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Academic year: 2021

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CAPITOLO V

I NOSTRI MECCANISMI COMPORTAMENTALI

Il nostro comportamento non è che la sofisticata versione di analoghi meccanismi presenti anche negli animali più semplici. Le nostre prestazioni mentali non sono altro che il risultato di circuiti sempre più complessi, ma fondamentalmente

omogenei a quelli degli altri animali. Ciò che di più sorprendente è successo grazie a queste trasformazioni è stato però lo sganciamento dalle rigide alternative

predisposte dal nostro genoma e perfino una certa capacità di controllo di alcuni nostri meccanismi comportamentali fino ad allora automatici o semiautomatici. In questo modo è nata la nostra libertà, che è una libertà relativa, misurabile

attraverso il maggior numero di possibilità comportamentali. EQUILIBRIO OMEOSTATICO

"Una delle caratteristiche più interessanti di un organismo pluricellulare è la sua capacità di conservare un suo equilibrio interno, mantenendo il più possibile costanti un certo numero di sue caratteristiche interne, indipendentemente dalle variazioni esterne. Questa costanza dell'ambiente interno, detta anche omeòstasi, rappresenta una delle caratteristiche più significative e discriminanti degli organismi viventi"1.Ciò avviene in maniera automatica e

istintiva negli organismi più elementari, ma viene gestito da meccanismi sempre più complessi e sempre meno automatici man mano che saliamo nella scala evolutiva, tanto da dar luogo a veri e propri comportamenti. Capiamo bene quanto questi meccanismi siano importanti: provocano una reazione a ciò che è esterno ed estraneo, in funzione del ripristino dell'equilibrio; fondano quindi l'intero comportamento!

Ogni nostra azione, così come l'azione di qualsiasi altro animale, è di questo tipo. Prendere del cibo, evitare il troppo caldo o il troppo freddo, scappare da un pericolo, avvicinarsi ad un partner

sessuale: tutto ciò avviene grazie ad una precisa motivazione, che consiste nella ricerca del piacere o nella fuga dal dolore, che sono funzionali alla sopravvivenza. Negli animali inferiori l'equilibrio omeostatico è dettato strettamente dagli istinti, mentre in noi avviene attraverso un sistema di propensioni e di avversioni che si basa su bisogni, premi e punizioni.

I bisogni sono spinte motivazionali primarie come mangiare, bere, dormire, muoversi, scaldarsi, fare sesso, etc., la cui soddisfazione genera piacere. Ricercando il piacere, attraverso la soddisfazione dei bisogni, tendiamo a tutelare la nostra sopravvivenza. Però il piacere è autonomo e distinguibile dai bisogni, com'è evidente nei topi di laboratorio che quando imparano a produrre piacere a volontà dimenticano perfino di mangiare e cadono esausti. Altrettanto è per noi, in quanto cerchiamo il piacere indipendentemente da ciò che ci fa bene o che ci fa male e da ciò che riteniamo giusto o ingiusto. C'è un fascio di nervi alla base della nostra corteccia,

chiamato "fascio dopaminergico mesocorticolimbico", la cui stimolazione produce dopamina, che dà piacere e crea il bisogno del piacere come dipendenza, in maniera analoga alle droghe e al tabacco. (Si può forse dire che il piacere sfugga alla regola che tutto è finalizzato alla sopravvivenza? Abbiamo visto che anche l' "amore romantico" può disubbidire agli istinti, compreso quello di sopravvivenza, ma in tal caso ciò può dipendere da una componente razionale e inibitoria che invece col piacere ha poco a che fare. Dato il potere straordinario del piacere, da solo potrebbe mettere a repentaglio

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l'intera costruzione...)

Mentre i bisogni e le spinte motivazionali ad essi associati sono quasi irriducibili, non possono cioè essere granché contrastati, i premi e le punizioni, escluso il dolore, si comportano come stimoli condizionati e sono parzialmente modificabili. Ciò che ci è gradito o sgradito deriva infatti da una valutazione - che presenta sempre sia un aspetto cognitivo che un aspetto emotivo - e la cui educabilità durante lo sviluppo biologico e la prima infanzia è "quasi illimitata"2. Su di essi può

dunque essere esercitato un controllo sociale e razionale. I premi consistono in soddisfazioni di bisogni ed emozioni positive.

Le punizioni consistono in emozioni negative e dolore, e quest'ultimo è imprescindibile. Stress e dolore producono endorfine e encefaline, che sono anch'esse sostanze premianti perché inducono ottundimento o euforia, interferendo col circuito della dopamina. Quindi piacere e dolore non risultano nettamente separabili e distinguibili, ma dipendono dalla nostra valutazione di ciò che ci è gradito o sgradito.

Alcuni speciali recettori, chiamati nocicettori, rilevano gli stimoli dolorosi e li inviano al cervello, e lo fanno attraverso due differenti componenti e due percorsi separati: una componente sensoriale-discriminatoria che analizza e localizza il dolore, che arriva alla corteccia somatosensoriale, l'altra affettivo-motivazionale che ingiunge di eliminarlo o quanto meno di ridurlo e che arriva invece al sistema limbico. Mentre la corteccia somatosensoriale che fa capo alla prima componente ha campi recettivi piccoli e ben localizzati, la regione del cingolo a cui confluisce la seconda componente ne ha di ampi che corrispondono più o meno all'intero corpo. Infatti ciò che è cognitivo è di solito caratterizzato da una natura quantitativa e dettagliata, mentre ciò che è emotivo ha una natura qualitativa e approssimativa3. Ma arrivate al cervello, queste due componenti si mischiano e vi si

aggiunge anche una componente valutativa, stavolta di tipo schiettamente razionale, che dipende dalle nostre esperienze e dalla nostra cultura, e che ha un potere straordinario ad esempio nel minimizzare o ingigantire il dolore. Questo non è che un esempio di come tutte le nostre percezioni ci pervengano attraverso due differenti canali, che interessano il cervello in maniera diversa e che Boncinelli definisce spesso come le "due vie", su cui poi torneremo4.

Se dunque dal sistema di premi e punizioni noi escludiamo spinte primarie, bisogni e dolore in quanto non negoziabili, alla nostra razionalità, se vuole intervenire a decidere sul nostro comportamento, non rimane che lavorare sul meccanismo del piacere e quindi sulle emozioni, positive o negative. Alla base della nostra libertà ci sarebbero dunque le emozioni, qualora vengano manovrate dalla nostra razionalità in maniera deliberata.

Le emozioni, che ci piaccia o no, sono la parte preponderante della nostra vita5, “costituiscono il

commento somatico e mentale individuale alle diverse vicende del nostro vivere, un

commento che si presenta come consuntivo e come preventivo: questo ci piace, questo non ci piace, questo verosimilmente ci piacerà, questo non ci piacerà, questo si dovrebbe

perseguire, questo si dovrebbe fuggire o attutire.

Le varie emozioni hanno quindi una funzione di valutazione e di ingiunzione che ne fanno il sale della vita e servono per impostare tanto valutazioni retroattive, quanto previsioni e

progetti per il nostro comportamento generale o specifico, ovviamente in collaborazione più o

2 "Mi ritorno in mente", pag. 86. 3 "Mi ritorno in mente", pag. 91. 4 Da pag. 115.

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meno stretta con le funzioni cognitive della nostra mente e della nostra coscienza.”6

Ogni emozione esprime dunque una valutazione, sulla base della nostra memoria - in rapporto al ricordo di situazioni simili precedenti - ma anche sulla base della nostra razionalità, di ciò che ci è gradito o sgradito, che ci apporta piacere o dispiacere, ed è dunque legata al fenomeno dell'aspettativa.

IL CERVELLO E LA MENTE

Afferma Boncinelli:"La mente è per me l'unica cosa importante da studiare"7 e infatti nel

tempo se ne è occupato come abbiamo visto in tutti i modi: come biologo, come neurologo e come psicoterapeuta.

Le fonti di ciò che sappiamo sulla mente sono grosso modo tre: 1) la psicologia sperimentale, la biologia e la neurobiologia, 2) l'informatica e l'intelligenza artificiale, 3) le nuove tecniche di neuroimmagini (brain imaging o neuroimaging :TAC, PET, etc). Queste ultime si basano

sull'osservazione che fece Angelo Mosso che l'attività cerebrale comporta un maggior afflusso di sangue, e anche di temperatura, nelle parti coinvolte. Esse hanno reso possibile l'individuazione delle aree funzionali che oggi conosciamo, anche se purtroppo non permettono di vedere eventi inferiori ai 2-3 millimetri o a qualche secondo di durata.

