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R E P U B B L I C A I T A L I A N A IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

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R E P U B B L I C A I T A L I A N A

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL TRIBUNALE DI ROMA

Sezione Lavoro 1^

Il Giudice designato, Dott. Paolo Sordi, all’udienza del 17 dicembre 2013 ha pronunciato la seguente

SENTENZA

(art. 1, comma 57, legge n. 92 del 2012 e art. 281-sexies c.p.c.)

nella causa civile iscritta al n. 29107 R.G. dell’anno 2013 del Tribunale di Roma e vertente TRA

CONSORZIO DI VIGILANZA SECURSÌ

in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma, Via di Sant’Elena 29 presso lo studio dell’Avv. D. Gallotti che lo rappresenta e difende per procura in margine al ricorso.

OPPONENTE E

ROTA ANDREA

elettivamente domiciliato in Roma, Via E. Duse 53, presso l’Avv. A. Travaglini, che lo rappresenta e difende per procura in margine alla memoria di costituzione.

OPPOSTO SVOLGIMENTO DEL PROCEDIMENTO

Con ricorso depositato il 31/7/13, il Consorzio di Vigilanza Secursì proponeva opposizione contro l’ordinanza ex art. 1, comma 49, legge n. 92 del 2012 del 1° luglio 2013 con la quale il Tribunale di Roma aveva annullato il licenziamento intimato il 2 gennaio 2013 a Rota Andrea e l’aveva condannata a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro ed a corrispondergli un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello della reintegrazione, nonché al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.

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Sosteneva la legittimità del proprio recesso e chiedeva che, in riforma della predetta ordinanza, fossero respinte tutte le domande avanzate dal lavoratore nel proprio ricorso ex art. 1, comma 47, legge n. 92 del 2012.

Rota Andrea si costituiva in giudizio e contestava la fondatezza dell’opposizione, concludendo per la conferma dell’ordinanza o, in via subordinata, per la concessione della tutela prevista dall’art. 18, quinto comma, legge n. 300 del 1970.

All’odierna udienza, dopo la discussione, il Giudice ha deciso la causa, pronunciando sentenza ai sensi del combinato disposto dell’art. 1, comma 57, legge n. 92 del 2012 e dell’art.

281-sexies c.p.c.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. – L’addebito contestato al Rota nel procedimento disciplinare all’esito del quale è stato licenziato è stato così formulato dall’azienda nella lettera del 17 dicembre 2012: «Lei, a far data dal 3 dicembre 2012, non si è più presentato al lavoro, nonostante peraltro con comunicazione del 7 dicembre u.s. questo Consorzio La abbia diffidata formalmente a rientrare immediatamente in servizio, risultando in tal modo assente ingiustificato».

È pacifico che effettivamente, a partire dal 3 dicembre 2013, il dipendente non si sia più presentato al lavoro.

È altrettanto pacifico che si sia trattato della reazione del lavoratore al mancato puntuale pagamento delle retribuzioni da parte dell’opponente.

A quest’ultimo riguardo, risulta incontroverso tra le parti che, alla data in cui il Rota ha iniziato ad assentarsi dal lavoro (cioè il 3 dicembre) e ancora alla data della lettera di contestazione dell’addebito, il Consorzio non aveva ancora pagato né la retribuzione di ottobre (erogata solamente il 24 dicembre 2012), né quella di novembre (pagata addirittura l’8 febbraio 2013). Infine, alal data di irrogazione del licenziamento, non era stata ancora corrisposta la tredicesima mensilità (anch’essa pagata solamente l’8 febbraio, così come la retribuzione di dicembre).

Ritiene il Tribunale che la condotta tenuta dal Rota sia qualificabile come valida eccezione di inadempimento ai sensi dell’art. 1460 c.c.

In effetti la reazione del dipendente appare del tutto proporzionata alla gravità dell’inadempimento del Consorzio. Infatti, come già segnalato, alla data in cui il Rota iniziò ad assentarsi dal lavoro (3 dicembre) il datore di lavoro non aveva ancora pagato la retribuzione del mese di ottobre, mentre, alla data dell’invio della contestazione, le mensilità arretrate erano diventate due. Inoltre la difficoltà del Consorzio nell’onorare i propri debiti non appariva il frutto di contingenze transitorie; al contrario, si inseriva ed era la spia di una più complessa situazione di inadempienza. Infatti anche le retribuzioni dei precedenti due mesi di agosto e settembre 2012 erano

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state pagate in ritardo e il Consorzio non era stato in grado di versare neppure un acconto delle spettanze del dipendente. La serietà dell’inadempimento della parte datoriale è, infine, confermata dal fatto che gli stipendi di novembre e dicembre 2013 e la tredicesima mensilità sono state pagate solamente nel mese di febbraio 2013.

