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CAPITOLO III LA DISPUTA SULLA MATERNITÀ TRA FEMMINISMO E LETTERATURA

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CAPITOLO III

LA DISPUTA SULLA MATERNITÀ TRA FEMMINISMO E LETTERATURA

3.1 Gli Studi1

La lotta per depenalizzare l’aborto ha caratterizzato interi decenni del secolo scorso e ha rappresentato una delle battaglie più sentite dal Femminismo. Il fronte interno era spaccato tra le favorevoli e le contrarie, che lo definivano come un salvacondotto per gli uomini; alla fine prevalse il primo schieramento e le piazze di tutto l’Occidente risuonarono di slogan pro-choice. Le attiviste non lo hanno mai propagandato come la scelta preferibile a priori; il movimento, infatti, aveva da sempre sostenuto campagne di informazione sessuale volte alla diffusione dei contraccettivi e di una maggiore responsabilità. Il sesso doveva essere una libera espressione del corpo per entrambi i generi, ma non senza consapevolezza delle conseguenze che esso può comportare. La liberazione del corpo femminile non è stata portata avanti con leggerezza: la maggiore conoscenza in fatto di prevenzione, sia delle malattie che delle gravidanze, obbligava a una grande attenzione nella gestione della propria vita privata. Lo scopo delle battaglie era di liberare la donna dall’obbligo della gravidanza, per far sì che essa fosse sempre una scelta e non una costrizione biologica. Era prioritario rovesciare la prospettiva che idealizzava la maternità come una missione riservata a tutte indistintamente e che discriminava coloro le quali non potessero o non volessero avere figli, quasi fossero devianti rispetto alla norma. Per secoli, infatti, alla donna è stato riconosciuto il solo ruolo di genitrice e ciò ha finito col coincidere con la sua unica identità. A partire dalla seconda metà del diciannovesimo secolo le più emancipate si sono

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impegnate per ottenere il diritto di voto; a partire da questi primi timidi tentativi è nato il movimento femminista, che ha portato avanti la causa delle donne fino ai giorni d’oggi.

Una volta ottenuto il suffragio, ci si rese conto che esso poteva essere la base di partenza per nuove conquiste; la liberazione femminile, dopo secoli di subordinazione, non poteva che essere un percorso graduale. Così si è proceduto verso una sempre maggiore apertura della società in termini lavorativi e sociali e solo in tempi relativamente recenti (dagli anni Sessanta in poi), è stata affrontata con attenzione la questione della maternità e le sue implicazioni. Il tema è in sé controverso e tocca due grandi sovrastrutture come la società e la natura, intese come spinte verso la procreazione. La motivazione biologica e quella sociale si sono fuse veicolando un assioma pericoloso: diventare madre è una missione irrinunciabile, che dà senso all’esistenza della donna e rappresenta un obbligo morale verso la società. Il diritto di scelta non sembrava essere contemplato. A tal proposito si esprime la scrittrice afroamericana Toni Cade Bambara:

Psychiatrists and the like, while compiling data on personality traits and behavioral patterns, tend to reinforce rather than challenge social expectations on the subject of woman: they tell us in paper after paper that first and foremost the woman wishes to be the attractive, cared-for companion of a man, that she desires above all motherhood, that her sense of self is nourished by her ability to create a comfortable home. […] The woman who would demand more is “immature”, “anti-social” or “masculine”. 2

Ridurre le donne al ruolo biologico di fattrici non era che una sapiente opera di castrazione, portata avanti in anni in cui esse stavano conquistando spazi sempre maggiori all’interno della società. Pur lavorando, non avevano diritto a un percorso di vita che fosse scevro dall’obbligo del matrimonio e della maternità; le poche che rifuggivano questi stereotipi erano emarginate e tacciate di poca femminilità. Per quelle che decidevano di avere figli, c’erano da affrontare tutta

2

Toni Cade Bambara (ed), The Black Woman: An Anthology, New York, New American Library , 1970, pp. 1-2. Toni Cade Bambara ( all’anagrafe Miltona Mirkin Cade, 1939-1995) è stata una scrittrice e docente afroamericana autrice di romanzi e raccolte di racconti.

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una serie di luoghi comuni che mitizzano l’esperienza del diventare madre senza evidenziarne le intrinseche difficoltà. Joanna Clark si esprime in toni caustici, definendo ciò che precede e segue il parto una “farsa”, un teatrino, una pantomima ben collaudata:

My first words as I came from under the ether after I had my son were, ‘I think I made a mistake’. Unfortunately, since then, and one more child later, I’ve had very little reason to change my mind. This is not to say that children cannot be lovable. It’s not them, it’s all the foolishness that goes on in the name of them. From the beginning, motherhood took on the complexion of a farce.3

Solo un’analisi seria e priva dei soliti luoghi comuni può restituire alle madri un’esperienza genitoriale vera e sincera. Agli uomini la società non ha mai chiesto di scegliere tra il naturale desiderio di una famiglia e la realizzazione personale: diventavano padri senza che questo comportasse un riassetto delle loro vite. Le cause storiche e culturali che hanno legato il destino delle donne alla vita domestica sono note, tali costumi comportamentali oggi possono essere modificati dall’interno grazie all’educazione dei giovani. Le genitrici che educheranno la prole nel segno della parità delle opportunità daranno un grosso contributo a questa causa, tutt’altro che esaurita.