Boncinelli pensa che la mente, come tutte le attività mentali, sia una proprietà emergente del sistema nervoso e della sua attività elettrochimica8, e anche se ciò non è finora provato ogni nuovo

risultato – ci dice - sembra confermarlo9. Occorre dunque "naturalizzare l'epistemologia"10, perché

per studiare la mente e l'anima dell'uomo non si può prescindere dalle sua biologia evolutiva, in quanto tutto è riducibile al cervello; e si deve adottare un metodo scientifico, di verifica costante. Scrive infatti: "Tutta l'attività nervosa è basata su una trasmissione di segnali nervosi, da una cellula all'altra, con una certa velocità e una certa frequenza. Chi pensava che dietro il pensiero, la memoria e anche la creatività si nascondesse chissà che cosa, è rimasto piuttosto deluso: non si tratta che di una selva – ordinata per dire la verità – di onde elettriche che si inseguono e si intersecano."11

"Penso da sempre che la mente sia riducibile al cervello"12 e chiede: "Che senso ha separare

una mente, con uno statuto ontologico particolare, dal cervello, dal momento che un apparecchio materiale, che utilizza solo meccanismi e principi fisico-chimici, può mettere concretamente in pratica l'attività di una persona?13" (si riferisce qui alle sempre più numerose e

prodigiose neuroprotesi che permettono azioni a chi è paralizzato).

Eppure noi sentiamo l'esigenza di parlare di una mente come qualcosa di separato dal cervello, e ciò deriva dalla credenza, dura a morire, che ci sia un agente centrale che presiede le varie attività mentali e che deriva dal concetto religioso di anima14. La mente sarebbe dunque per noi una specie

di surrogato dell'anima. Le domande in cui Boncinelli s'imbatte sono: esiste un'entità o una funzione che presiede le nostre attività mentali? E se sì, è forse espletata dalla mente, che dunque sarebbe qualcosa di diverso dal cervello?

6 "Mi ritorno in mente", pagg. 80/81. 7 "E ora?", pag. 97.

8 "Verso l'immortalità", pag. 126.

9 Vedi a pag. 128 e 130 di "Verso l'immortalità".

10 Pag. 220 di "Perché non possiamo non dirci darwinisti". 11 "Mi ritorno in mente", pag. 29.

12 "L'universo della coscienza" a pag. 44. 13 "Mi ritorno in mente", pag.71.

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Ne "La serva padrona " a pagina 121 sostiene che così come Newton ha sconfitto il pregiudizio che cose terrene e cose celesti siano totalmente diverse affermando che le stesse leggi che valgono tra la Terra e la Luna valgono anche tra i restanti pianeti, adesso noi cerchiamo di sconfiggere un analogo pregiudizio col cervello e la mente, mostrando che tutto quanto è riconducibile alle cose materiali. Il cervello è un organo, mentre la mente è il complesso delle attività mentali superiori, anche se tale definizione è tautologica. Il cervello è prevalentemente, anche se non esclusivamente, il prodotto dei geni, mentre la mente è molto più influenzata dall'istruzione e dall'educazione, cioè

dall'ambiente15. La mente è certamente il prodotto del cervello, dunque dei geni, ma anche di

educazione e caso16. Dunque essa gode, rispetto al cervello, di una maggior autonomia

dal genetico.

Solo una minima parte delle attività della mente è cosciente, ma certamente nulla di ciò che avviene nella mente sfugge alle trasmissioni sinaptiche: "L'esistenza di un principio ordinatore superiore non può essere esclusa senza il ricorso ad assunti metafisici, ma non è assolutamente necessaria per spiegare ciò che accade. Fino adesso niente è successo nella nostra testa, in quella degli animali più studiati o nei circuiti dei calcolatori e robot che richieda una

spiegazione di tipo diverso. Si osservano soltanto segnali nervosi che percorrono circuiti nervosi, inseguendosi e incrociandosi senza sosta e a ritmo piuttosto sostenuto."17

Perfino le funzioni più alte della mente poggiano, come le altre, su quelle automatiche o semiautomatiche18.

Sappiamo che la nostra mente è capace di spiegare anche ciò che travalica le nostre necessità di sopravvivenza, cosicché abbiamo finito per comprendere anche ciò che non corrisponde al nostro intuito, che appartiene cioè a piani di realtà che non fanno parte della nostra esperienza, per i quali il nostro cervello non sarebbe attrezzato. Siamo animali a cui è cresciuto un po' troppo il cervello, senza che ce ne fosse necessità - cioè senza alcuna ragione di sopravvivenza - e vogliamo capire e talvolta capiamo anche ciò che non si potrebbe capire - vista la nostra inadeguatezza - in ordini di grandezza molto lontani dal nostro. Se ci riusciamo è grazie alla logica e alla sperimentazione, che sono possibili solo nel Collettivo e che permettono agli individui di progredire l'uno grazie all'altro. Questa capacità è "la magia più grande", che più ci stupisce e ci esalta.

Il cervello trasforma uno stimolo fisico in segnale nervoso, quindi in informazione; di nuovo ci troviamo di fronte alla conversione di una componente fondamentale della realtà in una componente di altro tipo, stavolta in senso inverso a ciò che avviene col codice genetico, dove il DNA produce le proteine. Il cervello è il luogo, ci dice Boncinelli, in cui ciò che è materiale si trasforma in mentale, senza più alcun mistero.

Al Festival di Sarzana del 2010, trascritto nella rivista "Micromega" n° 7/2010, esordisce proprio con una definizione di mente (in generale): "è tutto ciò che accade nella nostra testa", comprese le emozioni19.

Il cervello è un insieme di cellule che si parlano e comunicano informazione, la quale è una

grandezza fisica, come l'energia e come questa è misurabile20. La sua unità di misura è il byte. Essa

ci arriva dall'esterno attraverso i sensi, i quali pongono domande precostituite in base alle istruzioni del nostro genoma. Ciò vuol dire che quel che è genetico e a priori precede e rende

15 Pagg. 157 e 158 de "La serva padrona". 16 Pag. 72 di "Pensare l'invisibile". 17 "Mi ritorno in mente", pag.61. 18 "Quel che resta dell'anima", pag. 65.

19 Questa definizione coincide dunque con quella di pensiero. 20 Pag. 186 di "Micromega" 7/2010.

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possibile l'esperienza. È infatti il nostro patrimonio genetico che interroga la realtà attraverso i sensi. Ciò che percepiamo non è tutto ciò che è percepibile, ma è ciò che gli istinti vogliono che percepiamo, in base – come vedremo - a criteri di pertinenza (che sono qualitativi) e di rilevanza (che sono quantitativi) finalizzati alla sopravvivenza. A farci percepire alcune cose piuttosto che altre, grazie ad uno sforzo attenzionale, concorrono poi, in noi e negli animali superiori, le nostre emozioni e moti affettivi - che segnalano ciò che ci è gradito o meno - ed infine anche la nostra razionalità.

La mente è data dalle percezioni che arrivano dai sensi e che sono discontinue e discrete,

dall'attività della corteccia che le unifica e che, attraverso la sua parte frontale, associa, confronta, immagina e crea21; infine dalla memoria: la mente è tutto questo.

In "Mi ritorno in mente", a pagina 19, dà un'ulteriore definizione di mente: "La possiamo definire provvisoriamente come l'insieme delle attività del cervello, tutte o con qualche distinzione, ma anche come la potenzialità di compierle." È dunque anch'essa una funzione mista, percettiva ma sempre finalizzata al movimento.

Certamente la mente "sta nel cervello", ed è qualcosa di più, perché è il nostro cervello più tutti gli impulsi che provengono dal nostro corpo e che arrivano dai nervi e dalle ghiandole. La maggior parte delle funzioni della mente non è cosciente. Si tratta di un'attività che ha due componenti: una più razionale – e in tal caso le neuroscienze parlano di “mente computazionale” - e un'altra più passionale ed emotiva, che si appoggia non solo sul cervello ma sul sistema nervoso in generale e sulle ghiandole – e si parla in tal caso più propriamente di “mente fenomenica”, ma anche di “psiche” o di animo-.

In realtà per Boncinelli questa distinzione è puramente teorica, perché non esiste nessuna razionalità in noi sganciata completamente dall'emotività e viceversa; ma egli decide comunque di distinguere convenzionalmente le due cose e di limitare il termine "mente" al suo uso più logico e calcolatore, cioè alla mente computazionale. È su suggerimento di Giorello che Boncinelli accetta di definire la stessa razionalità come qualità emergente: emergerebbe dall'emotività22, e con ciò ribadisce

che l'origine del mentale è fisica e corporea, ma anche che razionalità e mondo emotivo sono riducibili ad un fenomeno unico.

Queste due attività fanno capo a organi differenti: le attività deduttive sono prevalentemente

corticali, mentre la vita emotiva pertiene al sistema limbico e all'amigdala, che sono aree di cervello più antiche rispetto alla corteccia, la quale però, essendosi formata evolutivamente per ultima, avvolge tutto il resto come un mantello interferendovi sempre e comunque (è questa la ragione per cui, secondo Boncinelli, possiamo intervenire sulle nostre paure rieducandoci attraverso l'uso della ragione).

La mente propriamente detta non coincide dunque con la psiche e ne rappresenta solo una minima parte; la psiche è molto più ampia e sta nell'intero corpo ed è molto più difficile da capire e forse non verrà mai capita, ed è quella "che ti fa agire in un modo anche se sei convinto che dovresti agire in un altro, che ti fa soffrire, che in certi casi t'impedisce di uscire di casa e così via"23

(da questa descrizione, la psiche sembra fatta solo per combinare guai!).

