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CAPITOLO 1- INTRODUZIONE
1.1 LA FATICA CRONICA
1.1.1 DEFINIZIONE
Nella letteratura internazionale, il nome Sindrome da Fatica Cronica (CFS) è il termine generalmente accettato dai clinici per indicare un insieme di sintomi che i pazienti comunemente riferiscono come stanchezza continua. La malattia è infatti caratterizzata da una stanchezza persistente e non spiegabile, che si accompagna a grave compromissione dell'attività quotidiana (1). La CFS si caratterizza anche per una serie di sintomi aspecifici quali mal di testa, disturbi del sonno, difficoltà di concentrazione, problemi della memoria, debolezza e dolore muscolare. I sintomi inoltre sono aggravati dall’attività fisica e mentale. L'interesse su questa situazione clinica è aumentato all'inizio degli anni '80, con la diffusione della CFS nello staff del Royal Free Hospital di Londra e nell'Incline Villane, Nevada (2); già in precedenza tuttavia erano stati descritti casi simili in reparti ospedalieri o in piccoli paesi (Los Angeles Country Hospital nel 1934 e a Akureyri, Iceland nel 1948) e qualche caso sporadico. Il dibattito riguarda soprattutto l'origine della malattia, cioè se essa debba essere considerata come un'affezione organica o come una situazione unicamente funzionale. Per molteplici ragioni, ma soprattutto per questa dicotomia, i medici sono spesso incerti sulla reale esistenza di questa affezione (3). Dal 1988 in poi si sono succedute numerose
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linee guida e definizioni (4-6), la più importante delle quali è quella dei Centers for Disease Control and Prevention (CDC) degli Stati Uniti, preparata nel 1994 (7). In tutte le definizioni, la malattia è riconosciuta per la presenza di fatica, mancanza di forza e per l'esclusione altre di malattie con sintomi simili e non sulla presenza di sintomi fisici specifici o di alterazioni specifiche degli esami di laboratorio (8).
1.1.2 EPIDEMIOLOGIA E PROGNOSI
Le difficoltà incontrate nella definizione si ripercuotono sugli studi epidemiologici, nei quali la prevalenza varia ampiamente. In due studi, eseguiti negli Stati Uniti, la prevalenza fra gli adulti fu dello 0,23% e dello 0,42%; l'incidenza fu maggiore nelle donne (rapporto donne : uomini 3:1), nei membri di piccoli gruppi, nelle persone di basso livello di istruzione e di basso stato occupazionale (9-10). Uno studio condotto nel Regno Unito ha invece riportato una percentuale del 2,6%; ma, dopo l'esclusione di pazienti con co-morbilità di disturbi psicologici, la prevalenza è risultata dello 0,5% (11). La prevalenza è molto più bassa nei bambini e negli adolescenti, in confronto ai soggetti adulti (12-13-14). La durata del follow-up per gli studi prognostici va da 1 anno a 5 anni: la mediana della guarigione è del 5% (dallo 0 al 31%) e la mediana del miglioramento è del 39,5% (dall'8 al 63%). Il 75% dei pazienti sono femmine; l'età d'inizio varia da 29 a 35 anni; la durata della malattia da 3 a 9 anni (15).
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Tabella 1. Definizione della sindrome della fatica cronica, secondo il Center for
Disease Control and Prevention (CDC) presentata nel 1994 (Fukuda JK, et al. Ann Int Med 1994;121:953-9).
Caratteristiche della fatica cronica persistente o ricorrente, senza spiegazione
• La fatica dura da oltre 6 mesi.
• La fatica ha un inizio preciso e ben definito . • La fatica non deriva da una malattia
organica o da uno sforzo estremo. • La fatica non è attenuata dal riposo. • La fatica determina una riduzione
sostanziale delle attività occupazionali, educative, sociali e personali, precedenti. • Sono presenti quattro o più dei presenti
sintomi per ≥ 6 mesi: disturbi della memoria e della concentrazione, mal di gola,
linfonodi dolenti cervicali o ascellari, dolore muscolare, dolore in molte articolazioni, cefalea insorta ex novo, sonno non ristoratore o malessere dopo sforzo.