Non si devono scordare gli effetti della “mistica della femminilità”, come definita da Betty Friedan, su intere generazioni di madri e figli, in particolare l’incapacità dei ragazzi di provare interessi e di adoperarsi per un qualsiasi fine.4

3

Joanna Clark, “Motherhood” in Bambara Toni Cade (ed.), op. cit, p. 75. 4

“Mistica della femminilità” è un’espressione creata dalla giornalista Betty Friedan, nonché titolo del suo saggio più famoso. Con essa, si fa riferimento al mito della casalinga propinato alle donne americane a partire dal secondo dopoguerra per far sì che esse rinunciassero al loro percorso di vita e di studi per buttarsi a capofitto nella vita familiare. Le conseguenze sociologiche di questo fenomeno sono analizzate approfonditamente nel saggio di cui sopra. “Some thirty-eight per cent of the prisoners died, a higher prisoner death rate than in any previous American war, including the Revolution. Most prisoner became inert, inactive, withdrawing into little shells they had erected against reality. They did nothing to get food, firewood, keep themselves clean or communicate with each other.” Betty Friedan, The Feminine Mystique, New York, W.W Norton & Co., 1963.

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Nel picco del fenomeno, il disinteresse delle studentesse dei college faceva da contraltare alla dilagante passività tra i soldati inviati in Korea dal 1950 al 1953. Friedan parte dal dato fornitole dalle gerarchie militari, per analizzare le cause di un fenomeno tanto singolare. Sembravano essere venute meno le caratteristiche del soldato Yankee, la capacità adattiva, la resistenza, il coraggio e l’altruismo. Questa mollezza affondava le radici nella mancanza di un’ identità forte e nell’incapacità dei giovani di fare proprio un ideale e combattere per questo. La responsabilità per la mancata creazione di un ego autonomo era da ricercarsi nelle prime educatrici, le madri. Queste genitrici immature avevano cresciuto dei figli dipendenti poiché esse stesse avevano costruito vicariamente la loro personalità. Le nevrosi dei genitori si erano riversate sulla prole in termini di immaturità, incapacità di applicarsi e di vedersi come individui formati. Il tasso sempre più alto di delinquenza giovanile, di abbandono scolastico, di gravidanze e di consumo di droga in contesti borghesi ne era la prova. L’apparente benessere dei suburbs mostrava la sua faccia più inaspettata e spaventosa:

Regularly the more important parent - usually the mother, although the father is always in some way involved - has been seen unconsciously to encourage the amoral or antisocial behavior of the child. The neuronic needs of the parent… are vicariously gratified by the behavior of the child. Such neuronic needs of the parent exist either because of some current inability to satisfy them in the world of adults, or because of the stunting experiences in the parent’s own childhood - or more commonly because of a combination of both these factors. 5

Il processo di disumanizzazione passava dalle madri ai figli e non poteva più essere ignorato o minimizzato poiché ledeva direttamente le nuove generazioni. Scardinare i precetti della mistica della femminilità e perseguire un nuovo ideale femminile si rivela indispensabile:

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It is time to stop exhorting mothers to “love” their children more, and face the paradox between mystique’s demand that women devote themselves completely to their home and their children, and the fact that most of the problems now being treated in child-guidance clinics are solved only when the mothers are helped to develop autonomous interests of their own, and no longer need to fill their emotional needs through their children. 6

L’abitazione in questo contesto assumeva un significato del tutto particolare, una sorta di microcosmo in cui esercitare un ruolo e una funzione che giustificassero l’esistenza stessa. Con il marito a lavoro e i figli a scuola, diventava difficile per le casalinghe trovare un impiego per il loro tempo. La casa, definita come “comfortable concentration camp” rappresentava la rinuncia totale delle giovani ai loro sogni e alle loro aspirazioni in cambio di una via d’uscita alle ansie che l’esistenza poteva procurare.7 Chi non era in grado di affrontare la vita e di sopportare l’incertezza che la governa, cercava un porto sicuro e accogliente nel matrimonio. Alle spose non erano più richiesti compiti difficili, solo di svolgere le stesse mansioni ripetitive e di dedicare ad esse tutte loro stesse. Evidentemente questa scelta non poteva che avere funeste conseguenze sulla crescita personale. Maslow nel formulare la scala dei bisogni pone al gradino più alto l’autorealizzazione come necessità imprescindibile dell’essere umano. 8

I suoi studi vanno oltre, indagando la correlazione tra realizzazione personale e soddisfacimento sessuale. Alle donne è stata negata per secoli la possibilità di vivere una sessualità autonoma, questo perché non si riconosceva loro un’identità propria. La negazione dell’indipendenza femminile e l’impossibilità di gestire il proprio corpo erano quindi strettamente collegate.

