Selenia Marabello
TRACCIARE LE DISTANZE, SORVEGLIARE IL CONTAGIO
ABSTRACT. Questo articolo propone un’analisi degli effetti percussivi dell’epidemia di COVID-19 sulle strutture di accoglienza migranti nella città di Bologna, provando a cogliere l’esperienza vissuta da donne e madri. Il fare etnografico, dentro relazioni di campo di lunga durata, fa affiorare pratiche istituzionali e significati che migranti e operatori attribuiscono alla sorveglianza epidemiologica. I micro-dati empirici, le sfere biomediche di comunicabilità e le prassi di gestione epidemica, a livello nazionale e locale, hanno permesso di enucleare come le migrazioni e le epidemie siano plasmate nei contesti politico- istituzionali disegnando margini di agency o rinnovando, attraverso la spazializzazione della malattia, l’irrigidimento dei confini e le politiche della frontiera.
Key words: COVID-19, sfere biomediche di comunicabilità, accoglienza migranti, Bologna, madri migranti.
ABSTRACT. This article analyses the percussive effects of the COVID-19 epidemic on migrant reception facilities in the city of Bologna, focusing specifically
on the experience of women and mothers. The ethnographic approach, employed within long-term field-based relationships, brings to light the institutional practices and meanings that migrants and social workers attribute to epidemiological surveillance. Through empirical micro-data and biomedical spheres of communicability and epidemic management practices, at both national and local levels, the article captures the way migration and epidemics alike are shaped in specific political-institutional contexts by delineating spaces of agency or by using the spatialization of the disease to make border policies more stringent.
Introduzione
La gestione dell’epidemia di COVID-19 ha messo in campo, a livello globale e locale, misure volte a regolare i comportamenti sociali, limitare e sorvegliare la mobilità delle persone e irrigidire confini, non solo nazionali. I tempi diversi del propagarsi epidemico e le differenti decisioni istituzionali hanno fatto perno, in varia misura, su una prospettiva coloniale di gestione epidemica1 in cui la malattia è stata controllata spazialmente limitando gli agenti patogeni, le persone e, da ultimo e limitatamente, i beni. Da una prospettiva italiana, la permanenza negli spazi abitativi,
1 A. Bashford, Imperial Hygiene: A Critical History of Colonialism, Nationalism and Public Health, Palgrave
il distanziamento sociale e l’igiene delle mani sono stati prescritti ricorrentemente in tutte le tre fasi – così indicate dalle istituzioni governative – della gestione epidemica.
Come queste tecnologie materiali e immateriali di controllo2 sono state interpretate, rappresentate e vissute all’interno delle strutture di accoglienza per richiedenti asilo, rifugiati e titolari di protezione internazionale nella città di Bologna?
Pur con tutti i limiti contingenti al fare etnografico, basandosi su micro-azioni d’intervento richieste da operatori e da donne migranti conosciute in precedenti ricerche sul campo, in questo articolo con una lanterna etnografica3 si proporranno delle riflessioni sull’epidemia. Le brevi annotazioni di impegno etnografico, qui enucleate, che derivano dalla ristrutturazione di spazi di incontro attraverso il medium digitale e le video-chiamate circoscrivono le pratiche, le frizioni e i vissuti dell’evento epidemico in relazioni di campo di lunga durata.
In particolar modo, cercando di sfuggire alla cogenza dell’andamento epidemiologico ancora fluido – che non può non incidere e ri-orientare il posizionamento4 di chi fa ricerca – le considerazioni qui presentate verteranno sulla
2 C. Lyntheris, B. Poleykett, The Anthropology of Epidemic Control: technologies and materialities, “Medical Anthropology Cross - Cultural Studies in Health and Illness” XXXVII, 6, 2018 pp. 433- 441 p. 433.
3 J. Biehl, A. Petryna, a cura di, When People come first: Critical Studies in Global Health, Princeton University Press, Princeton 2013.
