald Reagan si afferma una svolta nella gestione degli output informativi della politica nei

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confronti della pubblica opinione, attraverso una serie di accorgimenti apportati da alcuni specialisti di tecniche pubblicitarie, che hanno dato vita ad un vero corpus teorico divenuto ormai paradigmatico nelle strategie politiche americane, ovvero la news management theory. [Rizzuto, 2000, p. 64]

Reagan infatti è stato primo presidente a far uso delle consulenze di image maker e speechwriter, ovvero professionisti che ne curavano l’immagine nei confronti dei media. Questi professionisti erano profondi conoscitori del sistema mediatico americano, ovvero erano in grado di controllare le logiche di notiziabilità dei media, riuscendo così ad affermare il punto di vista della Casa Bianca, battendo i media sul loro stesso terreno.

Il metodo principale dei consulenti era dunque la costruzione di alcuni fatti definiti appunto notiziabili, ovvero meritevoli di attenzione da parte dei media. L’accuratezza con cui tali fatti venivano esposti alla pubblica opinione li rendeva particolarmente densi di appeal per i cittadini, ma di difficile contestazione da parte dei giornalisti. In altre parole i messaggi provenienti dalla presidenza descrivevano la realtà in modo non obiettivo, scavalcando la mediazione della parola dei giornalisti, imponendosi così direttamente al pubblico.2

A differenza dei suoi predecessori, i quali cercavano di “nascondere” ai giornalisti le informazioni più sensibili, l’amministrazione Reagan dà in pasto ai media un overdose di notizie, di cui non potranno più fare a meno. [Hallin, 1999, p.83]. La difficoltà di reagire in senso critico all’overdose quantitative di notizie è stata favorita dalla nascita della cd. campagna permanente, ovvero un

2 Il giornalista ha per definizione il ruolo di Medium nei confronti della pubblica opinione.

L’intento degli image−maker è proprio quello di scavalcare l’approccio critico dei giornalisti, per presentare senza alcun filtro un fatto presso la pubblica opinione.

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incessante flusso di notizie provenienti dalla presidenza nei confronti dei cittadini−elettori.[Roncarolo, 1994] E’quindi evidente che il sistema informativo degli Stati Uniti, almeno negli ultimi cinquant'anni, può essere analizzato prendendo come termine di riferimento il rapporto tra il presidente, e i politici in genere, ed i giornalisti.

Seguendo l’analisi di Mazzoleni [1998] è possibile distinguere due modelli che descrivono la tipologia del rapporto, ovvero:

a. il modello del conflitto; b. il modello scambio.

I due modelli sottintendono anche a due diverse tipologie di “professionalità”, e di atteggiamenti dei giornalisti nei confronti del potere, sostiene infatti Rizzuto:

« nel primo viene messo in evidenza l’elemento conflittuale del rapporto: giornalisti e politici hanno obiettivi ed interessi inconcialiabili, che in alcuni paesi vengono previsti come tali all’interno di codici deontologici. L’ideologia della stampa watchdog […] si basa proprio sul presupposto di una funzione di controllo che il giornalismo deve esercitare nei confronti del potere, dando per scontata una netta discordanza di finalità. Il secondo modello,quello di scambio, assume invece che la relazione tra politici e giornalisti sia regolata dal calcolo dei vantaggi che ciascuno può derivare dall’entrare in contatto l’uno con l’altro.» [Rizzuto, 2001, p. 78]

In altre parole il giornalista che segue scrupolosamente le regole deontologico−professionali non può che intrattenere un rapporto conflittuale con il potere politico. Il modello di scambio presuppone

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che sia il politico che il giornalista traggano vantaggi dal rapporto. La vicinanza dei giornalisti al mondo politico non giustifica da sola uno scambio occulto, come quelli che sono stati analizzati in precedenza.3

