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La crisi politica del giugno-luglio 1964

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Capitolo primo

La crisi politica del giugno-luglio 1964

Le dimissioni del primo governo Moro

Il governo Moro, il primo di centro-sinistra con la partecipazione diretta del Partito socialista, entrò in crisi nella serata di giovedì 25 giugno 1964, dopo essere stato messo in minoranza alla Camera in una votazione sui fondi da destinare alla scuola privata. In discussione vi era il capitolo 88 del Bilancio di previsione di spesa del ministero della Pubblica istruzione per il semestre luglio-dicembre, che stanziava 149 milioni di lire come “Sussidi e contributi a scuole medie non statali”. Nella votazione a scrutinio segreto prevalsero i voti contrari, che furono 228 contro i 221 a favore, mentre 56 furono gli astenuti. A difesa del provvedimento si schierarono i soli deputati della Democrazia cristiana, mentre si astennero i rappresentanti degli altri partiti della maggioranza - socialisti, socialdemocratici e repubblicani - e votarono contro le opposizioni di sinistra e di destra. Subito dopo la bocciatura parlamentare, il presidente del Consiglio, Aldo Moro, riunì nel suo ufficio i collaboratori più fidati, oltre ai ministri Saragat, Colombo e Delle Fave, e rilasciò una nota in cui si affermava che «il governo ritiene di dover esaminare nella sede opportuna, ossia in Consiglio dei ministri, la situazione politica scaturita dal voto di stasera. Non intendo anticipare questa valutazione. Promuoverò una decisione collegiale del governo al momento opportuno».1

Le norme previste dal capitolo 88 del Bilancio, insieme a quelle collegate del capitolo 65, rappresentavano un problema secondario nella politica governativa, ma toccavano

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anche una questione di principio in grado di richiamare immediatamente le rispettive appartenenze ideologiche. Un argomento simile, in assenza di un preventivo accordo all’interno della coalizione e sotto i colpi delle manovre parlamentari delle opposizioni, era fatalmente destinato a riprodurre la tradizionale divisione tra cattolici e laici.

Per questo, fu subito chiaro che la strada per una ricucitura era quanto mai impervia, tanto che le riunioni convocate d’urgenza dai partiti della maggioranza servirono solo a cristallizzare la distanza politica che separava la Dc dagli alleati. Persino il partito di maggioranza relativa, che era il meno convinto dell’opportunità di una crisi - anche per la prossimità dell’importante appuntamento del suo congresso nazionale, previsto a Roma dal 1° al 4 luglio e poi sospeso - si limitò ad abbozzare un ultimo tentativo di accordo, proponendo il semplice reintegro del capitolo bocciato alla Camera. Non destò quindi sorpresa la decisione di Moro di riunire già nella serata del 26 giugno il Consiglio dei ministri, che prese atto della rottura verificatasi all’interno della coalizione e aprì ufficialmente la crisi. Pochi minuti prima delle 20, il presidente del Consiglio salì al Quirinale, dove era già stato in visita privata al mattino, per riferire al capo dello Stato e per rassegnare le dimissioni del ministero.

Si chiuse così l’esperienza del primo governo Moro, che era rimasto in carica per sei mesi e 22 giorni, avendo prestato giuramento nelle mani del presidente della Repubblica, Antonio Segni, il 5 dicembre del 1963. Tuttavia, al di là delle forme e dei tempi in cui era maturata la crisi, con la questione dei finanziamenti alla scuola privata a far da detonatore, era del tutto evidente che l’esecutivo aveva dovuto fare i conti fin dall’inizio con un contesto generale particolarmente problematico, andando incontro a un

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progressivo logoramento che lo aveva bloccato già da diverse settimane in una condizione di crisi latente.

Sul piano politico, aveva dovuto scontare i limiti e la lentezza della transizione che aveva portato dall’esaurimento della formula centrista al centro-sinistra, affrontando le contraddizioni interne e le resistenze esterne che avevano accompagnato la nascita di questa novità del panorama politico nazionale. Il quarto governo Fanfani aveva dato sì sostanza alla politica di progressivo avvicinamento tra Dc e Psi, attraverso l’approvazione di provvedimenti attesi quali, per esempio, la nazionalizzazione dell’energia elettrica e l’imposizione di una ritenuta sulle cedole azionarie, ma aveva finito per creare un generale e diffuso allarme nei ceti moderati, tradizionale serbatoio di voti del partito di maggioranza relativa. Da parte democristiana si impose allora l’esigenza di tenere a freno le spinte innovatrici che potevano intaccare il quadro sociale di riferimento, come dimostrò all’inizio del 1963 la sconfessione del progetto di riforma urbanistica elaborato dal ministro Fiorentino Sullo, autorevole esponente dello stesso partito cattolico.2 Il deludente risultato delle elezioni politiche tenute nell’aprile dello stesso anno costituì un ulteriore campanello di allarme, che non poteva più essere sottovalutato. Non solo alla Camera e al Senato la Dc arretrò tra quattro e cinque punti percentuali, con oltre 700 mila voti in meno in ciascun ramo del Parlamento, ma di questa perdita ne beneficiò in gran parte il Partito liberale, passato in cinque anni dal 3,5 al 7%, che era riuscito a intercettare i voti in uscita dagli ex alleati ponendosi come interprete di quegli allarmi e delle relative paure.

2 Lo stesso politico democristiano ha ricostruito questa vicenda in un volume pubblicato all’inizio del

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Sul versante opposto della coalizione problemi simili, ma di intensità ancora maggiore, attanagliavano il Partito socialista. Per Nenni le votazioni del 28 e 29 aprile non si erano rivelate una sconfitta, ma l’accresciuta forza esercitata alla sua sinistra dal Pci, arrivato a rappresentare più di un quarto degli elettori, era da un lato sintomo dell’insoddisfazione delle masse di sinistra per i frutti ottenuti con il governo Fanfani, dall’altro monito a insistere sulla via delle riforme. Le critiche, oltretutto, trovavano eco all’interno del partito, nelle posizioni dell’ala sinistra e dei seguaci di Riccardo Lombardi. Queste fratture emersero subito dopo le elezioni, quando il comitato centrale bocciò gli accordi della “Camilluccia” per la costituzione di un governo di centro-sinistra e spinse Nenni alle dimissioni da segretario, poi rientrate. Nemmeno l’esecutivo-ponte presieduto da Giovanni Leone, tra giugno e novembre, servì per pacificare le diverse anime del partito, come dimostrarono le defezioni della sinistra socialista nel momento in cui in Parlamento si votava la fiducia al governo Moro, il primo di centro-sinistra organico. La naturale conseguenza fu la scissione di 26 deputati e 11 senatori, tra i quali anche leader carismatici quali Tullio Vecchietti, Lelio Basso e Vittorio Foa, che nel gennaio del 1964 fondarono il Partito socialista italiano di unità proletaria.3 Questi avvenimenti resero ancora più pressante la necessità, per la maggioranza raccolta intorno a Nenni, di rilanciare sul piano delle riforme di struttura.

Queste spinte contrastanti, se non proprio alternative, si manifestarono già con la presentazione del programma del primo governo Moro, tanto vasto e pieno di promesse

3 La nascita del governo Moro ebbe conseguenze anche all’interno del Partito repubblicano, dove la

decisione di votare contro l’esecutivo, oltre ai legami assunti con forze di destra ostili al centro-sinistra, portò all’espulsione di Randolfo Pacciardi. L’ex-ministro della Difesa dette vita all’Unione democratica per la nuova repubblica, un movimento anticomunista e di ispirazione gollista che aveva al centro del suo programma la riforma dell’istituzione repubblicana in senso presidenziale.

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da risultare infine assai vago per l’assenza di vere scelte prioritarie e per il mancato impegno sui tempi di attuazione. La relazione del presidente del Consiglio considerò l’istituzione delle regioni un compito «primario», la riforma della scuola una «assoluta priorità», la riforma edilizia «fondamentale», l’agricoltura, il riequilibrio fra Nord e Sud, la riforma del fisco e delle pensioni, la legge urbanistica e quella anti-monopolio tutti «compiti prioritari». Ebbe gioco facile l’esponente liberale, Giovanni Malagodi, a definire l’esposizione di Moro «brevi cenni sull’universo».4 Nei mesi successivi, poi, gli interessi contrastanti dei partiti della maggioranza si tradussero in una progressiva incapacità di promuovere una comune azione di governo.

