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LA PARTECIPAZIONE DELLA FAUNA ALLA COSTITUZIONEE AL DINAMISMO DEGLI ECOSISTEMI FORESTALI

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– I.F.M. n. 5 anno 2002

(*) Dipartimento di Agronomia ambientale e produzioni vegetali/Entomologia - Università di Padova - via Romea, 16/Agripolis. I - 35020 Legnaro (PD).

LA PARTECIPAZIONE DELLA FAUNA ALLA COSTITUZIONE E AL DINAMISMO DEGLI ECOSISTEMI FORESTALI

FDC 151 : 181

L’ecologia forestale, intesa nel senso più ampio e perciò più vicino alla realtà natura- le, attinge i fondamenti più solidi dei processi indagati solo se considera adeguatamente il diuturno, reciproco adattarsi della vegetazione arborea e della fauna, tenuto conto del modo in cui il fattore tempo influisce sulle vicende degli individui e delle popolazioni di alberi e di animali.

Nell’insieme si tratta del continuo comporsi di due tendenze: quella volta a mantenere nella biogeocenosi una sorta di inerzia, propria dei grandi vegetali legnosi, e quella evocante un incessante dinamismo nel funzionamento dell’ecosistema, propria della componente animale.

Nel quadro generale delle relazioni tra i due complessi di organismi è possibile rico- noscere i lineamenti dei fenomeni di successione da cui risultano sia l’origine e lo svilup- po, sia il declino e la scomparsa del bosco naturale.

Nell’avvio della storia di vari tipi di foreste la zoocoria è molto meno accidentale di quanto comunemente ritenuto; essa influisce diffusamente anche sulla costituzione del complesso di specie legnose «minori», soprattutto per intervento degli uccelli.

Disparati animali concorrono a modificare la composizione e la struttura dei boschi dall’aspetto apparentemente stabilizzato. Oltre alle conseguenze della moltiplicata presen- za di ungulati, sono spesso decisivi, e inattesi, gli effetti secondari delle pullulazioni di certi insetti fitofagi. Nell’insieme di questi ultimi da tempo si sono rese drammaticamente importanti nel nostro territorio le specie che stanno distruggendo il pinastro o che hanno eliminato da vari litorali il pino domestico o che hanno agevolato il devastante diffonder- si della grafiosi degli olmi. Ma anche l’azione dei mammiferi selvatici e perfino di quelli allevati può incidere in modo determinante sulla sorte dei popolamenti forestali.

Vi è inoltre un problema non nuovo, ma certo aggravato e destinato ad assumere una crescente importanza per l’intensificarsi e l’accelerarsi dei trasporti a largo raggio.

Elementi faunistici allogeni, per lo più insetti, forzano le barriere della resistenza ambien- tale e avviano situazioni mai verificatesi in precedenza negli ecosistemi forestali.

La necessità di mantenere integro il gioco delle forze da cui dipende la conservazio- ne dinamica del patrimonio boschivo potrà esser affrontata solo da tecnici forestali di soli- da preparazione biologica di base.

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PROLOGO

L’entusiasmo con cui Edmund Schulman nel 1958 riferì d’aver trovato, sulle White Mountains della California, ultraquadrimillenarie piante del

«bristlecone pine», che Bailey a buona ragione distinse poi (1970) come Pinus longaeva dalla specie simile P. aristata Engelmann, era più che giusti- ficato: non solo la scoperta dell’ «oldest known living thing» in sé, ma anche il prevedibile profilarsi di un nuovo vastissimo orizzonte di indagini meritarono l’esultanza dell’annuncio. Qui, cogliendo un minimo bagliore della luce accesa da quel reperto nel campo delle possibili considerazioni in chiave ecologica, si prospetta l’opportunità di riflettere brevemente sullo strenuo resistere del «Great basin bristecone pine» alle imposizioni fisiche e biotiche di un lunghissimo tratto del postglaciale. Con lo stesso patrimo- nio genetico, che da quasi cinquanta secoli «Methuselah» e alquanti esem- plari coevi tramandano alla discendenza, sono state superate molte delle variazioni climatiche avvicendatesi dopo la fine della glaciazione Wisconsin, sopportate difficili condizioni di substrato edafico, contrastate le insidie degli agenti patogeni e affrontate migliaia e migliaia di generazioni di ani- mali fitofagi. Un impegno su due fronti: quello del cimento con l’inesorabi- le mutare dei fattori ambientali fisici in un lunghissimo periodo e quello dell’ inevitabile coesistenza con organismi dipendenti dalla produttività dei pini stessi e atti a rinnovare con straordinaria frequenza la base ereditaria delle risorse di adattamento.