4 E. Venables, U. Pellecchia, Introducing Engaging Anthropology in an Ebola Outbreak. Case studies
from West Africa, “Anthropology in Action”, XXIV, 2, 2017 pp. 1-8.
cosiddetta Fase 1, ovvero quella del lockdown, normata con misure straordinarie dello stato italiano.
Un quadro teorico
Leanore Manderson 2020, introducendo il numero monografico di Medical Anthropology dove si raccolgono contributi sulla pandemia di COVID-19 in Turchia,
Senegal, Italia, Pakistan, Australia e Sudafrica, ha proposto una lettura di quelli che ha definito come effetti percussivi.5 Nel prestare attenzione alla risposta delle istituzioni politiche e degli attori economici all’irrompere dell’infezione e della sua virulenza, l’accezione di Manderson6 del termine percussivo mira a rileggere – nell’urgenza dell’evento pandemico – l’assemblarsi di notizie, grafici, statistiche e, aggiungerei, buchi nella produzione di dati e il loro rumore così come il propagarsi degli effetti della pandemia nella vita sociale, politica ed economica. La valenza semantica del termine percussivo, nella lingua italiana potenzialmente si amplia e permette, al lettore, di individuare come l’evento pandemico, per la portata globale, consente di cogliere le riverberazioni, spesso scomposte, delle notizie in campo
5 L. Manderson, The Percussive Effects of pandemic and Disaster, “Medical Anthropology Cross Cultural Studies in Health and Illness” XXXIX, 5, 2020 pp. 365-366
scientifico e politico, le multiple diffrazioni tra contesti e gruppi sociali evidenziando l’effetto di scuotimento e/o d’impatto sui fatti e le forme sociali e politiche di vita.
Questa idea in cui l’effetto percussivo, potenzialmente ripetitivo, unisce effetti sonori e di movimento inaspettato, è adottata in questo testo per riflettere su alcuni micro- dati empirici. L’accoglienza migranti, in particolare, diviene un prisma di lettura delle strutture di ineguaglianza sociale,7 delle forme di agency e delle plurime e confliggenti rappresentazioni sociali su una malattia ancora sconosciuta che, sfidando gli stati sul piano socio-economico e politico, ha immediatamente posto sotto la lente di osservazione le tensioni sociali (giovani/vecchi, bianchi/neri, migranti/non migranti) e la relazione tra potere politico, produzione scientifica e tecnologia.
Il 4 marzo 2020 il Presidente del Consiglio italiano, in un discorso alla nazione in cui ribadì con insistenza che il criterio di proporzionalità avrebbe costantemente informato le misure di contenimento del virus COVID-19, annunciò l’istituzione di un Comitato Tecnico-Scientifico con il compito di supportare le decisioni governative durante l’emergenza sanitaria. Il Comitato Tecnico-Scientifico, rappresentato a rotazione dai suoi membri, ha preso parte alla conferenza stampa che da Marzo a Maggio del 2020 con cadenza quotidiana ha fornito dati aggiornati
7 M. Singer, Pathogens Go Wild? Medical Anthropology and the “Swine Flu” Pandemic, “Medical Anthropology” XXVIII, 3, 2009, pp. 199-206.
sull’andamento dei contagi. Gli argomenti statistici, come già evidenziato da Asad,8 nel clima di incertezza sociale sono ampiamente usati dal potere amministrativo, legislativo e giudiziario. Nel quotidiano appuntamento con le autorità politiche e scientifiche, la comunicazione verteva perlopiù su un numero complessivo di contagiati, ricoverati e deceduti con un impiego poco pronunciato di grafici e diagrammi. La comunicazione, prettamente orale, volta a elencare i dati numerici nazionali inviati dalla sorveglianza epidemiologica regionale è divenuto, in modo piuttosto evidente, un dispositivo politico per mettere in scena il controllo, dello stato e delle sue istituzioni mediche e politiche, sull’incertezza dell’epidemia. Le istituzioni statali, regionali e locali, giorno dopo giorno, re-iscrivevano l’importanza del controllo epidemico e della possibilità di trattamento nella responsabilità personale, nonché nella solidarietà tra cittadini e generazioni.