La parte computazionale della mente verrà sicuramente studiata dalla scienza in maniera proficua in un prossimo futuro, mentre questo non è detto che possa mai succedere per la parte

fenomenologica, cioè per la parte più espressamente emotiva. E questo è strano, perché se le emozioni sono più legate al corpo dovrebbero essere anche più oggettivabili.

Tuttavia Boncinelli afferma di sperare che si trovino le basi fisiche perfino di sentimenti come

21 Pag. 194 di "Micromega" 7/2010. 22 "Lo scimmione intelligente", pag. 87. 23 "E ora?", pagg. 97-98.

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invidia e gelosia24.

Un'altra possibile definizione di mente è: l'insieme dei segnali nervosi, cioè l'attività mentale25. I

segnali nervosi, ci dice in "Pensare l'invisibile" a pagina 42, sono generati da uno spostamento sull'assone di ioni sodio e di ioni potassio, in base al comando dei pori che si aprono e si chiudono e che altro non sono che piccole associazioni di sei-sette proteine, e da qui è già evidente che nel funzionamento del cervello non c'è niente di mistico. Nel cervello si assiste al salto dal materiale al mentale e l'elettrofisiologia insegna che la stimolazione elettrica di alcune cellule nervose provoca sensazioni che invece sembrano giungere dall'esterno o da altre parti del corpo.

E memoria ed apprendimento dove si collocano? Non lo sappiamo, risponde, ma secondo le neuroscienze probabilmente costituiscono l'architettura delle nostre sinapsi che hanno formato e continuamente modificano il nostro cervello.

Il segnale nervoso contiene informazione, che come abbiamo detto "è un parametro fisico fondamentale", introdotto ufficialmente poco più di cinquant'anni fa, senza il quale non

esisterebbe la vita, perché da sole, senza il DNA, materia ed energia non bastano26. Al termine del

percorso del segnale ci sarà quasi sempre un comando operativo e motorio, come fare o non fare questo o quest'altro, perché tutto il sistema nervoso è finalizzato all'azione.

L'informazione diventa “comunicazione” quando è indirizzata ad un determinato ricevente ed è finalizzata ad un risultato che si vuole ottenere. Ad un livello molecolare o submolecolare e al livello di singoli circuiti nervosi il più delle volte tale finalità sembra esclusa, mentre essa "può nascere forse se si considera l'insieme dei vari circuiti nervosi o il corpo nel suo complesso". Essa compare prepotentemente a livello di organizzazione superiore, cioè a livello di organismo globale, dunque come qualità emergente. Com'è possibile? Come si passa dall'assenza alla presenza evidente di progettualità? Com'è possibile che al livello molecolare tutto funzioni perfettamente senza che ci sia uno scopo e una finalità? Tutto ciò avviene semplicemente ad opera della selezione naturale27. Di nuovo scopriamo una sorprendente e quasi magica capacità della

selezione: trasforma l'informazione in comunicazione, inserisce la progettualità dove non c'era! Quest'argomento è analogo a quello già visto della casualità delle mutazioni, che allorché vengono scelte dalla selezione in rapporto alla

sopravvivenza paiono assumere una loro finalità. Ma trascina con sé un'altra

domanda: come si passa dall'inconscio alla consapevolezza, dall'automatismo fisico all'intenzione? Se infatti l'informazione funziona anche quando ancora non c'è

comunicazione, che arriva storicamente dopo ma che risulta in linea col risultato del precedente automatismo, è fin da qui evidente che progettualità, intenzione e consapevolezza, in quanto qualità emergenti, non determinano il nostro

comportamento, ma tutt'al più lo accompagnano, vi si sovrappongono, lo commentano, ci danno l'illusione di dirigerlo.

La selezione naturale assieme ad altri meccanismi evolutivi tiene tutto sotto controllo, eliminando e soprattutto non permettendo la riproduzione di ciò che non funziona. È in base a questo

meccanismo che l'informazione "può potenzialmente divenire comunicazione"28. Questo è

secondo Boncinelli uno dei passaggi più difficili da digerire della moderna biologia: si nega finalità e progettualità a operazioni di base che poi col contributo della selezione vengono improvvisamente ad assumere proprio tali caratteristiche.

24 "E ora?", pag.100.

25 "Mi ritorno in mente", pag. 35. 26 "Mi ritorno in mente", pag. 36.

27 “La vita della nostra mente”, pagg. 85-86.

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In tal modo la progettualità appare come una qualità emergente dell'evoluzione e la selezione assume una funzione gigantesca - che contrasta con le intenzioni di Boncinelli - che non avevamo finora osservato: determina la progettualità di tutto ciò che lascia passare!

I TRE PILASTRI DELL'ESPERIENZA

Trascrivo ciò che scrive alle pagine 180-181 de "Lo scimmione intelligente", in colloquio con Giorello: "hai fatto entrare in gioco uno dei termini più interessanti: esperienza. Funziona da etichetta per tutti quei casi in cui la nostra biologia è influenzata o indirizzata da eventi esterni. Per esempio, già i geni all'interno del nucleo delle cellule conformano la propria azione alle sollecitazioni che ricevono dalla cellula stessa o, per suo tramite, dalle altre cellule. Saliamo di livello: una singola cellula riceve input ambientali in base a cui regola la propria azione e la propria fisiologia. A un livello ancora più elevato, constatiamo come l'ambiente abbia un'influenza fondamentale sullo sviluppo embrionale e postembrionale delle parti del nostro corpo. Infine, c'è la pressione, per così dire, delle condizioni ambientali circostanti sulla struttura e sul funzionamento complessivo del corpo, e in particolare del sistema nervoso. Ma appena gettiamo uno sguardo (sì, credo che questo modo di esprimersi ormai sia lecito!) a quello che Hannah Arendt chiamava la vita della mente (intendendo: della nostra mente), constatiamo che i tre pilastri dell'esperienza divengono memoria,

apprendimento ed emotività. La prima consente di mantenere una traccia degli eventi passati; il secondo permette di trarre da questa traccia una lezione importante per orientarci nel mondo e per poterlo eventualmente cambiare; la terza [...] è una sorta di ingrediente che soccorre e integra sia l'elaborazione dell'informazione sia il processo della decisione."

Tutto ciò che provenendo dall'esterno ha su di noi un'influenza fisica e o anche puramente mentale viene dunque definito da Boncinelli, come già abbiamo visto, con un termine unico: “esperienza”. È l'esperienza, nelle sue varie forme, che sottrae spazio a ciò che è genetico, regalandoci quel tanto o poco di libertà di cui godiamo e che segna la storia dell'evoluzione.

Apprendimento, emozione e memoria sono dunque il fondamento dell'esperienza nel mentale, e adesso li andremo ad analizzare.

1. L' APPRENDIMENTO

L'apprendimento è fondamentale nella prima parte della nostra vita, durante cioè la fetalizzazione, in cui riusciamo ad appropriarci di ciò che è stato prodotto dall'intera cultura umana, attingendo alla memoria collettiva. In realtà però l'apprendimento non ha mai fine e, anche se è più incisivo durante il periodo della nostra formazione, dura quanto la nostra stessa vita, grazie alla plasticità del nostro cervello. Quindi esiste una espressione "fisica" dell'apprendimento che è tracciata dalle nuove sinapsi; questo significa non solo che ciò che è mentale deriva dal livello fisico, ma anche che quel che è mentale diventa fisico.

Acquisire, imparare e scegliere per Boncinelli significa sempre, come sappiamo, eliminare qualcosa dalla gamma delle precedenti potenzialità, che sono a priori, cioè geneticamente date (ricordando però che non erano tali per i nostri progenitori, e che non furono a suo tempo l'esperienza e l'apprendimento a farle diventare a priori ).

L'ambiente e l'esperienza intervengono attraverso l'eliminazione di alcune di queste scelte possibili, ma non indicano direzioni. Non possono cioè creare potenzialità nuove, perché tutte le possibilità

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sono contenute in maniera esaustiva nel DNA, che rappresenta l'intera gamma delle nostre

potenzialità (anche se abbiamo visto alla fine del capitolo dedicato alla complessità, che sono possibili al livello mentale opzioni di scelta non iscritte nel genoma). L'apprendiamo non parte mai da zero; non partiamo da una tabula rasa, ma da un sapere genetico, tra cui dobbiamo soltanto scegliere per esclusione: "il concetto di informazione misura

la riduzione dell'incertezza"29. Apprendere non è mai possibile quando prima non sapevamo nulla:

significa rifiutare alcune possibilità geneticamente date.

Ciò che in noi non deriva direttamente dai geni, vale a dire ciò che ci deriva dall'esperienza, è appreso secondo regole, tempi e modi previsti da sempre dal nostro genoma: "la nostra vita non è tutta già scritta da qualche parte, ma sono scritte le modalità con cui ce la vivremo"30.