What happens if the environment frowns on that courage and strength – sometimes virtually forbids, and seldom actually encourages that growth in the child who is a girl? What happens if human growth is considered antagonistic to femininity, to fulfillment as a woman, to woman’s

6 Betty Friedan, op.cit, pp. 365-366. 7

Ibidem, p. 337.

8

Ibidem, pp.379-395. Abraham Maslow (1908-1970) psicologo statunitense ideatore dello schema piramidale che rappresenta l’ordine gerarchico dei bisogni dell’uomo.

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sexuality? The feminine mystique implies a choice between “being a woman” or risking the pains of human growth.9

Il tema della maternità ha attirato da sempre grande attenzione pur spaccando il movimento in due posizioni antitetiche, una fermamente contraria all’idea di famiglia e l’altra che esaltava e mitizzava il ruolo di madre. Negli ultimi cinquanta anni, con il cambiare della società, la maternità ha mutato forma passando da processo biologico a scelta consapevole. È particolarmente interessante lo studio condotto da Tina Miller e riportato nell’articolo “Is This All What Motherhood Is About?” dove, partendo da considerazioni generali e da luoghi comuni Miller analizza la presunta naturalità e istintività delle cure materne. 10 Nel tentativo di fare chiarezza e restituire un’immagine più veritiera dell’esperienza, la studiosa conduce un’indagine su diciassette donne in tre momenti diversi della loro vita: in gravidanza, subito dopo il parto e a mesi di distanza. Ogni intervento si struttura come un racconto personale, alle intervistate è stato permesso di rileggere quanto precedentemente dichiarato, in modo da potervisi collegare per confermare o smentire. La prima fase del lavoro si occupa di due aspetti principali: la reazione emotiva e fisica alla gravidanza e le aspettative per il futuro. Il secondo punto è quello che si rivela più interessante, perché palesa le convinzioni di ogni singola madre sul momento della nascita e sull’accudimento post-natale. In generale, il parto spaventa, ma la convinzione che sia un gesto

naturale compiuto da millenni sembra lenire la paura. Anche la cura del piccolo genera delle

incertezze, le intervistate si chiedono se saranno preparate e si rispondono che alla fine saranno buone madri sia in virtù della loro preparazione (corsi ospedalieri e simili), sia per intervento del

naturale istinto materno. La seconda fase dell’indagine riporta l’esperienza del parto, da tutte

definito come qualcosa a cui non erano state preparate. Anche quelle che si sentivano pronte, che

9

Betty Friedan, op. cit, p. 382.

10

Tina Miller, “ ‘Is This What Motherhood Is All About?’: Weaving Experiences and Discourse through Transition to First-Time Motherhood”, Gender and Society, Vol.21, No. 3, June 2007, pp. 337-358.

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sapevano di poter gestire il dolore, si sono sentite completamente inermi: “I mean I think secretly I sort of thought I'm quite strong. . . .I'm quite fit. ... I thought I could deal with pain quite well. But it was just beyond anything that I kind of could deal with”.11 Se durante la gravidanza le donne si aggrappano più o meno consapevolmente all’idea di genere che avevano interiorizzato, dopo il dolore del travaglio si rendono conto di quanto di falso ci sia nell’atteggiamento comune verso la maternità. Addirittura una delle intervistate si rivolge così a Miller: “To be honest, even you didn’t tell me”.12

L’accudimento delle primissime settimane è causa di confusione e incertezza: diversamente da ciò che pensavano, la cura di un neonato è meno naturale del previsto. Come Miller tiene a precisare, queste donne non sono irresponsabili o snaturate: amano i loro figli, ma vivono con dolore l’iniziale incapacità a indovinare subito l’esigenza del bambino. Questo non significa che manchino di senso materno, anzi è proprio la loro premura a farle soffrire.

Col passare delle settimane, tutte prendono maggiore confidenza col neonato e acquisiscono maggior fiducia nelle loro capacità genitoriali. La fase finale si snoda nove mesi dopo la nascita dei bambini: tutte hanno raggiunto un alto grado di confidenza nella gestione del loro ruolo e tutte hanno capito che solo l’esperienza diretta insegna loro cosa sia meglio. Asseriscono di aver vinto l’ansia del pediatra e di conoscere bene i figli, tanto da sapere che stanno bene e crescono regolarmente. È poi interessante l’atteggiamento di una di loro, Philippa che si sente più serena nel condividere la gestione della figlia con altri:

So I’m quite happy about doing the right thing. And also because she goes to the nursery as well, this sounds really awful, but I sort of think there are more people involved, it’s not just me anymore. 13

11

Tina Miller, op.cit, p. 348.

12

Ibidem, p.349.