Nella stratificazione dei discorsi mediatici e politici dove i rappresentanti politici locali hanno cercato di conquistare spazi e palcoscenici, il discorso morale sulla responsabilità personale e il benessere di tutti è stato combinato con un immaginario nazionale e, in taluni casi, locale, in cui i confini sono stati costantemente tracciati e talvolta irrigiditi producendo immagini spurie e molteplici sul confine di un territorio,
8 T. Asad, Where are the margins of the State? in Das V. Poole D., a cura di, Anthropology in the Margins of the State, Oxford University Press, Oxford 2004 pp. 279-288.
di una comunità e, non da ultimo, di un nemico invisibile. Un nemico invisibile,9 che prende corpo con le persone che, per diverse ragioni, non hanno una dimora, vivono in luoghi diversi e temporanei da quelli di residenza e/o sono migranti. In questo clima in cui il nemico invisibile è ovunque, in cui i confini comunali e regionali sono stati irrigiditi dalle disposizioni di contenimento del virus, quali sfere biomediche di comunicabilità sono state prodotte? Quali soggettività nelle sfere biomediche di comunicabilità10 sono state prodotte o ri/plasmate?
Nella risposta italiana al COVID-19 la conoscenza biomedica legittimata ed esperta è stata limitata ai virologi o agli specialisti di cure intensive, con poca attenzione verso gli studi epidemiologici e il parere di esperti di salute pubblica.
Nell’alternarsi di un linguaggio tecnico-scientifico – l’illustrazione dei protocolli sperimentali di trattamento, gli indici di virulenza o, ancora, sporadici modelli matematici predittivi – con un gergo imprenditoriale – gare d’appalto, salute e costi- benefici –, l’attenzione è stata posta nell’impatto che l’epidemia avrebbe potuto avere sul sistema sanitario nel suo complesso e sulle risorse disponibili nelle diverse località, strutture e regioni che governano concretamente la salute dei cittadini. Nel dibattito mediatico e politico influenzato da un’idea di conoscenza scientifica
9 M. Pellegrino, COVID-19 The Invisible Enemy and Contingent Racism. Reflections of an Italian Anthropologist conducting fieldwork in Greece, “Anthropology Today” XXXVI, 3, 2020, pp. 19- 21.
10 C. L. Briggs, Communicability, Racial Discourse and Disease, “Annual Review of Anthropology”, XXXIV, 2005, pp. 269-291.
fortemente limitata e oggettivante, le strutture di accoglienza migranti, non sono state annoverate se non sporadicamente. Quali rappresentazioni e dati sui migranti in accoglienza, dopo l’effetto percussivo già prodotto dai Decreti Sicurezza,11 potevano esser veicolati?
Il tema immigrazione e controllo, nella prima fase epidemica, ha visto proporre soluzioni che consentissero la tracciabilità e la sorveglianza sanitaria di tutti coloro che – visibili o meno allo stato – si trovassero già sul suolo italiano. Nello stesso periodo, a livello globale, non si può non segnalare la pubblicazione, da parte dell’OMS, delle linee guida per supportare le autorità sanitarie nel disegnare azioni di tutela dei diritti e dei bisogni di migranti e rifugiati, la mobilitazione delle organizzazioni non governative, degli studiosi e della società civile volte a prevenire la discriminazione e garantire l’accesso alla salute di migranti, rifugiati e gruppi minoritari o vulnerabili.12 Durante questa prima e concitata fase, nel dibattito pubblico italiano le istanze miravano alla sostanziale modifica dei recenti Decreti Sicurezza che non garantivano né accesso alla salute né, tantomeno, un efficace controllo sul territorio. Nell’alveo, dunque, di un quadro securitario in cui la salute diveniva ethos e la retorica compassionevole sui servizi essenziali (legati alla logistica, all’agricoltura e ai servizi di sanificazione) rendeva visibili i migranti, sono