Come sostenuto da condivisibile dottrina, l’eccezione di inadempimento può validamente essere opposta dal lavoratore a fronte non solamente di un inadempimento di eccezionale importanza della controparte datoriale, ma anche di reiterazione di inadempimenti non particolarmente gravi. Questo è appunto quanto accaduto nella vicenda che qui ci occupa: si è trattato, infatti, del reiterato ritardo nel pagamento della retribuzione mensile, inquadrato in un contesto che non faceva presumere che si trattasse di eventualità eccezionali ed isolate.

2. – Appurato, dunque, che la mancata presentazione in servizio da parte del lavoratore nelle giornate oggetto della contestazione disciplinare configura una legittima eccezione di inadempimento ai sensi dell’art. 1460 c.c., ne discende la conseguenza dell’illegittimità del recesso adottato dal Consorzio opponente.

Restano tuttavia da accertare le conseguenze di una simile illegittimità poiché, com’è noto, l’art. 18 della legge n. 300 del 1970, nel testo introdotto dalla legge n. 92 del 2012, collega conseguenze diverse a seconda del tipo di vizio che affligga l’atto datoriale.

In particolare, per quel che qui interessa (vale a dire il licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo), una volta stabilito che non ricorrano né i vizi di nullità di cui al primo comma dell’art. 18, né quelli formali contemplati dal successivo sesto comma, occorre ricordare che, a norma del quarto comma, il giudice condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro ed al pagamento di un’indennità non superiore a 12 mensilità «nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili», mentre, in virtù del successivo quinto comma, dichiara risolto il rapporto con effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità compresa tra 12 e 24 mensilità «nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro».

Si tratta pertanto di stabilire se, in un caso in cui – come nella fattispecie – il licenziamento disciplinare sia stato irrogato per assenza ingiustificata, il fatto che il dipendente sia rimasto assente nell’esercizio della facoltà attribuita alla parte di un contratto a prestazioni corrispettive dall’art.

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1460 integri gli estremi della «insussistenza del fatto contestato» ovvero di una diversa ipotesi di mancata ricorrenza della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo di licenziamento.

3. – Al riguardo si possono prendere le mosse dalla constatazione secondo cui le definizioni legali delle cause giustificatrici del recesso del datore di lavoro per condotte del dipendente fanno riferimento all’esistenza di un fatto storico riconducibile al comportamento del lavoratore (generalmente un inadempimento, ma non necessariamente, se si pone mente a come, con riferimento alla giusta causa, la giurisprudenza attribuisca rilevanza anche a fatti che non costituiscono tecnicamente un inadempimento delle obbligazioni contrattuali gravanti sul lavoratore) e ad una qualificazione di quel fatto rispetto alla sua incidenza sulla funzionalità del rapporto di lavoro.

Precisamente, per aversi giustificato motivo soggettivo, il fatto imputabile al lavoratore (l’inadempimento) deve essere «notevole», mentre, per integrare gli estremi della giusta causa di licenziamento, il fatto compiuto dal lavoratore deve essere tale da impedire «la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto».

Ora, è evidente che un licenziamento può contrastare con il modello legale dell’atto (ed essere, quindi, illegittimo) sia perché non sussiste il “fatto”, sia perché, pur sussistendo il “fatto”, non si possa ritenere che esso incida sulla funzionalità del rapporto di lavoro nella misura richiesta, rispettivamente, dall’art. 3 della l. n. 604 del 1966 ovvero dall’art. 2119 c.c.

La distinzione sulla quale si innesta la differenza di tutela tra il quarto e il quinto comma del nuovo art. 18 coincide, appunto, con la distinzione tra licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo illegittimo perché intimato con riferimento ad un “fatto” che non sussiste e licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo illegittimo perché l’inadempimento addebitato al dipendente non può essere qualificato come «notevole» ovvero il fatto o comportamento preso in considerazione dal datore non è tale da impedire la prosecuzione anche provvisoria del rapporto.

Il problema sta, tuttavia, nel precisare cosa si debba intendere, nella ricostruzione proposta, per “fatto” e, in particolare, se in proposito rilevino anche l’intensità del dolo e la gravità della colpa del lavoratore.