Criteri di esclusione
• Esistenza di situazioni mediche, che spieghino la stanchezza.
• Disordini depressivi maggiori (aspetti psicotici) o disordine bipolare.
• Schizofrenia, demenza o disordini. allucinatori
• Anoressia nervosa, bulimia nervosa. • Abuso di alcol o di altre sostanze . • Obesità grave.
4 1.1.3 MANIFESTAZIONI CLINICHE
La principale lamentela dei pazienti è la grave e persistente stanchezza; molti si lamentano anche di dolore e di disturbi cognitivi, altrettanto evidenti come la stanchezza. Spontaneamente i pazienti riportano sintomi: quali mialgia, disturbi della memoria e della concentrazione, problemi gastro-intestinali, cefalea e dolori ai muscoli e alle articolazioni (16). Ma sono riportati anche vertigini, nausea, anoressia e sudori notturni (17) (vedi Tabella 2). La maggioranza dei pazienti parlano di un inizio acuto dei sintomi dopo una malattia infettiva (18,19,20). In quasi tutti i casi i sintomi portano a una sostanziale riduzione del grado precedente di attività occupazionali, educative, sociali e personali (21). E' stata trovata una forte associazione fra sindrome della fatica cronica e disordini psichiatrici, più spesso disordini depressivi (22).
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Tabella 2. Sintomi e segni riportati da pazienti con la sindrome da stanchezza
cronica (Straus SE, J Infect Dis 1988;157:405-12)
Sintomi e segni Percentuale %
Stanchezza 100 Difficoltà di concentrazione 90 Cefalea 90 Mal di gola 85 Linfonodi dolenti 80 Dolori muscolari 80 Dolori articolari 75 Stato febbrile 75
Difficoltà a prender sonno 70 Problemi psichiatrici 65 Allergie 55 Crampi addominali 40 Perdita di peso 20 Esantemi 10 Tachicardia 10 Aumento di peso 5 Dolore toracico 5 Sudori notturni 5
6 1.1.4 EZIOLOGIA
Nell'eziologia della CFS è stato esplorato un gran numero di ipotesi somatiche e psicosociali. E' stato pensato che la CFS fosse dovuta a una malattia virale, a disfunzioni immunologiche, a risposte neuroendocrine, a disfunzioni del sistema nervoso centrale, ad alterazioni della struttura muscolare, a ridotta capacità all'esercizio, a disturbi del sonno, alla costituzione genetica, alla personalità e infine a processi neuropsicologici. Sebbene alcuni studi abbiamo trovato delle anormalità, soltanto pochi di essi riguardavano un largo numero di pazienti e non erano in generale studi controllati (23). La CFS è considerata una patologia multifattoriale con eziologia e patofisiologia sconosciute. Studi genetici sono stati condotti per caratterizzare geni che potessero essere utili nella diagnosi, ma ad oggi non sono stati riscontrati marcatori genetici. Inoltre è stato proposto che la CFS sia associata con fattori immunologici ed infiammatori (24,25,26). Per esempio è stata riportata l’over-espressione di proteine pro-infiammatorie come interferon-γ (INF-γ), interleukin-1 (IL-1), e il tumor necrosis factor- α (TNF-α). Dall’altro lato, aumenti di proteine correlate alla risposta immunitaria come lattotransferrina, defensina, integrine e catepsina, supportano l’ipotesi che la CFS si caratterizzi per l’attivazione del sistema immunitario. In ogni caso, al momento, non si sono specifici marcatori di infiammazione o immunitari che possano essere utili nella diagnosi, complicando di conseguenza il trattamento. L’infezione virale è stata solitamente proposta come agente causale, ma malgrado gli sforzi fatti nel chiarire il ruolo dei virus, i risultati sono controversi. Alcuni studi ritengono i vaccini come possibili agenti scatenanti (27,28). Molti sforzi sono stati
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compiuti dai ricercatori e dai clinici per identificare i fattori predisponenti e i fattori precipitanti.