L’esempio proposto è certamente estremo. Su un piano più accessibile alla comune esperienza si possono tuttavia svolgere le stesse considerazioni esaminando un caso analogo, benché collocato in una scala temporale molto ridotta. I non pochi esemplari di pino cembro che toccano i quattro secoli, senza contare gli eccezionali individui sopravvissuti fino a 700-800 anni (SUSMEL, 1954), hanno sopportato un lungo tratto della «piccola era glaciale», subiscono da molti anni gli effetti di uno scarso innevamento e continuano a ricevere in gran parte del territorio alpino i contraccolpi delle periodiche infestazioni di Zeiraphera griseana (HÜBNER), la «tortrice grigia del larice». E tuttavia, come Pinus longaeva fruisce in alta montagna dell’in- tervento della «nocciolaia» americana, Nucifraga columbiana Wilson, per la dispersione del seme, così P. cembra dipende dalla nocciolaia paleartica, N. caryocatactes (Linnaeus), per la conquista e il possesso degli habitat colo- nizzabili.

Su questo particolare aspetto del problema della rinnovazione si avrà modo di discutere più avanti. Qui intanto i riferimenti ai due pini, di cui sopra, interessano piuttosto per sottolineare in via preliminare l’importanza dell’integrarsi delle funzioni ecologiche svolte dalla componente arborea

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della fitocenosi e dalla zoocenosi nella costituzione e nella conservazione dei sistemi forestali. Si prospetta al riguardo una disamina che, pur ridotta ai termini generali, interessa un àmbito tipicamente interdisciplinare, come dovrebbe essere quello della selvicoltura nel senso più ampio e nel quadro più vicino alla realtà naturale, ma come in verità non viene adeguatamente esplorato né dalla botanica, né dalla zoologia, né dalla stessa ecologia fore- stale: impegnata, la prima, soprattutto a chiarire le relazioni entro il com- plesso dei vegetali e, non sempre, quelle intercorrenti tra le piante e l’am- biente fisico; la seconda, a svolgere analoghe indagini sugli animali, connet- tendosi alla botanica per lo più in riferimento alla vegetazione quale base di approvvigionamento energetico per la fauna fitofaga; la terza, ad approfon- dire principalmente le considerazioni sui rapporti tra la componente arbo- rea delle fitocenosi boschive e i fattori edafici e climatici, così riversando decisamente l’interesse di ricerca nel campo botanico e relegando i collega- menti con la zoocenosi in posizione marginale, tanto che la partecipazione della fauna alle vicende degli ecosistemi forestali ne risulta accessoria, quando non anche irrisoria.

È intendimento della seguente esposizione delineare non più che i trat- ti essenziali di un imponente insieme di relazioni vegetali e animali, che nella sua architettura e nella sua funzione generale travalica e travolge i ter- mini imposti dal limitato respiro delle analisi, pur raffinate, di singoli, con- tingenti fenomeni.

È premessa necessaria ricordare che le foreste sono gli unici ecosistemi in cui coesistano organismi, quali gli alberi, immobili, notevoli se non anche stupefacenti per massa ed età, dotati di costituzione e proprietà fisiologiche tipiche ma tutt’altro che sostanzialmente varie, e organismi, quali disparati animali terrestri, più o meno atti a esplorare lo spazio (spesso anche quello aereo) caratterizzati da una mole contenuta o perfino ridottissima, destinati a una non troppo lunga, anzi comunemente breve o brevissima vita, privile- giati di struttura e funzioni diversissime (MASUTTI, 1991). È altrettanto importante considerare che gli ecosistemi in questione, proprio perché fon- dati prevalentemente o totalmente sulla produttività di individui destinati ad accrescersi di continuo in un ampio arco di esistenza, si reggono secon- do l’ordine imposto da un fattore cronologico non configurabile come un lineare succedersi di stagioni e di anni, indistintamente valido per tutti gli organismi coinvolti, ma come un articolato combinarsi di tempi e di ritmi ecologici (MASUTTI, 1992).

Ne consegue che l’ecosistema foresta, esaminato da questo punto di vista, dimostra di venir costituito e mantenuto attivo dal costante contrap- porsi di due tendenze: l’una conservatrice, peculiare dei principali o esclu- sivi produttori primari, configurabili come fattori d’inerzia in quanto

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immutabili despoti del tempo e dello spazio; l’altra stimolativa, manifestan- tesi con l’intervento più o meno vivace e vario degli animali nei processi di rinnovazione, di flusso energetico, di riciclo dei residui (e connesso ricupe- ro di fertilità), di successione ecologica.