Nel modello di scambio, infatti, è possibile che il giornalista applichi formalmente le regole deontologiche, ovvero verifichi la veridicità delle notizie. Tuttavia questo modello spinge il giornalista ad acquisire sempre più visibilità: Blumer e Gurevitch credono addirittura in una reciprocità di obiettivi del politico e del giornalista. Infatti entrambi cercano il consenso del pubblico a cui si rivolgono. 4 Il modello giornalistico che cerca di imporre la news management è evidentemente quello di scambio. Esistono infatti, secondo Roncarolo, almeno due modi di gestire e modellare la news agenda dei media5:

1) Influenza dall’esterno delle routine informative 2) Strategia di scavalcamento delle intermediazioni

[Roncarolo, 1994, p. 111]

La prima si riferisce a tutte quelle forme della comunicazione politica che sono volte a far giungere al pubblico il messaggio

attraverso gli uomini dei media, ossia: « influenzare le immagini

fornite dagli apparati comunicativi con modalità che vanno dalla

3 Si veda , infra, cap. 3 e 4 4

Blumer e Gurevitch classificano il rapporto tra giornalista e politico come uno scambio alla pari. Il giornalista, manifestando un certo grado di criticismo nei confronti del potere svolge la sua mansione in modo ottimale, mentre il politico cerca di far arrivare la pubblico il proprio messaggio. In pratica il rapporto tra giornalista e politico è scarsamente concorrenziale. Per approfondimento si veda BLUMER, GUREVITCH, 1981, p.477

5 La news management è infatti il tentativo di scavalcare la mediazione del giornalista

relativamente alle notizie diffuse dai consulenti dell’apparato presidenziale. Lo scavalcamento può essere subito sia volontariamente dal giornalista, dando luce ad una distorsione del rapporto con i lettori, che passivamente, caso in cui è l’apparato presidenziale che attraverso le tecniche di news

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strutturazione formale delle azioni politiche secondo logiche televisive, allo sviluppo di un’interazione insieme controllata e positiva degli ambienti giornalistici » [Roncarolo, 1994, p.111]. Il controllo esterno sulle notizie avviene da una parte attraverso tecniche che vanno ad modificare l’appeal e la forma degli output provenienti dalla Casa Bianca, dall’altra cercando di intrattenere rapporti non formali con l’ambiente giornalistico, diversificando, ad esempio, la possibilità di accesso alle informazioni riservate, alle conferenze stampa, a seconda della disponibilità o meno del giornalista di seguire la linea presentata dall’apparato presidenziale.6 In questo caso abbiamo uno scambio di rendite tra giornalista e staff presidenziale (nel quadro del modello teorico da noi usato definibile come il corruttore).

Nella seconda strategia, ovvero l’intervento diretto sul pubblico, viene aggirato il problema del giornalista, ovvero esso non viene messo in grado di poter filtrare le informazioni, limitandosi ad essere un commentatore. Questa strategie si è sviluppata e diffusa soprattutto a seguito della diffusione della tv, ed infatti prevede un uso di una particolare organizzazione scenica di incontri, viaggi e cerimonie, in modo da controllare l’effetto che si otterrà nei notiziari televisivi.

Anche nel caso in cui non ci sia uno scambio diretto di rendite tra politico e giornalista, siamo in presenza di una distorsione del rapporto tra il giornalista ed i cittadini. Quanto detto in precedenza è avvalorato dal fatto che il giornalismo americano negli ultimi venti anni ha subito un profondo cambiamento adeguandosi alle nuove

6 E’ questo uno dei casi di scambio di rendite tra agente (giornalista) e corruttore (in questo caso la

presidenza ed il suo apparato). Lo scambio avviene in modo implicito od esplicito: il giornalista accede ad informazioni riservate o trattamenti particolari, che potranno dar luogo a miglioramenti di carriera, in cambio di una generale acquiescenza alle notizie provenienti dagli apparati comunicativi della presidenza.