11 D. L. 04/10/18 n. 113 e D. L. 14/06/2019 n. 53.
12 Per approfondire S. Hargreaves, D. Zenner, K. Wickramage, A. Deal, S. E Hayward, Targeting COVID-19 interventions towards migrants in humanitarian settings, “Lancet” XX, 2020 pp. 645-
state approvate le norme in materia di riconoscimento dei lavoratori già presenti sul suolo italiano. La risposta balbettata sui diritti delle persone e sulla tutela della salute, utilizzata tra l’altro per giustificare la sanatoria dei lavoratori migranti perlopiù impegnati in agricoltura, è stata inscritta, nel discorso pubblico, in un orizzonte di salute di cui avrebbero beneficiato tutti intendendo – essenzialmente –, la popolazione residente italiana. Il confine tracciato tra autoctoni13 e migranti, già presenti sul territorio, attraverso i dispositivi di contenimento del COVID-19, è stato traslato sul confine territoriale con misure di quarantena su navi predisposte o, all’oggi di questo scritto, con le ordinanze di sgombero e chiusura degli hotspot siciliani, ribadendo le politica di frontiera.14 In questa terza fase – di ri-partenza –, per usare la classificazione istituzionale che detta il tempo di gestione dell’epidemia, i migranti ri-emergono come possibili soggetti da espellere e controllare; il confine ridiventa la soglia di contagio da sorvegliare. Nella sfera biomedica di comunicabilità del COVID-19 i migranti, resi visibili dal lockdown perché impegnati in attività lavorative legate alle filiere di produzione e trasferimento del cibo o in quelle di servizi di mensa e sanificazione dei grandi ospedali, ancora una volta nel contesto italiano, non sono divenuti soggetto titolare di diritti bensì titolari di diritti esercitati per la funzione svolta. In questa logica neoliberale in cui il possibile contagio diviene
13 P. Geschiere, The Perils of Belonging. Autochtony, Citizenship and Exclusion in Africa and Europe, Chicago University Press, Chicago 2009.
14 L. Ciabarri L’imbroglio Mediterraneo. Le migrazioni via mare e le politiche della frontiera, Raffaello Cortina, Milano 2020.
ulteriore elemento di rafforzamento delle politiche della frontiera cosa è accaduto nelle prassi di governo dell’epidemia nei centri di accoglienza migranti di una città come Bologna?
Sorvegliare il contagio/ Tracciare le distanze
Dall’inizio dell’epidemia in Emilia Romagna, che si caratterizza per essere stata una delle regioni più colpite, si sono registrati 3103115 casi. Un primo effetto della pandemia sull’accoglienza migranti è quello di aver esteso, con una ri-modulazione di linee di finanziamento e accordi di tutela, il diritto a permanere sino alla fine dell’anno all’interno delle strutture per coloro il cui permesso risultava in scadenza al 31 marzo 2020. Questo primo effetto percussivo sul cosiddetto sistema Bologna, che conta 116116 posti in accoglienza, pur riproponendo uno slittamento temporaneo, ha
“congelato” e sospeso le condizioni dei rifugiati e beneficiari delle strutture di accoglienza rispondendo, in modo efficace, anche alla misure di contenimento adottate a marzo 2020 che prevedevano la permanenza negli spazi abitativi. D’altra
15Dato aggiornato al 24 Agosto 2020 fonte: Regione Emilia Romagna disponibile su www.regionemiliaromagna.it
16https://www.bolognacares.it/wpcontent/uploads/2020/06/31_05_2020_accoglienza_totale_citta_me tropolitana_bo-def.pdf
parte però, l’estensione del diritto di permanenza dei beneficiari in accoglienza, spesso soggetta a slittamenti e proroghe, pur alimentando l’incertezza che solitamente caratterizza le vite dei migranti in queste strutture, solitamente medio-piccole e situate in contesti urbani e peri-urbani, ha preservato la salute pubblica garantendo al contempo l’accesso alla salute dei migranti.