Ma in cosa consistono in concreto i nostri “a priori”? Egli afferma che "cominciamo consapevolmente a imparare quando già sappiamo molte cose: e probabilmente le più importanti. Si tratta di quella 'conoscenza spicciola' - per esempio che gli uomini non camminano sul soffitto o che ogni corpo è seguito dalla sua ombra - che tutti noi abbiamo e che è così difficile da fare apprendere a un computer.31" Altrove parla negli stessi termini

del "buon senso"32

. Vedere, ricordare, immaginare, ragionare partono invece da zero, basandosi solo su organi già dati. Ci sono moltissime nozioni che rappresentano un portato dei geni; abbiamo cioè una buona dose di conoscenze a priori basilari, di cognizioni elementari e ingenue, come successivamente vedremo, che formano la base intuitiva della scienza e del nostro apprendimento33.

A tutto ciò va poi a sommarsi l'apprendimento generalmente inconsapevole, nella primissima fase della nostra vita, di quelle nozioni che Boncinelli definisce "quasi innate", che scolpiscono con le loro sinapsi l'architettura del nostro cervello diventando in tal modo non più sradicabili e che molto difficilmente il soggetto riesce a distinguere da quelle propriamente innate, così come ciò che è genetico tende a confondersi col biologico.

A questo proposito osservo che per Boncinelli l'apprendimento non passa necessariamente per la coscienza, neanche da adulti. Per la coscienza passa necessariamente infatti solo ciò che riguarda la nostra memoria esplicita o dichiarativa, la nostra razionalità, mentre per quanto riguarda la memoria

procedurale, relativa al saper fare, l'apprendimento è probabile che avvenga ad un livello sub-simbolico e sub-linguistico34

. Come risulta nell'intervista, egli immagina che gli insight, che spesso stanno alla base della creatività scientifica di tipo

razionale, avvengano probabilmente ad un livello sub-verbale, che è il livello in cui avviene tutto ciò che è procedurale35

. Se così fosse, allora questi due tipi di memoria, esplicita e procedurale, non sembrerebbero rigidamente separati e non comunicanti.

Abbiamo visto che nello sviluppo dell'embrione la progressiva determinazione avviene attraverso una progressiva riduzione di potenzialità iniziali; la stessa cosa succede nell'apprendimento vero e proprio, e dunque è evidente che il meccanismo dell'apprendimento è analogo in biologia e nelle faccende della mente. Del resto, lo stesso termine "apprendimento",

29 "Io sono, tu sei", pag. 112.

30 Pag. 93 de "Il cervello, la mente e l'anima". 31 "Lo scimmione intelligente", pag. 30 32 "L'anima della tecnica", pag. 143. 33 Vedi più avanti, da pag. 122.

34 Vedi alle pagg. 214 e 216 dell'intervista.

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come già quello di esperienza, viene da lui usato indifferentemente sia in senso biologico che culturale, in coerenza col riduzionismo.

Ma noi abbiamo visto che perfino la storia del cosmo e dell'evoluzione che Boncinelli ci racconta si sono svolte in maniera analoga, con una potenzialità in origine assoluta e simmetrica, che viene man mano abbandonata col realizzarsi degli eventi. Non potrebbe del resto essere diversamente all'interno di questa visione monista, in cui tutto si origina mediante qualità emergenti a partire dal livello fisico e materiale.

L'apprendimento può essere di tipo associativo o non associativo e sappiamo che modifica e modella le nostre sinapsi per tutta la vita36. Lo psicologo Donald Hebb ipotizza che quando due

neuroni si trovano spesso a "sparare" insieme, creino alla lunga un circuito sinaptico privilegiato, che magari esclude o allenta altre connessioni; tutto questo – ci dice Boncinelli - non è provato, ma oggi si ritiene che tale visione abbia molto di vero. Questa è la ragione per cui se pure esistessero due cervelli identici geneticamente (cosa che non avviene neppure nei gemelli monozigoti o in individui clonati), l'apprendimento li differenzierebbe, e ancor più li differenzierebbe il caso, creando circuiti sinaptici differenti.

L'abituazione è un apprendimento non associativo, per cui ad un dato fenomeno ripetuto nel tempo, se questo non ha conseguenze rilevanti, si finisce per non fare più attenzione, ci si fa, come si dice, “il callo”, diminuendo la nostra reattività; determina dunque un allentamento, cioè una depressione sinaptica. Esattamente il contrario è la sensibilizzazione, per la quale alla

ripetizione del fenomeno si ha una reazione sempre più forte e immediata; corrisponde cioè ad una facilitazione sinaptica, cioè alla creazione di una nuova sinapsi tra due neuroni già collegati. Tutto ciò è stato ben studiato da Eric Kandel negli anni '60 coi suoi esperimenti sull'Aplysia - la

lumachina di mare - che, data la sua elementarità, ha finito per esemplificare un meccanismo di apprendimento che s'è rivelato universale e che vale anche per noi; infatti i geni che presiedono tale apprendimento sono gli stessi in tutti gli organismi37. Quasi tutto ciò che sappiamo sulla memoria in

generale, dal punto di vista molecolare, l'abbiamo imparato grazie a questi studi, anche se nei mammiferi, tra cui l'uomo, risulta fondamentale il ruolo dell'ippocampo.

Sia l'abituazione che la sensibilizzazione comportano il passaggio della memoria da breve a lungo termine, che avviene attraverso l'attivazione di certi geni che porta alla sintesi di nuove proteine, che si realizza più facilmente quando è coinvolta un'emozione, che può indifferentemente essere positiva o negativa. Che tale passaggio sia operato dall'ippocampo lo si è capito in anni recenti grazie allo studio su un certo ingegnere americano, che per via di un intervento chirurgico per risolvere un'epilessia aveva subìto un danneggiamento integrale e bilaterale di questo organo, in seguito al quale non era più in grado di produrre nuova memoria a lungo termine: si ricordava perfettamente di quel che era successo prima dell'intervento chirurgico ed era capace di intrattenere una conversazione interessante (perché la sua memoria di lavoro risultava indenne), ma poco dopo se ne dimenticava completamente38. Oggi sappiamo che opportune stimolazioni

dell'ippocampo fissano il ricordo.

Il condizionamento invece è un apprendimento associativo, attraverso cui possiamo far diventare qualsiasi cosa gradita o sgradita, perché la plasticità e la rieducabilità dei nostri circuiti nervosi da

36 "Il cervello, la mente e l'anima", pag. 213. 37 "La vita della nostra mente", pag. 104. 38 "Le tre età della mente", pagg- 191-2.

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questo punto di vista è “quasi illimitata”39. Esso può essere classico - o pavloviano- oppure

operante. Nel primo caso il soggetto è passivo e risponde ad uno stimolo, definito condizionato, che proviene dall'esterno, come può essere ad esempio il suono di una campanella, a cui

puntualmente vien fatto seguire un altro stimolo, definito incondizionato, come ad esempio la vista del cibo, che produce per un meccanismo naturale la salivazione nell'animale; con la ripetizione di questa associazione, l'animale finirà per salivare al semplice suono della campanella. Nel

condizionamento operante invece il soggetto è attivo e per esempio manovra esso stesso una leva per procurasi una sensazione piacevole o farne cessare una spiacevole.

2. LE EMOZIONI

Sappiamo che in noi il mondo emotivo rappresenta di gran lunga la parte quantitativamente più rilevante, perché le emozioni sono sempre presenti e colorano anche la nostra razionalità rispetto alla quale sono inestirpabili. Vedremo anche che noi utilizziamo raramente la nostra razionalità ma abitualmente l'emotività.

Come indica il termine stesso, l'e-mozione rappresenta un movimento somatico, dunque del corpo, di reazione a qualcosa di esterno (che abbiamo percepito) o di interno (che abbiamo percepito o anche soltanto ricordato o immaginato). Si tratta di uno stato alterato del corpo e della mente che si associa a qualcosa da rifuggire o da cercare, manifestando in tal modo evitamento o accettazione40.

Dunque l'emozione è immediatamente e strettamente connessa all'agire e lo prepara.

Abbiamo già visto che le emozioni positive sono alla base dei premi e quelle negative alla base delle punizioni, che motivano i nostri comportamenti non compulsivi. Ma a motivare ogni nostra azione di esplorazione c'è sempre un'emozione positiva, che rappresenta infatti quella dimensione propositiva dell'uomo che è alla base del

cambiamento e dell'evoluzione.

Quelle negative rappresentano invece campanelli d'allarme che funzionano come avvertimenti e ci mettono in allerta, per esempio per fuggire.

È l'emozione che dice ciò che vogliamo, mentre la razionalità ci chiarisce soltanto come fare per ottenerla. Soltanto l'emozione ci motiva a vivere e a desiderare; noi possiamo tutt'al più essere consapevoli di desiderare qualcosa, ma di solito non sappiamo come mai desideriamo proprio quella cosa, e non è il ragionamento che ci rende le cose desiderabili. Se mi alzo la mattina, ci dice

Boncinelli, è in virtù di una passione, non certo di un ragionamento. Del resto, se l'uso della corteccia ha prevalentemente una funzione inibitoria, la ragione non può di certo essere una motivazione ad agire.