GLI ANIMALI E LA COSTITUZIONE DEL BOSCO

Nell’illustrare i processi di costituzione dei boschi, che la scienza inquadra tra i fenomeni di successione, la selvicoltura attribuisce ovviamen- te l’apparire di ciascuna specie a eventi di disseminazione, che hanno per protagonisti, secondo i casi, fattori inanimati, tipicamente meteorici e soprattutto il vento, e fattori biotici, nella quasi totalità animali vertebrati.

A quest’ultimo riguardo però le considerazioni in generale non vengono svolte con adeguato approfondimento di analisi. Sono tradizionalmente addotti come esempi quelli relativi ai binomi pino cembro-nocciolaia o querce-ghiandaia, assegnando loro il significato di «diszoocoria», o «zooco- ria accidentale», quando da essi dipenda il manifestarsi di giovani esemplari lontano dalle piante portaseme (PIUSSI, 1994).

La questione merita di essere esaminata un po’ più da vicino, antici- pando che la zoocoria, proprio per varie specie botaniche forestali, non sempre è accidentale.

Tra i casi più noti di strettissime connessioni tra vicende di organi- smi vegetali arborei e organismi animali vi è certamente quello sopra ricordato che vede coinvolti il pino cembro e il piccolo corvide Nucifraga caryocatactes, la volgare «nocciolaia» della conifereta montana e soprat- tutto subalpina. Sarebbe qui ozioso sottolineare ancora l’importanza di quel prudente quanto intraprendente volatile nell’offrire continue possi- bilità di diffusione al cirmolo, se non fosse per l’insistenza con cui la realtà naturale esorta a riflettere meglio sui processi di popolamento e ripopolamento forestale avviati e sostenuti da colonizzazioni parallele e reciprocamente vantaggiose di piante dal seme s.l. pesante e di animali sfruttatori del seme stesso. Nello specifico caso appena evocato, due illu- minanti aspetti del fenomeno meritano di essere considerati, anche per- ché comunemente trascurati o ignorati perfino nelle trattazioni riguardan- ti la sinecologia della cembreta. Non si coglie, di solito, l’evidenza dell’a- vanzata o del ritorno del cirmolo nei territori ad esso idonei per il som- marsi dell’azione della nocciolaia a quella di vari piccoli mammiferi, deci- siva l’una per la ‘disseminazione longinqua’, l’altra per la distribuzione diffusa dei pinoli nelle aree di raccolta mirata (da parte dello scoiattolo) e di casuale rinvenimento (da parte di roditori terragni, tra cui verosimil-

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mente in ambiente alpino Clethrionomys glareolus (Schreber), l’arvicola rossastra (COSLOPe MASUTTI, 1978)).

Abbondano, anche sulle nostre Alpi, dimostrazioni lampanti dell’in- stancabile attività estiva e autunnale delle nocciolaie impegnate a staccare strobili di P. cembra e a ‘lavorarli’ su ceppaie, in zone erbose o in macereti e lungo sentieri o cenge d’alto versante. Non mancano, a riscontro, i ciuffi di plantule sorte dai punti in cui la nucifraga ha estratto i semi per cibarsene subito o per accumularli temporaneamente nella tasca sottolinguale, per- dendone alquanti tra i ciottoli o tra le fenditure dei supporti lignei nel suo energico beccare, o infine, e soprattutto, dai sotterranei nascondigli di pinoli assiduamente predisposti a fine estate, periodicamente sfruttati, ma pure soggetti a forzati abbandoni per varie intuibili cause. È ben vero che le condizioni edafiche sotto le piante di cembro produttrici spesso si dimo- strano particolarmente favorevoli alla germinazione del seme di pino cadu- to (REISIGLe KELLER, 1989), e questo rende ragione del sistematico espan- dersi dei popolamenti su versanti non interrotti da brusche discontinuità, quali precipizi o pareti erte; tuttavia è innegabile che l’attraversamento di valli, la conquista di elevati terrazzi e il superamento di creste sia reso possi- bile solo dall’intervento del volatile principalmente interessato al trasporto del seme. Ma anche nella progressiva occupazione delle aree adiacenti a quelle di affermata colonizzazione, l’attività della nocciolaia svolge una fun- zione rilevante, attuando una diffusione del seme tutt’altro che accidentale, anzi regolarmente distribuita oltre i limiti a mano a mano raggiunti dai popolamenti, che così si espandono più celermente: è consueto assistere all’estivo-autunnale andirivieni di nucifraghe da cembrete agli adiacenti spazi aperti di curvuleto o di seslerio-sempervireto esonerati dallo sfrutta- mento pastorale ed è facile notare, anno dopo anno, il graduale apparire e svilupparsi di selvaggioni sempre più al largo nelle attigue praterie.