Nella città deserta che ha risposto al lockdown in modo composto, mentre si cercava di implementare le indicazioni delle autorità sanitarie preposte si sono registrate micro-tensioni nei condomini che ospitavano le strutture di accoglienza. Gli operatori sociali spesso indossavano i dispositivi di protezione individuale – una volta resi disponibili – prima dell’accesso all’appartamento abitato dai beneficiari, innescando tra gli abitanti dei palazzi timori sull’avvenuto contagio. I migranti, in molti casi impiegati nella logistica o nei servizi delle strutture sanitarie, hanno continuato regolarmente a recarsi a lavoro ed erano visti talvolta con sospetto dai vicini di casa per presunte violazioni delle prescrizioni di contenimento del virus innescando, sul percepito rischio, dinamiche di latente discriminazione.
Se soltanto alcune organizzazioni impegnate nell’accoglienza migranti hanno ricevuto richieste da parte di cittadini, rappresentanti di quartiere e autorità locali in piccoli comuni montani,17 sulle misure predisposte per contenere il virus dentro le
17 Comunicazione personale di V. L. (pesudonimo), coordinatrice area estesa distretto della città metropolitana di Bologna di una cooperativa impegnata in accoglienza.
case abitate dai migranti, tutte hanno dovuto far i conti con la gestione dell’epidemia:
la ri-organizzazione del distanziamento sociale all’interno delle strutture che prevedono da due a quattro persone nella singola stanza, la gestione della scuola a distanza per minori non accompagnati, la conciliazione del tempo di lavoro/cura per le madri migranti e sole, perlopiù impegnate in servizi ritenuti essenziali, che hanno dovuto fronteggiare la chiusura dei servizi per la prima infanzia e, infine, l’applicazione della misure di non allontanamento da casa e la comunicazione sulle informazioni relative al virus e alla sua trasmissione.
Nel catturare come l’epidemia è stata vissuta ed esperita dentro le strutture di accoglienza, si farà particolare riferimento alle donne madri, rifugiate e riconosciute come vittime di tratta; status, genere e condizioni materiali di vita hanno filtrato e ricodificato le informazioni oltre che trovato margini di azioni per fronteggiare gli effetti delle misure di contenimento epidemico.
A febbraio 2020 già circolavano moltissime e contrastanti notizie dentro le strutture di accoglienza sul COVID-19: i social network, le prediche e i video dei pastori pentecostali e la paura diffusa di contaminazione delle merci provenienti dalla Cina hanno richiesto, da subito, interventi degli operatori sociali che però si limitavano a riverberare le notizie poco chiare e disponibili esercitando, in modo più accentuato del solito, una comunicazione incerta sulla gravità della malattia, sulla riapertura della scuola, dei tirocini e degli inserimenti lavorativi come sui tempi di
risposta degli iter giuridico-amministrativi in corso. Il sapere mancante, l’elemento di dubbio e l’incertezza, che spesso caratterizzano la comunicazione tra operatori e beneficiari dell’accoglienza, era esacerbata. Per effetto del turn over lavorativo e della mobilità tra organizzazioni che avevano subito i tagli e gli effetti dei Decreti di recente approvazione il lavoro dentro la pandemia è stato, in molti casi, ancor più difficoltoso.