1.1.5 FATTORI PREDISPONENTI
E' stato pensato che lo stile di vita e la personalità influenzassero la possibilità d'insorgenza della CFS, ad esempio sono stati riportati come fattori di rischio il neuroticismo e l'introversione (29). L'inattività nell'infanzia e l'inattività dopo la mononucleosi infettiva sembrano aumentare il rischio di CFS nell'adulti (30,31). Anche la genetica sembra avere un ruolo, poiché le donne sono maggiormente colpite da CFS rispetto agli uomini. Studi sui gemelli hanno inoltre mostrato una predisposizione familiare alla CFS sebbene non siano state mai riscontrate anomalie genetiche correlate alla patologia (32,33,34) .
1.1.6 FATTORI PRECIPITANTI
Uno stress fisico o psicologico acuto può innescare l’insorgenza della CFS (20). Tre quarti dei pazienti hanno riportato un'infezione, come un raffreddore, una malattia simil-influenzale o una mononucleosi infettiva (20,35). Quest’ultima è stata considerata infatti come una possibile causa della CFS (36,37,38,39). Sono state trovate anche alte frequenze di febbre Q e di malattia di Lyme (38). Ma nessuna prova immunologica è stata trovata a sostegno di queste ipotesi. Altri eventi somatici, come traumi gravi, interventi chirurgici, gravidanza o parto, sono stati riportati all'inizio della CFS. Anche gravi eventi della vita,
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come la perdita di una persona amata o del lavoro, sono stati ritrovati, insieme ad altre situazioni stressanti, all'origine della CFS (39,40).
1.1.7 FATTORI PERPETUANTI
Una volta che la CFS è manifestata, molti fattori perpetuanti ne possono impedire la guarigione. Sembra che i fattori psicologici siano coinvolti nel perpetuarsi della CFS. Ad esempio, si riportano fattori comportamentali come la persistente tendenza ad evitare attività, associate a un aumento dei sintomi (41,42,43,44). Spesso la convinzione dei pazienti in una causa fisica della malattia e la grande attenzione che prestano alle sensazioni corporee, contribuiscono ad un aumento della stanchezza. In uno studio su gemelli monozigoti discordanti per la CFS, il gemello malato utilizzava più strategie per evitare l’attività rispetto al gemello sano. Sono stati identificati altri fattori perpetuanti la CFS, come i comportamenti solitari (45) e la mancanza di supporto sociale (46). I medici possono contribuire mantenimento alla persistenza della CFS, incoraggiando l'esecuzione di procedure diagnostiche non necessarie, suggerendo di continuo cause psicologiche e non riconoscendo la CFS come una diagnosi sufficiente (47,48).
9 1.1.8 FISIOPATOLOGIA
La natura della fisiopatologia della CFS non è affatto chiara. Sono stati sospettati la maggior parte dei meccanismi biologici:
Alterazioni del sistema nervoso centrale Alterazioni del sistema immune
Alterazioni neuro-endocrine lievi: è stata trovata una più bassa risposta del cortisolo a un'aumentata concentrazione di corticotropina e una bassa regolazione del sistema serotoninergico (23)
Alterazioni nella secrezione delle citochine e nella funzionalità dei T linfociti (49)
Ma di tutte queste ipotesi, nessuna ha retto ad un approfondimento preciso. Alterazioni del sistema neuro-endocrino e del sistema nervoso centrale non sono sufficienti a spiegare i sintomi della CFS. Possono esserci interazioni più complesse fra i diversi sistemi regolatori che possono e sembrano coinvolgere il sistema nervoso centrale, il sistema immune e i sistemi della regolazione ormonale . Le citochine come interluchina 6 hanno un' importante ruolo nella CFS. Sono coinvolte nella risposta allo stress e sono induttori cruciali di malattie comportamentali quali apatia, anoressia, sonnolenza, disturbi della memoria e della concentrazione, febbre lieve e maggiore sensibilità del dolore (50,51,52,53).