Sul piano economico, il governo Moro aveva dovuto gestire le difficoltà seguite alla fine di un ciclo strutturale che era basato sull’offerta ampia e a bassi costi di manodopera, in gran parte formata da emigranti che dal sud si spostavano a lavorare nel nord del paese. Tra la fine del 1963 e i primi mesi del 1964 l’economia italiana conobbe una battuta di arresto nel processo di sviluppo che aveva caratterizzato il quinquennio del “Miracolo economico”. Analizzando la situazione economica nella rubrica tenuta sul settimanale «L’Espresso», Eugenio Scalfari scrisse il 16 febbraio del 1964 che «il paese attraversa un periodo di grave sfiducia e l’opinione pubblica è in preda ad una grande paura. Si sperava, dopo i primi sintomi del malessere economico avvertiti nel corso del 1962 e aggravatisi nel 1963, che il peggio fosse passato e che il formarsi di un governo sorretto da una maggioranza stabile e deciso a operare senza avventatezza ma senza timidità, bastasse a superare le difficoltà. Invece, proprio all’alba del nuovo anno, il disagio economico s’è improvvisamente accresciuto». In particolare, Scalfari si

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soffermava su quattro indicatori: «i consumi sono aumentati, rispetto al 1962 di oltre l’8%, superando l’aumento degli investimenti; i prezzi all’ingrosso sono aumentati del 5,2% e quelli al minuto del 7,5%; la bilancia dei pagamenti s’è chiusa con un disavanzo di 1.244 milioni di dollari. Più grave di tutto è la situazione del mercato finanziario, disertato dal risparmio, che preferisce piuttosto tramutarsi in beni-rifugio o prendere le vie dell’estero per sottrarsi a veri o supposti nuovi gravami fiscali».5

Di fronte a tali difficoltà, che oltretutto ebbero un impatto amplificato sull’opinione pubblica per l’azione delle forze che avevano interesse a radicalizzare la situazione e per il seguito che esse avevano sugli organi di stampa, il governo avrebbe dovuto agire tempestivamente e in modo deciso. L’inerzia che ne seguì, invece, servì per alimentare l’insoddisfazione generale che andava montando nel paese, costituendo agli occhi di molti osservatori un’ulteriore testimonianza delle divisioni interne ai partiti della coalizione e, insieme, dello scarso potere decisionale dell’esecutivo. La soluzione, sostenuta dal ministro del Tesoro, Emilio Colombo, e dal governatore della Banca d’Italia, Guido Carli, fu una blanda e tardiva adozione di provvedimenti deflazionistici e di restrizione creditizia, che rispondevano a una visione classica di intervento finanziario,

5 Eugenio Scalfari, «Inflazione: la grande paura. La situazione economica è arrivata a una svolta»,

«L’Espresso», 16 febbraio 1964. Secondo Scalfari, tuttavia, le responsabilità della difficile congiuntura non dovevano essere addebitate tanto al governo Fanfani di “apertura a sinistra” del 1962-1963, quanto al precedente esecutivo costituito nell’agosto del 1960 sempre con la guida del politico aretino. «Esso - scrisse il giornalista il 19 gennaio - menò al bilancio statale colpi dai quali ancor oggi il bilancio non s’è ripreso, facendo approvare leggi di spesa per autostrade, per ferrovie, per piani di vario genere e colore, senza che alcun disegno d’insieme vi presiedesse e senza, soprattutto, che l’ammontare dei prelievi compiuti sul reddito bastasse lontanamente a colmare tanta euforia». Cfr. Eugenio Scalfari, «La stretta del credito. Il governo ha scelto la sua politica economica», «L’Espresso», 19 gennaio 1964.

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ma che erano l’opposto rispetto a quanto aveva scritto due anni prima Ugo La Malfa con la Nota aggiuntiva.

In definitiva, nei pochi mesi di vita del governo Moro il dibattito tra le forze politiche e quello pubblico finirono per essere monopolizzati da un unico tema, quello del rapporto tra congiuntura e riforme. La Democrazia cristiana caldeggiò una “politica dei due tempi”, che tendeva a privilegiare l’azione anticongiunturale rispetto all’attuazione del programma di riforme, e conseguentemente chiese il rinvio dei progetti ormai in cantiere, soprattutto della pianificazione economica, della legge urbanistica e della riforma regionale.6 Al contrario, i socialisti insistettero per un’azione contemporanea che tenesse insieme i provvedimenti anticongiunturali e il varo delle riforme e accentuarono la richiesta di attivare, attraverso le cosiddette riforme di struttura, quei meccanismi che erano in grado di disarticolare la società capitalista.

Un primo, importante momento di rottura palese tra le forze di governo fu rappresentato dall’articolo pubblicato il 27 maggio del 1964 dal quotidiano romano «Il Messaggero» che, riprendendo con una fuga di notizie una lettera riservata indirizzata da Emilio Colombo ad Aldo Moro alcune settimane prima, riportò alcuni giudizi molto pessimistici del ministro del Tesoro. Il giovane esponente democristiano, pupillo del presidente Segni, lanciava l’allarme sulla situazione economica del paese, che a suo giudizio correva il pericolo a breve termine di un collasso economico. Per questo, era il ragionamento conclusivo del ministro, non si doveva dare ascolto alle richieste dei

6 Il consiglio dei ministri del 26 giugno, che ratificò la crisi del governo Moro, aveva all’ordine del

giorno l’approvazione del progetto di legge urbanistica predisposto dal ministro dei Lavori pubblici, il socialista Giovanni Pieraccini. Anche la bozza del programma quinquennale 1965-1969, preparata dal ministro del Bilancio, Antonio Giolitti, era pronta e fu presentata il 27 giugno alla Commissione nazionale per la programmazione economica.

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socialisti, dei socialdemocratici e dei repubblicani, fermi nel sostenere la necessità di un impegno contestuale sia in senso anticongiunturale che a favore delle «costose riforme di struttura».7 La pubblicazione suscitò le immediate reazioni dei tre partiti laici della maggioranza, con i socialisti che minacciarono di uscire dall’esecutivo, e portò a un ulteriore inasprimento dei rapporti interni.8 Dopo un chiarimento con il presidente del Consiglio, lo stesso Colombo dovette precisare il suo pensiero intervenendo con un editoriale su «Il Popolo» del 29 maggio. «Sulla situazione economica del paese - iniziava il ministro - ho spesso manifestato, ed anche negli ultimi giorni, il mio pensiero, frutto di valutazione oggettiva e meditata», e più avanti continuava andando al succo del discorso:

7 Nel riepilogare la vicenda a molti anni di distanza, Emilio Colombo ha affermato che il contenuto

della lettera finì sulle scrivanie de «Il Messaggero» per un “pasticcio” dei suoi collaboratori. «Ero amico del giornalista che scrisse l’articolo, Cesare Zappulli, e i miei si fidavano di lui - ha ricordato l’esponente democristiano - In una conversazione lui mi attaccò dicendo che la situazione economica era insostenibile e io non facevo nulla. I miei mi difesero: sta agendo con la politica monetaria, dissero, e ha spedito una lettera a Moro in cui lancia l’allarme. Zappulli scrisse… È successo così». E pur negando di aver fatto parte di una concertata manovra contro il governo Moro e lo stesso presidente del Consiglio, Colombo ha comunque aggiunto che «era una situazione insostenibile: i socialisti, entrati nelle stanze del potere, volevano distribuire quattrini e quell’atteggiamento scatenò l’inflazione». Cfr. Pier Luigi Vercesi (a cura di), «Emilio Colombo: la lettera che mise in difficoltà Moro l’ho scritta io», in «1964-2004 L’affaire De Lorenzo», quarta puntata, «Sette», supplemento del «Corriere della Sera», numero 9, 26 febbraio 2004, pp. 34-35. Non è dello stesso avviso Corrado Guerzoni, stretto collaboratore di Aldo Moro, secondo il quale anzi per comprendere il significato della crisi politica del giugno-luglio 1964 occorre partire dalla presa di posizione di Colombo. «Quella lettera - ha scritto - entrava nella campagna promossa dall’asse Colombo-Carli-Segni, il cui scopo era di escludere i socialisti dal governo o di costringerli ad accettare un notevole ridimensionamento delle loro ambizioni. Quando scoppiò la crisi, una parte dei democristiani (con l’ammiccamento di altri) pensò che fosse la volta buona per disfarsi di Moro». Cfr. Corrado Guerzoni, «Luglio ’64: il Piano era disfarsi di Moro», «Corriere della Sera», 7 febbraio 2004.

8 In un discorso tenuto a Firenze il 28 maggio, Mario Scelba osservò che con la lettera di Colombo il

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«proporsi ed attuare una politica di stabilizzazione non può voler dire rinuncia al complesso programma che è impegno collegiale di governo e che si propone di dare soluzione ad alcuni fondamentali problemi del paese. Ma poiché ci si muove in momenti di difficoltà, non può prescindersi da un necessario coordinamento tra evoluzione della congiuntura e tempi e modi di attuazione del programma, il che è appunto nella logica della programmazione economica, elemento caratterizzante della coalizione di governo».9 La fase di impasse fu superata solo dopo un incontro tenuto a Villa Madama il 5 giugno, in cui tutti confermarono la volontà di rispettare gli accordi di governo, e una serie di dibattiti parlamentari incentrati sulla situazione economica che si conclusero il 12 giugno. Tuttavia, la tregua raggiunta si rivelò assai fragile e le fratture interne alla coalizione di centro-sinistra si ripresentarono, questa volta in modo decisivo, a meno di un mese di distanza.