Era il 27 marzo, si attendeva il picco dell’epidemia in Emilia Romagna e avevo finito di far lezione quando squilla il telefono. Al telefono Valeria mi chiede come sto e mi dice che è molto preoccupata. Valeria è la coordinatrice di un servizio per l’accoglienza di donne vittime di tratta e l’avevo incontrata varie volte negli ultimi tre anni in occasione di eventi formativi che avevo condotto su salute e genere. Mi racconta di una donna che ho conosciuto bene nell’ultimo anno, dicendomi che è seriamente preoccupata per lei. Mary18, così si chiama la donna di 28 anni, non esce dalla sua camera da due settimane, inveisce contro gli operatori della struttura e ha parlato solo due volte al telefono con Valeria, che non capisce se si stia nutrendo o meno. Quest’ultima propone alla donna di parlare con una psicologa della struttura ma Mary si rifiuta dicendo che lei non uscirà perché si tratta di un attacco di stregoneria e che la psicologa non potrà capire. Con la coordinatrice del servizio si concorda di predisporre due incontri, su piattaforma on-line, con tutta l’equipe di
18 Pseudonimo.
operatori per capire meglio cosa sta succedendo e di proporre a Mary se vuol parlare con l’antropologa che aveva già incontrato. Mary accetta di parlarmi ma le videochiamate si limitano a uno scambio di saluti e idee su cosa stia succedendo, improvvisamente, dopo qualche giorno, mi racconta della sua paura, di aver sentito sua madre in Nigeria e soprattutto di sentirsi – confinata a casa – nuovamente in pericolo. Aggiunge di non riuscire a dormire perché tornano continue immagini delle violenze subite in Libia dove ha trascorso tre anni senza poter mai uscire dalla
“connection house” ed è convinta che anche “quando si potrà uscire da casa e ci sarà una cura, i bianchi non la daranno mai ai migranti neri”. Il peso dei ricordi
traumatici e l’invisibilità del virus che ha reso la permanenza a casa obbligatoria, è stata espressa da Mary attraverso l’idioma della stregoneria e la relazione di sfiducia tra bianchi/neri. Peter Geschiere ha già analizzato come la stregoneria nell’Africa contemporanea venga usata per esprimere la percezione del pericolo e, investigando l’intimità delle relazioni personali, familiari, suggeriva di rilevare come questa divenisse vettore di paure e sfiducia nelle relazioni19 con coloro con cui si abita.
Seguendo queste piste di interpretazione il lockdown ha ridefinito i confini della casa così come le relazioni con le altre co-abitanti e gli operatori che vi lavoravano. Mary, iscriveva nella relazione bianchi/neri l’accesso alle risorse della salute. In questo caso la stregoneria, rimettendo in sequenza sintomi, storie personali e condizioni di vita ci
19 P. Geschiere, Withcraft, Intimacy, and Trust: Africa in Comparison, Chicago University Press, Chicago, 2013, p. xix.
permette di intravedere – in filigrana – come gli idiomi culturali di sofferenza siano connessi alle forze storiche e alle forme di potere che vengono incorporate ed espresse.20 Mary, pur nella sua sofferenza e nella difficoltosa relazione con gli operatori, ha ri-assemblato le informazioni sul virus, ha negoziato il suo accesso alle risorse per la salute e illustra bene le discrasie di rappresentazione del rischio21 e di cosa rappresenti un riparo e un luogo sicuro. Se nel caso di Mary sono stata contattata dagli operatori, in quello di Joy22 ricevo un messaggio direttamente da lei. Mi chiede di chiamarla e di aiutarla a capire meglio come si trasmette il COVID-19. Joy ha un’infezione da HIV ed è la madre di un bambino di due anni, solo da qualche mese ha avuto conferma che il suo bambino è sieronegativo all’HIV. È particolarmente preoccupata per il bambino e teme di poterlo contagiare visto il suo lavoro in ospedale. Joy è in attesa di un’assunzione e sta ultimando il suo periodo di prova come aiuto-cuoca nella cucina di una mensa ospedaliera. Nell’epidemia quel lavoro diventa davvero gravoso, dovrà continuare a uscir di casa, teme per la sua condizione di salute e, in particolare, non vuole lasciare il bambino alla donna con cui convive;
vorrebbe lasciarlo ad una amica che vive in un appartamento al piano inferiore e sottostante. Ma le regole di contenimento del COVID-19 nella struttura di
20 R. Beneduce, Traumatic past and the historical imagination: Symptoms of loss, postcolonial
suffering, and counter-memories among African migrants, “Transcultural Psychiatry” LIII, 3, 2016, pp. 261-285.