"La sua natura primaria è innata e incoercibile, anche se esistono moltissime opportunità per imbrigliarla e controllarla, soprattutto in noi esseri umani."41 Ha dunque un nucleo irriflesso,

"un cuore antico", comune a noi, al lombrico che si appallottola e alla lumaca di mare, che schizza inchiostro se spaventata; ma“risente marcatamente delle esperienze precedenti”42 , perché in

noi accanto alla sua componente innata – o genetica - presenta "una forte componente cosciente"43 e valutativa, che però è sempre successiva; l'emozione non è infatti mai separabile in

noi dalla razionalità. Questa doppia natura, sia innata che esperienziale dell'emozione, mi lascia immaginare che essa rappresenti il luogo prìncipe del nostro corpo dove avviene il dialogo tra il genoma e l'esperienza.

L'emozione nasce dunque nel corpo, in maniera irriflessa e inconsapevole, ma assume poi una

39 "Mi ritorno in mente", pag. 86.

40 Ne parla soprattutto ne “Il male “ a pag. 24 e poi, con poche modifiche, in "Mi ritorno in mente", pag. 97. 41 "Mi ritorno in mente", pag. 97.

42 "Mi ritorno in mente", pag. 96. 43 "Mi ritorno in mente", pag. 98.

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profonda "interferenza con la sfera cognitiva, e quindi culturale in senso lato, ma c'è anche un'interrelazione con la sfera emotiva superiore, dotata di una sua memoria"44, cioè col

sistema limbico e con l'amigdala in particolare, che rappresenta la nostra memoria emotiva. L'emozione è infatti"un commento sul passato o un'aspettativa sul futuro". Per esempio, alla vista di un serpente la reazione di ognuno varia a seconda di ciò che sa e di ciò che ricorda,

consapevolmente o meno, ed è in funzione di un'azione, che in questo caso sarà spesso di fuga. Costituisce un avvertimento su quanto ci potrà accadere in futuro, sulla base del ricordo (spesso inconsapevole) di quanto è accaduto fino a oggi45.

Proprio perché ha questa duplice natura - una componente irriflessa, comune a tutti gli organismi, e una di valutazione e di consapevolezza - noi la percepiamo, esattamente come il dolore, attraverso due differenti sistemi o canali o "vie".

Più dettagliatamente, questo movimento o di accettazione o di fuga del sistema nervoso autonomo, che costituisce l'emozione, spesso viene accompagnato dal sistema nervoso centrale e da quello endocrino.

Il sistema nervoso autonomo controlla la tensione e la rilassatezza dei vari organi, primo fra tutti il cuore e così l'emozione si esprime immediatamente mediante sudorazione, batticuore, gola secca e coinvolgimento motorio viscerale, che sono tutte cose che ci preparano ad affrontare fisicamente nel migliore dei modi la situazione presente, permettendoci di agire adeguatamente.

Più lentamente, ma con lo stesso scopo di farci affrontare al meglio la situazione, intervengono anche ipofisi e ipotalamo, rilasciando nel sangue le sostanze più idonee.

Ma ciò che più incide sulle emozioni è il sistema limbico e in particolare l'amigdala, a cui arrivano quasi tutti gli stimoli sensoriali. Quest'ultima infatti conserva il ricordo delle circostanze pericolose e spiacevoli, e ciò è dimostrato dal fatto che chi ha lesioni in quest'organo non è affetto da paure di alcun tipo. Essa rappresenta probabilmente anche la memoria delle nostre emozioni (mentre la memoria dei contenuti cognitivi è rappresentata dall'ippocampo).

Infatti le emozioni attraverso il ricordo, evidentemente anche inconsapevole, di un'analoga esperienza precedente mi consigliano o sconsigliano di fare ciò che sto per fare. Di fronte ad un pericolo, l'amigdala manda all'ipotalamo un segnale che fa reagire il corpo.

L'amigdala però è un sistema non solo di memoria ma anche di apprendimento; infatti impara rapidamente e può dunque essere abbastanza velocemente ricondizionata, così che un'esperienza da negativa può trasformarsi in positiva o viceversa. Infatti l'amigdala contiene alcuni neuroni che sovrintendono il condizionamento, che dunque può essere trasformato, come è stato sperimentato sui topi di laboratorio46. Ciò apre uno spazio di grande incidenza alla psicoterapia e

conferma che nell'emozione oltre alla componente genetica ce n'è una esperienziale. Proprio nell'amigdala, come vedremo, ciò che proviene

dall'esperienza diventa fisico, e devo immaginarmi che le nostre esperienze vengano memorizzate da quest'organo che poi ci permetterà di agire in maniera adeguata, automatica e immediata in coerenza con il succo di tutte le nostre

esperienze oltreché degli istinti. E non può dunque essere questo il luogo in cui la memoria dichiarativa si trasforma in procedurale e ciò che è appreso con un grado variabile di consapevolezza si trasforma in automatismo?

Ma anche le motivazioni e le spinte istintuali passano probabilmente per l'amigdala, interagendo con ipotalamo e corteccia.

La reazione del sistema nervoso autonomo nell'emozione si accompagna ad una valutazione di

44 "Mi ritorno in mente", pag. 108. 45 "Quel che resta dell'anima", pag. 92.

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piacere o dispiacere, che però talvolta resta incerta e ambivalente; il dissidio emozionale che caratterizza l'uomo, e di cui tanto si parla, rappresenta forse una forma di difesa dell'organismo da comportamenti troppo polarizzati. Ma tra due contrapposte istanze emotive, a ben guardare, ce n'è sempre una più importante, perché non hanno tutte lo stesso “peso”. Quando poi tra di esse c'è la paura, che ha un “peso” nettamente superiore, questa assume il ruolo trainante, sbaragliando le altre. Oltre a tutto ciò, in noi c'è anche una "via alta" che passa per la corteccia, che nell'uomo è capace di dominare la “via bassa”, e che ci permette perfino di affrontare un pericolo anziché fuggirlo come l'istinto vorrebbe: un pompiere infatti affronta il fuoco anche se il suo istinto è quello di fuggire. Sulle emozioni incide infatti anche il sistema cognitivo, tanto che Boncinelli, a pagina 83 di "Come nascono le idee", afferma che l'emozione è per definizione cosciente, e ciò la distingue da altre spinte emotive che coscienti non sono: "La spinta emotiva agisce anche quando non è cosciente, ma in quel caso non si parla di emozione." Mentre prima abbiamo visto il grande potere del ricondizionamento dell'amigdala che permette di trasformare la valenza delle emozioni da positive a negative o viceversa, adesso vediamo quanto possa incidervi anche la razionalità, quindi la parola; la psicoterapia deve far leva dunque, come vedremo, su queste due differenti possibilità di azione.

C'è una teoria che afferma che ipotalamo e sistema nervoso autonomo presiedono all'espressione delle emozioni, mentre la corteccia cingolata (che appartiene al sistema limbico) crea forse la sensazione interiore, e la corteccia frontale ne dà, probabilmente anche in base ai ricordi, la coloritura emotiva che emerge nella percezione cosciente. Forse tutto ciò non è corretto, ma quel che è certo è che ogni emozione ha tre diverse componenti: una espressiva, una sensazione interiore e una percezione cosciente 47. Tutto questo ci appare come un tutto unico, come un unico evento,

che definiamo appunto "emozione", mentre invece ha, come abbiamo visto, una provenienza molteplice e frammentata, alla quale concorrono organi ben diversi. La stessa cosa vale

naturalmente anche per il dolore e per tutte le altre percezioni, che sono discrete ma che ci appaiono unitarie ad opera della corteccia.

La componente innata risulta evidente dal fatto che i bambini leggono le emozioni sulle facce senza doverle imparare; c'è dunque una universalità nella loro espressione, che le rende simili in tutti i paesi e in tutte le epoche. Talvolta ci sono però variazioni, a dimostrazione del fatto che non si tratta solo di qualcosa di spontaneo e di interno all'individuo, ma che risente dei condizionamenti sociali, per cui diventa segnale: "in ogni caso devo infatti fare i conti con me stesso e nello stesso tempo con gli altri"48. Molte emozioni vengono comunicate o censurate infatti a seconda delle

convenzioni della società in cui viviamo; ad esempio il senso del pudore nell'ultimo secolo ha subìto un'evoluzione enorme; è dunque fondamentale la valutazione - o appraisal -, che ha una natura sociale e culturale, che si sovrappone a quella genetica. Ciò sottolinea questa duplice natura delle emozioni e dell'amigdala che ad esse è legata: c'è qualcosa di genetico e a priori, ma c'è anche la capacità di apprendere dall'esperienza e dalla società. Le emozioni fondamentali, "più o meno facilmente riconoscibili negli individui di tutte le culture", vengono definite da Boncinelli in base a criteri rilevabili dall'esterno, cioè in base alle loro differenti espressioni mimiche (che vengono lette e riconosciute dall'amigdala), e sono sei: ira, paura, felicità, disgusto, tristezza e sorpresa. Qualcuno vi aggiunge anche il disprezzo.