I primi commenti della stampa all’indomani delle dimissioni del governo Moro riflettevano tutte queste considerazioni, ampliando progressivamente l’analisi dal tema dei finanziamenti alla scuola privata alle motivazioni più profonde della crisi. Le previsioni sui possibili esiti non davano per scontata la ricomposizione della maggioranza quadripartita e, anzi, non mancavano le possibili alternative, anche in forme più o meno traumatiche. Tutti gli osservatori, comunque, erano concordi nel sottolineare la particolare delicatezza del momento.

In apertura dell’edizione del 26 giugno, il «Corriere della Sera» poneva al centro della sua analisi l’isolamento della Democrazia cristiana. Il titolo principale, «Il governo sconfitto alla Camera nel voto per le sovvenzioni alla scuola privata», era completato da

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un occhiello in cui si diceva che «I democratici cristiani sono rimasti soli» e da un catenaccio in cui si spiegava che «Hanno votato contro tutti i gruppi di opposizione - l’astensione dei socialisti, dei socialdemocratici e dei repubblicani - anche i ministri non democristiani si sono astenuti».10 Ampio spazio veniva dato al giudizio dell’esponente liberale, Malagodi, secondo il quale «molti ministri e molti sottosegretari non hanno dato la fiducia al bilancio da loro stessi approvato in sede di Consiglio dei ministri. Si tratta di un fatto inaudito. Il governo deve dire ora, al Parlamento ed alla Nazione, cosa intende fare. Il paese sta vivendo in una profonda inquietudine. Occorre che il governo faccia il possibile perché questa inquietudine non aumenti ancora». Nel ribadire quest’ultimo concetto, poi, il quotidiano arrivava a parlare di atmosfera «drammatica per il clima tesissimo improvvisamente creatosi».

Nella parte di commento, il «Corriere» privilegiava una lettura della crisi come risultato della lotta interna al Partito socialista e la interpretava, di conseguenza, come una vittoria dell’ala lombardiana: «i “gregoriani” (gli amici di Lombardi) del Partito socialista, promotori dell’offensiva, hanno avuto successo. Il loro attacco era contro il governo, ma soprattutto contro l’ala nenniana del partito che essi hanno cercato in questo modo di sconfessare».

Anche il giorno successivo il quotidiano ritornò sui contrasti all’interno del Psi e sulla volontà di rottura dei seguaci di Lombardi, insistendo parallelamente sul rifiuto dei socialdemocratici di operare il salvataggio in extremis del governo, come avevano fatto

10 «Corriere della Sera», 26 giugno 1964. Nei giorni seguenti, prima «L’Osservatore Romano» e poi «La

Civiltà Cattolica» espressero profonda amarezza per un voto che «feriva il loro sentimento e il loro diritto». Il secondo aggiungeva che «in un paese come il nostro, sottoposto a violente spinte antidemocratiche, l’immaturità e la faziosità di cui taluni politici danno prova, gettano la sfiducia sugli stessi istituti democratici e preparano la via ai regimi forti». Cfr. «La Civiltà Cattolica», 1° luglio 1964.

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alcuni giorni prima in Senato votando a favore degli stanziamenti per la scuola privata. Già nell’articolo di fondo, tuttavia, questo tema passava in secondo piano, rappresentando una “buccia di banana”, un “pretesto” e un “paravento” dietro ai quali si nascondevano le difficoltà economiche e le diverse concezioni politiche tra i partiti della coalizione. «Il governo - sosteneva l’editoriale non firmato dal titolo “Un governo per governare” - era reso impotente dall’assurda associazione imposta dai socialisti tra congiuntura e riforme. Queste, se eseguite indiscriminatamente, avrebbero aggravato mortalmente la situazione economica, rendendo vane le misure anticongiunturali sulle quali, d’altronde, mancava l’accordo. E mancava perché una parte dei socialisti vuole attaccare e sconvolgere il “sistema”, mediante misure fiscali persecutorie e riforme che la congiuntura e il “sistema” stesso non possono sopportare… In sostanza, una parte dei socialisti mira ad abbattere l’attuale sistema, per instaurare un’economia marxista, magari di seconda categoria (tipo jugoslavo, tipo algerino). I contrasti sulla programmazione, sulla legge urbanistica eccetera rivelano l’incompatibilità tra il metodo socialista e quello democratico».11

In relazione ai possibili sbocchi della crisi, l’articolo considerava improbabile una ricostituzione della maggioranza di centro-sinistra, possibile solo con un’altra e subitanea scissione del Partito socialista, e difficile la formazione di un governo a tre con appoggio esterno o dei socialisti o dei liberali. Soprattutto, appariva decisamente negativa la prospettiva di un governo “scaldapanche”, tipo quello presieduto da Leone nell’estate del 1963, in attesa di un chiarimento nell’ambito delle forze di centro-sinistra. «Abbiamo bisogno - concludeva l’editoriale - d’un governo di emergenza per una situazione di

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emergenza. Il partito democratico cristiano, architrave d’ogni governo, non ha una maggioranza compatta e coerente, sulla quale si possa costruire. Il Partito socialista è in sfacelo. La crisi politica e governativa trae elementi, o nasce, dalla crisi di cotesti partiti. Tutto è rimesso in discussione, tutto è in gioco: siamo al limite della rottura politica ed economica». Ritornavano qui - con la denuncia delle divisioni esistenti tra i due principali partiti della maggioranza e al loro stesso interno e con la conseguente crisi di legittimità delle forze politiche davanti al paese - due dei principali argomenti che il quotidiano milanese aveva utilizzato anche in passato per motivare la sua opposizione al governo Moro.12

Per alcuni aspetti «Il Giorno», quotidiano certamente più aperto alla politica di centro-sinistra, condivideva questa analisi. La sintesi proposta il 27 giugno partiva dalla considerazione che il tema del finanziamento alla scuola privata poteva essere limitato a un ambito tecnico, senza assurgere a questione di principio che avrebbe indotto i partiti della maggioranza a dividersi tra laici e laici. Nella sostanza, invece, il governo era stato progressivamente minato dall’antitesi fra due interpretazioni che i socialisti davano al nuovo corso politico. «L’ala minoritaria del Psi - scriveva Villy De Luca nell’articolo di apertura - sostiene che il centro-sinistra non è un “mito”, ma un programma di cose da fare a scadenze prefissate. Pertanto, se la tabella di marcia non viene rispettata e, anzi,

12 Alcuni giorni prima delle dimissioni di Moro, il «Corriere» aveva pubblicato un editoriale non firmato

in cui si affermava che «il governo si divide in due o più correnti diverse per dottrina e opinioni, rispecchiando la divisione e i contrasti dei partiti della maggioranza e le loro interne contraddizioni. Il distacco tra paese e governo, tra paese e partiti si allarga, perché il paese stenta a capire o non capisce affatto ciò che sta accadendo… La scissione della sinistra è stata inutile perché non ha liberato il Partito socialista dai sedimenti massimalistici e dalla demagogia; i democratici cristiani sono, anch’essi, divisi in quattro correnti, che somigliano ad altrettanti partiti». Cfr. «Corriere della Sera», 21 giugno 1964.

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nemmeno stabilita, la formula può essere abbandonata… I nenniani, invece, vedono nel centro-sinistra una linea politica, con un suo programma, ma soprattutto con l’obiettivo prioritario di saldare in forma definitiva l’alleanza fra cattolici e socialisti».13

La riflessione de «Il Giorno» si distaccava da quella del «Corriere della Sera» perché considerava, accanto alle debolezze interne ai partiti della maggioranza, il clima di conflitto creato dall’aspra opposizione delle forze sia di destra che di sinistra e i limiti dello sviluppo nazionale. «Il centro-sinistra - argomentò il direttore, Italo Pietra, nell’editoriale dal titolo “Non c’è tempo da perdere” - realizzava l’incontro storico dei socialisti con i cattolici e doveva assicurare una prospettiva di riforme in un clima di libertà. A questo punto, la destra economica ha risposto con le campane a martello, con la fuga dei capitali; e i comunisti con l’attacco frontale contro il centro-sinistra, con gli scioperi. Era una battaglia su due fronti; e non poteva essere che durissima, in un paese di debole tradizione democratica, tra una destra troppo spesso ferma al paternalismo, al qualunquismo, all’antipartitismo, alla difesa di posizioni stravecchie come la mezzadria e una sinistra troppo spesso incline al massimalismo, al conformismo stalinista, alle posizioni protestatarie, alle manovre anarcoidi».14 Anche questi motivi, insomma, avevano contribuito a far impantanare una novità politica che, almeno in partenza, si

13 «Il Giorno», 27 giugno 1964. Secondo il giornalista, la crisi era diventata non solo inevitabile, ma

anche auspicabile per accelerare il chiarimento all’interno del Psi, mentre lo sbocco più probabile appariva la riproposizione della maggioranza uscente, con gli opportuni aggiustamenti. «I quattro alleati - terminava - sono tutti disposti a ricostituire la coalizione attorno a Moro. Vorrebbero, insomma, formare un nuovo governo a quattro, con gli spostamenti di uomini che apparissero necessari… In conclusione, la prospettiva più probabile è la costituzione del secondo ministero Moro. La subordinata è un gabinetto tripartito con il sostegno esterno del Psi. L’ipotesi estrema è l’anticipo delle elezioni politiche».