È dunque indiscutibile l’interesse da entrambe le parti che il pesante seme sia tanto appetito da N. caryocatactes; ci si può chiedere tuttavia se il vantaggio sia equamente ripartito, se cioè si possa parlare di «a strong mutualistic relationship» sensu MATTES(1992).

La disseminazione è un servizio che P. cembra paga caro al suo princi- pale diffusore, in quanto tra luglio inoltrato e i primi d’ottobre sparisce dalle chiome praticamente ogni traccia dei pinoli prodotti, anche perché il contingente che di essi sfugge alla nocciolaia viene prelevato da altri uccelli (picidi, sittidi) o dallo scoiattolo, senza tener conto di quanto ricuperato al suolo dai micromammiferi sopra ricordati. Ma la nocciolaia non dipende strettamente dal cirmolo, pur stabilendo privilegiate relazioni ecologiche con le cembrete, come dimostrato in modo paradigmatico dalla sottospecie N. c. macrorhynchus (Brehm), diffusa nel vastissimo areale asiatico di Pinus

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sibirica Ledebour e in quelli estremo-orientali di P. pumila Regel e di P.

koraiensis Sieboldt e Zuccarini1. È noto infatti che il corvide in questione vive anche in regioni mancanti di pino cembro, qual era la Svezia nel 1758, anno in cui Linneo descrisse Corvus caryocatactes, specificando soltanto che esso «edit nuces», e qual è, nel nostro territorio, il Friuli montuoso. Lo stes- so vale, per altri motivi, nel caso della nocciolaia neartica, che, quantunque associata ordinariamente ad altri pini2, dimostra di essere il più importante fattore di presenza di P. longaeva in alta montagna. Tale conifera infatti si riproduce normalmente per semi alati a quote inferiori, in clima più mite, mentre la sua distribuzione sui versanti più elevati è concessa dall’adattabi- lità della specie stessa a condizioni ambientali severe e dovuta alle diffuse tesaurizzazioni di semi eseguite dalla nocciolaia nordamericana, soprattutto in carenza di pinoli delle specie usualmente sfruttate (LANNER, 1988).

Quanto alla ghiandaia, non pare proprio esagerata la sentenza di YAPP

(1962), secondo cui i querceti non potrebbero espandersi e rinnovarsi senza il suo concorso, tenuto presente che le ghiande non interrate nei nascondi- gli da parte di tale corvide non sopravvivono né a disidratazioni spinte né al gelo prolungato. Ma Garrulus glandarius (Linnaeus) con ciò non esaurisce la sua funzione di zoocoria, perché nella versatilità del suo comportamento, e della sua dieta, esso seppellisce nocciole, faggiole, arilli di tasso, pomi di biancospino e di sorbo degli uccellatori ecc. Se, poi, si ammette – e non è difficile – che perfino le faggete debbano almeno in parte la loro estensione alla vivace attività della ghiandaia e se si considera che ad essa si deve l’in- cessante introduzione di querce e altre latifoglie nelle coniferete, non sor- prende che in altri paesi il corvide in questione sia stato riconosciuto degno di tutela, dato l’alto interesse della sua funzione per la conservazione degli ambienti forestali (BRIZZIe SCAPINI, 1983).

Perfino la picea, che pure affida ai venti invernali la dispersione dei suoi semi alati, fruisce anche dell’intervento di un volatile, il picchio rosso maggiore, per la sua diffusione. Accade infatti di imbattersi prima o poi, attraversando vecchi boschi, in quelle che il mondo germanico, inesauribile coniatore di fantasiosa terminologia naturalistica, definisce «Spechtschmie- den», le «fucine del picchio», resti della percussione di strobili incastrati in cortecce di tronchi. Così la spermatofagia, risorsa di sopravvivenza inverna-

1Nei boschi siberiani la produzione di seme di P. sibirica, abbondantissima durante la pasciona, è talmente importante per l’approvvigionamento alimentare delle popolazioni umane locali, che nelle annate di ingente disponibilità di pinoli si autorizza l’indiscriminato abbattimento delle nocciolaie (com. verb. del Dott. A. Gourov /Krasnojarsk).

2P. albicaulis, che, tra l’altro, non disseminerebbe spontaneamente se non per marcescenza della struttura dello strobilo, P. flexilis e P. monophylla, tutti tre dai semi senz’ala.

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le preziosa ovunque e decisiva nelle regioni nordiche per Picoides major (Linnaeus), contribuisce a diffondere l’abete rosso e anche il pino silvestre.