Al riguardo, una parte della dottrina non opera alcuna specificazione, limitandosi a parlare genericamente di “fatto”, altri fanno riferimento genericamente al «comportamento concreto tenuto dal lavoratore», altri ancora al “fatto materiale”.

Ad avviso dello scrivente, si deve trattare di un fatto o di un comportamento del lavoratore qualificabile come «inadempimento» imputabile ed idoneo, per sua natura e in astratto, a produrre conseguenze sulla funzionalità del rapporto.

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Vale a dire che il fatto è “insussistente” ai sensi del quarto comma del nuovo art. 18, oltre che quando esso non si sia verificato nella realtà, anche quando esso, pur verificatosi, non appartenga alla categoria degli inadempimenti o dei fatti o comportamenti idonei in astratto ad esercitare influenza sullo svolgimento del rapporto di lavoro subordinato ovvero quando non sia imputabile al lavoratore ai sensi dell’art. 1218 c.c.

Ad esempio, il caso in cui licenziamento disciplinare sia irrogato perché il dipendente si è presentato al lavoro senza indossare giacca e cravatta (nelle ipotesi in cui la cura nell’abbigliamento non rientri tra le prestazioni accessorie cui è tenuto per contratto il lavoratore) è riconducibile all’ipotesi di cui al quarto comma del nuovo art. 18, appunto perché il comportamento addebitato al dipendente non costituisce inadempimento.

Identica conclusione vale nel caso in cui il lavoratore sia licenziato per assenza dal lavoro e tale fatto non risulti a lui collegabile causalmente (ad esempio perché la mancata presentazione al lavoro sia dipesa da un’improvvisa interruzione della linea ferroviaria da lui utilizzata per raggiungere l’azienda), perché qui l’inadempimento non è imputabile al dipendente .

Nella stessa prospettiva, deve ritenersi che il fatto non sussiste (sempre ai fini dell’applicabilità della tutela reintegratoria attenuata) nel caso in cui il lavoratore sia licenziato perché accusato di aver sottratto un bene aziendale e in giudizio si accerti che il furto si è verificato, ma è stato commesso da un altro dipendente: anche qui, non è ravvisabile alcun inadempimento imputabile al lavoratore licenziato.

Insomma, il fatto imputato al lavoratore licenziato per motivi disciplinari sussiste (e, pertanto, siamo fuori dell’ambito di applicabilità della tutela risarcitoria attenuata) quando ricorrono contemporaneamente le seguenti condizioni: (1) esso si è verificato, (2) consiste nella mancata esecuzione di uno degli obblighi gravanti per contratto in capo al dipendente e (3) è a questi imputabile.

In sostanza, per “fatto”, ai sensi del citato quarto comma, occorre intendere «inadempimento» in senso tecnico: l’ipotesi del «fatto non sussiste» enunciata dalla norma in esame si verifica tutte le volte in cui non sia configurabile, a carico del lavoratore, un inadempimento imputabile.

Se, invece, il fatto addebitato al dipendente licenziato sia qualificabile come inadempimento a lui imputabile, ma il giudice ritenga che esso non sia né talmente grave da impedire la prosecuzione anche temporanea del rapporto, né «notevole» ai sensi dell’art. 3 della l. n. 604 del 1966, si ricade nelle «altre ipotesi in cui [il giudice] accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro» alle quali il quinto comma del nuovo art. 18 collega la mera tutela indennitaria forte.

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4. – Non si condivide, dunque, l’impostazione propugnata da quella parte della dottrina e della giurisprudenza che, in sostanza, reputa che per «fatto» ai sensi del quarto comma del nuovo art. 18 debba intendersi il fatto inclusivo anche degli aspetti del comportamento del lavoratore sotto il profilo dell’elemento soggettivo nel senso (e qui sta il punto decisivo), non già solamente dell’esistenza del nesso psicologico (cioè del dolo o della colpa), ma anche della sua intensità nel caso concreto (gravità della colpa, intensità del dolo).

La difficoltà che incontra una simile tesi sta nella sua incompatibilità con un sistema di tutele che presuppone l’esistenza di due distinte categorie nelle quali possono essere raggruppate tutte le ipotesi in cui difettano gli estremi del giustificato motivo soggettivo e della giusta causa: la prima, concernente i casi in cui il fatto non sussiste, la seconda, comprendente le altre ipotesi.