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Per tutte, l’esperienza della maternità si è rivelata molto diversa rispetto a quanto si aspettassero; il bagaglio di luoghi comuni che riguardano l’essere madre nuoce alle donne perché crea aspettative esagerate sulle naturali capacità di gestione del cambiamento. Nel campo della discussione accademica, si possono individuare due orientamenti: quello concettuale e quello empirico. Il primo è l’approccio delle studiose femministe, meno interessate al dato clinico e più alla varietà delle esperienze riportate; il secondo ha una matrice più analitica e indaga la realtà con approccio positivistico.14 Il costruttivismo femminista intende analizzare la realtà limitando l’influenza delle idee dominanti, in particolar modo quella dell’ intensive mothering. 15

L’orientamento accademico femminista ha aperto nuovi orizzonti nell’analisi della maternità e, nell’intento di dare un’immagine il più possibile veritiera, testimonia una vasta gamma di esperienze espressione della complessità del fenomeno. La dedizione totale ai figli e la capacità di sacrificare loro tutto si accompagna a una visione della famiglia idealizzata e fumettistica, la stessa che ci viene propinata da film e pubblicità. Il quadro è molto più articolato: madri single, madri separate, madri lesbiche e madri immigrate rappresentano la nuova realtà che emerge dai dati, a cui si affianca il numero sempre crescente delle donne senza figli considerate “devianti”. Altra devianza riguarderebbe coloro che si sottopongono a pratiche di riproduzione assistita, come portatrici di uno stravolgimento nell’atavico processo di procreazione. Tuttavia i dati della ricerca affermano che il modello tradizionale della famiglia non può più essere considerato l’unico, ma solo uno delle varianti possibili:

By focusing our investigation on mothers’ identities, experiences and activities, and their understandings of each, we can secure far more realistic and less normative portrayals of mothers’ lives than those afforded by sweeping images. At the same time, we need to study the influences

14

Terry Arendell, “Conceiving and Investigating Motherhood: The Decade's Scholarship”, Journal of Marriage and

Family, Vol. 62, No. 4, November 2000, pp. 1192-1207.

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on mothers’ activities and experiences of various political, economic and other social arrangements and developments.16

Il tema, come abbiamo visto, risulta particolarmente problematico e spinoso. La società da una parte continua a difendere modelli atavici e patriarcali, mentre i movimenti di liberazione femminile rivendicano il diritto di trasmettere un’immagine della maternità del tutto nuova. Per rompere lo stereotipo, serve l’apporto di tutte le madri, specialmente quelle nubili, divorziate, lesbiche, ispaniche e afro-americane, che rappresentano i nuovi modelli da integrare ai preesistenti. Tuttavia il movimento femminista non poteva e non può dirsi unito: al suo interno il tema ha scatenato e scatena dibattiti molto accesi. Ann Snitow ha analizzato i vari studi succedutisi nei decenni, le differenze di fondo e le evoluzioni nell’affrontare l’argomento.17 Le madri e le non madri rappresentano due condizioni asimmetriche: le prime tenderanno a censurare le opinioni più negative nell’intento di non ferire i figli; le seconde adottano un punto di vista più razionale ma carente dal punto di vista esperienziale. Di qui l’interrogativo: chi può parlare di maternità? Lo scopo degli studi femministi è quello di creare uno spazio dialogico che sia valido e accessibile a tutte: “building a supportive culture for both the mothers and the non-mothers in a crucial feminist task, but in the rising national babble of pronatalism in the 1980s, listening to the mothers was a project subtly susceptible to co-optation”. 18 Snitow ha individuato tre periodi principali a cui corrispondono tre diversi atteggiamenti di indagine del fenomeno.

Il primo periodo (1963-1974) rappresenta la rottura col pensiero borghese, le tesi ardite, l’atteggiamento anti-famigliare. Sono gli anni in cui sono stati pubblicati i demon books, libri che procureranno una serie infinita di critiche al movimento; tra questi The Feminine Mystique di Betty

16

Terry Arendell, op.cit, p. 1202.

17

Anna Snitow, “Feminism and Motherhood: An American Reading”, Feminist Review, No. 40, Spring 1992, pp. 32-51.

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Friedan e The Dialectic of Sex: The Case for Feminist Revolution di Shulamith Firestone. 19 I testi sono stati parzialmente fraintesi, le autrici hanno in parte modificato i loro messaggi nei saggi successivi, poiché l’atteggiamento di ostilità verso la famiglia non poteva che essere un moto di ribellione momentaneo.

Il secondo lasso di tempo (1976-1980) porta con sé un netto cambiamento di registro: madri e non madri non sono più contrapposte come su due fronti di guerra. Sempre più testi indagano il rapporto di maternità come scelta felice e consapevole, e scindendo l’elemento positivo del

mothering e quello negativo e sessista della motherhood.20 Tra i testi cardine del periodo, Of Woman Born di Adrienne Rich. 21 Il terzo periodo (1980-1990) si apre con l’articolo di Sara Ruddick dal titolo “Maternal Thinking”, un vero canto polifonico sull’esperienza della maternità presentata nelle sue varie sfaccettature. 22 Il testo esce poco prima dell’elezione di Reagan a Presidente degli Stati Uniti, e Ruddick lo definisce da subito un testo anti-reaganiano, poiché il modello di famiglie che propone non è solo quello tradizionale. Padri che si occupano dei figli, madri single e lesbiche sono presentati come nuovi modelli di famiglia che si aggiungono (e non sostituiscono) quelli tradizionali. Ruddick, per quanto presenti un modello positivo, nega con forza l’assioma per cui tutte le donne nascono madri. L’innatismo del senso materno è uno dei grandi luoghi comuni che contribuiscono alla banalizzazione dell’esperienza genitoriale; le donne, infatti, sviluppano una

nurturing identity come risultato delle cure rivolte ai figli e non viceversa. In questi anni, si

pubblicano testi fondamentali sul tema dell’aborto, ma allo stesso tempo gli attivisti pro-choice adattano le loro richieste al clima sociale instaurato da Reagan. L’aborto era presentato come il

