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Auno psicologo americano che gli comunicava di aver trovato una conferma

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L’utilità della ricerca empirica per la psicoanalisi

VITTORIO LINGIARDI, MARIA PONSI

A

uno psicologo americano che gli comunicava di aver trovato una con- ferma sperimentale del fenomeno della rimozione, Freud rispondeva:

«Caro Dottor Rosenzweig, ho esaminato con interesse i suoi studi sperimentali sulla validità scientifica delle affermazioni psicoanaliti- che. Non posso dare un gran valore a queste conferme perché l’abbondanza di osservazioni attendibili sulle quali queste affermazioni poggiano le rende indi- pendenti dalla verifica empirica. Tuttavia, esse non possono fare alcun male» (la lettera è citata da vari autori, tra cui Luborsky, 2000, 149, Wallerstein e Fonagy, 1999, 91, MacKinnon e Dukes, 1964, 703).

È indubbio che Freud possedesse le caratteristiche dello scienziato e aderisse alla Weltanschaungscientifica. Tuttavia, per sua stessa ammissione, non aveva lo spirito di colui che cerca conferme sperimentali delle proprie scoperte.1Nutriva indifferenza, se non addirittura antipatia, verso la ricerca formale in psicoanalisi, ritenendo che le molte migliaia di ore spese con i pazienti fornissero una prova sufficiente delle idee che ne scaturivano (Wallerstein e Fonagy, 1999, 91).

La tesi dello junktim – e cioè del legame indissolubile tra attività clinica e ricerca (Freud, 1926, 422; Freni, 1999) – ha fortemente permeato la psicoanalisi successiva a Freud, in cui le numerose «osservazioni attendibili» hanno prodotto altrettanto numerose e nuove «affermazioni»; le quali, tuttavia, anziché integrar-

1 Come dice nella lettera a Fliess del 1° febbraio 1900 (n. 235): « […] in effetti io non sono né un uomo di scienza né un osservatore, né uno sperimentatore né un pensatore. Non sono altro che un conquistador per tem- peramento – un avventuriero se vuoi tradurre il termine – con la curiosità, la baldanza e la tenacia di individui del genere» (Freud, 1985, 434).

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si in un corpus di concetti condivisi, in un sapere sufficientemente unitario e coe- rente, si sono organizzate intorno a modi diversi di concepire la mente, le relazio- ni oggettuali, la psicopatologia e il trattamento (Eagle, 2011). La pluralità di modelli teorico-clinici che si è poi così andata configurando (Leuzinger-Bohle- ber et al., 2003) smentisce l’auspicio di Wallerstein (1988) che la psicoanalisi, almeno quella clinica, fosse una: oggi bisogna realisticamente riconoscere che le psicoanalisi sono molte.

Uno dei temi su cui le opinioni divergono maggiormente riguarda la ricerca empirica – una divergenza che è già adombrata nella risposta di Freud al volonte- roso psicologo americano che pensava di dare forza alla nuova disciplina portan- do prove empiriche a sostegno dei suoi assunti. Dopo un secolo di psicoanalisi, e mezzo secolo di studi empirici, gran parte della comunità psicoanalitica resta ade- rente alla posizione di Freud; è cioè sostanzialmente disinteressata all’argomento

«ricerca empirica», ritenuto irrilevante sia per la pratica sia per lo sviluppo della disciplina. Nel frattempo sono però diventate più esplicite, e anche agguerrite, le opinioni contrapposte di chi, da una parte, sostiene che le ricerche sono indispen- sabili per una disciplina che si pretende scientifica e, dall’altra, di chi ritiene che esse danneggino la psicoanalisi correttamente intesa. Se la posizione di Freud era, pur nel disinteresse, di equidistanza e compromesso («le conferme empiriche non possono fare alcun male»), chi oggi è critico verso gli studi empirici sostiene che essi introducono nella psicoanalisi una prospettiva estranea al suo peculiare meto- do di conoscenza e ne sovvertono la specificità e il fondamento.

La divergenza di punti di vista è insomma andata radicalizzandosi, contrap- ponendo chi sostiene che la psicoanalisi non ha un futuro se non imbocca con decisione la strada della ricerca empirica a chi ne sottolinea la prerogativa di scienza «a statuto speciale», esentata dall’obbligo di utilizzare metodi di ricerca e di verifica estranei al proprio specifico campo di operatività.

Questi differenti punti di vista chiamano in causa questioni di vasta portata – come: «Quale è l’ambito disciplinare in cui si colloca la psicoanalisi?» o «Quali sono le epistemologie appropriate per la verifica dei suoi assunti?» – sulle quali non possiamo soffermarci in questo scritto e per le quali rimandiamo alla lettera- tura esistente (v., fra le più recenti pubblicazioni italiane e straniere, Bezoari e Palombi, 2003; Bonaminio e Fabozzi, 2002; Conrotto, 2006; Dazzi, 2006; Leu- zinger-Bohleber e Target, 2002, Levy et al., 2012).

Il nostro intento è più limitato: dar conto dello stato della ricerca empirica più recente rispondendo agli interrogativi che si pongono coloro che praticano le

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terapie psicoanalitiche (i terapeuti); ma che indubbiamente interessano anche coloro che vi si sottopongono (i pazienti) non meno di coloro che vi sono a vario titolo coinvolti (i familiari, i medici curanti, e le agenzie sanitarie): «Sono effica- ci le cure psicoanalitiche? Per quali tipi di disturbi sono indicate? Quali meccani- smi stanno alla base del loro funzionamento?». Oggi, grazie alla crescita quanti- tativa e qualitativa degli studi empirici, è possibile dare a questi interrogativi risposte più documentate di quelle tradizionalmente acquisite tramite l’aneddoti- ca psicoanalitica.

Tenendo conto che per i clinici la fonte principale di dati è costituita dai reso- conti in forma narrativa, integreremo la rassegna dei dati delle ricerche più recen- ti con alcune considerazioni relative alle difficoltà insite nel confronto tra ricerca e pratica clinica.

RICERCA EMPIRICA E PRATICA CLINICA

«Ciò che è interessante per gli psicoanalisti è in gran parte non scientifico, e ciò che è scientifico non è ancora interessante». Così Michels (1988, 174) riassu- me le difficoltà del dialogo tra psicoanalisi e ricerca empirica.

Il clinico che voglia prendere in considerazione questo tipo di studi si trova a confrontarsi con un approccio assai diverso da quello che normalmente utilizza nel- l’approfondire le proprie conoscenze e competenze. Ciò che il clinico percepisce come utile è acquisire sempre nuove metafore interpretative capaci di arricchire la comprensione della dinamica inconscia e la produzione di significati intersoggettivi.