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strategie di comunicazione inaugurate da Reagan, arrivando ad essere definito new journalism, ovvero un giornalismo che abbandona l’ideale storico della ricerca dell’obiettività, per adeguarsi alle nuove tecniche di comunicazione, come le tecniche di scrittura, di costruzione o di taglio del pezzo, ricercando così una maggiore

visibilità, venendo meno molto spesso alle regole deontologiche.

[Rizzuto, 2001, p.87].

5.3

La strategia di Reagan

La storia americana insegna che un’attenta strategia di comunicazione non può bastare da sola all’affermazione di un leader nell’arena elettorale. Questo è evidente soprattutto nella presidenza Carter: il suo staff aveva percepito le potenzialità di una campagna d’immagine fortemente centrata sulla personalità del presidente: tuttavia egli non riuscì ad imporre ai media la propria immagine, anzi, ne rimase vittima.

Reagan invece riuscì ad imporre la sua forte immagine di comunicatore, e questo fondamentalmente per due ragioni: la personalità di Reagan riusciva a reggere l’immagine che i suoi consulenti avevano cercato d’imporre presso il grande pubblico: «un leader il cui programma e la cui personalità non siano all’altezza della definizione della realtà costruita attraverso le strategie d’immagine è destinato ad apparire sempre meno credibile […], di conseguenza sempre meno efficace sul piano comunicativo». [Roncarolo, 1994, p.79]

La seconda ragione del successo di Reagan può essere attribuita ai responsabili della macchina comunicativa del leader repubblicano,

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che riuscirono a dirigere il dibattito politico secondo quella che viene definita story line, ovvero la notizia attorno alla quale veniva predisposta la strategia quotidiana di comunicazione.

L’obiettivo di orientare i media verso alcune notizie fu raggiunto attraverso una strategia che comprendeva tre punti.

1) Porre al centro del dibattito “la politica”, ovvero puntando soprattutto sul programma e sulla filosofia di governo proposta dal presidente, lasciando che le polemiche quotidiane fossero affrontate e filtrate dagli uomini dell’apparato;

2) sfruttare la memoria corta dei media, ed offrire loro ogni giorno una nuova storia, in modo da evitare che l’attenzione del pubblico fosse focalizzata sullo stesso fatto per molti giorni;

3) l’immagine del presidente era associata solo agli eventi che potevano portare popolarità, mentre invece veniva usata raramente per i casi che si riferivano ad eventi critici.7

Oltre a far attenzione alle immagini, i consulenti di Reagan erano particolarmente sensibili anche al flusso di comunicazione verso la stampa e verso le televisioni. Risulta essere emblematico l’esempio citato da Roncarolo (1994, p.80), che riporta una dichiarazione di Sam Donaldson, al tempo corrispondente dalla casa bianca per la ABC:

7 Ad esempio Reagan fu protagonista delle immagini che illustravano lo sbarco dei marines in

Libano, mentre un paio di giorni dopo, all’annuncio del loro ritiro, Reagan era nel suo ranch, lontano dalle telecamere [Roncarolo,1994, p.80]

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«Gergen8 chiamava sempre verso le sei […] e io invariabilmente dovevo dirgli “David, ho già chiuso il mio pezzo, se inizio a buttarlo all’aria ora probabilmente non andrò in onda”. Ma tutte le volte lui sapeva che io avrei inserito qualcosa che mi aveva detto. E sapeva anche che chiamandomi così tardi, quello che in genere avrei fatto sarebbe stato inserire in qualche misura la versione della Casa Bianca nel mio pezzo finale».

Gli assistenti di Reagan così facendo riuscivano ad entrare direttamente nelle redazioni, imponendo il punto di vista della Casa Bianca, limitando di fatto l’intervento critico dei giornalisti. Il caso citato risulta essere molto interessante per descrivere la passività del giornalista, e quindi il mancato passaggio critico di cui esso è responsabile. E’ soprattutto interessante sottolineare che tra le due parti non c’è un accordo esplicito, in cui il corruttore cerca di sviare il giornalista agente. E’ semmai una tacita accettazione di una prassi da parte del giornalista, che si limita a riferire una notizia non verificata.