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presentava come molto promettente. Senza dimenticare, aggiungeva Pietra, che nel valutare le difficoltà italiane si doveva tener conto di un contesto europeo diventato critico per la ristrettezza delle dimensioni e delle strutture produttive delle singoli nazioni a confronto della crescente concorrenza mondiale.

Il commento del direttore finiva richiamando la gravità e l’urgenza dei problemi in campo e chiedendo di risolvere la crisi in tempi rapidi e nella massima chiarezza. «Non c’è nessuno - scriveva - che, dopo la svolta di oggi, possa considerare liquidata quella piattaforma veramente moderna, la piattaforma del centro-sinistra: ma per riprendere risolutamene il cammino, per rispondere all’attesa e agli interessi del paese, bisogna dare alle scelte, e alle lotte, proprie della vita politica, un carattere di assoluta chiarezza, e di franco impegno».

Le consultazioni del presidente Segni

I primi giorni dopo la caduta del governo furono caratterizzati dalle consultazioni per la formazione del nuovo esecutivo da parte del presidente della Repubblica e dalle riunioni dei partiti della maggioranza, che espressero il loro punto di vista sulle motivazioni della crisi e sui possibili scenari futuri. Già tra 27 e 28 giugno Segni ricevette l’ex-capo di Stato, Giovanni Gronchi, e i presidenti delle due Camere, Cesare Merzagora e Brunetto Bucciarelli Ducci, oltre a Giuseppe Saragat in qualità di ex-presidente della Costituente. Prese poi una breve pausa per spostarsi nella tenuta presidenziale di San Rossore, alle porte di Pisa, e partecipare il 29 al matrimonio del figlio secondogenito. Dopo la cerimonia, il capo dello stato rientrò rapidamente nella capitale e riprese gli

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incontri accogliendo gli ex-presidenti delle assemblee parlamentari ed ex-presidenti del Consiglio, tra i quali Giuseppe Pella, Mario Scelba, Amintore Fanfani e Giovanni Leone.

Fu forse in questa occasione che si verificò l’episodio ricostruito da Scelba nel suo libro di memorie Per l’Italia e per l’Europa: «uno dei maggiori critici del centro-sinistra e di Moro - ha scritto l’ex-ministro dell’Interno - era l’onorevole Segni, presidente della Repubblica. Egli mi chiamò e mi spiegò le ragioni che secondo lui consigliavano la fine dell’esperimento di centro-sinistra e della presidenza Moro. Ricordai a Segni di essere stato lui un fautore del centro-sinistra, mentre io ero stato contrario… Non ritenevo opportuno di procedere alla liquidazione del centro-sinistra e alla liquidazione di Moro. Spiegavo che il centro-sinistra durava in fondo da poco tempo e non aveva potuto esaurire la sua esperienza. Liquidare Moro in queste condizioni poteva essere interpretato come un tentativo reazionario per sopprimere il governo di centro-sinistra. Perciò consigliavo Segni di lasciare che continuassero e il centro-sinistra e Moro. Tuttavia il capo dello stato, insistendo sulla sua tesi, mi chiese di tenermi pronto, insieme con Pella, nella nostra qualità di ex-presidenti del Consiglio, a una eventuale chiamata per la costituzione di un nuovo governo. Mi dichiarai contrario a questa soluzione, ma insistendo Segni sull’idea di sostituire il governo Moro con un governo presidenziale formato da me o da Pella, gli domandai se avesse un programma per dominare le manifestazioni che la formazione di un governo presidenziale avrebbe sicuramente provocato. Segni rispose di non aver elaborato alcun programma, ma che contava sui carabinieri. Gli dissi di esser cauto con i carabinieri… Domandai poi a Segni se aveva parlato del suo progetto al ministro dell’Interno, onorevole Taviani, da cui dipendeva la polizia. Segni reagì subito dicendo: “non parlarmi di Taviani, che è un comunista, e

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quindi non posso fidarmi della polizia”. Replicai che era la prima volta che sentivo dire che Taviani fosse un comunista, e che come ministro dell’Interno non aveva compiuto alcun atto che giustificasse l’accusa di Segni… il disegno presidenziale non ebbe seguito».15

È utile a questo punto aprire una parentesi per richiamare i rapporti tra Paolo Emilio Taviani e il presidente Segni durante il 1964, come li ha ricostruiti lo stesso ministro in un’intervista al giornalista Francesco Giorgino, pubblicata nel libro Intervista alla prima repubblica. Dopo aver precisato di conservare una grandissima stima di Antonio Segni, l’allora ministro dell’Interno ha affermato che i contrasti tra loro si riferivano all’ultimo anno di vita politica dell’ex-presidente della Repubblica e che avevano una data d’inizio precisa: il 22 febbraio del 1964: «è la data del ritorno di Segni dal viaggio in Francia. Che cosa sia successo a Segni in Francia non sono mai riuscito a capirlo. Penso che sia rimasto fortemente impressionato della organizzazione antistalinista dei francesi: qualcosa di assolutamente incredibile rispetto al complesso delle nostre strutture. Mi chiese - al primo nostro incontro - che cosa noi avessimo previsto in caso d’insurrezione armata comunista. Gli premisi che - dopo la sconfitta interna dei “secchiani” - né io, né Vicari avevamo preoccupazioni di quel genere. In caso di guerra, contro l’invasione c’era Stay Behind. “Andando avanti di questo passo - mi rispose secco il presidente Segni - fra un anno sarò costretto a dare il mandato per il governo degli stalinisti”. Il colloquio terminò in un clima di freddezza». Dopo quell’incontro il clima cambiò e Segni prese a vedere solo il generale De Lorenzo, mentre non ricevette più Vicari. «Con me ci fu un altro colloquio, a maggio, assai teso - continua Taviani - Il presidente mi diceva che lui

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parlava da amico; io gli rispondevo che non potevamo dimenticare che si trattava di un rapporto tra capo dello stato e il ministro dell’Interno. A farla breve, il presidente avrebbe voluto fare in modo che terminasse l’esperienza di centro-sinistra. Pensava a un governo monocolore, accennò a una mia presenza con Pacciardi alla Difesa o agli Interni. Gli dissi che in nessun caso avrei partecipato e tanto meno diretto un governo monocolore. Devo aggiungere che Rumor - segretario nazionale della Dc - in questi frangenti si comportò benissimo. Escluse sempre la possibilità di un governo monocolore Dc. Comunque la tensione era tale che a fine maggio io dissi a Moro, presidente del Consiglio, che con la scusa di esigenze di riposo o addirittura di salute, io mi sarei dimesso».16

Tra il 30 giugno e il 2 luglio il capo dello stato incontrò le delegazioni dei vari partiti, finendo con i rappresentanti dei repubblicani e del gruppo misto alla Camera.17

16 Francesco Giorgino, Intervista alla prima repubblica. Taviani Napolitano Amato scene (e retroscena) da

cinquant’anni di politica, Milano, Mursia, 1994, pp.61-62. Subito dopo, Taviani ha sintetizzato il suo

giudizio sulle manovre del generale De Lorenzo: «il “Piano Solo” - finché fosse rimasto un quaderno chiuso in un cassetto, o magari utilizzato per tranquillizzare le preoccupazioni del presidente Segni - non costituiva di per sé un reato. Fu invece imperdonabile che De Lorenzo abbia radunato all’Hotel dei Principi la dirigenza dell’Arma in previsione di una possibile emergenza. Io lo seppi subito e la mattina successiva convocai De Lorenzo: egli si scusò dicendo che doveva tranquillizzare il presidente della Repubblica. Gli chiesi se almeno avesse preavvisato Andreotti, ministro della Difesa. Mi disse di no. Ritenni opportuno chiudere l’incidente, perché ben conoscevo gli umori del Quirinale. La sera telefonai a Moro ricordandogli che ormai erano inevitabili a fine estate le mie dimissioni». Cfr. Ivi, pp.62-64. Taviani aveva già parlato di questi temi in una testimonianza resa al giudice istruttore di Venezia, Carlo Mastelloni, il 28 dicembre del 1990. Cfr. Atti giudiziari, Tribunale Civile e Penale di Venezia, Testimonianza di Paolo Emilio Taviani del 28 dicembre 1990.