La letteratura sulla ricerca scientifica non fornisce suggestioni da questo punto di vista; al contrario, utilizza un tipo di ragionamento che al clinico appare semplicisti- co, con concetti che, dovendo venire tradotti in ipotesi chiaramente formulate e testabili, appaiono schematici, superficiali, ipersemplificati e ovvi (Gabbard, 1999).

«È raro sentire un clinico sostenere che la lettura di un articolo di ricerca empirica ha influenzato il suo modo di lavorare», osservano Dazzi, Lingiardi e Colli (2006, XXXI), elencando le ragioni della scarsa ricaduta dei risultati della ricerca sulla pratica clinica:

– «la ricerca non ha raggiunto un risultato certo, se non quello di sancire l’effica- cia generale della psicoterapia;

– molte ricerche indagano aspetti che sembrano non avere un collegamento con la pratica clinica reale;

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– si tende a considerare “scoperta” solo il rilievo di un aspetto precedentemente

“non conosciuto” e si fatica a cogliere come nuova conoscenza la conferma empiri- ca di ciò che prima apparteneva in modo esperienziale o intuitivo al proprio baga- glio di conoscenze;

– talvolta si ha la sensazione di “scoprire l’acqua calda” […];

– ancora troppe sono le ricerche che indagano esclusivamente che cosa accade (ricerche descrittive sul processo) oppure che informano sugli esiti, senza descrive- re come sono stati raggiunti».

Nel tenere lontani i clinici dagli studi empirici entra in gioco anche un fattore legato all’identità professionale: per l’analista mettere da parte il proprio consue- to modo di ragionare nella situazione clinica basato su sensazioni, intuizioni, associazioni di idee, e assumere un atteggiamento teso a individuare concetti e correlazioni misurabili, è un’operazione narcisisticamente impegnativa: signifi- ca accettare nel proprio territorio la presenza di un «terzo» che può mettere in discussione le basi su cui poggiano i propri concetti e le proprie teorie; e che può introdurre elementi di disturbo in un sapere consolidato dall’autorità e dalla tradi- zione. La ferita narcisistica diventa ancor più significativa se l’analista si trova a elaborare dati che contraddicono certezze date per scontate, come, per esempio, il ridimensionamento della coppia interpretazione-insight come principale fatto- re terapeutico, il ruolo svolto dai fattori aspecifici, la dissociazione dell’esito terapeutico dall’esito psicoanalitico, l’equivalenza quanto a efficacia delle varie psicoterapie.

Ma anche il clinico più disposto a superare le proprie resistenze e a mettere in questione le proprie certezze consolidate si domanda: «Ci sono dei dati, tra i mol- ti prodotti dalla ricerca empirica, che hanno una rilevanza clinica diretta, dotati cioè un grado di evidenza tale da guidare la tecnica di indagine e di cura?».

La mole dei dati empirici di utilità clinica oggi a disposizione per dare una risposta affermativa a questa domanda non è trascurabile. Possiamo citare innan- zi tutto la famosa ricerca di Wallerstein (1986) che ha prodotto evidenze signifi- cative sul fatto che il miglioramento sintomatico non è direttamente proporziona- le alla quota di insightsviluppato durante il trattamento, e che anche in trattamen- ti praticati secondo le indicazioni standard della tecnica psicoanalitica risultano essere presenti rilevanti componenti tecniche non-interpretative, o di sostegno.

Questi dati sono congruenti con quei modelli teorico-clinici che assegnano alla componente non-interpretativa della cura analitica un ruolo di rilievo nel proces-

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so terapeutico. Ne costituiscono chiaro esempio i numerosi studi sull’alleanza terapeutica (Colli e Lingiardi, 2009; Hilsenroth et al., 2012; Lingiardi, 2002), secondo cui l’alleanza è il fattore terapeutico aspecifico con maggiore capacità predittiva dell’esito del trattamento. Questo dato, come quello precedente, rinforza quei modelli teorico-clinici che, rispetto alla classica coppia interpreta- zione-insight, assegnano alla relazione terapeutica un ruolo cruciale nel promuo- vere il cambiamento terapeutico.

Ad analoghe considerazioni conducono i risultati di altre ricerche, come quelle che hanno messo a confronto la psicoterapia centrata sul transfert (TFP – Transference Focused Psychotherapy, Clarkin et al. 2000) e il trattamento basato sulla mentalizzazione (MBT – Mentalization Based Treatment, Bateman e Fonagy, 2004, 2010) per pazienti borderline: si è visto che entrambi i metodi sono efficaci, pur basandosi su tecniche e approcci teorici che prevedono un uso molto diverso delle interpretazioni di transfert. Tecniche diverse, dunque, ma risultati analoghi: la spiegazione potrebbe essere che in entrambi i casi ciò che rende efficace il trattamento è la qualità della relazione (per esempio l’andamen- to delle rotture/riparazioni dell’alleanza) più che una specifica tecnica terapeuti- ca (l’interpretazione di transfert o le comunicazioni tese a favorire la mentalizza- zione). Ciò che sembra avere più peso ai fini dell’efficacia sembra essere l’insie- me dei fattori presenti nel contesto in cui tale tecnica viene usata, come già nel 1994 Gabbard et al. avevano indicato sostenendo che l’interpretazione di tran- sfert fosse uno strumento «ad alto rischio e ad alto guadagno» (high risk-high gain), in grado cioè di facilitare l’alleanza terapeutica ma anche, se usato male, di scoraggiarla. Studi più recenti sembrerebbero peraltro indicare che l’interpreta- zione di transfert (IT) utilizzata con pazienti con scarsa organizzazione delle rela- zioni oggettuali non solo, come abitualmente si crede, non è controindicata, ma è anzi associata a esiti migliori rispetto a quanto atteso (Gabbard, 2006; Høglend et al., 2006, 2011; Høglend e Gabbard, 2012).

A questo proposito, i risultati di alcune ricerche sembrano mostrare come siano proprio gli interventi di natura più dinamica a condizionare l’outcome positivo delle singole sedute e la qualità dell’alleanza terapeutica (Lingiardi et al., 2011). Come vedremo, anche dai risultati preliminari dello studio process- outcome condotto dal gruppo di Vittorio Lingiardi e Francesco Gazzillo, relativi alla valutazione di processo e esito di diciassette trattamenti analitici, sembra emergere che quelli di maggior successo (good outcome) si differenziano da quelli a esito più sfavorevole per una miscela di più fattori (riconducibili al

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paziente, all’analista e alla loro interazione), che possono essere indagati relati- vamente al loro ruolo, peso e specificità (Gazzillo et al., 2012b; Waldron et al., in stampa; Gazzillo et al., in stampa). I pazienti dei trattamenti good outcome comunicano in modo più produttivo, sono più capaci di oscillare tra il fare espe- rienza e il riflettere sull’esperienza vissuta e di mettere in relazione le dimensio- ni oniriche con quelle biografiche. A loro volta, i terapeuti dei trattamenti good outcome utilizzano in modo più sofisticato tecniche analitiche come le chiarifi- cazioni, le interpretazioni, gli interventi focalizzati sulle difese, sui conflitti, sul transfert e sullo sviluppo del paziente; e, in generale, i loro interventi sono

«migliori» 2. Inoltre, la relazione terapeutica sarebbe caratterizzata da maggior coinvolgimento reciproco nella terapia e da una maggiore capacità del paziente di utilizzare le comunicazioni del clinico per conoscere i propri sentimenti e meglio integrare la comprensione della relazione analitica con le altre relazioni extra-terapeutiche.