19

Betty Friedan, The Feminine Mystique, New York, W.W Norton & Co., 1963; Firestone Shulamith, The Dialectic of

Sex, New York, William Morrow, 1970.

20

Ann Snitow, op. cit, p. 38-39.

21

Adrienne Rich, Of Woman Born: Motherhood as Experience and Institutions, New York, W. W Norton, 1976.

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mezzo che permetteva di decidere di avere figli quando si poteva dare loro il meglio. 23 Solo un decennio prima ciò sarebbe stato impensabile: il rigurgito femminista chiedeva a gran voce i propri diritti, chiedeva di poter scegliere di essere donna e non madre e lo faceva con toni e modi sempre molto accessi. L’intento era di creare una frattura con la concezione borghese della famiglia e perciò le attiviste, le scrittrici e chiunque facesse “cultura” non si lasciava andare ad aperture sulla maternità e sulle sue gioie:

In the 1980’s we have apologized again and again for ever having uttered what we now often name a callow, classist, immature or narcissistic world against mothering. Instead, we have praised the heroism of women raising children alone, or poor, usually both. We have embraced nurturance as an ethic, sometimes wishing that men would share this ethic without much hoping they will, and we have soldiered on, caring for the kids (in the US, more first children were born in 1988 than in any year on record) and continued to do 84 per cent of the housework. Complaints now have a way of sounding monstrous, even perhaps to our own ears. 24

È interessante l’analisi di Cowdery e Knudson-Martin per quanto riguarda la suddivisione del lavoro nelle coppie sposate.25 Le autrici prendono a campione 50 coppie eterosessuali, sposate e con bambini di età inferiore ai cinque anni; alla ricerca partecipano soggetti di diverse etnie come Afroamericani e Ispanici. La prima fase dello studio si concentra sul concetto di eguaglianza e sui vari modi per realizzarla all’interno della famiglia. Tutti i partecipanti si dicono consci della necessità di un rapporto paritario ma nei fatti non tutti lo realizzano. Si individuano tre modelli comportamentali:

- la Traditional Couple, con divisione dei ruoli in base al sesso (16);

23 Rosalind Petchescky, Abortion and Women's Choice: The State, Sexuality, and Reproductive Freedom, New York,

Longman, 1984. Kristen Luker, Abortion and the Politics of Motherhood, Berkeley and London, University of California Press, 1984. Faye Ginsburg, Contested Lives: The Abortion Debate in an American Community, Berkeley and London, University of California Press, 1989.

24

Snitow Ann, op.cit, p.42.

25

Randi S Cowdery, Carmen Knudson-Martin, “The Construction of Motherhood: Tasks, Relational Connection, and Gender Equality”, Family Relations, Vol. 54, No. 3, July 2005, pp. 335-345.

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- la Gender Legacy Couple, che non fa esplicito riferimento al genere ma che opera una netta divisione delle sfere (22);

- la Post Gender Couple, che si basa sulla cooperazione e l’interscambiabilità dei coniugi (12).

Generalmente le coppie Post Gender sono sposate da meno tempo, hanno un numero minore di figli e un livello di istruzione più alto rispetto alle coppie tradizionali. Emergono due diversi atteggiamenti nella cura della prole: come prerogativa tutta femminile dovuta all’ “innato senso materno” o come cooperazione attiva tra i genitori. L’idea che la madre abbia una sensibilità particolare e che quindi sappia istintivamente cosa sia meglio per il piccolo e che debba instaurare con lui/lei una diade simbiotica esclude completamente i mariti dall’accudimento dei bambini. Anche quando questi collaborano, lo fanno per alleviare la fatica della consorte e non con l’intento di creare essi stessi un legame affettivo. Pensare che solo la madre sia importante nei primi mesi/anni di vita è fuorviante, entrambe le presenze sono fondamentali e non solo per il bambino. I padri delle coppie post gender rivendicano la parità nell’accudimento non solo per dare “respiro” alla compagna, ma soprattutto perché vogliono creare un rapporto individuale con il figlio. Le mogli tradizionali avvertono il senso di disparità nella loro condizione, ma non permettono ai loro compagni di costruire una relazione autonoma col neonato senza intervenire o correggerli. Quattro sono i fattori che concorrono al mantenimento dello status quo: la convinzione dell’innatismo del senso materno, il non-intervento paterno, l’organizzazione del tempo intorno ai figli ad opera delle madri e il continuo assumersi responsabilità senza che nessuno le condivida con loro. Se anche nelle coppie parificate si parla di talento femminile, questo non impedisce ai padri di prendersi i propri tempi e spazi con i bambini. Due sono stati i grandi taboo della letteratura femminista: quello di descrivere la felicità dell’esperienza genitoriale e quello di celebrare la validità di una vita senza eredi. L’esperienza di chi non ha figli,

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volontariamente o meno, rimane un tema ancora poco trattato dalla letteratura di genere per quanto sia un fenomeno in crescita.