Difficilmente viviamo singole emozioni specifiche, ma piuttosto combinazioni differenti di emozioni, che costituiscono uno stato emotivo. Quando questo c'invade, compare sempre qualche sintomo del sistema nervoso autonomo (come l'aumento del battito cardiaco, del sudore, del pallore,

47 "La vita della nostra mente", pag. 129. 48 "Mi ritorno in mente", pag. 103.

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etc.) che serve a predisporci ad un'azione e ci permette di rispondere nel modo più adeguato alle situazioni esterne alterando il nostro stato di tensione o di rilassatezza (in funzione dell'omeòstasi). La mancanza di emozioni, cioè il vuoto emotivo, caratterizza spesso la depressione, che assilla l'uomo contemporaneo, come una specie di "buco nero" che assorbe le nostre energie interiori49,

perché la riduzione dei rischi per la sopravvivenza ha portato con sé una attenuazione delle emozioni. (Se il fine ultimo è la sopravvivenza e se questa ha smesso di essere un problema quotidiano per noi, evidentemente siamo rimasti a corto di motivazioni, a meno che la razionalità non riesca a costruircene delle altre – ma questo Boncinelli lo esclude -)

Delle sei emozioni fondamentali soltanto due sono positive – felicità e sorpresa - ma sono

importantissime per l'evoluzione, perché rappresentano le motivazioni delle nostre azioni, in quanto il loro ricordo è alla base delle nostre decisioni ed esse ci spingono ad osare e ad esplorare, cioè ad affrontare situazioni nuove. Boncinelli cita a tale proposito Aristotele, che affermava che la felicità è lo scopo di ogni nostra azione50. Le emozioni negative ci rendono al contrario circospetti e poco

disponibili ad affrontare le situazioni reali.

Di fronte alle decisioni, noi possiamo reagire d'impulso in base alle nostre emozioni e ciò ci consente una grande rapidità, che bene si adatta soprattutto alle condizioni di pericolo, mentre quando vogliamo prendere una decisione razionale abbiamo bisogno di tempi più lunghi. Se le emozioni non riescono a scegliere, perché sono in conflitto tra di loro – nel cosiddetto conflitto emozionale - l'animale si paralizza, ma ecco che l'uomo ha una risorsa in più, un asso nella manica, costituito dalla razionalità.

Boncinelli ci racconta che Platone nelle "Leggi" descrive l'uomo come una marionetta51 mossa da

due fili: quello della ricerca del piacere e quello della fuga dal dolore. Emozioni e dolore abbiamo visto che sono infatti alla base del nostro comportamento e ci tirano da una parte e dall'altra, ma c'è poi una terza corda d'oro che è quella della ragione, che ci permette di controllare le nostre risposte. Non dobbiamo ignorare i nostri istinti, perché in tal modo diventeremmo anti-marionette altrettanto ridicole delle marionette. Negli animali la repressione di un istinto provoca esclusione sociale (fa l'esempio52 dei cuccioli che se appena nati non emettono alcun suono per farsi riconoscere vengono

aggrediti dalla propria madre). Sappiamo anche che se soffochiamo la nostra aggressività otteniamo il triste risultato di trasformarci in depressi; è dunque stupido rinnegare gli istinti. Ma non dobbiamo dimenticare la nostra corda d'oro, che ci permette di tenere a bada le altre due. Grazie al fatto che la corteccia ha colonizzato tutto il resto del cervello, pur lasciando alle varie parti l'antica funzione, essa riesce ad interagire con qualunque parte di esso, ad avere comunque l'ultima parola su tutto. L'unico problema di questa corda d'oro è nei tempi: ha bisogno di tempi lunghissimi.

L'importante è saper scegliere: se abbiamo tempo, ragioniamo attentamente; se non ne abbiamo, prendiamo pure decisioni istintive, che come direbbe Lorenz sono state collaudate dagli antenati e che possono salvarci la vita! Scegliere quando usare una corda o l'altra è proprio la misura della nostra libertà: scegliamo tra due possibilità

comportamentali. 3. LA MEMORIA

Nell'apprendimento la memoria è non solo importante, ma è una condizione pregiudiziale, perché è inutile imparare qualcosa se poi non ce ne ricordiamo.

49 È questa un'immagine che usa a pag. 106 de "Il male". 50 "Mi ritorno in mente", pag. 167.

51 "Il male", da pag. 32 o (tale e quale)"Mi ritorno in mente", pagg. 105-6. 52 "Il male", pag. 173.

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Una condizione pregiudiziale della nostra mente, che ci contraddistingue rispetto agli animali, è proprio la dilatazione della memoria, che ci permette reazioni ritardate, che come abbiamo detto consentono la progettazione e la costruzione nel frattempo di strumenti più adeguati a meglio

soddisfare i nostri bisogni. Il ritardo delle risposta ci permette cioè risposte migliori e più ponderate, facendo spazio al pensiero.

Tuttavia, sappiamo ancora poco in cosa la memoria consista, non sappiamo come essa funzioni, anche se siamo capaci di costruire meccanismi di memoria artificiale efficienti. È soprattutto dai dispositivi di memoria dei computer che abbiamo imparato alcune cose che valgono anche per noi53.

Per esempio, abbiamo capìto che sono necessari due differenti tipi di memoria, una più stabile o ROM, che corrisponde alla nostra memoria a lungo termine, e una di lavoro o RAM, che

corrisponde a quella a breve. Buona parte dell'intelligenza individuale dipende dalla memoria di lavoro o a breve termine, cioè dalle associazioni che siamo in grado di fare, in funzione per esempio di un lavoro che stiamo svolgendo, e che poi può confluire nella memoria a lungo termine. È più facile memorizzare ciò che è associato alle emozioni, perché le ghiandole surrenali in presenza di un'emozione producono l'adrenalina, che facilita la memorizzazione.

Sappiamo da una trentina d'anni che il nostro cervello produce neuroni durante tutta la vita, e non solo all'inizio del suo sviluppo embrionale, come si riteneva prima; ciò avviene in due regioni specifiche, che fanno eccezione rispetto al resto: intorno alla superficie dei ventricoli e

nell'ippocampo. I primi servono a rimpiazzare quelli del bulbo olfattivo, che muoiono

continuamente. I secondi, visto che l'ippocampo sovrintende ai ricordi, potrebbero servire alla fissazione di ricordi nuovi della memoria episodica, dato che ad apprendimenti nuovi corrisponde sempre una produzione di questi neuroni, mentre in circostanze sfavorevoli all'apprendimento, come nell'invecchiamento, questa neurogenesi diminuisce54.

Per ricordare occorrono tre diverse operazioni: 1) immagazzinare i ricordi, 2) conservarli, 3) richiamarli. Gli anziani che "perdono la memoria" in realtà hanno soltanto perso la capacità o la velocità nel recuperare i ricordi, perché questi non possono essere cancellati e restano presenti nel nostro cervello. I ricordi, cioè gli engrammi, non sono localizzabili in un'area determinata della corteccia, ma stanno un po' dappertutto, tanto che una parziale asportazione corticale non determina vere amnesie, ma semplici attenuazioni di memoria.

La memoria a breve termine, o di lavoro o operativa, dura tutt'al più qualche secondo, il tempo necessario, per esempio, per digitare un numero di telefono appena letto, ed è fondamentale per i nostri comportamenti quotidiani, perché ci permette di agire sensatamente55. La memoria a

breve termine è dunque strettamente legata all'attimo di presente, al “qui ed ora” tanto che : "È la memoria a breve termine infine che ci permette di avere una coscienza, la quale altro non è che la gestione momentanea e integrata delle nostre percezioni del

momento e dei nostri ricordi, cioè della nostra realtà."56 Dunque la memoria a breve

termine è a fondamento della nostra coscienza, ed è facile confonderla con questa, come poi vedremo.

La stessa intelligenza è strettamente legata ad essa, oltreché alla capacità di creare e di gestire simboli, perché deriva dalla capacità individuale di comparare numerosi e differenti elementi, tenuti a mente insieme provvisoriamente. Essa può accogliere momentaneamente, per il tempo necessario ad eseguire una certa operazione o ad elaborare un pensiero, anche ricordi richiamati dalla memoria a lungo termine.