Orbene, una volta che si ritenga che la prima di quelle due ipotesi ricorre, non solamente quando la condotta addebitata al dipendente non sussista o non sia imputabile al lavoratore, ma anche quando, pur sussistendo e pur essendo imputabile al dipendente, essa non sia sufficientemente grave da integrare gli estremi di una giusta causa o un giustificato motivo di licenziamento, non si vede quali residuali fattispecie concrete possano essere incluse nella seconda categoria di vizi del recesso datoriale (quella cui è collegata la tutela indennitaria forte).

Al fine di superare questa evidente difficoltà, la dottrina che sostiene tale impostazione ipotizza che alla predetta seconda categoria appartengono i casi in cui il giudice riconosca che la gravità del fatto addebitato al lavoratore, da un lato, non sia del livello richiesto per legittimare un licenziamento e, dall’altro, sia però superiore a quella che giustificherebbe la sanzione della sospensione dal lavoro e dalla retribuzione.

Una simile distinzione appare davvero artificiosa e finisce per rimettere ad una valutazione del giudice del tutto aleatoria l’individuazione della conseguenza (reintegratoria o meramente indennitaria) dell’illegittimità del licenziamento, alterando così in maniera radicale il senso della riforma dell’art. 18 operata dal legislatore.

Del resto, non si vede davvero sulla base di quali parametri il giudice possa determinare la gravità per così dire “standard” che corrisponderebbe alla sanzione della sospensione fino a dieci giorni; al riguardo i codici disciplinari contemplano inadempimenti molto vari tra loro ed è praticamente impossibile estrapolare da quelle previsioni un quantum di gravità idoneo a fungere da parametro discretivo tra i licenziamenti che darebbero luogo a tutela reintegratoria attenuata e licenziamenti che darebbero luogo alla tutela indennitaria c.d. forte.

5. – L’esattezza dell’impostazione qui propugnata è, invece, confermata dalla constatazione che essa è perfettamente applicabile anche ai fatti che, pur non costituendo inadempimenti contrattuali, sono tuttavia suscettibili di essere compresi nella nozione di giusta causa e rispetto ai

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quali, pertanto, deve essere testata la validità di qualsiasi interpretazione che si voglia proporre circa la distinzione tra quarto e quinto comma del nuovo art. 18.

Infatti, si deve riconoscere che, anche rispetto a tale categoria di fattispecie di giusta causa di licenziamento, ricorre l’ipotesi della «insussistenza del fatto contestato» quando il fatto storico addotto dal datore di lavoro o non si è verificato nella realtà o non è imputabile al lavoratore ovvero sia di natura tale da non poter neppure essere ipotizzata – a prescindere da qualsiasi considerazione delle circostanze del caso concreto, quali la gravità della colpa o l’intensità del dolo – una sua incidenza sulla fiducia della parte datoriale sull’esattezza dei futuri adempimenti del dipendente.

Volendo procedere ad una esemplificazione con riferimento ad una fattispecie che è stata sottoposta all’attenzione della giurisprudenza in più di qualche occasione, e cioè quella del dipendente licenziato perché ha emesso assegni a vuoto, si deve concludere per l’applicazione della tutela reinteratoria attenuata perché il fatto non sussiste: a) se si accerta che gli assegni erano coperti (il fatto dedotto dal datore di lavoro non si è verificato nella realtà); b) se gli assegni sono stati emessi da altro soggetto (il fatto non è imputabile al lavoratore); c) se il lavoratore svolge mansioni che non implicano in alcuna maniera il maneggio di denaro (il fatto, pur sussistente ed imputabile al dipendente, è tuttavia tale da non poter “ontologicamente” essere preso in considerazione quale evento idoneo ad incrinare la fiducia del datore di lavoro sull’esattezza dei futuri adempimenti del dipendente).

Se, invece, il dipendente abbia effettivamente emesso assegni a vuoto e svolga mansioni che lo pongano a contatto con denaro dell’azienda, ma tuttavia le circostanze del caso concreto consentano di escludere che l’illecita condotta da lui tenuta (cioè l’emissione di assegni bancari) sia tale da rendere il dipendente inaffidabile quanto al maneggio del denaro, allora ricorrerà l’ipotesi di cui al quinto comma del nuovo art. 18.

6. – Dalla tesi qui accolta consegue che quello che viene comunemente definito come giudizio di proporzionalità tra la gravità della condotta del dipendente e provvedimento espulsivo non ha alcuna importanza ai fini dell’accertamento della «insussistenza del fatto contestato» di cui al quarto comma.