In sintesi, dai risultati preliminari di questo studio emerge un quadro comples- so in cui l’esito del trattamento dipende dalla combinazione di più fattori che intera- giscono nel determinare l’esito finale piuttosto che dall’utilizzo di una specifica tecnica analitica o di una sola dimensione clinica. In particolare, sembra che i pazienti che traggono maggiori benefici da un trattamento analitico sono quelli che, fin dall’inizio della terapia, riescono a comunicare e a riflettere sulla relazione con i loro analisti; al tempo stesso, sembra esserci una relazione tra l’iniziare a lavorare fin da subito sui conflitti dei pazienti e il maggior successo della terapia. Questo ed altri studi ci dicono quindi che l’azione terapeutica della psicoanalisi non può esse- re ricondotta a pochi fattori con la «F» maiuscola (Gabbard e Westen, 2003).

LA PSICOANALISI FUNZIONA?

Nonostante le prime ricerche sull’esito delle psicoterapie siano state condot- te negli anni dieci e venti del Novecento proprio da alcuni pionieri della psicoa- nalisi (Coriat a Boston, Fenichel a Berlino e Jones a Londra), a tutt’oggi gli stessi

2«Produttività» del paziente e «Bontà» dell’intervento dell’analista sono due variabili del sistema di codifica delle APS (Analytic Process Scale, Waldron et al., 2004a, 2004b), che il ricercatore applica al testo della seduta: per

«Produttività» si intende un miglioramento da parte del paziente nella comprensione delle proprie caratteristiche psi- cologiche (conflitti, fantasie, autostima), nella collaborazione con il terapeuta (maggiore riflessione o focus sulla rela- zione terapeutica) e in dimensioni quali il funzionamento difensivo e il controllo degli impulsi); la variabile «Bontà»

valuta la qualità generale dell’intervento del terapeuta e l’adeguatezza, nello specifico, del tipo di intervento, la potenziale utilità del suo contenuto e l’efficacia della sua presentazione (per esempio, chiarezza del linguaggio).

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psicoanalisti hanno una conoscenza piuttosto ridotta dei risultati degli studi empirici sulla sua efficacia (Migone, 2006). Questo dato potrebbe sorprenderci se non si tenesse conto di quanto, nel corso dello sviluppo del pensiero psicoana- litico, si sia radicata la convinzione che l’analisi sia un percorso auto-conoscitivo unico, che per sua natura non può venire sottoposto a forme di conoscenza ogget- tive e misurabili. Parlare del rapporto tra psicoanalisi e ricerca è un’operazione difficile (Fonagy, 2003; Luyten et al., 2006a, 2006b, 2012), una questione «spi- nosa», come afferma Fonagy in un intervento alla British Psychoanalytical Society dove sostiene che «parlare di ricerca agli psicoanalisti è come voler ven- dere congelatori agli esquimesi» (Fonagy, 2000).

C’è chi guarda alla ricerca in psicoanalisi come a un esercizio inutile, se non addirittura una sorta di tradimento, e chi invece ne riconosce i pregi, senza per questo trascurarne i limiti. Prendiamo per esempio la valutazione dell’efficacia di un trattamento: ciò che è efficace sul piano clinico (effectiveness) va distinto da ciò che è misurabile statisticamente (efficacy). Chi sostiene l’utilità della ricerca empirica sa bene che una differenza statisticamente significativa tra i punteggi di un test (efficacy) non implica necessariamente un cambiamento clinicamente significativo, ma non per questo la considera inutile. Per esempio, è consapevole che l’impiego di strumenti empirici dotati di validità interna, esterna, ecologica ecc., è conditio sine qua non perché la differenza nei punteggi di quei test siano indicatori «reali» della condizione clinica dei pazienti (Sandell, 1996, 1999; San- dell et al., 2000; Knekt e Lindfors, 2004; Freedman et al., 1999). In altre parole, un test deve essere prima di tutto statisticamente solido, ma deve anche valutare dimensioni e costrutti di interesse clinico e rilevanti per il benessere dei pazienti

«reali». La ricaduta clinica di una ricerca è insomma riconducibile a numerose variabili, tra cui l’appropriatezza statistica e di contenuto degli strumenti applica- ti; lo psicoanalista, così come «è capace» di leggere un articolo di tipo clinico o teorico (sapendone valutare la bontà o il livello di interesse), deve anche «essere capace» di leggere e valutare un articolo di ricerca.

L’attuale ricerca empirica in psicoanalisi non discute l’efficacia dei tratta- menti analitici, ormai ampiamente comprovata (Roth e Fonagy,1996; Gazzillo et al., 2012a), ma si propone di capire come e per chi il trattamento analitico funzio- na e di chiarire quali sono i fattori terapeutici realmente attivi (Lingiardi, 2013b).

Si tratta di informazioni utili per ogni clinico che, sulla base di un buon asses- sment diagnostico, è chiamato a capire quale sia il tipo di terapia più efficace per i problemi di ogni specifico paziente.

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Prima di passare in rassegna i risultati più interessanti di questi studi è utile effettuare una distinzione tra studi sull’esito (outcome research), studi sul pro- cesso (process research) e studi su processo e esito (process-outcome research). I primi valutano l’efficacia dei trattamenti sulla base di una valutazione qualitativa e quantitativa dei tassi di miglioramento dei soggetti al termine della terapia e al follow-up, in genere limitandosi a rilevare indici di natura sintomatologica; i secondi si propongono di valutare il processo terapeutico permettendoci così di saperne di più sui fattori attivi di un trattamento; e i terzi, gli studi process-outco- me, si propongono di valutare sia l’esito sia il processo terapeutico.