Quest'ultima altro non è che memoria a breve termine resa stabile dalla sintesi di alcune proteine, e

53 Affronterò l'argomento del confronto tra mente e computer da pag.118. 54 "La vita della nostra mente", pagg. 105-106.

55 Pag. 202 de "Il cervello, la mente e l'anima". 56 Pag. 205 de "Il cervello, la mente e l'anima".

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dalla funzionalità dei due ippocampi 57, ed è irreversibile e modella il cervello; anche ad essa è

legata la coscienza, che consiste nel confronto e nell'integrazione delle nostre percezioni. La memoria a lungo termine si distingue in memoria esplicita o dichiarativa e in memoria

implicita o procedurale, che rispettivamente competono al sapere o al saper fare, vale a dire al piano cognitivo e al piano pratico. La prima contiene solo ciò che è emerso a coscienza58

mentre è escluso che vi entri qualcosa di inconsapevole (Boncinelli escluderebbe quindi che un sogno porti a coscienza percezioni inconsapevoli, come invece la psicoanalisi insegna; del resto, come vedremo, per lui i sogni non hanno significato). Un esempio di memoria procedurale, che è invece legata al comportamento pratico, è il riuscire, anche dopo molto tempo, ad andare in bicicletta, che è ben altra cosa dal saperlo descrivere. Secondo me queste due forme di memoria non sono rigidamente separate, ma possono

convertirsi l'una nell'altra. Credo che sia esperienza di tutti noi che ciò che viene appreso consapevolmente e linguisticamente può col tempo diventare automatico. Un esempio (più calzante di quello della bicicletta perché riguarda un

apprendimento che avviene in un'età in cui la nostra razionalità linguistica è pienamente formata) è quello della guida dell'auto in cui la descrizione linguistica delle varie operazioni ci appare molto difficile quando vogliamo insegnarla a

qualcuno - anche se sappiamo guidare benissimo – per quanto a suo tempo essa ci fu preziosa quando a nostra volta imparammo. Tale apprendimento linguistico viene sùbito dimenticato non appena il procedimento diventa automatico. Un altro

esempio – anche se di tipo diverso - può essere l'apprendimento della grammatica per imparare una lingua, che viene spesso dimenticato allorché quella lingua

abbiamo imparato a parlarla. Su questo argomento ho chiesto a Boncinelli

nell'intervista dei chiarimenti, ma egli continua a pensare che un apprendimento di questo tipo non possa essere né razionalmente consapevole né linguistico. Questa netta divisione che egli vede tra dimensione pratica e dimensione cognitiva diventa importante quando parla di etica, perché questa secondo lui appartenendo alla sfera pratica risulta impermeabile alle cognizioni, così che sapere ciò che è giusto non ci aiuta a farlo, e ciò sarebbe all'origine della difficoltà del progresso morale.

Infine la memoria esplicita o dichiarativa può essere distinta - com'è evidente nelle varie patologie neurologiche in cui la sparizione dell'una non comporta la sparizione dell'altra - in semantica e episodica, a seconda che si ricordino concetti e significati o piuttosto le circostanze in cui furono appresi.

L'amigdala serve al consolidamento della memoria emotiva, così come l'ippocampo serve al consolidamento di quella dichiarativa. L'una e l'altro fanno parte del sistema limbico, che è considerato il cervello arcaico dei primi mammiferi, quando la corteccia ancora non esisteva. Alle pagine 130 e 131 di "L'anima della tecnica"scrive: "Ma che cos'è la memoria? In astratto possiamo definirla come la dipendenza dell'andamento di un particolare fenomeno fisico dall'andamento di fenomeni fisici precedenti. Si tratta di una definizione inoppugnabile ma difficilmente suscettibile di applicazioni, perché un po' troppo vaga e troppo vasta." E prosegue poche righe dopo: "[...] un dispositivo di memoria [...] deve trasformare una

57 Pag. 206 de "Il cervello, la mente e l'anima". 58 "Mi ritorno in mente", pag.191.

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dipendenza dalla storia degli eventi pregressi in una dipendenza da un suo proprio stato interno attuale. Ogni dispositivo del genere deve in sostanza essere suscettibile di assumere un certo numero di stati interni, magari invisibili e insondabili dall'esterno. In ogni momento lo stato assunto da esso dipende dall'esito di un certo numero di eventi fisici significativi accaduti precedentemente e può influenzare all'occorrenza l'esito di un certo numero di eventi futuri." Conclude, poche righe più avanti: "possiamo dire che un dispositivo di memoria è uno stratagemma per trasformare il tempo in spazio, o, per meglio dire, una sequenza

temporale significativa, cioè storica, in una struttura spaziale esplorabile e interpretabile, cioè concettuale". Riassumendo, la memoria sarebbe quindi una struttura che a seconda delle esperienze precedenti assume stati differenti, che condizionano in una

direzione o nell'altra gli eventi futuri. Se ciò vale anche per l'amigdala, essa appare come una specie di distillatore che riassume e conserva “il senso” emotivo

sia delle direttive dei nostri geni che delle nostre esperienze, consapevoli o meno. La memoria emotiva ci creerebbe in tal modo delle aspettative, attraverso le quali cerchiamo di volta in volta d'interpretare, di incasellare, di valutare gli eventi nuovi alla luce di quelli pregressi, ma anche dei nostri istinti – come sappiamo -.

Ne deriva che negli organismi viventi gli eventi trascorsi lasciano una traccia biologica che condiziona quelli successivi attraverso il meccanismo delle emozioni, e che l'informazione in tal modo diventa in noi qualcosa di fisico.

Ma se uno stato emotivo può rappresentare il succo e la conclusione tratta da esperienze pregresse, consapevoli o meno, da apprendimenti a cui si è pervenuti magari razionalmente, ci si può allora permettere di dimenticarne il contenuto, qualora il richiamo sia diventato automatico. Proprio la dimenticanza potrebbe allora essere una trasformazione della memoria da una forma esplicita e

dichiarativa, in cui vengono ricordati i dettagli, cioè i contenuti e i passaggi logici, ad una implicita ed automatica di tipo più chiaramente emotivo. Si può pensare che il dimenticare sia un modo d'impossessarsi più profondamente di ciò che abbiamo appreso, incorporandolo e facendolo diventare parte del nostro corpo e della nostra identità. Anche questo comporta una trasformazione dal mentale al fisico. Ciò che è inizialmente consapevole e razionale potrebbe in tal modo diventare automatico, emotivo, inconsapevole, procedurale. Quando infatti ci dimentichiamo il modo in cui abbiamo appreso, magari faticosamente, qualcosa, conserviamo però generalmente l'emozione della fondatezza di tale apprendimento, anche se non sappiamo più giustificarlo e non ricordiamo più i passaggi

consequenziali attraverso cui vi siamo pervenuti. La memoria finché rimane esplicita sembrerebbe dunque strettamente collegata alla razionalità e alla consapevolezza razionale, mentre quella implicita appare come una forma di

emotività. Se la prima può trasformarsi col tempo nella seconda, forse allora anche la razionalità sedimentandosi potrebbe trasformarsi in emotività....

Sarei tentata perfino di pensare, se questo non implicasse un'ipotesi lamarckiana, che un analogo meccanismo possa valere perfino nella trasmissione da una

generazione all'altra. L'emotività ereditata geneticamente potrebbe essere il frutto compresso, divenuto automatico ed emotivo di pregressi sforzi razionali dei nostri avi, di cui ignoriamo i passaggi logici ed esperienziali che condussero a tale risultato, ma la cui lezione viene conservata e tramandata regolarmente nel suo

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nòcciolo e nel suo “senso”.

Tutto ciò mi appare emotivamente convincente, ma (o forse proprio perciò) è certamente contrario al pensiero di Boncinelli, anche perché sembra comportare una trasmissione per via ereditaria di esperienze acquisite.

Riassumendo ciò che abbiamo detto fin qui, il mentale, che è una proprietà emergente del fisico, facendo leva su apprendimento, emozioni e memoria, finisce col far emergere, in modo non prevedibile, qualcosa di squisitamente individuale, che tanto abbiamo a cuore, come la coscienza, che ci dà il senso della nostra identità più preziosa.

L'IMPREVEDIBILE

Nei suoi primi scritti Boncinelli parla spesso di risultati imprevedibili, come già abbiamo visto alla fine del paragrafo dedicato alla complessità, anche se attualmente lo nega, come

testimonia l'intervista che mi ha rilasciato.

Ne scrive come abbiamo visto nel 1999 a pagina 224 de "Il cervello, la mente e l'anima", nel 2003 a pagina 105 di “Tempo delle cose, tempo della vita, tempo dell'anima”, e ancora nel 2007 in “La teoria dell'evoluzione oggi”, in cui definisce proprio con questo aggettivo l'evoluzione biologica. Altre volte non usa espressamente questo termine, ma ne rimane il concetto , come quando afferma che la vita è "un' avventura continua senza una trama precostituita. Una rappresentazione che va in scena senza neppure un'ora di prove"59. Del resto Boncinelli

non può dimenticare che è proprio il DNA, attraverso quella specie di assegno in bianco che è l'indeterminazione genetica, ad aver creato lo spazio per l'esperienza e l'apprendimento, e che quest'ultimo facendo leva sulla dimensione collettiva è riuscito ad ottenere risultati sorprendenti e - al livello di evoluzione culturale - davvero imprevedibili. Che possa però esserci uno spazio all'imprevedibile perfino nell'evoluzione biologica consegue anche dall'aver affermato la presenza di

dinamiche contingenti di tipo storico e casuale accanto ai nessi di causalità

necessaria. Non bisogna d'altro canto dimenticare che l'evoluzione biologica, tanto creativa da aver creato organismi di altissima complessità come gli uomini, è al contempo straordinariamente conservativa60, visto che la complessità dell'uomo, è solo un'eccezione. Mutazioni casuali da una

parte e una solida permanenza di base sono infatti i due corni imprescindibili di tale meccanismo, che non possiamo comprendere se sottovalutiamo l'uno o l'altro aspetto. Può darsi che

l'imprevedibile, come il progresso e la negherentropia, sia soltanto un'eccezione locale e temporanea, che convive con forme fortemente conservative, ma

l'esistenza della coscienza e della razionalità sembrano testimoniare la sua esistenza.