Ciò significa che tutte le circostanze del singolo caso che la giurisprudenza ritiene rilevanti al fine di stabilire la “gravità in concreto” del fatto posto in essere dal lavoratore (ad esempio, l’intensità dell’elemento intenzionale o di quello colposo, la sussistenza o meno di precedenti disciplinari, il grado di affidabilità delle mansioni svolte dal lavoratore, l’assenza di danno per l’attività produttiva, la precedente tolleranza del datore di lavoro rispetto ad analoghe condotte dei dipendenti, le condizioni di lavoro particolarmente disagiate in cui il dipendente si è trovato ad operare, la pregressa durata del rapporto di lavoro), rilevando solamente al fine di qualificare

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l’inadempimento come «notevole» ovvero la condotta del lavoratore come tale da impedire «la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto», debbono essere prese in considerazione esclusivamente al fine di accertare se si verta in una delle «altre ipotesi in cui […] non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro» alle quali il quinto comma del nuovo art. 18 collega la tutela indennitaria forte.

7. – L’impostazione accolta sfugge, poi, alla critica secondo la quale essa escluderebbe qualsiasi attività valutativa del giudice.

Ed infatti anche l’accertamento della sussistenza o meno dell’inadempimento implica la necessità valutazioni da parte del giudice.

Si pensi al caso in cui il dipendente sia licenziato per “scarso rendimento” ovvero ai casi in cui i contratti collettivi prevedano il licenziamento per comportamenti qualificati, nella previsione contrattuale, come “gravi” o simili.

Più in generale, in ogni occasione il giudice deve valutare se il fatto addebitato al dipendente sia qualificabile come “inadempimento”.

Ciò che davvero distingue le ipotesi di cui al quarto comma da quelle che rientrano nel quinto comma non è il fatto che le prime escludono l’attività valutativa del giudice mentre le seconde la richiedono necessariamente. La differenza, invece, sta nell’oggetto dell’attività valutativa del giudice: nel primo caso, si tratta di valutare se sussiste l’inadempimento (e ciò implica, ovviamente, che in tale attività il giudice deve procedere a qualificazioni giuridiche), nel secondo, se quell’inadempimento (o, comunque, quel fatto – diverso da un inadempimento, ma comunque – rientrante nella categoria di quelli potenzialmente costituenti giusta causa di recesso) sia «notevole» ovvero tale da impedire la prosecuzione anche provvisoria del rapporto.

8. – Né all’impostazione qui accolta potrebbe essere obiettato che essa consentirebbe al datore di lavoro di liberarsi di un dipendente correndo solo il rischio del pagamento dell’indennità di cui al quinto comma dell’art. 18 addebitandogli un inadempimento palesemente insufficiente ad integrare gli estremi del giustificato motivo soggettivo.

Ad esempio, nel caso in cui il lavoratore sia licenziato per aver fatto registrare un ritardo di pochissimi minuti sull’orario di inizio del lavoro. Qui, essendo il fatto sussistente, essendo esso qualificabile come inadempimento ed essendo altresì imputabile al lavoratore, non potrebbe dirsi che il fatto non sussiste e, pertanto, sarebbe precluso l’accesso alla tutela reintegratoria.

L’obiezione è sicuramente seria, ma può essere superata se si ritenga di poter far ricorso all’istituto del negozio in frode alla legge ex art. 1344 c.c., come pure proposto in dottrina.

In effetti, si può sostenere che in simili casi il datore di lavoro, al fine di realizzare deliberatamente lo scopo (illecito) di espellere dall’azienda il dipendente nonostante l’insussistenza

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di una giusta causa e di un giustificato motivo di licenziamento, sceglie di porre in essere un negozio risolutivo del contratto di lavoro del tipo di quelli che gli consentono comunque di realizzare l’effetto estintivo del rapporto e ciò al solo fine di aggirare la sanzione reintegratoria stabilita dall’ordinamento per il caso di licenziamento illegittimo per insussistenza del fatto.

Potrebbe opporsi che, nella fattispecie in esame, contrariamente a quanto è riscontrabile nelle classiche ipotesi di negozi in frode alla legge, la parte non pone in essere negozi apparentemente leciti, se atomisticamente considerati, i quali tuttavia, essendo tra loro collegati, determinano l’elusione di una norma imperativa; nel nostro caso, infatti, la parte datoriale compie un negozio che comunque, di per se stesso, è già illegittimo, perché l’inadempimento contestato al dipendente è meno che «notevole», come inderogabilmente richiesto dall’art. 3 della l. n. 604 del 1966.