Un’altra distinzione utile è tra studi che valutano l’efficacia delle psicotera- pie dinamiche e studi che valutano l’efficacia di trattamenti psicoanalitici veri e propri (Gazzillo et al., 2012a; Lingiardi et al., 2012). Gli studi sull’efficacia delle psicoterapie dinamiche si sono occupati di verificare l’efficacia di psicoterapie di derivazione psicoanalitica condotte a una frequenza di una o al massimo due sedute a settimana e con durata limitata, in genere inferiore a 24 mesi. Questi stu- di sono prevalentemente di due tipi: randomizzati controllati (randomized con- trolled trial, RCT) e meta-analisi. Gli RCT sui Trattamenti Empiricamente Sup- portati (EST) sono studi sperimentali effettuati su un ampio campione di soggetti che condividono la medesima diagnosi (effettuata in genere con il Manuale Dia- gnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, il DSM) e assegnati, casualmente, a due sotto-gruppi: uno sperimentale che riceve la terapia manualizzata che si intende valutare e un secondo gruppo di controllo che riceve un’altra terapia manualizzata o un placebo. Le terapie hanno, in genere, stessa frequenza di sedu- te e stessa durata. I risultati delle terapie sono poi valutati con misure obiettive ed empiricamente validate e le differenze tra gli outcome dei pazienti prima e dopo la terapia sono quantificate in termini di effect-size3. Le meta-analisi, invece, accorpano risultati di più studi condotti su terapie analoghe e quantificano la loro efficacia sulla base dei risultati di più ricerche.

Molti di questi studi ci hanno fornito dati empirici solidi, ma di rilevanza e efficacia trascurabile, perché, come sostenuto da Westen et al.(2005), i loro risul- tati ci invitano alla modestia: siamo abbastanza certi del fatto che i due terzi o i tre quarti dei pazienti che iniziano una psicoterapia sono in linea di massima destina- ti a stare meglio nell’immediato di chi, a parità di condizioni, non si sottoporrà ad

3 Senza addentrarci in tecnicismi, l’effect-size viene calcolato dividendo le medie dei due gruppi per la devia- zione standard media dei due gruppi. Un effect-size attorno a .05 è considerato di media dimensione, mentre un effect-size uguale o superiore a .08 è considerato ampio.

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alcun trattamento (Luborsky e Luborsky, 2008), e del fatto che, a grandi linee, tutte le psicoterapie brevi raggiungono risultati analoghi. Ma non molto di più. Ci troviamo cioè di fronte all’ormai noto «verdetto di Dodo»: tutti i trattamenti sono efficaci, ma nessuno è più efficace degli altri (Luborsky, 1975).

Potrebbero esserci diverse ragioni per cui gli studi sull’outcome delle terapie brevi in genere non rilevano differenze tra i risultati dei diversi modelli di tratta- mento. RCT e meta-analisi presentano limiti consistenti di validità esterna ed ecologica (Westen et al., 2004; Lingiardi et al., 2010; Wachtel, 2010): le esigenze della ricerca e il tipo di epistemologia e modellistica cui fanno riferimento pon- gono infatti vincoli metodologici che rendono i loro risultati difficilmente gene- ralizzabili alla pratica clinica reale (Chambless e Ollendick, 2000; Kendall et al., 1999; Nathan et al., 2000).

I risultati di questi studi sembrano dunque darci informazioni limitate sull’ef- ficacia delle terapie che sono effettivamente condotte nella pratica clinica reale (effectiveness) perché, in genere, i terapeuti a orientamento dinamico, e non solo, vedono i pazienti più di una volta a settimana per una durata che non è determina- bile a priori, non li selezionano in base alla presenza di una specifica diagnosi e non conducono le terapie sulla base della stretta aderenza alle prescrizioni di un manuale (Westen et al., 2005). Esistono, infatti, molte differenze nel modo in cui diversi terapeuti applicano lo stesso modello terapeutico, differenze che rifletto- no la qualità e lo stile individuale di ogni terapeuta, la necessità dei singoli pazienti e i pattern relazionali peculiari di ogni coppia paziente-terapeuta. Tali differenze possono essere colte solo applicando una strategia di ricerca bottom- up4che permette di descrivere cosa accade in terapia, meglio se a partire dall’a- nalisi dei trascritti delle sedute, e non a partire dall’aderenza dichiarata del tera- peuta a un particolare modello.

Allo stesso modo, le meta-analisi, raggruppando e confrontando ricerche diverse che hanno indagato lo stesso argomento, rischiano di aggregare risultati di terapie che, pur condividendo lo stesso modello teorico, presentano un’alta variabilità applicativa. Anche in questo caso, però, non è l’utilità della ricerca empirica in psicoterapia che dovrebbe essere messa in discussione, bensì i criteri di inclusione degli studi selezionati: la rassegna di Shedler (2010) è in tal senso un contributo interessante, come lo sono le meta-analisi condotte da Leichsen-

4Con questo termine, che significa «dal basso verso l’alto», si indica una strategia di ricerca che cerca di descrivere cosa realmente accade in uno specifico processo terapeutico a partire da una sua descrizione empirica e a prescindere dal modo in cui quel processo viene definito «a priori».

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ring (2001, 2005, 2009) e Leichsenring e coll. (2003, 2004, 2008) che pure dimo- strano con chiarezza l’efficacia delle terapie psicoanalitiche.

Va inoltre sottolineato che gli RCT e le meta-analisi che valutano l’efficacia della psicoterapia non potrebbero dirci nulla rispetto alla bontà delle premesse teoriche sottostanti alle terapie che cercano di valutare (Wachtel, 2010) perché gli ingredienti attivi di una psicoterapia non sono necessariamente quelli ipotizzati dalla teoria e dal modello di riferimento che il clinico crede di applicare. Detto in altri termini, è possibile che un clinico applichi un trattamento di tipo X pensando che funzioni grazie ai fattori attivi Y e Z che gli sono propri, ma il tipo di terapia che in realtà mette in pratica assomiglia più a un modello W di trattamento e implica i fattori A e B, che si potrebbero rilevare come quelli effettivamente tera- peutici.

Secondo Gordon e Nath (2010), un’altra causa del paradosso di Dodo va individuata nella scelta degli indici di outcome utilizzati per verificare l’efficacia dei diversi trattamenti. Confrontando gli studi di efficacia delle psicoterapie cognitive e dinamiche questi autori hanno messo in evidenza che, mentre le pri- me valutano essenzialmente la remissione sintomatica e raramente i cambiamen- ti relativi ai tratti di personalità e al funzionamento mentale globale, le terapie dinamiche utilizzano invece in maggior misura questo secondo tipo di indici.

Anche Shedler (2010), in linea con la Gordon, sottolinea la presenza di un mismatching (cioè una cattiva combinazione) tra gli obiettivi della psicoterapia psicodinamica e gli indici di outcome presi in considerazione dalla maggior par- te degli RCT e quindi dalle meta-analisi, dal momento che gli obiettivi di una terapia dinamica non si limitano alla riduzione sintomatica; i professionisti dinamicamente orientati sostengono da sempre che la salute mentale non può essere definita solo come assenza di sintomi, ma anche in termini di presenza di capacità e risorse che permettono all’individuo di condurre una vita più ricca, appagante e consapevole (si consideri in questo senso l’importanza della valuta- zione delle risorse nell’uso della Shedler-Westen Assessment Procedure come misura del cambiamento della personalità nel corso di una psicoterapia (Shedler et al., 2014).