17 Uscendo dall’udienza con Segni, il presidente del gruppo dei deputati del Movimento sociale italiano,

Gianni Roberti, lesse una dichiarazione che cominciava con la constatazione che «siamo di fronte ad una situazione paradossale. In Italia siamo tutti convinti, dal capo dello stato all’ultimo lavoratore, che l’esperienza del governo di centro-sinistra presieduta da Moro è stata la più rovinosa del nostro

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Confermando una consuetudine che lui stesso aveva inaugurato durante gli anni del suo mandato, il 3 luglio Segni terminò il giro d’opinioni fissando un nuovo appuntamento con Merzagora e Bucciarelli Ducci.

Nel frattempo si erano riunite le direzioni dei quattro partiti della coalizione che, pur con qualche accento diverso, si espressero sia a favore della conferma della formula di centro-sinistra che della fiducia ad Aldo Moro. Per sgombrare il campo da ogni possibile equivoco, il socialdemocratico Saragat affermò che il suo partito non era disponibile per maggioranze diverse e, in modo particolare, per un governo tripartito con l’appoggio esterno dei socialisti, né tantomeno prendeva in considerazione il sostegno esterno a un monocolore democristiano. Una posizione analoga fu condivisa dalla direzione del Psi, convocata d’urgenza in attesa del ben più impegnativo passaggio del comitato centrale di alcuni giorni dopo, dove era prevista la resa dei conti tra i sostenitori di Nenni da una parte e quelli di Lombardi dall’altra. La direzione democristiana ribadì la fiducia nel centro-sinistra durante una riunione allargata ai rappresentanti di tutte le correnti interne, a cui in via straordinaria partecipò come osservatore lo scelbiano Oscar Luigi Scalfaro. Anche sulla figura di Moro si registrò un’ampia convergenza e tuttavia il presidente del gruppo dei senatori Dc, Silvio Gava, incalzato dalle domande dei giornalisti, si lasciò sfuggire che qualche altro nome era stato fatto all’interno del partito, ma che ciò non

dopoguerra». Queste parole costrinsero il presidente della Repubblica a smentire, attraverso il suo addetto stampa, di aver manifestato apprezzamenti su situazioni politiche presenti o passate. Cfr. «Corriere della Sera», 2 luglio 1964. La precisazione, tuttavia, non servì a fare definitiva chiarezza, tanto che l’indomani «L’Unità» sottolineò come «il sospetto che nel colloquio con Segni il fascista Roberti abbia potuto riscontrare pareri che suonavano di conforto per le sue tesi politiche, ha continuato a circolare». Cfr. «L’Unità», 2 luglio 1964.

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aveva importanza «almeno in questa prima fase».18 La posizione del partito di maggioranza relativa fu chiarita, in una brusca intervista sul «Corriere della Sera», dal segretario Mariano Rumor. Egli spiegò che la direzione aveva confermato la linea deliberata nel congresso di Napoli, ma chiesto una verifica per chiarire gli aspetti del programma che andavano adeguati alla nuova situazione economica e per salvaguardare quella formula politica da ogni stravolgimento di significato: «vi è stato un tentativo - denunciò infatti Rumor - di considerare il centro-sinistra come un fatto strumentale in vista di una società socialista».19 Il riferimento era evidentemente diretto all’ala sinistra del Partito socialista, di cui si chiedeva il ridimensionamento, e ad alcune delle riforme elaborate durante i sei mesi di vita del governo Moro, che ora si voleva rimandare o addirittura accantonare.

Nell’avanzare queste richieste, Rumor era tutt’altro che isolato, apparendo anzi come una delle espressioni di una ben congegnata campagna politica e di stampa. Emblematico è a questo proposito quanto pubblicò il «Corriere» del 29 giugno, in un editoriale non firmato che sottolineava la necessità di adottare un programma realistico: «sembra di capire che se la coalizione di centro-sinistra sopravvivrà alla caduta del governo Moro dovrà fondarsi su un programma ristretto e realistico così che l’eventuale governo di centro-sinistra sia riveduto e corretto. Tutto come prima nella forma ma profondamente diverso nella sostanza». E poco più avanti ritornò sulla questione, in modo più esplicito, chiarendo che «il programma stabilito nel dicembre ‘63 è ineseguibile, sia per

18 «Corriere della Sera», 2 luglio 1964. Il quotidiano milanese commentò che «ciò che poteva colpire,

nella frase del senatore Gava, era un certo senso di perplessità trasparente, quasi un pronostico sfavorevole, verso il tentativo dell’onorevole Moro».

19 «Corriere della Sera», 30 giugno 1964. Flaminio Piccoli sintetizzò la posizione democristiana dicendo

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l’aggravamento della situazione economica, che esige la riduzione della spesa pubblica, rinunzie e sacrifici individuali e collettivi e quindi una politica severa fatta col pugno di ferro; sia perché le riforme progettate sconvolgerebbero fino alla rovina il già sconvolto equilibrio nazionale… Potrà verificarsi la riduzione del programma di governo alle cose essenziali nello stesso ambito del centro-sinistra? Dipende dai socialisti. Ossia dalla liquidazione del massimalismo della corrente lombardiana. Dipende anche dai democratici cristiani, le cui code di sinistra seguono una pratica troppo disinvolta di scavalcamenti… Se così sarà, il centro-sinistra potrà ricostituirsi. Diversamente, sarà opportuno cercare altre soluzioni e, occorrendo, ricorrere all’estremo appello alla Nazione».20

Queste considerazioni furono riprese da due successivi editoriali de «Il Giorno», che sottolinearono in chiave polemica le pressioni esercitate prima e dopo la caduta del governo dai settori moderati e conservatori. «Liberali e Confindustria - affermò nel primo articolo Villy De Luca - considerano la crisi di governo un loro successo tattico. Ma si rendono conto che la caduta del Gabinetto Moro può avere due conseguenze ben diverse: il rafforzamento della politica di centro-sinistra nel senso auspicato da Saragat (e, in tal caso, la sconfitta strategica delle destre assumerebbe le proporzioni di una debacle); oppure la fine della formula con l’uscita dei socialisti dalla maggioranza parlamentare. Quest’ultima soluzione è l’obiettivo primario della nuova offensiva che liberali e imprenditori hanno aperto su direttrici diverse».21 Il tema venne ripreso alcuni giorni dopo dal direttore Italo Pietra, in un fondo in cui si chiedeva chiarezza sul modo di

20 «Corriere della Sera», 29 giugno 1964. 21 «Il Giorno», 29 giugno 1964.

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intendere la politica di sinistra. «Non si può fare - scriveva Pietra - un centro-sinistra adatto ai gusti e alle raccomandazioni della stampa benpensante (il riferimento era chiaramente al “Corriere della Sera”) che è avversa al centro-sinistra, vicinissima a Malagodi. Questi settori della destra trovano comodo affermare che il centro-sinistra porta verso climi e formule alla maniera jugoslava o polacca. In realtà, si tratta di avviare la vita italiana verso i livelli di produttività e di giustizia sociale già raggiunti da altri paesi occidentali».22

A surriscaldare ulteriormente il clima politico, giunsero poi le dichiarazioni rilasciate dal presidente del Senato, Merzagora, dopo il primo colloquio con Segni. L’autorevole esponente della Democrazia cristiana raccomandò, infatti, la formazione di un governo di emergenza, con una decisa presa di posizione contro la politica di centro-sinistra che esulava dal suo ruolo istituzionale e che era in controtendenza rispetto a quanto stava elaborando il suo stesso partito. «La situazione è complessa - disse - e credo che se ne possa uscire con un governo di emergenza con larga base di appoggio e che possa dare tranquillità alle masse dei lavoratori che temono di perdere il lavoro e forse ore di paga, e che possa anche ridare fiducia agli imprenditori e ai risparmiatori che per molti mesi sono vissuti di paura».23 Prendendo spunto da queste parole, «Il Secolo d’Italia» lanciò un appello diretto ad Antonio Segni: «tocca ora al presidente dello stato - scrisse il giornale del Movimento sociale - esaminare... la situazione davvero preagonica in cui il centro-sinistra ha precipitato la nostra finanza e la nostra economia. Qualcuno teme che un nobile tentativo di salvataggio dell’avvenire della Nazione operato attraverso un nuovo

22 «Il Giorno», 3 luglio 1964.