L’obiezione può essere superata attribuendo adeguata considerazione ad una delle caratteristiche fondamentali del sistema sanzionatorio contro i licenziamenti illegittimi definito dal nuovo art. 18. In particolare esso ammette che uno stesso recesso datoriale possa essere affetto da una pluralità di vizi appartenenti ognuno ad uno dei gruppi ai quali corrisponde una delle diverse forme di tutela; la norma, poi, disciplina espressamente tali ipotesi sulla base del principio generale secondo il quale si applica la tutela prevista per il vizio più grave.

Così, in caso di licenziamento affetto da vizio formale o procedurale (che di per sé dà luogo alla tutela indennitaria c.d. debole), il sesto comma dispone che, ove il recesso presenti anche un difetto di giusta causa o di giustificato motivo, si applicano le più intense tutele di cui ai commi quarto, quinto e settimo. Analogamente, nei casi di insussistenza del giustificato motivo oggettivo, il settimo comma dispone che, ove il recesso sia determinato da ragioni discriminatorie o disciplinari, operano le relative tutele.

Venendo specificamente all’ipotesi del licenziamento motivato dal datore di lavoro con addebiti di scarsissima importanza, occorre tener conto del fatto che il primo comma dell’art. 18 prevede che la tutela reintegratoria piena si applichi, quando ricorrono le ipotesi in esso contemplate, «indipendentemente dal motivo formalmente addotto». Ciò significa, tra l’altro, che seppure, in base al motivo formalmente addotto dal datore di lavoro a giustificazione del proprio recesso, sia ravvisabile, a carico del licenziamento, un vizio rientrante in qualcuna delle previsioni dei commi dal quarto al settimo, la tutela applicabile sarà comunque quella reintegratoria piena ove sussista anche qualcuno dei vizi elencati in quest’ultima disposizione.

Conseguentemente, è coerente con il nuovo sistema di tutele contro i licenziamenti illegittimi ammettere che un recesso datoriale di per sé illegittimo perché giustificato con un inadempimento meno che notevole possa essere qualificato, contemporaneamente, anche nullo

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perché in frode alla legge in quanto diretto ad eludere l’applicazione della norma imperativa contenuta nel quarto comma dell’art. 18, il quale impone la tutela reintegratoria in caso di insussistenza dell’inadempimento.

Si vuole dire che, nel particolare sistema di tutele predisposto dal legislatore del 2012, da un lato, l’intento fraudolento può essere ravvisato anche nel tentativo di porre le condizioni di un licenziamento cui si applichi un tipo di tutela meramente indennitaria piuttosto che una tutela di tipo reintegratorio (realizzando così l’effetto estintivo del rapporto) e, dall’altro, che è del tutto normale che un recesso datoriale, di per sé già idoneo ad essere qualificato illegittimo per un motivo che comporta l’applicazione di una tutela minore, possa contemporaneamente integrare gli estremi di un altro vizio contemplato dal legislatore come causa di applicabilità di una tutela più favorevole al lavoratore.

Da quanto detto discende che il licenziamento intimato per un inadempimento del tutto inconsistente deve essere qualificato come nullo ai sensi dell’art. 1344 c.c. e, conseguentemente, trattandosi di uno degli «altri casi di nullità previsti dalla legge», si applicherà la tutela reintegratoria piena.

A prima vista potrebbe sorprendere che casi come quelli ora in esame (in cui, comunque, un inadempimento, seppure di scarsa importanza, è ravvisabile a carico dei lavoratori) siano destinatari di una tutela maggiormente intensa di quella (stabilita nel quarto comma) applicabile in casi nei quali addirittura non è ravvisabile alcun inadempimento a carico dei dipendenti licenziati (appunto perché il fatto ad essi addebitato non sussiste). Ogni perplessità al riguardo è, però, destinata a venir meno ove si tenga adeguatamente conto della natura anche sanzionatoria (e non solamente rispristinatoria e risarcitoria) che caratterizza il sistema di tutele contro i licenziamenti illegittimi quale risultante dal nuovo art. 18. Una valutazione complessiva di tale nuovo assetto consente di affermare che da un sistema caratterizzato dalla sostanziale indifferenza, rispetto alle conseguenze stabilite dall’ordinamento, della gravità del vizio del licenziamento, si è passati ad un sistema nel quale, invece, sono previste conseguenze via via più favorevoli per il lavoratori all’aumentare della gravità del vizio del recesso datoriale. Con una certa approssimazione, può dirsi che sono evidenti tre fondamentali gradi di gravità del vizio del licenziamento: quello dei difetti meramente procedimentali (sesto comma dell’art. 18), quello della mancanza di giustificazione del recesso (commi quarto, quinto e settimo), quello della lesione dei valori fondamentali dell’ordinamento e di vizi che impediscono al nuovo sistema di funzionare (oralità, frode alla legge), con conseguente nullità del recesso (primo e secondo comma). All’interno della seconda categoria, poi, il legislatore ha ulteriormente distinto tra fatto dedotto dal datore di lavoro a giustificazione del proprio recesso e incidenza di quel fatto sulla funzionalità del rapporto, considerando maggiormente grave il vizio