Pini, querce, faggi, picea: specie atte a formare popolamenti forestali di aspetto imponente. Ma l’attività degli uccelli e dei vertebrati omeotermi ha a che fare spesso – e in modo ben poco appariscente – con la distribu- zione spaziale di varie componenti minori delle fitocenosi forestali. Il qua- dro forse più ricco di rapporti tra piante e animali disseminatori riguarda ecosistemi forestali mediterranei (HERRERA, 1995). Da esso risulta che, per esempio, l’asparago selvatico, il lentisco e lo smilace dipendono in modo assoluto dagli uccelli per la dispersione dei loro frutti e che il lillatro, la ginestrella, la dafne gnidio, il mirto, l’oleastro, l’alaterno e il rovo comune affidano all’avifauna la quasi totalità dei loro frutti.

Ricorre da gran tempo nei trattati e nelle opere divulgative la descri- zione della sorte del vischio, il cui polline è trasportato dagli insetti e i cui semi passano indenni attraverso il canale digerente di grossi turdidi e pos- sono venir depositati con gli escrementi sulle scorze di eventuali idonee piante ospiti: Nel 1857 Darwin ne fece addirittura oggetto di un tipico esempio di adattamento, scrivendone al botanico nordamericano Asa Gray, per trasferirla poco dopo, a titolo paradigmatico, nell’introduzione al suo opus summum.

GLI ANIMALI E I CAMBIAMENTI DI COMPOSIZIONE DEI POPOLAMENTI ARBOREI

Pericolosa per le conseguenze in un avvenire lontano è la graduale eli- minazione dell’abete bianco in atto da decenni per azione del capriolo nei boschi misti in cui la rinnovazione di Picea, non perseguitata dal piccolo cervide, sostituisce a poco a poco quella di Abies, così che il subentrante abete rosso finisce per attenuare alquanto l’immagine preoccupante dell’al- terata composizione del novellame.

Stiamo pagando da qualche decennio il privilegio di contare su un’ab- bondanza di Capreolus capreolus (Linnaeus) mai sperimentata finora nel territorio italico. Ci si può chiedere per ora quali prospettive si profilino per la futura gestione selvicolturale delle coniferete interessate da tale pro- cesso, tenuto pur conto che l’industria della lavorazione del legno per lunga tradizione non gradisce molto il materiale di abete bianco. Ma, a parte il rischio di aggravare la situazione delle provate abetine appenniniche con le introduzioni o reintroduzioni di capriolo a scopo di ripopolamento, in varie zone alpine l’attuale costituirsi di cospicui nuclei di cervo minaccia seria- mente anche la rinnovazione della picea. In terra d’Austria non sembra si sia dato gran peso al fenomeno, forse perché si conta su un vigoroso, natu-

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rale rigenerarsi dell’abete rosso, certo perché i proventi ricavabili dallo sfruttamento venatorio d’alto livello superano in misura allettante quelli del macchiatico; sono risorse che nei nostri boschi non sembrano offrirsi con fascino altrettanto rassicurante.

L’azione degli animali nei boschi può talvolta manifestare singolari effetti positivi sulla composizione dei popolamenti arborei. Le ormai leg- gendarie pullulazioni della «processionaria del pino», che nella storia delle amministrazioni forestali hanno richiesto un colossale impegno finanziario per l’esecuzione di provvedimenti di controllo, hanno causato danni non lievi a diverse pinete, oltre ad aver costituito, e a costituire, un pericolo per l’incolumità delle persone. Occorre, per altro, tener conto anche di qualche conseguenza delle infestazioni sulla quale non si è riflettuto abbastanza.

Tralasciata ogni considerazione circa il periodico, drastico ripercuotersi delle devastazioni provocate da Traumatocampa pityocampa sul complesso degli organismi insediati sugli aghi, il frequente manifestarsi di alleggeri- menti delle chiome può avviare interessanti processi di modificazione nella fitocenosi. Nel caso particolare di dense formazioni artificiali di pino nero costituite in ambiente meso-termofilo prealpino e continuamente flagellate durante lo sviluppo dal pullulare della processionaria, la diffusa luminosità ripetutamente provocata dalle defoliazioni nell’addensamento di piante mai diradate favorisce a volte l’introdursi e l’ampio distribuirsi del frassino minore tra le conifere. Così una piantagione pura si avvia, per l’intervento di forze naturali, a trasformarsi in un Orno-Pinetum nigrae, secondo quanto spontaneamente si origina nell’evolversi dei boschi di pino nero in area di indigenato (POLDINI, 1969).