È possibile dunque che il paradosso di Dodo non sia solo l’esito di ricerche che non permettono di individuare i fattori terapeutici realmente attivi di un certo tipo di trattamento, ma sia anche una conseguenza del fatto che i ricercatori non sono riusciti a valutare in modo adeguato tutte le funzioni e le capacità psichiche su cui agiscono le psicoterapie dinamiche.

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Tuttavia, nonostante le grandi differenze tra le terapie validate e quelle reali e l’inadeguatezza degli indici di outcome presi in considerazione dagli RCT, i risultati di questi studi sono tutto sommato chiari. Essi sembrano indicare non solo che le terapie dinamiche sono efficaci almeno quanto quelle di orientamento diverso, ma anche che sono capaci di produrre cambiamenti nel funzionamento psichico mediamente più stabili di quelli ottenuti da queste ultime (Abbass et al., 2006; Leichsenring et al., 2004; Shedler, 2010).

Questi risultati confermano una certezza acquisita da oltre trent’anni in ambito scientifico e una consapevolezza indiscutibile e radicata in tutti i clinici della salute mentale: le terapie psicologiche, e quindi anche le terapie psicoanali- tiche, come tutte le relazioni terapeutiche, funzionano (Wampold, 2012).

Di fronte a risultati cosi «ovvi», come biasimare coloro che si avvicinano con scetticismo alla ricerca empirica? Se dai primi studi sull’efficacia delle psicotera- pie (poco attenti alle specificità dei diversi modelli di trattamento, nelle tecniche come negli obiettivi), la nostra disciplina ne esce banalizzata, un panorama più articolato sembra emergere dai risultati degli studi process-outcome di tratta- menti analitici veri e propri che, anche se più dispendiosi in termini di tempo e di risorse, sembrano fornirci dati utili sugli interrogativi che stanno più a cuore ai clinici: quali sono i fattori terapeutici realmente attivi di una psicoanalisi? E per quali pazienti essa costituisce il trattamento d’elezione?

COME E PER CHI FUNZIONA?

I risultati degli studi che si sono proposti di valutare l’efficacia di terapie psicodinamiche non manualizzate, a tempo indeterminato o superiore a 24 mesi e con frequenza di 3-5 sedute a settimana, confermano l’efficacia della psicoanalisi e sembrano in primo luogo indicare che si tratta del trattamento d’elezione per pazienti con organizzazione nevrotica di personalità o borderli- ne di alto livello (Kernberg, 2004; Caligor et al., 2007, 2009) a differenza di pazienti con organizzazione borderline di basso livello che sembrano trarre maggiori benefici da psicoterapie specifiche (Transference Focused Psy- chotherapy, Mentalization Based Treatment, Dialectical Behavior Therapy ecc. Per una rassegna imparziale vedi Gabbard, 2009). Ed è assai probabile che a beneficiare maggiormente di una psicoanalisi siano soprattutto i pazienti che Blatt (Blatt e Shahar, 2004) definisce «introiettivi», cioè le persone le cui vite psichiche ruotano intorno al problema di chi si è, di quali siano i propri valori e

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ideali di riferimento, di quali siano le caratteristiche nucleari della propria identità.

Come già accennato, a differenza degli altri tipi di terapia, sembra inoltre che le terapie dinamiche, e la psicoanalisi in particolare, esercitino effetti a più ampio raggio e di più lunga durata di quelli favoriti da altri tipi di psicoterapia; anzi, secondo alcuni studi, i benefici di un trattamento analitico, a differenza di quelli ottenuti con altri tipi di psicoterapie, tenderebbero a aumentare anche dopo la conclusione del trattamento (Sandell et al., 1999). Per conseguire risultati migliori, un trattamento psicoanalitico dovrebbe durare poi più di tre anni e avere una frequenza di almeno due sedute a settimana, essendo sinergici gli effetti posi- tivi della durata e della frequenza (ivi).

Rispetto ai fattori attivi di una terapia analitica, ricerche finora condotte sug- geriscono che:

1- i trattamenti in cui s’instaura un processo analitico (Gabbard, 2004), cioè quelli che si concentrano sull’analisi della nevrosi di transfert favorita da una regressione che raggiunga gli stadi pre-edipici dello sviluppo psichico, sono quelli che conseguono risultati più stabili, probabilmente grazie al fatto che i pazienti sviluppano una capacità auto-analitica connessa all’interiorizzazione della relazione terapeutica (Bachrach et al., 1985; Weber et al., 1985a,b,c);

2 – i risultati di una terapia non sono tuttavia riconducibili in toto all’attiva- zione di un processo analitico; l’esistenza di terapie analitiche dagli ottimi risul- tati ma senza attivazione di un processo analitico come definito poco sopra, apre la strada all’idea che gli esiti di una psicoanalisi siano mediati da più fattori (ivi;

Gabbard e Westen, 2003);

3 – ogni psicoanalista utilizza, in proporzioni diverse, interventi esplorativi e interventi supportivi: entrambi sembrano favorire cambiamenti stabili (Waller- stein, 1986);

4 – un atteggiamento più aperto, una maggiore disponibilità del clinico ad adattare il proprio approccio alle necessità del singolo paziente e un buon abbina- mento (matching) paziente-terapeuta favoriscono outcome migliori (Leuzinger- Bohleber e Target, 2002; Colli et al., 2014);

5 – i trattamenti analitici non sembrano esercitare i loro effetti eliminando i conflitti nucleari dei pazienti, ma permettendone una gestione migliore per mez- zo delle capacità auto-analitiche acquisite. Ne consegue che il riattivarsi di tali conflitti può determinare la ricomparsa dei sintomi, anche dopo la conclusione della terapia; questi sarebbero però superati in tempi più rapidi e intaccherebbero

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meno il funzionamento complessivo del paziente (Pfeffer,1963; Norman et al.,1976; Oremland et al.,1975; Schlessinger e Robbins, 1974, 1975, 1983);

6 – le ricerche che hanno utilizzato il CCRT (Core Conflictual Relationship Theme, Luborsky e Crits-Christoph, 1998) per studiare l’evoluzione dei temi relazionali conflittuali del paziente nel corso della terapia hanno evidenziato che l’aumento della percentuale di risposte positive del Sé e dell’altro è positivamen- te correlato alla mentalizzazione e a una buona alleanza terapeutica, e può essere utilizzato come indice affidabile del cambiamento terapeutico (Arrese, 2005;

Beretta et al., 2005)5.

7 – Infine, le poche ricerche tese a indagare il rapporto tra costi e benefici di un trattamento analitico sembrano indicare che, dopo circa tre anni dalla fine di un’analisi di successo, i benefici ricavati dal trattamento compensano i costi per sostenerlo (De Maat et al., 2009).