Gayle Letherby (“involuntarily childless”) e Catherine Williams (“voluntarily childfree”) testimoniano le loro esperienze come non-madri nell’ articolo “Non-Motherhood: Ambivalent Autobiographies” e mettono in risalto le ambiguità tuttora latenti nella società.26 Letherby, pur desiderando molto dei figli, non ne ha mai avuti e ciò ha provocato in lei una dolorosa sensazione di mancanza. Col passare del tempo e con l’impegno profuso nel dottorato in sociologia, Letherby dichiara di avvertire sempre meno quella sensazione di vuoto: anche se il desiderio di famiglia rimaneva, non era più così onnipresente e non vanificava tutti gli altri campi della sua vita. Williams, al contrario di quanto si pensa comunemente dei non-genitori, non ha programmato di non avere figli. Per molto tempo ha rimandato perché la situazione non era giusta o perché non si riteneva pronta. Alla fine il desiderio di maternità non ha vinto su tutte le altre esigenze e prove che la vita le stava proponendo. Il passaggio da una posizione all’altra è stato graduale e per niente vincolato da posizioni ideologiche. Dopo anni, entrambe avevano completamente accettato le loro situazioni ma avvertivano un forte senso di isolamento in presenza di genitori, data la tendenza di questi ultimi a parlare prevalentemente di figli o di tematiche correlate. L’articolo vuole indagare appunto le ambiguità nella definizione di non-motherhood e il senso di esclusione che la condizione spesso comporta. Il punto di vista per cui le donne childless siano da biasimare o considerare meno femminili è difficile da far sparire, la loro condizione continua ad attirare giudizi ambivalenti ora di condanna, ora di compassione.

Molti sono i luoghi comuni da decostruire in merito all’essere genitori. Uno di questi è relativo al concetto di genitorialità come rapporto esclusivo tra il figlio e i genitori. Tale rapporto è attribuito alla natura e perciò considerato immutato e immutabile. Nella società occidentale è

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Gayle Letherby, Catherine Williams, “ Non-Motherhood: Ambivalent Autobiographies”, Feminist Studies, Vol. 25, No. 3, Autumn 1999, pp. 719-728.

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frequente che il bambino instauri un rapporto preferenziale con i genitori e in particolare con la madre, perché ancora oggi è lei a occuparsene in misura maggiore. Nelle civiltà tribali o rurali che vivono nei paesi più poveri il concetto di genitorialità si applica all’intera comunità intesa come “pluralità educativa”. I bambini sono considerati la risorsa e il futuro della tribù e perciò allevati dalla tribù stessa in modo collettivo. 27 I modelli formativi sono influenzati dalla società e dalla scala di bisogni che essa genera. L’economia industriale ha dato vita alla famiglia nucleare perché essa meglio si adatta al contesto dell’industrializzazione. Questo modello ha soppiantato la società contadina, l’economia agricola e la famiglia patriarcale ad essa legata. I due modelli famigliari generatisi sono tra loro diversi perché sono diverse le esigenze e i fini che li caratterizzano. In molte civiltà, la madre non ha un ruolo di primo piano nell’educazione del figlio e ciò non comporta nessun tipo di devianza; infatti non si può confondere ciò che è frutto della società e ciò che è naturale perché i due criteri non collimano.

This linkage between what we conceive to be the nature of childhood and that of parenting is based less on the natural unavoidability of parents for children's survival and well-being as on society's structure and socioeconomic requisites, which not only place children in the context of family, but "parentalize" and, I will add, "maternalize" them. (…) While it may be that mothers are indeed the most important persons and parents in a majority of children’s lives in modern, urban and technological societies, that should not be taken to mean that one mother is a necessity of human nature. 28

I saggi mostrano con quanto interesse siano seguiti la nascita e la crescita dei figli nella nostra società. Le ragioni biologiche di questo interessamento si sommano a quelle culturali e sociali, così che, ad oggi, tutto il processo di crescita dei bambini è seguito con attenzione scientifica e metodica. Persistono però ancora molti luoghi comuni, residui della cultura patriarcale, in merito alla figura della madre e alla sua centralità. Molti degli studi antropologici si stanno adoperando

27

Anne Marie Ambert, “An International Perspective on Parenting: Social Change and Social Constructs”, Journal of

Marriage and Family, Vol. 56, No. 3, August 1994, pp. 530-32.

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per scardinare questa falsa verità naturale, frutto in realtà di precise condizioni sociali: essendo mutati i presupposti sociali, è cambiata la famiglia e la distribuzione dei ruoli all’interno di essa.