GLI ANIMALI E LA SCOMPARSA DEL BOSCO

La copertura forestale del nostro territorio, in quanto mosaico di situa- zioni particolari evocate da fattori geomorfologici o fitoclimatici o antropi- ci, è esente da devastazioni causate da insetti su estese superfici. Le foreste nordamericane invece sono continuamente sotto la minaccia delle pullula- zioni del lepidottero fillofago Choristoneura fumiferana (Clemens) (MATT-

SONet al., 1988), che nel solo decennio 1910-1920 costrinse il Canada ad abbattere conifere per una xilomassa stimata superiore al 50% del totale della produzione legnosa nazionale (ANDERSON, 1960); quanto alle latifo- glie, sta ancora espandendosi negli Stati Uniti e nello stesso Canada la disa- strosa infestazione di Lymantria dispar (Linnaeus), insetto incautamente importato dall’Europa nel 1869. Immense regioni asiatiche vengono di quando in quando interessate dal pullulare di macrolepidotteri del genere

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Dendrolimus Germar, che privano completamente degli aghi varie conifere siberiane (KAZANSKII˘, 1927), condannandole a morire poco dopo per inevi- tabili attacchi secondari di coleotteri xilofagi del genere Monochamus Dejean (ROZHKOV, 1970).

Noi assistiamo, per ora impotenti e sgomenti, all’inesauribile annienta- mento delle formazioni costiere di pinastro in Toscana, dopo aver subìto la distruzione di quelle liguri, in seguito all’introduzione e alla progressiva dif- fusione della cocciniglia Matsucoccus feytaudi Ducasse (COVASSI et al., 2002). Non sappiamo quale copertura vegetale possa prima o poi costituirsi a protezione dei suoli improvvisamente esposti alle bizzarrie degli agenti meteorici e soggetti al rischio di erosioni dall’imprevedibile esito.

In altri ambienti litoranei, soprattutto lungo le spiagge adriatiche, la tenace insistenza con cui in passato si son voluti formare popolamenti di pino domestico è stata frustrata dalle infestazioni di Tomicus destruens (Wollaston), coleottero scolitide mediterraneo, che sembra quasi essersi assunto il compito di punire l’errore ecologico d’aver imposto al nostro ter- ritorio la presenza di una specie arborea da gran tempo isolatasi in altre sedi di spontanea vegetazione.

Gli olmi, tutti gli indigeni e molti degli ibridi con i così detti «siberia- ni», da circa un ventennio sono ovunque perseguitati dall’imperversare della «grafiosi», tristemente nota epidemia causata dal fungo Ophiostoma ulmi (Schwarz) Nannfeld e aggravata dal sopraggiungere, nella fase erom- pente, di O. novo-ulmi Brasier (BRASIER, 1991). Il dilagare del patogeno è dovuto, in parte preponderante e decisiva, ai coleotteri scolitidi del genere Scolytus (Geoffroy), soprattutto a S. multistriatus Marsham, e, in minor misura, del genere Pteleobius Bedel, secondo un processo di trasporto-ino- culo-sfruttamento che mantiene in funzione un ciclo perverso fino alla scomparsa delle possibili piante ospiti in un’area definita dal raggio di volo dei vettori. Anche in questo caso ignoriamo come nella vegetazione verrà sostituita la presenza degli olmi, fino a che, com’è pure auspicabile, agli olmi sarà concesso di riprendere il loro posto nelle fitocenosi planiziali e montane.

Non uccidono, o non uccidono subito, le piante attaccate i roditori arboricoli che a volte in gran numero si accaniscono a decorticare i cimali di latifoglie o conifere. È in ogni caso innegabile l’importanza selvicolturale del- l’infierire dell’una o dell’altra specie a carico dei parenchimi liberiani. In pri- mavera non pare scontato attendersi che nel giro di alcune notti il topo quer- cino uscito dal letargo annulli il risultato di una trentennale piantagione di larice prelevando, a morsi, quadrangolari tasselli di scorza succosa. Non è facilmente prevedibile che un abnorme contingente di ghiri sopravvissuti a sette mesi d’inverno si scateni a danneggiare senza rimedio conifere e latifo-

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glie, come sta accadendo in questo giugno 2002 sull’altopiano dei Sette Comuni, in ennesima ripetizione di quanto saltuariamente ivi si verifica. È per lo più estivo e capriccioso l’infierire dello scoiattolo contro parti alte di varie piante, spesso conifere, che vengono decorticate a cercine o a spirale.

Càpita a volte che perfino piccoli roditori terragni, come certe arvicole di norma erbivore, spinti dalla fame per trovarsi in un numero di svernanti eccessivo rispetto alle risorse dell’usuale cibo, rodano al colletto giovani esemplari di conifere. Accadde, per esempio, nella Foresta di Tarvisio, dove una piantagione sperimentale venne distrutta al disgelo da un’orda di Microtus agrestis (Linnaeus).