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corso della nostra vita politica, costituzionalmente e democraticamente proposto dalla designazione del presidente ed approvato dal Parlamento, potrebbe provocare l’aperta sovversione della piazza, mobilitata dal comunismo». E concluse con tono minaccioso: «in tal caso, ne siamo sicuri, non sarebbe necessario che il capo dello stato mobilitasse le forze preposte alla difesa delle istituzioni».24

Sul versante opposto, le affermazioni del presidente del Senato suscitarono la reazione del partito e della stampa comunisti. Il 29 giugno la segreteria del Pci diramò una nota più generale per denunciare che «gruppi apertamente reazionari approfittino delle attuali difficoltà per rivolgere un attacco contro le istituzioni democratiche e repubblicane, e in questo modo preparare le condizioni dell’avvento di un regime autoritario». Il giorno dopo, «L’Unità» citò direttamente Merzagora e sottolineò che «i giornali di destra si gettavano sulla sua proposta invitando apertamente Segni a compiere gesti autoritari… oltre alle vociferazioni su “iniziative” di tipo tambroniano che si sono sparse in tutti gli ambienti politici».25 Sempre il 30 giugno, nella polemica intervenne anche l’«Avanti!», con un articolo dal titolo «L’atteggiamento dei partiti per la soluzione della crisi». Il

24 «Il Secolo d’Italia», 30 giugno 1964.

25 «L’Unità», 30 giugno 1964. Contro queste prese di posizione, il «Corriere della Sera» sottolineò che «è

questa la prima volta dall’estate 1960 (crisi del governo Tambroni) che il Pci si impegna in un’azione di massa di queste proporzioni. I temi discussi nel dibattito attuale si differenziano, nelle premesse e nell’impostazione, da quelli trattati quattro anni fa, ma la conclusione, oggi come allora, è la stessa: l’evoluzione della situazione deve portare a una maggioranza della quale i comunisti facciano (direttamente o indirettamente) parte». Cfr. «Corriere della Sera», 2 luglio 1964. L’articolo si riferiva anche ai comizi, alle manifestazioni e ai raduni organizzati dal Pci per rievocare gli eccidi del luglio 1960: in quelle settimane si avviava infatti alla conclusione il processo per i fatti di Reggio Emilia del 7 luglio 1960, che avevano provocato l’uccisione di cinque dimostranti da parte della polizia. Il 14 luglio 1964 la Corte d’Assise di Milano emise una sentenza di assoluzione per tutti i 63 imputati, 61 manifestanti e 2 rappresentanti delle forze dell’ordine.

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quotidiano socialista collegò le parole di Merzagora alla campagna in corso da parte di forze e giornali contrari al centro-sinistra: «c’è da parte della destra e delle forze confindustriali, il tentativo di spingere verso soluzioni di “emergenza”, o addirittura di rottura della situazione democratica e di mutamento dell’attuale regime costituzionale». Poco più avanti ritornò sul tema: «le destre italiane invocano una sorta di gollismo capace di… instaurare un nuovo corso politico che possa liberare i gruppi detentori del potere economico dalle “paure in cui sono vissuti negli ultimi tempi”». Il riferimento esplicito era, oltre ai ceti imprenditoriali più conservatori e agli agrari, alle posizioni espresse dal «Corriere della Sera», con cui la polemica era forte sia per la spinta a forzare le divisioni tra seguaci di Nenni e di Lombardi, sia per l’opposizione ai progetti di riforma legati alla programmazione, all’urbanistica e alle regioni.26

26 «Avanti!», 30 giugno 1964. La comune denuncia dell’offensiva reazionaria e del pericolo che

correvano le istituzioni democratiche della Repubblica non rese più facili i rapporti tra Psi e Pci. Anzi, proprio sui comportamenti da tenere di fronte a tali pericoli tra i due partiti si aprì un’aspra polemica, che fu uno dei tratti caratterizzanti la crisi politica del giugno-luglio 1964. Per i socialisti, primo fra tutti Nenni, la mediazione tra le forze della maggioranza e la ricomposizione della coalizione di centro-sinistra rappresentavano, persino al di là degli specifici contenuti del programma di governo, la migliore risposta alla violenta pressione esercitata dalle destre. Per i comunisti, invece, Nenni e il gruppo dirigente socialista si facevano scudo delle minacce della destra per giustificare la propria arrendevolezza, senza considerare che proprio un tale atteggiamento finiva per incoraggiare le mire autoritarie delle forze di destra. Parlando a San Giovanni, Palmiro Togliatti accennò alle preoccupazioni di Nenni affermando che «per quanto riguarda il pericolo di destra, noi sappiamo a cosa si riferisce. Sappiamo che ci sono stati inviti aperti da parte della Repubblica federale tedesca e di altri ambienti stranieri ben individuati. Ma la Repubblica tedesca fu un regalo degli anglo-americani, una cosa ben diversa dalla Repubblica italiana che è un risultato di una dura lotta di popolo. In Italia la via per qualunque involuzione reazionaria è sbarrata. Chi volesse attentare alle nostre libertà sappia che non ci sono speranze. Noi, però, diciamo al compagno Nenni che una vera destra c’è e sta nella direzione della Dc». La citazione, che fa parte della rassegna stampa inclusa nelle carte di Pietro Nenni, è probabilmente ripresa da «L’Unità» del 4 luglio 1964. Cfr. Fondazione Pietro Nenni, Appunti sulla crisi di

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Le trattative di Villa Madama

Il 3 luglio, dopo un colloquio di circa due ore terminato poco prima delle 22, il presidente Segni affidò l’incarico di formare il nuovo governo ad Aldo Moro, ottenendo da questi l’insolita assicurazione di riferire costantemente sugli sviluppi della situazione.27 Rispetto alle previsioni, che indicavano nel 2 luglio la giornata più probabile, il capo dello stato rinviò di alcune ore la convocazione del presidente del Consiglio uscente per procedere a un supplemento di consultazioni non ufficiali che coinvolsero, tra gli altri, gli esponenti Dc Rumor, Colombo, Gava e Zaccagnini.

Già dal 4 luglio Moro avviò dei contatti informali sia all’interno della Dc che con le altre forze della coalizione di centro-sinistra, ma fu a partire dal pomeriggio del 7 luglio che i partiti della disciolta maggioranza si dettero appuntamento a Villa Madama per

governo del giugno 1964 e ritagli di giornale, giugno-luglio 1964, busta 126, fascicolo 2471. La replica del

leader socialista non si fece attendere: «dopo di aver riconosciuto in sede storica, come ha fatto sovente Togliatti, gli errori del ‘22 in Italia e del ‘31-’32 in Germania… i dirigenti comunisti sono tornati a quelle posizioni sbagliate ed alla nefasta ed originaria teoria che li porta a credere che il maggiore pericolo controrivoluzionario non sia tanto l’eventualità di un goerno di dittatura extra-parlamentare, quanto la possibilità che i lavoratori seguano i socialisti nella lotta di difesa della democrazia». La citazione, ripresa da l’«Avanti!» del 4 luglio 1964, è in: Fondazione Pietro Nenni, Appunti sulla crisi di governo del giugno 1964

e ritagli di giornale, cit.

27 «Era un mandato di carattere generale - ha ricordato successivamente Moro davanti alla Commissione

parlamentare d’inchiesta sui fatti del giugno-luglio 1964 - che, proprio per essere accompagnato dallo impegno che io ovviamente assumevo di riferire frequentemente al presidente della Repubblica, era un mandato in un certo senso elastico e che il capo dello stato si riservava, di volta in volta, di definire in rapporto alla evoluzione della situazione». Cfr. Atti Parlamentari, Commissione parlamentare d’inchiesta sugli

eventi del giugno-luglio 1964, Relazione di maggioranza, volume I, Roma, 1971, p.4202. Al di là delle parole

di Moro, comunque, era evidente che questo vincolo da una parte indeboliva la posizione del presidente del Consiglio incaricato, dall’altro manteneva Segni al centro della scena politica. E infatti il «Corriere della Sera» commentò che questo atto «significa che, durante la trattativa fra i partiti, il presidente Segni continuerà ad assistere col suo consiglio, nella veste di supremo tutore degli interessi della collettività nazionale, il presidente incaricato». Cfr. «Corriere della Sera», 4 luglio 1964.