3.2 La Letteratura

La letteratura ha da sempre indagato il tema dei rapporti famigliari. La famiglia è cambiata e sta cambiando, ma per interi secoli i ruoli all’interno di essa sono rimasti immutati perché connessi a una realtà contadina che si è andata perdendo solo nell’ultimo cinquantennio. La suddivisione dei lavori era netta: il marito lavorava la terra, la moglie si occupava della casa e dei figli. Questo non significa che non svolgesse anche attività collaterali come la cura del bestiame e la vendita di uova e piccoli manufatti. Le attività femminili, per quanto indispensabili al menage domestico, non erano riconosciute come vero e proprio lavoro e perciò non conferivano alcun potere decisionale. Quale poteva essere il rapporto madre-figlia in un contesto del genere? Quali le dinamiche affettive e/o di contrasto? Judith Kegan Gardiner parla di “matrophobia”, ovvero il terrore delle figlie di diventare (come le loro) genitrici29. Come in un mito di Edipo rovesciato, la figlia “uccide” la madre per non doverne prendere il posto e fa ciò non identificandosi con lei.

Psicologi e sociologi individuano quattro principali aree problematiche in questo rapporto: la rabbia originaria, la perdita del confine del sé, la socializzazione in base al ruolo sessuale e l’impossibilità di creare un legame erotico da adulti. La rabbia originaria è stata mascherata e sublimata nelle fiabe attraverso la figura della matrigna, l’antagonista che ruba l’amore e le attenzioni del padre. Il confine del sé fa riferimento all’incapacità delle giovani di vedere le loro madri come donne, oltre che come “angeli del focolare”:

29

Judith Kegan Gardiner, “A Wake for Mother: The Maternal Deathbed in Women's Fiction”, Feminist Studies, Vol. 4, No. 2, June 1978, pp. 146-147.

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Daughters recently interviewed by Judith Pildes could not imagine their mothers as persons or their mothers' views of them outside of the mother-daughter relationship. Each daughter's attempt to form a separate identity is also impeded because she must learn what having a female body means in her society in terms of the psychological traits that are considered appropriate for her and the social roles that she will be expected to fulfill.30

Daughter of Earth è uno dei primi testi che tratta questo difficile argomento. 31 È un romanzo velatamente autobiografico, in cui le vicende della protagonista Marie Rogers rimandano alle esperienze della scrittrice Agnes Smedley. La vicenda ha inizio intorno al 1890, i Rogers vivono in Missouri, dove sopravvivono lavorando la terra. Marie è la seconda di cinque figli, la sua infanzia è sospesa tra le violenze domestiche e i continui spostamenti della famiglia ala ricerca di migliori condizioni i vita. Marie frequenta con profitto la scuola, ma proprio lì si rende conto delle enormi differenze sociali tra la sua famiglia e le altre. Il matrimonio dei genitori non è felice, il padre è violento e la madre riversa sulla prole la propria frustrazione e umiliazione. Quando con loro va a vivere la zia Helen, Marie la prende a modello: è una donna che lavora e che per questo può farsi rispettare, anche dagli uomini. Tuttavia, quando diventa noto che Helen è una prostituta, John Rogers la caccia definitivamente dalla sua casa. Mentre la sorella Annie si sposa appena sedicenne, Marie si sposta in New Mexico per lavorare come insegnante e inseguire finalmente il suo sogno di autonomia e felicità. Sarà la scoperta della malattia della madre a riportarla a casa, dove rimane per vegliarla fino alla morte. Costantemente contesa tra la voglia di indipendenza e il desiderio di aiutare la famiglia, Marie manda denaro ai fratellini e cerca di aiutarli senza perdere di vista se stessa e la sua ambizione. Conosce Knut e Karin Larson e con loro si trasferisce a San Francisco. Sposa Knut e con lui desidera instaurare un rapporto paritario in cui il ruolo di moglie e marito abbiano lo stesso peso. Invita la sorella Beatrice a vivere con lei per consentirle di studiare e per lenire quel forte senso di colpa che nutre verso i fratelli minori. Abortisce due volte rifiutando il

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Judith Kegan Gardiner, op.cit, p. 148.