EMOTIVITÁ E RAZIONALITÁ

Emotività e razionalità sono le due componenti della nostra vita mentale, inscindibili e diverse, tanto da entrare spesso in attrito, originando in noi contraddizioni e disagi. Come abbiamo visto, forse la seconda deriva dalla prima come proprietà emergente e rappresenta “una forma

particolarmente sfuocata ma prontissima di razionalità "61.

La parte razionale, logica e calcolatoria viene elaborata dal cervello vero e proprio, in particolare

59 “Prodigi quotidiani”, pag. 175. 60 Pagg. 36 e 37 di "E ora?". 61 "Io sono, tu sei", pag. 136.

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dalla corteccia, mentre l'emotività si appoggia ad aree di cervello più antiche, condivise con altri animali, e anche ad alcune ghiandole62.

Se anche non è uno strumento perfetto, se anche dobbiamo definirla "limitata", la nostra razionalità è di gran lunga il migliore strumento che abbiamo a disposizione. Si tratta infatti per Boncinelli della parte più nobile dell'uomo e dell'intera evoluzione biologica e culturale, della quale ultima rappresenta, soprattutto quando è collettiva e specialmente quand'è scienza, l'elemento di

propulsione (per quanto le emozioni positive siano da lui indicate come uno sprone all'evoluzione63

, egli riserva esclusivamente alla razionalità il potere di affrontare ciò che è nuovo).

Boncinelli parla a più riprese di quanto sia magico il mondo, ma ancor di più di quanto sia magica e sorprendente la nostra capacità di capirlo; è grazie alla corteccia se ci siamo riusciti, perché questa, a differenza dell'emotività e di tutto il resto, è stranamente sganciata da ogni scopo di sopravvivenza. È la nostra corteccia cerebrale, quindi la nostra razionalità che ne costituisce il prodotto, che ci consente, almeno a livello collettivo, di avventurarci intellettualmente nell'ignoto, di esplorare nuovi àmbiti e di capire ciò che fa parte di un mondo diverso da quello dei nostri antenati.

Forse la razionalità corrisponde ad "un aumento straordinario dello sforzo serializzante della coscienza"64 ed è quindi strettamente legata alla coscienza e alla consapevolezza.

È ancora ad opera della razionalità che, come abbiamo visto, noi sappiamo correggere le iniquità della natura, le sue dimenticanze nei nostri confronti. Grazie ad essa l'uomo assume quel ruolo prometeico, esaltante, guidato in primo luogo dalla scienza. Abbiamo anche visto che essa altro non è che uno strumento, un prolungamento "tecnico" del nostro istinto di sopravvivenza, che arriva dove quest'ultimo non riesce ad arrivare. (Mi chiedo se tale strumento non porti con sé una caratteristica nuova, emersa nel corso dell'evoluzione: dal momento che non ha più come finalità la sopravvivenza, può forse cercare di costruire nuove finalità di tipo non biologico. Se così fosse, chiedersi il senso della vita assumerebbe forse un significato nuovo e propositivo, di costruzione di nuovi possibili “sensi”.)

Dunque Boncinelli è un fan entusiasta della razionalità, tanto che si autodefinisce "illuminista"65,

anche se nutre dei seri dubbi su quella individuale, vittima di insidie pericolose. Come afferma in "Lettera a un bambino che vivrà 100 anni", a pagina 85, noi siamo lieti di rappresentare quello che per i greci era il logos contrapposto al mito, vale a dire il pensiero razionale e scientifico contrapposto al racconto di fantasia.

Con tutto ciò la razionalità è nell'uomo una parte minuscola rispetto all'irrazionalità; è paragonabile per quantità alle terre emerse rispetto al mare. Siamo capaci di sforzi razionali molto limitati nel tempo; la nostra attenzione e il nostro impegno sono di breve durata; la nostra logica è

pressappochista e siamo facilmente vittime di illusioni cognitive ed errori, anche quando c'impegniamo cercando di ragionare meglio che possiamo. Altro che razionali!

Boncinelli si dichiara dunque un razionale che "teme l'irrazionalità ma sa che ci deve fare i conti"66. C'è, mi pare, una tendenziale identificazione dei termini "emotivo" e

"irrazionale".

Paragona – a pagina 109 di "La vita della nostra mente" – l'uomo ad un fiume, fatto

62 "Mi ritorno in mente", pag. 23. 63 "Mi ritorno in mente", pag. 115.

64 Espressione che Boncinelli ha usato alla Conferenza al CNR di Pisa l'11 maggio 2011. 65 Pag. 81 di "A caccia di geni".

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prevalentemente di acqua, che rappresenta la nostra emotività, contenuta dagli argini, che

corrispondono alla nostra razionalità. Così come non si può identificare un fiume coi suoi argini ma lo si può fare abbastanza bene con la sua acqua, allo stesso modo noi siamo caratterizzati

prevalentemente dall'emotività.

Poco oltre, a pagina 110, afferma che la ragione è puramente strumentale: ci aiuta a vivere, ma non ci motiva a farlo; mi dice come posso ottenere ciò che voglio, mi permette cioè di studiare le strategie da adottare, ma a decidere cos'è quello che voglio provvedono invece l'emotività e gli istinti. Sono le emozioni a decidere cosa fare o non fare67. La razionalità è perciò paragonata al

Colosso di Rodi o a “un gigante dai piedi d'argilla”68.

Abbiamo già detto che la distinzione tra razionale ed emotivo è teorica e praticamente impossibile, e che proprio l'emotività mina e fa deragliare il ragionamento, a meno che questo non si appoggi al Collettivo e alle verifiche sperimentali.

I sentimenti sono attenti alle differenze e all'individuale, perché si basano sul riconoscimento, mentre la ragione generalizza cercando gli aspetti comuni e astraendo. Possiamo non renderci conto di un'emozione, ma il mondo emotivo è sempre presente anche quando non ne siamo consapevoli, è continuo, anche se emerge a coscienza solo in occasione delle serializzazioni. Invece la razionalità è discontinua, più spesso assente che presente, momentanea, e comporta uno sforzo consapevole per mettere in ordine le idee o le parole una dietro l'altra serializzandole, come quando dico: "Questa è una matita rossa"69.

La razionalità è sempre "tinta di emozione", che ne costituisce, citando Edward O. Wilson, non una semplice perturbazione, ma una parte vitale70. È necessario che convivano assieme, perché

escludere l'una o l'altra sarebbe pericoloso. Se è vero che l'emozione rende il ragionamento vittima di illusioni, è anche vero che permette decisioni rapide, adatte all'azione, ed è capace di salvarci la vita. La razionalità è qualcosa di simile ad un calcolo (possiamo forse dire che la

costruiamo o che la nostra mente la costruisce, in modo attivo e tendenzialmente consapevole), mentre l'emotività è qualcosa che la nostra mente subisce, perché è un prodotto (forse soltanto più diretto, visto che tutto deriva alla fine dalla materia) del nostro corpo.

L'emotività sembra dunque essere qualcosa di passivo e di ineliminabile, talvolta positivo ma per Boncinelli forse più spesso negativo, soprattutto perché porta con sé dei contenuti di cui non siamo consapevoli e che perciò possono derivare

dall'esterno, togliendoci la padronanza di noi stessi. Con l'emotività bisogna venire a patti senza disconoscerla, ma cercando di controllarla senza venirne invece dominati. Al

contrario, la razionalità sarebbe qualcosa di attivo, per quanto inesorabilmente tinta di emozione.

Sulla base dell'insegnamento di Boncinelli, io però distinguerei l'emozione in tre componenti, anziché in due. Come egli dice, c'è una componente genetica e saldata agli istinti; è qualcosa di ereditato indubbiamente dall'esterno, vale a dire dai nostri avi, il frutto di tutta un'evoluzione collaudata, come direbbe Lorenz, che sarebbe stupido e inutile rinnegare, perché immodificabile. Se ripudiamo la nostra storia e le nostre radici ripudiamo infatti noi stessi, e ciò produrrebbe un disagio profondo senza tuttavia riuscire a cambiare niente. Una seconda componente deriva dalle esperienze. Ma occorre a questo punto distinguere l'esperienza che avviene

67 “Il mondo è una mia creazione”, pag. 135/6. 68 “Il male”, pag. 249 e "E ora?", pag. 71. 69 "Io sono, tu sei", pag. 163 in fondo. 70 "Il cervello, la mente e l'anima", pag. 248.

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