Questo tipo di strategia fu usata dallo staff del Presidente per gestire alcuni periodi critici del mandato di Reagan, come i colloqui con Gorbaciov oppure gli interventi militari in Libano o in El Salvador, riuscendo ad evitare che il capo dell’esecutivo fosse

individuato come il responsabile di eventuali errori

dell’amministrazione.

8 David Gergen, assistente presidenziale per le comunicazioni durante i due mandati di Reagan,

ogni sera provvedeva a fare il giro delle telefonate, per rendere noto il commento della casa bianca sul fatto del giorno, [Roncarolo, 1994, p.164, ].

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Questa approccio è stato preso ad esempio anche dalle successive presidenze, che hanno fatto uso della news management

theory attingendo all’esperienza di Reagan.

L’esperienza del Presidente−attore9 rappresenta un punto di svolta non solo sul piano della comunicazione, ma anche sulle modalità istituzionale di scelte politiche: il tradizionale ruolo del presidente “mediatore” tra governo centrale e singoli stati è infatti ormai molto lontano. Il nuovo ruolo di unica potenza globale impone anche alla presidenza un ruolo sempre più forte, che certamente comporta decisioni sempre più difficili da far accettare alla pubblica opinione.

Ecco perché, soprattutto nella politica di difesa ed in politica estera, il ricorso al news management è diventato la prassi nelle metodologie di comunicazione dell’apparato presidenziale, divenendo fondamentale nei periodi di guerra.

Da sempre infatti l’informazione di guerra, o la propaganda, ha rivestito un ruolo fondamentale negli apparati di comunicazione statali, divenendo vero e proprio punto nevralgico nel momento in cui, con la conclusione della guerra fredda, era necessario giustificare presso l’elettorato l’inizio di un’azione militare.

Nel prossimo paragrafo andremo ad analizzare il sistema informativo americano nei periodi di guerra, facendo particolare riferimento alla presidenza di G.W. Bush, alla sua nuova politica comunicativa realizzata all’indomani degli attentati terroristici al World Trade Center dell’undici settembre del 2001, soprattutto in vista della preparazione della pubblica opinione all’attacco militare all’Iraq.

9

Ronald Reagan, prima d’impegnarsi in politica, era stato un famoso attore negli anni cinquanta−sessanta.

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5.4

Il Giornalismo americano in guerra

Il rapporto dei media americani con il potere è sempre stato di grande discrasia di interessi: soprattutto nei periodi di guerra l’amministrazione americana ha dovuto rintuzzare i continui attacchi della stampa e delle televisioni10. Le scelte di politica di sicurezza e di politica militare all’indomani dell’11 Settembre, hanno però obbligato la Casa Bianca a mutare atteggiamento nei confronti della stampa. La decisione di applicare la dottrina di guerra preventiva, infatti, prevedeva la necessità di preparare la pubblica opinione ad un intervento militare diretto dell’esercito Americano in Iraq.

Il pentagono aveva già evidenziato la propria attenzione relativamente alla comunicazione delle strategie militari presso il grande pubblico in una conferenza organizzata dalla National War College11, intitolata “le guerre americane ed il fattore CNN”. [Ricci, 2004, p.279]. In questa sede il brigadiere Mohammed al Allaf ipotizzava una guerra prima che questa fosse effettivamente in arrivo, ma al tempo stesso affermava:

« Fino ad oggi non ci sono prove che i media da soli possano influenzare drasticamente le politiche degli Stati, specialmente in materia di guerra e pace. Tuttavia, nelle giuste condizioni, i media possono esercitare un effetto potente nel configurare l’ambiente nazionale in cui politiche cruciali e decisioni di guerra debbano essere messe in atto.» [Ricci, 2004, p.280]

10 In particolare il rapporto conflittuale tra media e potere si è sviluppato all’indomani della guerra

del Vietnam e dallo scandalo del Watergate.