In conclusione, il quadro che emerge dalla rassegna della letteratura empirica evidenzia in modo abbastanza chiaro che la ricerca in psicoanalisi, se condotta rispettando determinati standard, può insegnarci, tra le altre cose, che essa va colti- vata anche per difendere la psicoanalisi stessa dai suoi detrattori e quindi favorirne lo sviluppo e la diffusione. Sostenere l’utilità della ricerca in psicoanalisi non signi- fica partire dalla convinzione onnipotente che tutto sia spiegabile e misurabile; né credere che l’unicità del rapporto terapeutico possa essere risolta in indici statistici;

né rinunciare allo spirito critico che «pizzica» ricerche empiriche mal disegnate, condotte con strumenti non appropriati e basate su variabili inadeguate.6

Per ragioni di spazio, e dato il carattere di survey di questo contributo, non possiamo illustrare nel dettaglio le singole ricerche e rimandiamo dunque all’am- pia letteratura citata. Per il suo carattere innovativo e in quanto progetto anche italiano menzioniamo nuovamente lo studio da poco avviato dal gruppo romano coordinato da Lingiardi e Gazzillo in collaborazione con il gruppo newyorkese coordinato da Sherwood Waldron. Tale progetto si prefigge di indagare quali sia-

5Il Core Conflictual Relationship Theme (CCRT) di Luborsky è uno dei primi strumenti che ha permesso un’o- perazionalizzazione del transfert (Luborsky & Crits-Christoph, 1998); si applica a trascritti di sedute, o meglio a quelle unità narrative che possono essere considerate «episodi relazionali». Le diverse proposizioni contenute nelle unità nar- rative vengono codificate rispetto a tre componenti: il desiderio, il bisogno o l’intenzione espressa dal soggetto (W:

Wish), la risposta da parte dell’altro (RO: Response from Other) e la reazione del Soggetto stesso (RS: Response of Self).

6Come già accennato, il «verdetto di Dodo», secondo cui tutti i trattamenti sono ugualmente efficaci, sca- turisce da un approccio alla ricerca che non tiene conto della specificità dei diversi modelli di trattamento e non contempla le peculiarità che, nella tecnica come negli obiettivi, caratterizzano gli approcci terapeutici: paragona- re l’outcome di una terapia dinamica con l’outcome di un trattamento farmacologico mirato alla remissione sinto- matica non renderà mai giustizia a un approccio che si propone un cambiamento strutturale del paziente.

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no i fattori terapeutici, sia specifici (per es. le interpretazioni di transfert) sia aspe- cifici (per es. l’alleanza terapeutica), realmente attivi in un trattamento psicoana- litico (vedi Gazzillo et al., 2012b; Waldron et al., in stampa). La ricerca viene condotta su trascritti di sedute interamente audio-registrate di 31 trattamenti psi- coanalitici (condotti in America e in Europa tra gli anni settanta e il 2011) prove- nienti dall’archivio dello Psychoanalytic Research Consortium di New York.

L’esito di ogni trattamento viene valutato attraverso strumenti empirici validi e affidabili tesi a indagare non solo la remissione sintomatica, ma anche i cambia- menti della struttura di personalità, delle relazioni oggettuali, dei meccanismi di difesa. Il processo viene valutato con strumenti, altrettanto validi e affidabili, creati specificatamente per indagare la peculiarità di un trattamento analitico e delle tecniche che lo contraddistinguono (chiarificazioni, interpretazioni, inter- venti sulle difese, sui conflitti, sul transfert ecc.), in modo da poter anche verifica- re la concordanza tra i principali fattori mutativi del trattamento e la teoria di rife- rimento dall’analista che lo ha condotto (per una rassegna di tali strumenti, della loro validità e affidabilità, vedi Dazzi et al., 2006, 2009; Gabbard, 2009; Lingiar- di et al., 2006, 2010, 2011; Waldron et al., in stampa).

Questo tipo di ricerca, che indaga contemporaneamente l’esito e il processo di un trattamento, rappresenta il tentativo di indagare il contributo di fattori tera- peutici, specifici e aspecifici, nel determinare l’esito e l’andamento di terapie psi- coanalitiche ad alta frequenza di sedute e di lunghezza indeterminata. In pratica rappresenta lo sforzo di applicare a un campione più ampio di terapie e di sedute un disegno di ricerca analogo a quelli finora applicati su casi singoli (Lingiardi, 2006; Lingiardi et al., 2006, 2010). Nonostante sia una strategia di ricerca assai onerosa in termini di tempo e di risorse, lo studio intensivo di un congruo numero di casi singoli valutati con strumenti e da prospettive diverse è indispensabile per descrivere e comprendere le dimensioni della personalità e del funzionamento psichico su cui agiscono le terapie psicoanalitiche, i fattori attivi di tali trattamen- ti e gli andamenti medi delle analisi di successo. Il rilievo delle ricadute cliniche dovrebbe essere evidente.

PER UNA CULTURA DELLA RICERCA

«Non posso dare un gran valore a queste conferme […]. Tuttavia, esse non possono fare alcun male» – rispondeva Freud, in modo sbrigativo ma tollerante, allo psicologo americano che gli segnalava la conferma sperimentale della rimo-

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zione. Non troveremmo, oggi, un atteggiamento altrettanto aperto tra molti dei suoi più fedeli seguaci, per i quali le ricerche empiriche, oltre che inutili, sono dannose: «fanno male» alla psicoanalisi. Così come per altri, invece, «fanno bene», ne potenziano le basi e le finalità.

Entrambi dichiarano di difendere «la» psicoanalisi. Ma esiste ancora «la»

psicoanalisi? Forse sarebbe più realistico dire che esistono «le» psicoanalisi, al plurale o, come dice Cooper (2008, 250), una «pluralità di ortodossie», un plura- lismo di modelli teorico-clinici, ciascuno dei quali organizzato intorno al pensie- ro di una qualche autorità di riferimento.

Perciò, anziché domandarci se le ricerche empiriche «fanno bene» o «fanno male» alla psicoanalisi, dovremmo chiederci a «quale» psicoanalisi esse faccia- no bene e a quale facciano male. La ricerca empirica sembra «far male» a un tipo di psicoanalisi che privilegia la decifrazione della realtà psichica inconscia ed è più interessata alla sua capacità conoscitiva rispetto a quella terapeutica; una psi- coanalisi che considera irrilevanti e inappropriati gli apporti che non nascono nella stanza di analisi e che non utilizzano il metodo psicoanalitico (Green, 2003, 2005; vedi anche Ponsi, 2006, 722-725).