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definire la composizione e il programma del nuovo governo. Per la Dc erano presenti, oltre a Moro, il segretario Rumor e i presidenti dei gruppi parlamentari, Zaccagnini e Gava; per il Psi il capodelegazione Nenni, il segretario Francesco De Martino e i capigruppo Mauro Ferri e Luigi Mariotti; per il Psdi Giuseppe Saragat, Mario Tanassi e Antonio Cariglia, e per il Pri Ugo La Malfa e Oronzo Reale. Le delegazioni erano poi completate da alcuni esperti di natura tecnica. La cronaca di Luigi Bianchi del «Corriere della Sera» ricostruì anche la disposizione fisica dei rappresentanti: «Moro sedeva a capotavola, con Nenni alla sua sinistra e Rumor a destra, gli altri sui lati lunghi del tavolo e i repubblicani di fronte a Moro».28

L’auspicio era di poter trovare un accordo in tempi brevi, anche perche tutti i partiti avevano dato mandato di non ridiscutere l’intero programma concordato nel novembre dell’anno passato, ma solo quelle parti che richiedevano aggiornamenti alla luce delle difficoltà della congiuntura economica e del passo falso sulla scuola. Da subito, tuttavia, i delegati dovettero constatare che la soluzione non sarebbe stata facile, perché le discussioni si prolungavano inutilmente, senza arrivare a risultati concreti, i timidi sviluppi delle trattative si alternavano a fasi di stallo provocate dai reciproci irrigidimenti e il confronto si trasformava a volte in conflitto più o meno esplicito. Né l’atmosfera era migliore all’esterno, dove anzi la pressione delle forze ostili si alimentava con le notizie negative che arrivavano dalle sale di Villa Madama.

Il clima di crescente tensione che dominò le riunioni tra i quattro partiti, fino a sfiorare la rottura tra il 14 e il 16 luglio, fu registrato dai quotidiani dell’epoca, nonostante uno sciopero che limitò la possibilità di informazione tra 16 e 19, ma traspare in tutta la sua

28 «Corriere della Sera», 8 luglio 1964.

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portata dagli appunti trascritti in contemporanea allo svolgimento dei fatti da due dei principali protagonisti di quei giorni. Il riferimento è innanzitutto a Pietro Nenni, di cui sono consultabili le note sulle riunioni a Villa Madama,29 gli appunti sulla crisi di governo30 e il diario,31 ma anche alle annotazioni segnate dal presidente Antonio Segni nei giorni centrali della crisi e successivamente rese pubbliche dal figlio Mario.32

La prima sensazione che si impose su coloro che parteciparono alle riunioni, almeno stando ai resoconti di Pietro Nenni, fu del poco tempo a disposizione. Nelle note sugli incontri del 7 luglio, il leader socialista sintetizzò gli argomenti da approfondire - oltre ai problemi dettati dalla congiuntura, la legge urbanistica, le leggi regionali, il piano della

29 Fondazione Pietro Nenni, Governo Moro-Nenni. I convegni di Villa Madama: appunti autografi di Pietro Nenni

dei verbali delle riunioni, 1-16 luglio 1964 (alcuni senza data), busta 111, fascicolo 2368. Buona parte di

questa documentazione è stata pubblicata, pur con qualche imprecisione, in: Antonio Padellaro (a cura di), «Qui si fa il governo o c’è il golpe», «L’Espresso», 7 luglio 1995, pp.28-36.

30 Fondazione Pietro Nenni, Appunti sulla crisi di governo del giugno 1964 e ritagli di giornale, cit. 31 Pietro Nenni, Gli anni del centro-sinistra. Diari 1957-1966, Milano, Sugarco, 1982.

32 Gli appunti di Antonio Segni sono stati consegnati dalla famiglia dell’ex presidente della Repubblica e

pubblicati all’interno dell’inchiesta curata da Pier Luigi Vercesi per «Sette» del febbraio 2004. Cfr. Pier Luigi Vercesi (a cura di), «Papà era fedele alla Costituzione. Queste carte lo provano», in «1964-2004 L’affaire De Lorenzo», seconda puntata, «Sette», supplemento del «Corriere della Sera», numero 7, 12 febbraio 2004, pp.36-39. Il figlio Mario ha riepilogato al giornalista il contesto in cui andavano collocate quelle carte: «mio padre - ha detto - tenne un diario dalla fine del 1956 all’inizio del ‘62, quindi molti mesi prima dell’elezione a presidente della Repubblica. Il diario è stato trascritto, studiato, ma mai pubblicizzato. Lo consegneremo alla Fondazione Antonio Segni, a Sassari. Questi che le mostro, invece, sono appunti scritti su singoli fogli, pervenutici molti anni dopo grazie a un collaboratore di mio padre». Alla domanda se riteneva che gli appunti potessero essere stati purgati, Mario Segni ha risposto che a suo avviso «non sono purgabili perché in successione, scritti su uno stesso foglio in ore diverse. Se poi ne esistano altri andati perduti, non lo posso sapere, anche se fui io a riordinare l’incartamento di mio padre al Quirinale. Queste note le abbiamo mostrate solo a Emilio Colombo nel ‘91, quando venne a Sassari per celebrare i 100 anni di mio padre. Non ne abbiamo fatto altro uso perché il dibattito era chiuso. Ora abbiamo deciso di renderli pubblici perché finalmente viene messa in discussione un’interpretazione gravemente falsa dei fatti del ‘64».

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scuola, la programmazione - ed evidenziò che «bisogna far presto, anche perché nel paese vi sono sintomi preoccupanti. L’episodio di Bari di domenica scorsa non va sottovalutato. Occorre portare con noi una parte del paese. Sottolineo il pericolo di una disoccupazione che porterebbe quasi alla guerra civile». Quindi, trascrisse la reazione alle sue parole di Rumor e Saragat. Riguardo al primo scrisse: «stato d’inquietudine del paese molto grave. Ha ragione Nenni sul caso di Bari e altri simili. La crisi può diventare positiva se dà una risposta a questa inquietudine»; sul secondo: «pressione reazionaria non solo in Italia ma in Germania (Pacciardi e Straus che è ben altra cosa)».33 In serata Nenni fece il punto della giornata sulle pagine del diario: «prima lunga riunione a Villa Madama per la soluzione della crisi. Tutti d’accordo su tutto, tutti d’accordo su nulla. D’accordo sul centro-sinistra. D’accordo (almeno a parole) su Moro. Non d’accordo sui problemi da affrontare subito: contingenza, legge urbanistica, regioni e giù giù i problemi minori. Tutti i problemi sui quali per sei mesi si è proceduto a forza di accantonamenti e rinvii». E si chiese: «quindi, tutta una commedia? Assolutamente no. L’unione ci è imposta dal fatto che non c’è nessun’altra maggioranza possibile e che se entro quarantotto ore non ci mettiamo d’accordo, nessuno sa cosa può succedere: forse un governo per le “elezioni”; forse un governo presidenziale tipo Tambroni 1960; in ogni caso l’avventura».34

Il pessimismo di Nenni era alimentato, come lui stesso aveva evidenziato in un passaggio poi ripreso da Rumor e da Saragat, dai toni usati dal capo del movimento Nuova Repubblica, Randolfo Pacciardi, durante un comizio che aveva tenuto a Bari il 5

33 Fondazione Pietro Nenni, Governo Moro-Nenni. I convegni di Villa Madama: appunti autografi di Pietro Nenni

dei verbali delle riunioni, cit., Riunione a Villa Madama del 7 luglio 1964, pp 1-4.

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luglio. Parlando ai suoi seguaci, l’ex-ministro della Difesa aveva lanciato un appello al presidente Segni, chiedendogli di indicare al paese la via per fuggire dal baratro attraverso un governo di salute pubblica. «Il capo dello stato, che rappresenta la nazione nel suo complesso - affermò Pacciardi - ha l’autorità conferitagli dalla Costituzione di indicare egli stesso il miglior governo per la nazione in un momento di particolare gravità. Chi oserebbe ribellarsi? I comunisti? Troverebbero pane per i loro denti. Il Parlamento? Il capo dello stato ha facoltà di scioglierlo e nessuno rimpiangerebbe, in questo caso, la sua fine».35

I primi giorni servirono alle delegazioni per entrare nel vivo della discussione, facendo una lista dei punti programmatici da ridefinire e affrontando il nodo dei provvedimenti anticongiunturali. Prima e dopo le riunioni ufficiali, i rappresentanti al tavolo dei negoziati si confrontavano all’interno dei rispettivi partiti per preparare documenti, analisi e proposte. Il 10 luglio, al quarto giorno di incontri, gli appunti di Nenni delineano lo scontro in atto tra il Psi e la Dc, entrambi impegnati a difendere interessi tra loro contrastanti. Il leader socialista richiamò le difficoltà del suo schieramento nel dare risposta alle attese del proprio elettorato e agli attacchi che provenivano da sinistra e segnò, accanto al suo nome, «fa l’ultimo sfogo». La replica arrivò subito dopo con l’intervento di Rumor: «condivide l’angoscia e l’apprensione di Nenni. Vede la situazione come lui la vede. Non saremmo a questo tavolo se non avessimo la volontà politica che egli ci chiede… Noi vediamo venire le cose e perciò vogliamo rassicurare ceti che non hanno interessi di destra e che noi rischiamo di buttare a destra». Saragat si assunse il