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ruolo di genitrice che la vita le ha imposto da quando sua madre è mancata. Il matrimonio con Knut , per quanto basato sulla parità e libertà dei coniugi, naufraga miseramente e Marie comincia a occuparsi del movimento per l’indipendenza dell’India. Si sposta a New York, dove studia e lavora come stenografa e giornalista per The Call. Si appassiona sempre di più alla questione indiana e al socialismo; conosce e sposa Anand Manvekar ma anche questo rapporto non si rivela duraturo.32 Gli uomini di Marie, per quanto istruiti e libertari, non riescono ad accettare fino in fondo la profonda autonomia della donna e il suo rifiuto per il ruolo della moglie/oggetto che la società vorrebbe imporle, rifiuto che trae origine dal rapporto di Marie con la madre Elly. La loro relazione è sempre stata complessa, violenta, talvolta priva di affetto ed empatia; solo a causa dell’abbandono del padre le due si avvicinano per riuscire a sopravvivere. La rabbia della figlia verso la madre per aver accettato passivamente un passato di violenza e povertà e per averlo imposto a lei è troppo grande perché si possa creare una maturità affettiva. Anche quando collaborano, è sempre per la “famiglia” e mai per creare un vero legame. Tuttavia, col passare degli anni, Marie vede sempre di più la madre come una vittima e quando la assiste sul letto di morte ne ha la piena consapevolezza: Elly muore di malnutrizione dopo aver condotto una vita di stenti. Dopo la sua morte, Marie è contesa tra il desiderio di autoaffermazione e il senso di colpa verso i fratelli lasciati col padre, tra il desiderio d’amore e il rifiuto per il ruolo che gli uomini vorrebbero cucirle addosso. La sua rabbia adesso si rivolge verso quella società ingiusta che affama e uccide i più deboli, in America (i suoi famigliari) e in tutto il mondo (in India, in Cina). Rivendica il diritto di scegliere e di costruire la propria vita con esperienze diverse, proprio come il “crazy quilt” che la madre cuciva mettendo insieme pezzi di stoffe differenti. 33 Quello del “quilt” è

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Anand è un rivoluzionario Indiano, le sue idee libertarie si riferiscono anche alle donne: senza la loro piena autonomia nessun progresso è possibile. Conosce Marie all’interno del movimento per l’indipendenza dell’India e poco dopo i due si sposano. Benchè animati dagli stessi ideali, il matrimonio naufraga perché Anand non riesce a superare il fatto che Marie sia stata stuprata da un loro comune compagno di lotta. L’incapacità di accettare la violenza subito dalla moglie smaschera il sessismo di Anand.

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un tema che ricorre spesso nella Letteratura Americana scritta da donne e nelle canzoni popolari come in “A Coat of Many Colors” di Dolly Parton. La cantante ricorda il cappotto che sua mamma le ha cucito mettendo insieme brandelli di stoffa varia. Nel cucirlo, la madre le raccontava storie tratte dalla Bibbia, convincendola che quel cappotto le avrebbe portato felicità e fortuna. Fiera del suo paltò nuovo, la giovane si reca a scuola, ma i compagni la prendono in giro, anche quando lei prova a trasmettere loro un po’ del suo entusiasmo. L’amore con cui era stato confezionato e la magia delle storie che la madre le aveva narrato rendevano quel semplice indumento così prezioso, da far sentire Dolly infinitamente ricca.

But they didn’t understand it And I tried to make them see That one is only poor

Only if they choose to be Now I know we had no money But I was rich as I could be In my coat of many colors My momma made for me Just for me 34

Nel racconto “Everyday Use” Alice Walker utilizza il quilt come metafora delle tradizioni famigliari e dei diversi atteggiamenti verso di esse. 35 La primogenita Dee fa visita alla madre e a sua sorella Maggie. Dee è brillante, emancipata, determinata e nella vita è riuscita a costruirsi una posizione. Maggie è il suo contrario, timida, introversa, priva di fascino e di acume. La voce narrante ricorda come le due sorelle siano cresciute in modo così diverso, senza sviluppare quella

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Dolly Parton, “A Coat of Many Colors”, 1971.

35

Alice Walker, “Everyday Use”, in Barbara Christian (ed.), Women Writers Texts and Contexts, New Brunswick, Rutgers University Press, 1994.

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confidenza e solidarietà che scaturisce dall’affetto sororale. Madre e figlia temono il giudizio di Dee, come se fossero loro stesse vittime della forza caratteriale e dell’immagine vittoriosa che lei emana. Lei si presenta accompagnata dal marito e chiede di essere chiamata col suo nuovo nome, Wangero Leewanika Kemanjo, quello che ha scelto per onorare le origini africane. Una volta oltrepassata la soglia di casa, molti oggetti di uso quotidiano che da sempre avevano fatto parte dell’arredamento attirano la sua attenzione. In particolare, chiede di poter avere due quilts che erano stati cuciti anni addietro da sua zia e sua nonna. Quelle coperte erano state serbate con cura per lei e Maggie, ma quando una le era stata offerta alla partenza per il college l’aveva liquidata come out of fashion. Adesso quelle stesse trapunte (definite priceless) sono un oggetto agognato e ricco di significato. La madre, incuriosita da questo improvviso interesse, fa presente alla primogenita che i quilts erano destinati a Maggie per il suo imminente matrimonio. La reazione di Dee-Wangero è furiosa: accusa le due donne di non capire il valore di quell’oggetto e di ciò che rappresenta. Le due coperte, alla fine, saranno destinate a Maggie, perché le userà e nel fare ciò manterrà vive le tradizioni famigliari. È nell’uso quotidiano (Everyday Use appunto) che si mantengono forti e si tramandano le proprie radici.

[…] …every morning I awoke to these October ripened canvases

Passed my hand across their cloth faces And began to wonder how you pieced All these together

These strips of gentle communion cotton and flannel Nightgowns

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Dime store velvets […] 36

36

Theresa Palma Acosta, “My Mother Pieced Quilts” Festival de Flor y Canto, University of Southern California Press, n.d.

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