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consistente nella mancanza del primo rispetto a quello relativo ad un erronea valutazione della seconda e ritenendo che una simile diversità giustifichi una differenziazione sostanziale di tutela (da quella reintegratoria a quella meramente economica). Una simile scelta sembra fondata sulla constatazione della minore difficoltà per il datore di lavoro di rendersi conto della invalidità della propria iniziativa in tutti i casi in cui difetti un inadempimento del dipendente (ovvero questo sia riconducibile a previsioni del ccnl relative a sanzioni conservative) o una ragione economica. E sempre in un’ottica incentrata sulla gravità dell’illecito commesso dal datore di lavoro, il legislatore ha previsto, per i casi maggiormente gravi, misure non solamente dirette a realizzare la completa elisione di tutte le conseguenze del recesso datoriale, ma anche idonee a costituire vere e proprie sanzioni a carico del datore (ammontare minimo del risarcimento pari a cinque mensilità, non detraibilità dell’aliunde percipiendum, esclusione della riduzione degli oneri contributivi in caso di reperimento, da parte del lavoratore, di altra occupazione dopo il licenziamento).

Non deve quindi sorprendere che in un caso in cui il datore di lavoro ricorra scientemente ad un espediente (quello di licenziare il dipendente per un fatto di gravità del tutto trascurabile) per causare comunque l’estinzione del rapporto, l’ordinamento reagisca prevedendo a suo carico conseguenze maggiormente gravose rispetto ai casi previsti dal quarto comma dell’art. 18.

9. – Appurato così che per «insussistenza del fatto contestato» ex art. 18, quarto comma, l. n. 300 del 1970 deve intendersi «insussistenza di un inadempimento imputabile al lavoratore», ritiene il Tribunale che a tale fattispecie debba essere ricondotta l’ipotesi in cui la mancata esecuzione della prestazione lavorativa corrisponda alla previsione di cui all’art. 1460 c.c.

Il giudicante, infatti, condivide l’autorevole opinione dottrinale secondo cui, nel contratto di lavoro subordinato, il rifiuto della prestazione da parte del dipendente che eccepisca l’inadempimento del datore di lavoro comporta automaticamente la perdita della prestazione lavorativa non eseguita, integrando così gli estremi dell’impossibilità sopravvenuta imputabile alla parte datoriale; onde il lavoratore non può essere considerato a sua volta inadempiente, essendo, anzi, definitivamente liberato dal suo obbligo per tutto il periodo di legittimo rifiuto della prestazione.

Applicando alla fattispecie oggetto del presente giudizio i principi finora illustrati si deve concludere che sono ravvisabili gli estremi per l’applicazione della tutela prevista dal quarto comma dell’art. 18, appunto perché la mancata prestazione dell’attività lavorativa da parte dell’opposto non è qualificabile come inadempimento imputabile al lavoratore.

Poiché l’ordinanza ha applicato proprio tale tipo di tutela, l’opposizione deve essere respinta.

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11. – Quanto, infine, alle modalità di pronuncia della presente sentenza, osserva il Tribunale che il comma 57 dell’art. 1 della legge n. 92 del 2012 stabilisce che, all’udienza, il giudice «provvede con sentenza» a decidere sulla domanda, «dando, ove opportuno, termine alle parti per il deposito di note difensive fino a dieci giorni prima dell’udienza di discussione» e che «la sentenza, completa di motivazione, deve essere depositata in cancelleria entro dieci giorni dall’udienza di discussione».

Conseguentemente, contrariamente a quanto stabilito dalla normativa del codice di rito: 1) non è previsto alcun termine massimo per il rinvio per la discussione motivato con l’esigenza di consentire alle parti di depositare di note scritte (infatti i dieci giorni non sono previsti dalla norma come termine massimo concedibile alle parti per il deposito delle note, bensì quale termine da calcolare a ritroso dall’udienza di discussione, con la conseguenza che quest’ultima potrebbe essere rinviata, del tutto legittimamente, anche di mesi); 2) nulla è detto circa la necessità della lettura del dispositivo al termine della discussione orale.