10 1.1.9 DIAGNOSI
La diagnosi di sindrome da fatica cronica è fatta sulla base dell’esclusione di molte malattie che presentano la stanchezza cronica come sintomo principale o frequente. Purtroppo, non ci sono segni fisici o test diagnostici che individuano la sindrome. La diagnosi viene fatta utilizzando i due principali criteri stabiliti da un gruppo di esperti di ricerca nella sindrome da fatica cronica. Il primo criterio afferma che il paziente deve avere un grave affaticamento cronico di sei mesi o più lunga durata con altre condizioni mediche conosciute escluse dalla diagnosi clinica (diagnosi per esclusione). Il secondo criterio richiede che i pazienti abbiano quattro o più dei seguenti sintomi che si sono verificati nello stesso momento o dopo un grave affaticamento cronico e dopo un’influenza o un’infezione batterica:
perdita di memoria a breve termine o di concentrazione mal di gola
linfadenopatia dolori muscolari,
dolori multi-articolari senza gonfiore o rossore, mal di testa
sonno non riposante
malessere post-sforzo che dura più di 24 ore
Anche se gli studi di laboratorio non identificano la sindrome da fatica cronica, essi forniscono alcune evidenze di supporto per una diagnosi. Gli studi di laboratorio che confermano la presenza o l'assenza di
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cause di altre malattie aiutano a definire la diagnosi di esclusione. Inoltre, molti pazienti con sindrome da fatica cronica riportano i seguenti risultati di laboratorio:
tasso di sedimentazione eritrocitaria (ESR) molto basso immunoglobuline elevate contro Coxsackie B virus HHV-6 Chlamydia pneumoniae
diminuito numero di cellule killer normale CBC test di funzionalità epatica normali
analisi delle urine normali
Quando presi in gruppo, questi risultati supportano una diagnosi di sindrome da fatica cronica, ma non sono definitivi, solo i pazienti che soddisfano i due criteri stabiliti per la sindrome da fatica cronica sono definitivamente diagnosticati come tali (54). L’unico test diagnostico che viene utilizzato è il profilo ATP, questo test si basa sulla biochimica della malattia, in particolare sulla funzione dei mitocondri nella produzione di ATP (adenosina trifosfato), che rappresenta la fonte di energia necessaria per tutte le funzioni del corpo e riciclaggio di ADP (Adenosina difosfato) per ricostituire il rifornimento di ATP come necessario (55). Una ridotta produzione di ATP, ed il conseguente ridotto apporto energetico, potrebbero infatti spiegare la peculiare fatica che caratterizza la malattia.
12 1.1.10 TERAPIA
Per la sindrome da fatica cronica non è stata ancora trovata una cura . Il trattamento si basa su quelle terapie che riducono i sintomi. In generale, i pazienti cui viene diagnosticata entro i primi due anni di sintomi, rispondono meglio al trattamento sintomatico di quelli diagnosticati dopo due o più anni. I trattamenti per ridurre i sintomi sono individualizzati per ogni paziente dal momento che non esiste una terapia unica per tutti i pazienti. Terapie farmacologiche sono usate per trattare problemi di sonno, dolore e aspetti psicologici. Altra terapia utilizzata è la riduzione dello stress con il cambiamento dello stile di vita. Alcuni ricercatori suggeriscono che dieta e nutrizione giocano un ruolo importante e raccomandano assunzione di:
vitamina D vitamina B6 vitamina B12 Lisina
integratori di glutatione
Non essendoci cure mirate, spesso i pazienti ricorrono alla medicina alternativa come l’omeopatia e inoltre si ritiene che agopuntura aiutino i pazienti con sindrome da fatica cronica. La maggior parte di queste altre terapie però non sono state ben studiate dagli esperti che curano la sindrome da fatica cronica. La maggior parte dei medici concordano sul fatto che i pazienti con sindrome da fatica cronica devono stare attenti all’attività ed evitare qualsiasi esercizio fisico in quanto potrebbe rendere i sintomi della sindrome più severi. Di
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conseguenza, la maggior parte dei medici raccomandano solo esercizio fisico lieve o moderato (56).