11

Il National War College è la scuola di studi strategici del Pentagono, la conferenza si è tenuta nell’aprile del 2001 [RICCI, 2004].

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Il primo passaggio della preparazione dei media ad una guerra è l’opera di marketing delle notizie , spesso poi rivelatesi false, per far passare i messaggi ideati e “venduti” dalla casa bianca. La domanda che molti analisti si sono posti è come hanno fatto i media americani a non controllare la grande massa di notizie provenienti dall’esecutivo. Alcuni autori hanno risposto a questa domanda, sottolineano come negli Stati Uniti si sia fatto strada un patriottismo dirompente, che rendeva i giornalisti ciechi di fronte ai comunicati che provenivano dalla casa bianca. Il punto è stato espresso in maniera esemplare da Greg Dyke, direttore generale della BBC, durante una lezione al GoldSmiths College della London University:

« − Molti network americani dopo l’11 Settembre si sono avvolti nella bandiera ed hanno barattato l’obbiettività con il patriottismo». [Amodeo, 2003, p.149]

Dyke ha anche dichiarato di essere rimasto stupito dell’incapacità dei media americani di reagire e riportare opinioni divergenti da quelle dei membri del governo. La stessa BBC era oggetto di pressioni, ma le dimensioni ed il ruolo dell’azienda hanno consentito di mantenere integro il grado di obiettività.

Il carattere fondamentale delle forme di disinformazione negli Stati Uniti, come accennato nel precedente paragrafo, non sono infatti dovute a forme di corruzione attive, come è avvento in Italia, bensì ad una forma passiva di autocensura, ovvero il rifiuto dei giornalisti di ricercare un’altra verità possibile rispetto a quella presentata dal Governo.

Per spiegare meglio questo concetto ci è utile ricostruire le tappe di avvicinamento all’attacco militare all’Iraq, facendo riferimento

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all’atteggiamento usato da alcune tra le maggiori testate del paese rispetto alle strategie politiche e comunicative della Casa Bianca, partendo da un dato molto interessante: secondo uno studio condotto nel 2003 dall’Università del Maryland, senza alcune delle false assunzioni sulla situazione in Iraq provocate dai Media, il sostegno alla guerra da parte della pubblica opinione sarebbe stato in posizione minoritaria rispetto ai “pacifisti”. [Ricci, 2004, p. 283]

5.4.1

La preparazione della stampa alla guerra

Per mesi i banner12 delle Tv hanno raggruppato sotto il titolo “guerra in terrore” o simili, notizie che riguardavano variamente l’Iraq, l’Afghanistan o Al Qaeda. L’idea che tutti questi capitoli fossero parte della stessa guerra era esattamente la posizione del governo americano. [Ricci, 2004, Tonello, 2003]. Raggruppando tutto nello slogan guerra al terrore, i media avallavano senza contestazione e verifica alcuna, ricalcando la linea del presidente. Ciò è stato effettivamente visibile soprattutto alla fine del 2002, quando la guerra era oramai decisa, ed esistono alcuni esempi ben visibili.

Il primo è un servizio su un discorso di Bush relativo alle armi di distruzione di massa:

«l’Iraq ha una crescente flotta di aerei senza pilota che potrebbero essere usati per spargere armi chimiche o batteriologiche. E ci

12 I banner sono le “Bar News” fisse che compaiono, soprattutto nei tg americani, nella parte

inferiore del teleschermo, e che riassumono ed identificano l’oggetto dei servizi, o il gruppo di servizi, di cui si sta trattando in quel momento.

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preoccupa che l’Iraq esplori modi di usare questi aerei in missioni che abbiano come bersaglio gli Stati Uniti» [Ricci, 2004, p.285]

Questa notizia presentata da Tv e giornali americani era evidentemente senza fondamento, data l’impraticabilità effettiva di un attacco batteriologico attraverso un viaggio aereo di oltre diecimila km. Tuttavia la stampa non ha fatto nessun rilievo, nessun commento, nessuna contestazione ad una notizia palesemente falsa, dato che nemmeno l’amministrazione Bush è più tornata sull’argomento [Tonello, 2003, p.157].