21 G. Ligi, Antropologia culturale e costruzione del rischio, “La Ricerca Folklorica”, 66, 2012, pp. 3- 17.
22 Pseudonimo.
accoglienza che abita, allestita in micro-appartamenti, prevedono che le donne e i bambini rimangano nei loro appartamenti limitando al massimo i contatti. In questo caso l’organizzazione ha interpretato e applicato le norme pensando alle singole unità abitative e non pensando la struttura come una casa. Le distanze sono state tracciate non tra la struttura e il suo esterno ma, immaginando il corpo unico costruito come un condominio, tra i singoli appartamenti. Joy è riuscita, con il supporto dell’organizzazione dell’accoglienza, a chiedere una sospensione dal lavoro, tutelando la salute personale e del figlio, creando uno spazio di agency o di costruzione/costrizione.23
Lo spazio domestico dell’accoglienza ha delle sue particolarità: pur essendo una sfera intima con rapporti di parentela (madri con figli, nuclei di parentela genitori/
figli), le convivenze di persone e nuclei sono regolate da pratiche di governo e norme giuridiche di accesso in cui lo stato dispone chi può abitarlo e per quanto tempo. Le misure di contenimento del virus hanno inquadrato la casa come ‘luogo sicuro’ ma le organizzazioni dell’accoglienza, i migranti, il vicinato hanno re-interpretato le norme ri-tracciando le distanze tra le persone che abitano uno stessa casa/stanza, tra gli appartamenti nei condomini, così come creando forme di sorveglianza del contagio.
In questa pluralità di rappresentazioni di cosa sia un luogo sicuro, di cosa sia il
23 I. Quaranta, The production and transformation of subjectivity. Healthcare and migration in the province of Bologna (Italy), in Hadolt B., Hardon A. a cura di, Emerging Socialities in 21st Century
rischio24 le emozioni, i linguaggi socio-culturali e le asimmetrie di potere trovano forme – talvolta inedite – che ci permettono di abbozzare come i contesti locali e le istituzioni politiche plasmano le migrazioni e le epidemie.
Nelle prassi di governo dell’epidemia all’interno delle strutture di accoglienza il distanziamento sociale, il controllo della temperatura al primo sintomo e il timore di esser discriminati così come il ruolo, assunto dagli operatori, come referenti delle autorità sanitarie nella sorveglianza epidemiologica hanno inevitabilmente esacerbato le tensioni creando un terreno fecondo di fraintendimenti, malintesi e nuove forme di controllo sui migranti ma, come nei casi di Mary e Joy25, hanno ampliato spazi di relazione e azione per le persone, i loro timori e le vite quotidiane. È stato già affermato che lo studio antropologico delle epidemie è una buona chiave di accesso per l’analisi delle relazioni tra gli assunti culturali, le forme istituzionali particolari e lo stato d’animo.26 Nel solco di questa lettura, pur limitandoci a osservare gli effetti dell’elaborazione discorsiva del corpo sociale e la reazione alle prescrittive norme di controllo epidemico, è importante cogliere come il senso individuale e l’etica della
24 D. Lupton, Risk and emotion: towards an alternative theoretical perspective, “Health, Risk and Society” XV, 8, 2013, pp. 634-647 p. 644.
25 cfr. S. Marabello, M. L. Parisi I told you the invisible can kill you: Engaging Anthropology as a Response in the Covid-19 Outbreak in Italy, “Human Organization”, 79, 4 in corso di
pubblicazione.