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1.2 MITOCONDRI
I mitocondri sono organelli cellulari presenti in tutte le cellule eucariote, hanno un proprio genoma, costituito da una molecola circolare di DNA a doppio filamento (mtDNA), un proprio RNA ed un sistema completo di trascrizione e traduzione che porta alla sintesi di poche proteine fondamentali per la funzione mitocondriale (57) . Abbiamo 37 geni che codificano per 2 rRNAs, 22 tRNAs e 13 polipeptidi che fanno tutti parte dei componenti della catena respiratoria (58).
1.2.1 STRUTTURA
Figura N 1 : Struttura del mitocondrio, è evidenziata la membra esterna, quella
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I mitocondri sono delimitati da una doppia membrana e sono strutturati, come si può vedere in figura 1 , in quattro compartimenti: 1.MEMBRANA INTERNA : possiede strutture fittamente ripiegate che prendono il nome di creste. E’ caratterizzata da un’elevata impermeabilità dovuta alla presenza di numerosi fosfolipidi tra cui la cardiolipina e da proteine che rappresentano i complessi deputati alla fosforilazione ossidativa, al trasporto di proteine e di sostanze di scambio.
2.MEMBRANA ESTERNA: ha la funzione di filtro poichè presenta delle porine (proteine di trasporto transmembrana) che costituiscono dei canali acquosi che attraversano la barriera lipidica e permettono il passaggio di numerose molecole con massa fino a 5000 kDa.
3. MATRICE: ha una consistenza più viscosa del citoplasma che si presenta più acquoso, contiene enzimi solubili che catalizzano reazioni di ossidazione di piccole molecole organiche, inoltre sono presenti nella matrice ribosomi e molecole di DNA circolare.
4.SPAZIO INTERMEMBRANA: è compreso tra membrana esterna ed interna, contiene proteine coinvolte soprattutto nell’apoptosi e nella produzione di energia.
16 1.2.2 FUNZIONI
Le principali funzioni svolte dai mitocondri sono le seguenti:
Fosforilazione ossidativa: la funzione principale dei mitocondri è quella di generare energia, sottoforma di ATP, come processo finale di altre vie metaboliche quali glicolisi e ciclo di Krebs. In particolare il piruvato , prodotto dalla glicolisi , viene trasportato all’interno della matrice mitocondriale dove viene decarbossilato e coniugato con il coenzima A per formare acetilCoA che viene immesso nel ciclo di Krebs, o degli acidi tricarbossilici, al termine del quale vengono generate tre molecole di NADH e una di FADH2.
Figura N 2 rappresentazione del metabolismo di energia nella cellula e nel
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Gli elettroni trasportati da NADH e FADH2 vengono scambiati nella
catena di trasporto degli elettroni, rappresentata in figura, costituita da 5 complessi proteici posizionati sulla membrana mitocondriale interna:
1. NADH- deidrogenasi (complesso I) 2. Succinato deidrogenasi (complesso II) 3. Citocromo c reduttasi (complesso III) 4. Citocromo c ossidasi (complesso IV) 5. ATP- sintetasi (complesso V)
Ciò che rende possibile la produzione di ATP sono due processi, il primo è rappresentato dall’ossidazione dei substrati e il trasferimento di elettroni all’accettatore finale rappresentato dall’ossigeno molecolare, allo stesso tempo i complessi I, III e IV trasferiscono protoni contro gradiente nello spazio intermembrana ; il secondo processo è la fosforilazione di ADP nella quale si sviluppa un gradiente protonico elettrochimico che permette all’ ATP – sintetasi di far tornare i protoni all’ interno della matrice e fornire l’energia necessaria per generare ATP (59).
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FIGURA N 3 rappresenta la catena di trasporto degli elettroni
Regolazione dell’apoptosi: il poro di transizione mitocondriale (mtPTP),un canale non specifico sulla membrana interna mitocondriale, che permette il passaggio di molecole con massa inferiore a 1.5 KDa. L’apertura del canale provoca un massiccio rigonfiamento del mitocondrio e rottura della membrana mitocondriale esterna con la fuoriuscita di componenti intermembrana che causano l’apoptosi. L’apertura del poro è accompagnata da un elevato livello di Ca++ nella matrice e da situazioni di stress ossidativo(60).