Lo stesso vale per una notizia data da “Newsweek”, ovvero dell’intervista ad Hussein Kamel, genero di Saddam Hussein, fuggito dall’Iraq e rifugiatosi in America, nella quale egli parlava delle armi di distruzione di massa presenti in Iraq. Oltre che ad elencare l’arsenale iracheno, Kamel assicurava la completa distruzione delle armi, per nasconderle, appunto, alle ispezioni degli osservatori internazionali. Tutto ciò di cui era in possesso il regime erano copie dei progetti. Questo dettaglio è stato omesso da Newsweek, che pubblicherà le scuse formali per la propria negligenza nei confronti dei lettori soltanto di sfuggita, in una rubrica all’interno del giornale [Ricci, 2004, p. 287].

Lo stesso Washington Post in 200 giorni sforna 140 articoli in prima pagina che rilanciano la propaganda della Casa Bianca, soprattutto a seguito dell’intervento presso l’ONU di Colin Powell, il quale presentava le prove dell’esistenza di armi di distruzione di massa, in seguito alla guerra mai venute alla luce. [Ricci 2004, p.288].

Oltretutto il pentagono aveva ben chiaro come gestire il flusso informativo proveniente dalle zone di guerra. La macchina mediatica

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non poteva certo infatti essere fermata da una banale censura militare: le nuove tecnologie (telefoni satellitari, trasmissioni di foto, di filmati via computer) rendevano inutile qualsiasi tentativo di censura militare. Il colpo di genio avuto dall’amministrazione per ovviare a questo problema è stato quello di permettere ai giornalisti di seguire l’esercito durante l’avanzata verso Bagdad. In questo modo i giornalisti avrebbero si visto, e riportato,ciò che vedevano, stringendo forti rapporti d’amicizia con i soldati, e, data la velocità con cui si è svolta la conquista di Bagdad, potrà essere raccontata, e quindi vista, solo la parte non guerreggiata dell’intervento militare: carri armati che sfrecciano nel deserto, città deserte che salutano l’arrivo degli americani.

5.5

Il ruolo dei giornalisti nella propaganda

dell’amministrazione Bush

Fin qui si è parlato dell’amministrazione Bush e del suo ruolo nella gestione e nella preparazione del conflitto iracheno. Certo le tecniche di news management hanno facilitato l’amministrazione nel riuscire a controllare indirettamente o direttamente i messaggi diretti verso i cittadini. Tuttavia è da sottolineare il ruolo subalterno ed accondiscendente di larga parte della stampa americana. In particolare i giornalisti hanno impostato la relazione con l’esecutivo Bush utilizzando il sopraccitato modello di scambio.

Molte delle notizie pubblicate dai giornali e trasmesse dalle tv durante il periodo di preparazione alla guerra sono state frutto di

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quello che in gergo i giornalisti americani chiamano leak13, provenienti direttamente da fonti vicine al governo. [Ricci, 2004]. La stampa americana ha spesso vissuto di grandi scoop venuti alla luce grazie a soffiate. Più che in ogni altro paese al mondo il leak sono una vera e propria istituzione, un meccanismo che garantisce la trasparenza dell’informazione.

Quasi sempre negli Stati Uniti, quando si vuol far partire un’iniziativa, la si annuncia con un leak, per poi confermarlo il giorno successivo. Il motivo è molto semplice: garantirsi uno spazio adeguato sui giornali, che grazie all’anticipazione daranno ampio spazio alla notizia.

L’amministrazione Bush, al contrario di altre presidenze, è riuscita a canalizzare in modo sapiente i leaks nei confronti dei giornalisti, tutte le soffiate erano approvate e gestite dall’alto. [Ricci 2004]. Come è stata usata questa situazione per manipolare gli schemi della stampa? Facendo filtrare i piani di guerra. Per mesi la stampa americana è stata inondata da indiscrezioni sui piani di guerra, sul numero di soldati da inviare in Iraq, sulle truppe. Lo stesso veniva fatto per le armi di distruzione di massa, descrivendo in modo minuzioso le possibili conseguenze di un attacco iracheno [Ricci, 2004, p.297].