Ora, la previsione secondo la quale il giudice provvede sulla domanda all’udienza con sentenza e questa deve essere depositata entro dieci giorni dall’udienza, ha dato luogo, in dottrina, ad un contrasto tra chi esclude che il giudizio di opposizione debba essere deciso con lettura del dispositivo all’udienza ai sensi dell’art. 429 e chi invece sostiene che – poiché l’art. 1, comma 57, della legge n. 92 del 2012 si inserisce nella predetta normativa codicistica e poiché esso si limita a modificare in parte qua solamente il secondo periodo del primo comma dell’art. 429 – resterebbe intatta la formalità della lettura del dispositivo (e, se contestuale, della motivazione) al termine della discussione orale.

La questione non è priva di rilevanza pratica, se si tiene conto delle conseguenze derivanti dalla mancata lettura del dispositivo in udienza ove si ritenga tale adempimento richiesto dalla norma.

Ed allora, a fronte della chiara indicazione secondo cui la sentenza con la quale la causa è decisa deve essere depositata entro dieci giorni dall’udienza di discussione, non si ritiene che possa essere condivisa la tesi secondo la quale la decisione della causa avverrebbe mediante lettura del dispositivo all’udienza.

Essa, invero, si fonda su argomentazioni estremamente fragili costituite, da un lato, dalla mancata espressa deroga – da parte della legge n. 92 – di disposizioni che presuppongono la separatezza di dispositivo e motivazione (quali quella dell’eseguibilità della pronuncia sulla base del solo dispositivo – art. 431, secondo comma – e quella dell’inibitoria relativa all’appello con riserva dei motivi – art. 433, secondo comma –) e, dall’altro, dalla mancata traccia, nella legge del 2012 e nei relativi atti preparatori, dell’intenzione del legislatore di allontanarsi dai principi

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chiovendiani dell’oralità e dell’immediatezza che informano la disciplina codicistica del merito del lavoro e, in particolare, la disciplina della fase decisoria.

In effetti, è agevole replicare che, una volta espressa la regola secondo la quale la causa è decisa (non già con lettura del dispositivo all’udienza di discussione, bensì) con sentenza da depositare nei successivi dieci giorni, non si vede per quale ragione il legislatore si sarebbe dovuto preoccupare di escludere espressamente l’applicabilità di norme (appunto, gli artt. 431, secondo comma, e 433, secondo comma) evidentemente incompatibili con la modalità di decisione della controversia definita dal comma 57.

D’altro canto, la volontà del legislatore del 2012 di costruire un modello di procedimento, sì contiguo, ma anche distinto dal rito codicistico del lavoro è fin troppo evidente, onde non si vede come possa sostenersi che dovrebbe ritenersi che la decisione della causa mediante lettura del dispositivo all’udienza sia addirittura implicita nella natura del procedimento.

Se, pertanto, non si può sostenere che il giudizio di opposizione debba essere deciso con lettura del dispositivo all’udienza ai sensi dell’art. 429, nulla sembra ostare, invece, all’applicabilità ai procedimenti di cui si tratta dell’art. 281-sexies c.p.c. .

Questa, infatti, è una norma che disciplina una forma di decisione alternativa a quella tipica del rito civile ordinario, la quale, a sua volta, è simile al modello adottato dall’art. 1, comma 57, della legge n. 92; infatti, anche nel procedimento che qui ci occupa il giudice, all’esito della discussione orale, trattiene la causa in decisione e, entro un determinato termine, deposita la sentenza completa di motivazione.

Ed allora nulla sembra ostare alla possibilità del ricorso, da parte del giudice, alla modalità di decisione descritta appunto dall’art. 281-sexies che, tra l’altro, ha la caratteristica di contrarre ulteriormente i tempi di definizione della controversia e, pertanto, è sicuramente coerente con la

ratio complessiva del rito introdotto dal legislatore del 2012.

P.Q.M. definitivamente pronunciando:

1) rigetta l’opposizione proposta dal Consorzio di Vigilanza Secursì contro l’ordinanza del Tribunale di Roma del 1° luglio 2013;

2) condanna l’opponente al pagamento delle spese processuali liquidate in euro 2.000, oltre IVA e CPA.

Roma, 17 dicembre 2013.

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