Ma che dire delle «bertucce» (Macaca sylvanus (Linnaeus)), che nel Medio Atlante concorrono, con le decorticazioni causate dai loro morsi, a configurare il preoccupante quadro del deperimento dei cedri, mettendo a severa prova la professionalità dei tecnici forestali, cui si chiede da un lato di abbattere le scimmie e dall’altro di assicurarne la sopravvivenza, nel rispetto delle direttive internazionali a tutela della fauna selvatica?

Anche gli animali introdotti dall’uomo in ambienti forestali e alto- montani hanno imposto qualche tributo alla vegetazione dei biotopi sogget- ti alla loro frequentazione, solo che in parte non s’è attribuita grande importanza agli effetti dell’azione svolta dagli erbivori (qualifica troppo ottimistica nella sua precisione semantica), in parte non ci si è veramente accorti delle modificazioni ad essa imputabili, insensibilmente verificatesi in fitocenosi di prato arborato e perfino di vera e propria foresta. È chiaro e noto e sopportato, per esempio, che pecore e soprattutto capre, liberate dall’alba al tramonto su ampi versanti tutt’al più sotto la sorveglianza dei cani, bruchino e scorteccino quanto possibile; non altrettanto sembra evi- dente e riconosciuto e lamentato l’effetto per quanto riguarda la selezione alla rovescia dei selvaggioni nei territori di pascolo3e la più frequente causa del formarsi di fusti policormici nelle coniferete.

Vi è inoltre un riflesso negativo del diuturno esercizio del pascolo ovino nei lariceti: è stato accertato che, verosimilmente per il costipamento degli orizzonti superficiali del suolo, le condizioni vegetative del larice si degrada- no e a lungo rimangono alterate dopo l’eventuale cessazione dello sfrutta- mento pastorale, rendendo le piante particolarmente esposte ai danni causati dal microlepidottero Coleophora laricella (Hübner) (SCHIMITSCHEK, 1969).

Vi sono infine le incertezze sul futuro di determinate specie arboree o perfino di interi complessi forestali per l’incombente pericolo di introdu-

3Già nel 1954 la solida esperienza forestale suggerì a SUSMEL(l.c.) di sottolineare l’importanza della vegetazione arbustiva quale difesa delle piantine di pino cembro dal morso del bestiame.

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zioni di temibili specie animali, soprattutto di artropodi, com’è intuibile (COVASSIe MASUTTI, 1999), in quanto quella che si può ben definire «glo- balizzazione naturale» è in atto da tempo, al sicuro da ogni possibile conte- stazione. È giunto e si è ormai stabilito in Portogallo, su pinastro, il nema- tode Bursaphelenchus xylophilus (STEINERe BUHRER) agente del deperimen- to noto come «pine wilt disease», dopo aver compiuto stragi di pini in Estremo Oriente, soprattutto in Giappone (10 milioni di alberi perduti fino al 1981), ed essersi rivelato dannoso, più tardi, anche nel Nordamerica. Il timore di un suo arrivo in Europa determinò in un recente passato l’embar- go nei riguardi delle importazioni di legno di conifere dagli Stati Uniti e dal Canada: fu naturalmente una precauzione inutile. Ora si teme il peggio, avendo constatato che anche il coleottero cerambicide Monochamus gallo- provincialis (Olivier), come i congeneri dell’Asia e del Nordamerica, può fungere da insidioso vettore del nematode (FRANCARDI e PENNACCHIO, 1996); si noti che il caso del pinastro, vittima finora accertata nel nostro continente, è un’aggiunta inattesa alla trepidazione per il pino silvestre, ben più diffuso e certo più importante per la selvicoltura europea.

Gli enormi interessi legati alla coltivazione di Pinus radiata D. Don in Sudamerica, Sudafrica e Oceania stanno subendo fieri colpi per gli implaca- bili attacchi dell’imenottero siricide Sirex noctilio Fabricius (MADDEN, 1988), paleartica specie forestale che nel 1935 apparve in Nuova Zelanda, aprendosi così una nuova storia, alla conquista di coniferete nel mondo intero.

Molto vi sarebbe da discutere sul contributo della pedofauna al rima- neggiamento dei residui nei suoli forestali, substrati in cui gli animali con- cedono, se non altro in termini di accelerazione dei processi bioriduttivi, più di quanto utilizzino, in termini di energia. Qui è appena il caso di osser- vare come all’intero svolgersi del riciclo non partecipino soltanto lombrichi e artropodi ipogei, ma concorrano anche gli insetti fitofagi, i quali possono causare l’estemporaneo formarsi di depositi di detriti vegetali dalla compo- sizione più o meno modificata.