26 S. Lindebaum, Kuru, Prions, and Human Affairs: Thinking About Epidemics, “Annual Review of Anthropology” XXX, 2001, pp. 363-385 p. 380.
responsabilità collettiva, invocato dal contesto di immigrazione, sia vissuto e sentito dai migranti che in Italia sono considerati alieni.27
Conclusioni
In questo articolo, tenendo conto delle difficoltà metodologiche del lavoro di ricerca dentro una pandemia in cui il rischio infettivo ha implicazioni etiche oltre che epistemologiche, si è tentato di cogliere se e quali effetti percussivi l’epidemia COVID-19 abbia avuto sulle strutture di accoglienza migranti. Le riflessioni qui proposte si basano su frammenti di narrazione, informazioni, interventi richiesti da alcune organizzazioni impegnate nell’accoglienza e micro-dati di campo. Il fare etnografico, dentro relazioni di campo di lunga durata, permette di cogliere l’affiorare di pratiche e significati che i cittadini, i migranti e gli operatori attribuiscono alla sorveglianza epidemiologica delle autorità sanitarie. Le strutture di accoglienza mediano costantemente con lo stato, con i suoi apparati amministrativi, nella gestione della vita quotidiana dei migranti, delle loro richieste di titoli di protezione e asilo così come nei bisogni legati a salute e istruzione. Se lo stato con i suoi processi e
27 M. Ticktin (2017), Invasive Others: toward a contaminated world. Social Research: An International Quarterly 84, 1, 2017, pp. xxl-xxxiv.
relazioni di potere vive28 nelle pratiche quotidiane come si ri-articola e come viene vissuto nell’irruzione dell’evento epidemico? Nella gestione epidemica nelle strutture di accoglienza migranti di Bologna si è avuto un primo effetto di estensione dei diritti di permanenza cercando, nell’immediato e nel rapporto con lo stato burocratico, le garanzie di accesso alla salute di migranti e cittadinanza. Al contempo le severe misure di quarantena e le condizioni materiali di vita che collocano i migranti in accoglienza come addetti a pulizie, logistica e produzione agricola hanno reso i migranti più visibili esponendoli a un rischio più alto di contagio. Osservare gli effetti percussivi dell’epidemia consente di leggere il propagarsi scomposto e frammentato di un evento in cui garantire la salute diviene un vettore di diritto – se pur monco e ancora involuto – come nel caso delle scelte istituzionali adottate a Bologna, o escludente in cui i migranti divengono capro espiatorio, in cui la sorveglianza epidemiologica ri-traccia il confine come nel caso del conflitto istituzionale innescato da recenti ordinanze di autorità locali e governi regionali.
Da una prospettiva di analisi in cui genere, vissuto e condizioni di lavoro e status legale sono elementi imprescindibili da cui osservare i processi di riconfigurazione della malattia,29 della sua multidimensionalità si è tentato, con una lanterna
28 G. Pizza, H. Johannessen, Health, Biopolitics and the Intimate Life of State Powers, “AM Rivista della Società italiana di antropologia medica”, 27-28 2009, p. 18.
29A. Young, The Anthropologies of Illness and Sickness, “Annual Review of Anthropology”, XI, 1982, pp. 257-285.
etnografica,30 di catturare le tensioni e le frizioni di senso che nell’epidemia si sono prodotte. Tensioni generate dalle prescrizioni di salute pubblica e dall’ambivalenza della comunicazione sugli spazi della casa che, da temporanei per eccellenza, sono diventati luoghi sicuri e in cui cercar riparo. O ancora sulla responsabilità dei comportamenti di coloro che, pur parte di reti sociali stratificate e invisibili, in qualità di migranti in accoglienza s’imbattono in uno stato che ribadisce, al contempo, la loro estraneità ed esige un impegno etico per il benessere di un corpo sociale cui permangono alieni.
30 J. Biehl, Theorising Global Health, “Medicine Anthropology Theory” III, 2, 2016 pp. 127-142 p.
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