Ma la ricerca sembra «far male» anche a un tipo di psicoanalisi che diffida dell’uso del metodo scientifico da un’altra prospettiva, cioè a quella psicoanalisi che rifiuta la mentalità, oggi sempre più diffusa, per la quale è legittima soltanto la conoscenza prodotta con le credenziali della scienza, e cioè una conoscenza

«verificabile», depurata da eccessi di soggettività, variabilità, imprevedibilità.

Un esempio di questo tipo di critica è stato espresso da Irwin Hoffman, analista noto e apprezzato nella comunità psicoanalitica nord-americana per le sue circo- stanziate analisi della dinamica interattiva in una prospettiva costruttivista. Nella sua relazione di apertura a un recente Congresso dell’American Psychoanalytic Association, Hoffman ha dedicato un’accorata difesa a quegli aspetti della situa- zione analitica – come il valore dell’unicità della persona, la variabilità e l’ambi- guità dei significati, la complessità dell’incontro intersoggettivo – che la conno- tano in maniera imprescindibile e non possono venire misurati e quantificati.

Hoffman ha affermato che una volta che si applichino procedure di riduzione dei dati clinici ai parametri dell’oggettività e della misurabilità si finisce con il dare più credito alla ricerca empirica sistematica che al metodo di studio basato sul caso clinico. Così facendo si favorisce la penetrazione nella psicoanalisi di un’i- deologia scientista: un’ideologia che produce «una nuova forma di oggettivismo prescrittivo e autoritario», che limita la libertà e la creatività nel lavoro clinico,

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impoverisce e «inaridisce» l’esperienza; e, alla fine, sopprime il dissenso e il pen- siero critico (Hoffman, 2009, 1044)7.

L’entusiasmo con cui il pubblico del Congresso ha accolto il discorso di Hoffman, al quale ha tributato una standing ovation, ha messo in evidenza come – in contrapposizione al maggior peso accordato ai metodi e ai dati scientifici – stia crescendo tra i clinici un’insofferenza nei confronti di una logica che sembra sminuire il valore di ciò che non è «misurabile».

Lo scenario orwelliano prospettato da Hoffman è stato contestato da Eagle e Wolitzky (2011, 2012) per i quali il pericolo reale che corre la psicoanalisi non è l’assoggettamento all’egemonia autoritaria della scienza, bensì il contrario, e cioè l’autoesclusione dal discorso scientifico; e anche da quello terapeutico, se ci si sottrae all’obbligo, morale e professionale, di fornire prove di efficacia. I due autori concordano sul possibile pericolo, che sta a cuore a Hoffman, di idealizza- re i metodi e i dati delle ricerche empiriche; ma segnalano che c’è anche quello, opposto, di idealizzare gli aspetti idiosincratici dello studio clinico, dove forme di influenzamento autoritario vengono veicolate non tramite l’obbedienza a un potere anonimo e socialmente accreditato, ma tramite l’accettazione acritica di ciò che afferma una personalità di prestigio (Aron, 2012; Eagle e Wolitzky, 2011, 2012; Fonagy, 2013; Hoffman, 2012a, 2012b; Safran, 2012; Vivona, 2012; War- ren, 2012; Walls, 2012).

L’acquiescenza nei confronti di un’ideologia scientista è un rischio che non si evita demonizzando la scienza tout courte mettendo al bando le ricerche empiriche, ma cercando di fare una ricerca migliore, più valida ecologicamente (Vivona, 2012;

Aron, 2012; Luyten et al., 2006a, 2006b; Safran, 2009, 2012). Far uso del pensiero scientifico in modo appropriato – «usare la scienza scientificamente», come dice Vivona (2012, 125) – significa sia considerare psicoanaliticamente rilevanti anche dati non prodotti all’interno della stanza di analisi, sia assumere quei medesimi dati come parziali e provvisori: «se condotti in modo rispettoso della complessità e delle differenze individuali, gli sforzi psicoanalitici nel campo della classificazione dia- gnostica e della ricerca rappresentano un fattore protettivo rispetto a rischi ideologi- ci, dato che la ricerca implica l’impegno all’evidenza empirica e tende a evitare la persuasione carismatica e il dogma» (Lingiardi, 2013a, 128).

7Investire, anche solo per ragioni strategiche, sulla ricerca è pericoloso perché «[…] potremmo sistematica- mente generare una realtà sociale orwelliana, da incubo, in cui il dissenso e il pensiero critico su questi temi diven- terebbero talmente oggetto di disprezzo e di derisione che finirebbero per scomparire dal nostro discorso» (Hoff- man, 2009, 1056, trad. nostra).

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È in questa prospettiva che la ricerca empirica può «far bene» alla psicoanali- si: più precisamente, «fa bene» a un «tipo» di psicoanalisi che, innanzi tutto, ritie- ne che la conoscenza del funzionamento psichico non si produca esclusivamente nella stanza d’analisi, ma che ad essa concorrano metodi di studio diversi; e, secondariamente, che non disconosce né minimizza il fatto di essere un tratta- mento terapeutico che ha la responsabilità di fornire prove di efficacia. Discono- scere o minimizzare questi aspetti può esporre la psicoanalisi al rischio di venire assimilata ad altre pratiche di aiuto alla persona – come l’antroposofia, la consu- lenza filosofica e spirituale, la naturopatia ecc. – che hanno una base scientifica scarsa o nulla (e che, comunque, in genere non ambiscono ad averla), e per le quali il giudizio di validità non è affidato all’efficacia documentata con prove controllate, ma all’adesione a credenze, principi, visioni del mondo, sistemi di valore.

È anche per contrastare uno scivolamento progressivo in questa direzione che sono sempre più numerose e autorevoli le voci di quanti sostengono che si debba uscire dal nostro tradizionale ma «non così splendido, isolamento»

(Fonagy, 2003): coniugare clinica e ricerca non è solo un vantaggio, ma anche una necessità vitale, per lo sviluppo delle terapie psicoanalitiche.8

Perché una cultura della ricerca metta stabilmente le radici nella comunità psicoanalitica è necessario che i clinici diventino capaci di guardare agli studi empirici con curiosità e spirito scientifico. Il dialogo costante con chi fa ricerca empirica permette quel confronto tra punti di vista diversi che è necessario sia per orientare le ricerche su temi rilevanti per i clinici sia per ideare metodologie e stu- di empirici attenti alle specificità teoriche e tecniche della clinica psicoanalitica.9

8Alle molte voci di psicoanalisti si è aggiunta una voce «esterna» e assai autorevole. La rivista Nature, in un recente editoriale (2012, n. 489) ha spezzato una lancia a favore del finanziamento delle ricerche sui trattamenti psicologici: «Gli studi per migliorare la qualità dei trattamenti psicologici sono scandalosamente sotto-sovvenzio- nati», mentre «la letteratura è piena di ricerche che indicano che, in alcuni casi, le terapie psicologiche sono più efficaci dei farmaci e più capaci di prevenire le ricadute» (nostra trad.).