Merita inoltre che in questa sede almeno si accenni a un notevole progres- so realizzato nelle conoscenze sulla complessa trama delle relazioni che coinvol- gono funghi e organismi animali nel rimaneggiamento delle difficili lettiere di faggio. I risultati in proposito ottenuti da TOUTAIN(1981) non solo hanno dimostrato la validità di antiche ipotesi sull’importanza dei fenoli nell’iniziale rallentamento dei processi di bioriduzione (HANDLEY, 1961; EDWARDSe HEATH, 1963), ma hanno anche messo in luce sia l’opportunità che ciò accada per il più favorevole riciclo dell’azoto ricuperabile, sia la necessità che funghi della «carie bianca» del legno intervengano nello sbloccare la disponibilità del- l’azoto stesso e nello stabilire intricati rapporti trofici con gli artropodi più impegnati nell’elaborazione dei detriti dell’ecosistema di faggeta.

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EPILOGO

Dall’inizio alla fine di ogni evento di successione forestale si assiste a un fervere della vita animale, che suscita o accompagna il susseguirsi di cambiamenti di ciascuna biocenosi: con azioni lente, spesso discontinue, quasi sempre inavvertite nel fluire degli eventi durante la colonizzazione o la ricolonizzazione dei biotopi, insistenti invece, o incalzanti, nel caso di modificazioni d’assetto della compagine di fattori biotici.

Lo spazio concesso agli interventi umani nel quadro delle interrelazio- ni biocenotiche in ambienti di bosco è notoriamente limitato; le iniziative lecite e fruttuose presuppongono una profonda conoscenza della realtà forestale. La soluzione dei problemi pratici nel tempestivo sorreggere peri- colanti situazioni di rapporti tra fauna e vegetazione o nel guidare il rinno- vato avvio di equilibrati meccanismi di retroazione alla rinascita di un sil- voecosistema richiede indubbiamente il contributo di specialisti. Il disegno generale e il controllo in corso d’opera sono tuttavia compiti da affidare al tecnico forestale, come insegna l’esperienza di riunioni scientifiche intese ad escogitare provvedimenti per la tutela di delicate situazioni ambientali in territori boscosi. Vi sarà molto da svolgere in futuro per salvare patrimoni naturali, reti idriche e superstiti risorse di biodiversità, mantenendo, ove possibile la produttività. Laureati in corsi di studi forestali sono da tempo impegnati in attività pertinenti a tali esigenze e stanno onorando il titolo e la professione. Ai prossimi loro colleghi non basterà la preparazione univer- sitaria di primo livello per affrontare problemi come quelli sopraelencati e occorrerà una visione sempre più ampia delle relazioni intercorrenti tra le zoocenosi e le fitocenosi dei sistemi di foresta.

SUMMARY

The role of animals in formation and dynamics of forest ecosystems

Forest ecology, in its widest sense, is able to discover the fundamentals of the investigated natural processes as long as it considers the continuous, mutual adaptation between woody plants and fauna adequately, and taking account of the different way in which time, as an essential factor, exerts its influence on the vicissitudes of trees and animals either as individuals or populations.

As a whole, it is a matter of an unceasing concurrence of two tendencies: one, typical of the big woody plants, turned to keep a sort of inertia in the biogeocoenose, the other, typical of the animal component, evoking a lasting dynamism in the functions of the ecosystem.

In the general picture of the relations between the two complexes of organisms, it is possible to recognise the steps of succession from which the origin, development, decline and disappearance of the natural woods arise.

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In the history of various sorts of forests’ beginning, the zoochory is much less casual than what is usually believed; it widely influences even the constitution of the

«minor» woody species complex, especially because of birds’ intervention.

Many animals contribute to modify the composition and structure of woods whose condition seems to be steady.

Besides the consequences of the increasing presence of ungulates, the secondary effects of certain phytophagans’ outbreaks are often crucial and unexpected.

On their whole, the species which are destroying the seaside pine or had eliminated the Italian stone pine from various coasts or facilitated the endangering spread of the Dutch elm disease have become dramatically important throughout the Italian territory since long time. But also the action of wild and even domestic mammals can affect the forest stands’ sort in a decisive way.

Moreover there is a problem not new, but surely aggravated and destined to assume an increasing importance owing to the intensification and acceleration of the wide range transports. Introduced alien animal species, insects most of all, force the enviromental resistance and start up situations never occurred before in the forest ecosystems.

In the future, only the foresters having had a sound grounding in biology can face the necessity of keeping intact the processes giving rise to the dynamic conservation of the wealth of woods.

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