E’ proprio su questo che emergono le responsabilità dei giornali e dei giornalisti: ovvero la verifica delle notizie. Il motivo di questa mancanza non è, come dicevamo all’inizio, un attaccamento patriottico alla bandiera, ma uno scambio di rendite.

E’chiaro che le notizie, presentate come anticipazioni e scoop sensazionali, avevano un risalto tale da permettere a chi le pubblicava

13

Letteralmente leak sta a significare “soffiata”, nel gergo giornalistico questa espressione è usata per indicare una notizia anticipata al giornalista da una fonte attendibile.

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un ritorno commerciale in termini di vendite. Inoltre i giornalisti più zelanti venivano premiati con le prime pagine, mentre i pochi contestatori di questa linea così filogovernativa erano relegati nelle seconde o terze pagine dei giornali14. La grande notiziabilità degli scoop relativi ai preparativi per la guerra ha dunque facilitato l’amministrazione nella gestione del consenso dei media e della pubblica opinione, ed è tuttavia evidente lo sganciamento dalle regole deontologiche da parte di molti giornalisti americani, che seguendo la logica della commerciabilità dei propri giornali e di possibili future rendite (economiche, di potere) hanno sacrificato l’obiettività e la professionalità.

5.6

Conclusione

In questo capitolo ci siamo soffermati innanzitutto sul rapporto tra la presidenza, ed il suo apparato, ed il mondo dell’informazione. Abbiamo posto l’accento sulla news managmnet theory, e della sua declinazione all’interno della presidenza Reagan. Abbiamo poi parlato delle tecniche usate dall’amministrazione Bush volte a manipolare il consenso della pubblica opinione e dei media nei mesi precedenti e successivi alla guerra in Iraq (2003). Ci siamo inoltre soffermati sul ruolo dei giornalisti nel rapporto con l’esecutivo. E’ indubbio infatti che le tecniche di news management mettano in difficoltà il giornalista, il quale non sempre riesce a mettere a fuoco fatti, verificarli, prima di renderli fruibili presso il grande pubblico. Durante

14 Questo è il caso di Thomas Ricks, Ombundsmann del Washington Post, il quale pubblicava

articoli che esprimevano dubbi rispetto all’intervento americano in Iraq, che però venivano relegati a pagina 28 del giornale, contro la prima pagina per le notizie pro− Bush [Ricci, 2004, p.286]

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questa breve ricognizione è stato evidenziato il meccanismo di scambio di rendite che vede coinvolto il giornalista e, in questo caso, la presidenza ed il suo apparato. Come si è visto nel terzo capitolo, la stampa, e tutto il sistema informativo, possiede una forte componente commerciale. Questa componente emerge quando il giornalista si trova davanti alla possibilità di ottenere rendite dal successo che un suo pezzo può portare al giornale. Ed in questo senso è disposto a sacrificare la professionalizzazione di alto livello tipica del giornalismo americano. La grande notiziabilità delle indiscrezioni opportunamente rese note dagli uffici della presidenza, ha portato i giornalisti a non verificare in modo adeguato le notizie che provenivano dalla Casa Bianca, preferendo la pubblicazione in prima pagina.

Il rapporto tra potere e giornalisti, almeno negli Stati Uniti, vede la figura del presidente, e dei consulenti e speech writer, centrali nel rapporto con gli operatori dell’informazione, i quali, a volte loro malgrado, a volte consensualmente, decidono di sorvolare sul controllo delle notizie e sulla conseguente obiettività del loro lavoro, presentando notizie false o verosimili, contribuendo, come si è visto a campagne che sfiorano la propaganda di guerra e che mettono a rischio il diritto di ogni cittadino ad essere puntualmente informato.

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