9 Il dialogo va sostenuto con scelte di politica culturale e formativa da parte dell’istituzione psicoanalitica, come ha ripetutamente affermato Kernberg, che ha proposto di introdurre gli studi empirici nei programmi di training: «Non è necessario che ogni clinico diventi un ricercatore, ma, se anche solo l’1-3% degli analisti in trai- ning si impegnasse nella ricerca, questo settore sarebbe significativamente più in grado di affrontare le sfide che ci aspettano» (Kernberg, 2006, 924). Sui molteplici fattori che stanno alla base delle difficoltà a instaurare un profi- cuo scambio fra clinici e ricercatori si sono soffermati molti autori: v. Almond, 2006; Castonguay, 2011; Chiesa, 2010; Chiesa & Fonagy, 2010; Dattilio et al., 2010; Fonagy, 2010, 2013; Fonagy & Lemma, 2012; Gabbard, 1999; Jiménez, 2007; Jurist, 2010; Kernberg 2006; Leuzinger-Bohleber & Target, 2002; Levy et al. 2012; Luyten, 2012; Luyten et al., 2006a, 2006b; Luyten et al., 2012; Safran, 2001, 2012; Shapiro, 2009; Solano, 2005; Spence, 2006; Vivona, 2012.

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Aprirsi alla cultura della ricerca è la sfida che la comunità psicoanalitica dovrà affrontare nei prossimi decenni, trattando il proprio patrimonio di cono- scenze non più solo come un sapere, più o meno dogmatico, da proteggere, ma anche come un insieme complesso di ipotesi da valutare.

SINTESI PAROLE E PAROLE CHIAVE

Nonostante le prime ricerche sull’esito delle psicoterapie siano state condotte negli anni dieci e venti del Novecento proprio da alcuni pionieri della psicoanalisi, a tutt’oggi la conoscenza dei risul- tati degli studi empirici sulla sua efficacia è piuttosto ridotta tra gli stessi psicoanalisti, che hanno privilegiato le conoscenze fondate sui resoconti clinici rispetto a quelle prodotte con gli strumenti della ricerca empirica. Viene presentata una rassegna degli studi più recenti, sia di quelli che inda- gano sull’efficacia dei trattamenti analitici, peraltro ormai ampiamente dimostrata, sia di quelli che si propongono di capire come e per chi il trattamento analitico funziona e di chiarire quali sono i fattori terapeutici realmente attivi. Viene infine discusso il rapporto difficile fra psicoanalisi e ricerca empirica e indicata la necessità di integrare gli studi empirici nel patrimonio clinico e concettuale della psicoanalisi.

PAROLE CHIAVE: Psicoanalisi, ricerca empirica.

THE USEFULNESS OF EMPIRICAL RESEARCH TO PSYCHOANALY SIS. Despite early research endeavors on the results of psychotherapies that were conducted in the 1910s and 1920s by some of the pioneers of psychoanalysis, the knowledge of the results of these empirical studies on efficacy is still today rather minimal among psychoanalysts themselves, who have tended to privilege knowl- edge based on clinical reports over that produced with empirical research tools. A review of more recent studies is presented, both those that investigate the efficacy of analytic treatments, by now widely demonstrated, and those that propose to understand how and for whom analytic treatment works, and to clarify which are the truly operative therapeutic factors. Finally, there is a discussion of the difficult relationship between psychoanalysis and empirical research, and of the necessity of inte- grating empirical studies into the clinical and conceptual property of psychoanalysis.

KEYWORDS: Empirical research, psychoanalysis.

L’UTILITÉ DE LA RECHERCHE EMPIRIQUE POUR LA PSY CHANALYSE. Malgré les premiers étu- des sur les résultats des psychothérapies ont été réalisés dans les années dix et vingt du XXe siècle par des pionniers de la psychanalyse, aujourd’hui la connaissance des résultats des études empiri- ques sur son efficacité est plutôt réduite entre les mêmes psychanalystes, qui ont privilégié les con- naissances fondées sur les rapports cliniques plutôt que celles produites avec les outils de la recher- che empirique. On présente une revue des études les plus récents, ceux qui examinent l’efficacité des traitements analytiques (maintenant largement démontrée), et ceux qui cherchent à com- prendre comment et pour qui le traitement analytique fonctionne, en précisant quels sont les fac- teurs thérapeutiques vraiment actives. On est également examinée la relation difficile entre la psy- chanalyse et la recherche empirique, et soulignée la nécessité d’intégrer les études empiriques dans le patrimoine clinique et théorique de la psychanalyse.

MOTS-CLÉS: Psychanalyse, recherche empirique.

Gli autori ringraziano la dott.ssa Federica Genova per la collaborazione nella redazione del testo.

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SINTESI SPAGNOLA. Nonostante le prime ricerche sull’esito delle psicoterapie siano state condot- te negli anni dieci e venti del Novecento proprio da alcuni pionieri della psicoanalisi, a tutt’oggi la conoscenza dei risultati degli studi empirici sulla sua efficacia è piuttosto ridotta tra gli stessi psicoa- nalisti, che hanno privilegiato le conoscenze fondate sui resoconti clinici rispetto a quelle prodotte con gli strumenti della ricerca empirica. Viene presentata una rassegna degli studi più recenti, sia di quelli che indagano sull’efficacia dei trattamenti analitici, peraltro ormai ampiamente dimostrata, sia di quelli che si propongono di capire come e per chi il trattamento analitico funziona e di chiari- re quali sono i fattori terapeutici realmente attivi. Viene infine discusso il rapporto difficile fra psicoa- nalisi e ricerca empirica e indicata la necessità di integrare gli studi empirici nel patrimonio clinico e concettuale della psicoanalisi.

PAROLE CHIAVE: Psicoanalisi, ricerca empirica.

SINTESI TEDESCA. Nonostante le prime ricerche sull’esito delle psicoterapie siano state condotte negli anni dieci e venti del Novecento proprio da alcuni pionieri della psicoanalisi, a tutt’oggi la conoscenza dei risultati degli studi empirici sulla sua efficacia è piuttosto ridotta tra gli stessi psicoa- nalisti, che hanno privilegiato le conoscenze fondate sui resoconti clinici rispetto a quelle prodotte con gli strumenti della ricerca empirica. Viene presentata una rassegna degli studi più recenti, sia di quelli che indagano sull’efficacia dei trattamenti analitici, peraltro ormai ampiamente dimostrata, sia di quelli che si propongono di capire come e per chi il trattamento analitico funziona e di chiari- re quali sono i fattori terapeutici realmente attivi. Viene infine discusso il rapporto difficile fra psicoa- nalisi e ricerca empirica e indicata la necessità di integrare gli studi empirici nel patrimonio clinico e concettuale della psicoanalisi.

PAROLE CHIAVE: Psicoanalisi, ricerca empirica.

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