35 Le parole di Pacciardi furono riportate da «L’Unità» del 7 luglio 1964 e, in forma più estesa, da

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compito di tentare una mediazione tra le due posizioni. «Abbiamo sentito due cose sacrosante - disse il leader dei socialdemocratici - Nenni preoccupato di agganciare le masse operaie e popolari, la preoccupazione di Rumor di non perdere i ceti medi. Condivide l’opinione di Nenni che il pericolo è a destra. Così avviene anche in Germania». Dopo un intervento di Gava, anche Moro cercò di smorzare i toni: «l’ondata di sfiducia che viene da destra e da sinistra è una conseguenza della crisi. Se non riusciamo a creare la fiducia nell’uno e nell’altro campo saremo travolti».36

Nella riunione pomeridiana, Nenni riepilogò il suo punto di vista: «richiama tutti al senso di responsabilità che deriva dalla situazione del paese. Egli sente con angoscia incombere il pericolo di uno scontro frontale fra la destra e le masse controllate dall’estrema sinistra. Deve essere ormai chiaro a tutti che non è possibile reggere una battaglia su due fronti. Il Psi è esposto più di tutti… il problema è di volontà politica del centro-sinistra: se questa manca, nessuno si illuda di reggere col numero dei voti parlamentari, perché ci si avvia a una situazione in cui le forze parlamentari rischiano di essere travolte da forze operanti nel paese con grande intensità da destra e dalla sinistra estrema».37 Negli appunti manoscritti fu decisamente più esplicito sul senso delle sue parole: «mio intervento: se il problema della Dc è quello di rassicurare la destra ebbene allora rompa con noi ed offra la testa di Moro».38

36 Fondazione Pietro Nenni, Governo Moro-Nenni. I convegni di Villa Madama: appunti autografi di Pietro Nenni

dei verbali delle riunioni, cit., Riunione a Villa Madama del 10 luglio 1964.

37 Fondazione Pietro Nenni, Governo Moro-Nenni. I convegni di Villa Madama: appunti autografi di Pietro Nenni

dei verbali delle riunioni, cit., Riunione a Villa Madama del 10 luglio 1964 - seduta pomeridiana.

38 Fondazione Pietro Nenni, Appunti sulla crisi di governo del giugno 1964 e ritagli di giornale, cit., Appunto

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In parallelo con lo svolgimento delle riunioni a Villa Madama, vi era l’intensa attività messa in atto dal presidente della Repubblica, di cui abbiamo traccia a partire dall’11 luglio. In una nota di quel giorno, Segni scrisse di aver fatto pressioni su Rumor («gli metto un po’ di paura») lasciandogli trapelare la contrarietà del Vaticano per la riproposizione della maggioranza uscente: «esclude che il centro-sinistra sia la formula migliore; è una formula che si accetta per necessità».39 Il giorno seguente si rivolse a Moro, prospettandogli la possibilità di un governo monocolore, magari finalizzato a successive elezioni, e indicandogli i punti fermi su cui insistere nelle trattative con i socialisti. «Vedo Moro e gli propongo il quesito del governo monocolore programmatico, con eventuali elezioni. Gli ripeto la necessità di avere una riparazione del torto fatto con l’abolizione dell’art. 88 (dalla freddezza di Moro comincio a pensare che forse la sconfitta del 25 non è stata involontaria); e il non possibile ritorno di Giolitti».40

Il 13 si riunì la direzione socialista che, con un voto a maggioranza di dodici contro sei, rimise in discussione la bozza di accordo delineata tra i partiti di centro-sinistra il giorno prima. Il documento approvato non respingeva le conclusioni raggiunte a Villa Madama, ma esprimeva molte riserve e sollecitava un chiarimento sugli argomenti più spinosi del programma: la scuola, l’urbanistica e le regioni. La discussione all’interno del partito fu aspra e approfondì le fratture tra la maggioranza raccolta intorno a Nenni e De Martino e la minoranza di sinistra. Sullo sfondo, ammetteva il primo, rimanevano le possibili

39 Pier Luigi Vercesi (a cura di), «Papà era fedele alla Costituzione. Queste carte lo provano», in

«1964-2004 L’affaire De Lorenzo», seconda puntata, «Sette», supplemento del «Corriere della Sera», numero 7, 12 febbraio 2004, p.38.

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soluzioni di un governo presidenziale o dello scioglimento delle Camere con l’indizione di elezioni anticipate. Negli appunti della riunione, infatti, Nenni scrisse che «le preoccupazioni di De Martino sono molto vere. È confermato che non ci sono altre soluzioni parlamentari. La Dc ribadisce che non farà un governo spostato a destra. La Sd che non parteciperà a un governo del quale non facessero parte i socialisti. Dove si va? A un governo presidenziale? Alle elezioni? Invita a tener conto del quadro internazionale… Il partito perplesso e inquieto anche perché disunito. Un male non raggiungere l’accordo. Un altro male accettare le condizioni democristiane. Tutto ciò è aggravato dalla divisione interna per cui una parte contesta la linea politica dell’altra». In un altro passaggio sintetizzò l’analisi di De Martino: «teme in ogni caso la situazione che scaturirebbe da una rottura in una situazione in cui non ci sono alternative parlamentari, neppure di destra, ma solo fughe avventurose verso governi extra-parlamentari e le elezioni in un clima di esasperazione».41

Nelle stanze di Villa Madama l’esito della direzione socialista fu interpretato come un deciso irrigidimento delle posizioni del partito e ciò portò le trattative a un punto morto. Negli appunti alla data del 13 luglio, anche il presidente Segni precisò che «nella serata vi è una interruzione delle trattative fra i quattro».42

41 Fondazione Pietro Nenni, Verbali delle riunioni della Direzione del PSI giugno-dicembre 1964, Appunti

autografi di Pietro Nenni della riunione della Direzione del PSI e sugli incontri di Villa Madama, giugno-dicembre

1964, busta 97, fascicolo 2256, Riunione della Direzione del 13 luglio 1964.

42 Pier Luigi Vercesi (a cura di), «Papà era fedele alla Costituzione. Queste carte lo provano», in

«1964-2004 L’affaire De Lorenzo», seconda puntata, «Sette», supplemento del «Corriere della Sera», numero 7, 12 febbraio 2004, p.38. Del resto, già nell’edizione del mattino il «Corriere della Sera» aveva ricordato che «la trattativa è laboriosa, e, più di una volta, nei giorni scorsi, ha toccato il punto di rottura. E nessuno può escludere una bocciatura dell’accordo tra le quattro delegazioni al momento in cui questo

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Con queste premesse, la giornata del 14 luglio si rivelò tra le più difficili e convulse del periodo. In apertura di lavori Nenni propose agli altri rappresentanti di terminare gli incontri collegiali, visto che «siamo oggi al punto in cui eravamo sette giorni fa». Subito dopo intervennero Saragat e La Malfa che, nel riconfermare la propria scelta a favore del centro-sinistra e l’indisponibilità per maggioranze alternative, offrirono un sostegno ai socialisti che finiva per isolare la Democrazia cristiana. Nella sintesi trascritta da Nenni, il capo dei socialdemocratici affermò: «disponibili per un governo dei quattro partiti. Non accetteremo mai né un monocolore né un governo a due o tre con l’appoggio esterno dei socialisti»; mentre il leader repubblicano ribadì: «la direzione repubblicana ha espresso chiaramente il proprio pensiero: essa vuole difendere le istituzioni democratiche e repubblicane e nessuna maggioranza e nessun governo può farlo all’infuori del centro-sinistra». L’impressione che i tre partiti laici avessero stretto la Dc in un angolo provocò una prima reazione da parte di Rumor, che dichiarò di essere consapevole del valore di ciò che era stato detto in precedenza, ma tenne a precisare che «se ci si rifiuta di approfondire il discorso, la Dc porterebbe al centro-sinistra un partito immolato».

Apparentemente la discussione si placò e i delegati tornarono a occuparsi dei temi che presentavano posizioni ancora assai distanti, dei “dettagli” terminologici e della disputa su chi avesse concesso di più alle richieste altrui. Fu Saragat, allora, a innescare una nuova scintilla. Disse che, a differenza dei socialisti, la Dc «lavora sul velluto», con una corrente che tentava di scavalcare il Psi sulla sua sinistra e con Fanfani che ogni giorno di più prendeva le distanze dal centro-sinistra. Quindi concluse che il partito di

sarà sottoposto all’esame delle direzioni dei partiti. La situazione interna della Dc è delicata, quella del partito socialista è drammatica». Cfr. «Corriere della Sera», 13 luglio 1964.

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