Sintesi e controllo delle specie reattive dell’ossigeno: la produzione di specie reattive dell’ossigeno (ROS) da parte del mitocondrio può portare al danno ossidativo delle proteine mitocondriali, delle membrane e del DNA, diminuendo l’abilità dei mitocondri di svolgere le loro normali funzioni compresa la produzione di ATP. Il danno ossidativo incrementa la tendenza del mitocondrio a rilasciare proteine appartenenti allo spazio intermembrana, come il citocromo C, nel citosol attraverso il passaggio dalla MOMP(mitochondrial outer membrane permeabilization); inoltre può indurre l’apertura del mtPTP. Durante la catena di trasferimento degli elettroni possono
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formarsi ed essere rilasciati i seguenti intermedi, parzialmente ridotti, dell’ossigeno:
O2 l’anione superossido, formato dalla reazione spontanea
dell’ossigeno con un singolo elettrone, questa molecola reattiva si comporta da riducente.
H2O2, acqua ossigenata o perossido d’idrogeno che viene
prodotta dalla riduzione di due elettroni dell’ossigeno molecolare, in presenza di metalli come Fe++ (Reazione di Fenton) e Cu+ si ha la sua conversione nel radicale ossidrilico. OH°, radicale ossidrilico è il più reattivo e dunque il più dannoso.
Le ROS possono interagire con le molecole biologiche in particolare i danni più rilevanti sono a carico della membrana lipidica, delle proteine che vengono ossidate e del DNA che può andare incontro a mutazioni. Il danno ossidativo contribuisce allo sviluppo di numerose patologie (57).
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FIGURA N 4 veduta d’insieme della produzione di ROS a livello mitocondriale;
sono visibili i processi attivati dalle ROS.
1.2.3 MITOCONDRI NELLA SINDROME DELLA FATICA CRONICA
Disfunzioni a livello dei mitocondri sono legate ad un ampio numero di patologie come il cancro , malattie degenerative come l’Alzheimer (58) e possono essere coinvolti anche nella CFS. Infatti quando i mitocondri non funzionano correttamente, alle cellule e ai tessuti manca energia e come conseguenza si ha un’ affaticamento, dolore muscolare, scarsa concentrazione e mal di testa. Sono stati fatti degli studi su pazienti affetti da sindrome da fatica cronica e hanno visto
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evidenti disfunzioni mitocondriali (61,62,63). Biopsie muscolari, analizzate con microscopio elettronico hanno dimostrato anormali degenerazioni mitocondriali inoltre, sono trovate delezioni di geni nel DNA mitocondriale (mtDNA), che sono responsabili per la produzione di energia (64,65). Inoltre nei pazienti con CFS sono stati misurati nel siero i livelli di Carnitina e N-acetilcarnitina ( composti essenziali per alcune reazioni metaboliche nei mitocondri) ed è risultato che erano più bassi rispetto ai valori normali (66,67).
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1.3 LA PROTEOMICA
1.3.1 DEFINIZIONE
Il termine proteomica fu coniato per la prima volta nel 1995 e definisce la caratterizzazione su larga scala di tutte le proteine di una linea cellulare, tessuto o organismo (68,69,70). Lo scopo della proteomica è quello di ottenere una visione globale ed integrata di tutte le proteine che costituiscono la cellula piuttosto che il loro studio individuale (71). Sono le proteine e non i geni gli effettori delle funzioni cellulari, solo con lo studio del genoma sarebbe impossibile avere informazioni sui meccanismi patologici, caratterizzare le modificazioni post-traduzione ed identificare il target dei farmaci(72,73). L’importanza di questo tipo di studio, rispetto allo studio e alle informazioni contenute nel genoma, è rappresentato soprattutto dalla possibilità di studiare le modifiche post-traduzionali che si riflettono sulla funzionalità della proteina(74,75) .Il proteoma è infatti un’entità dinamica poiché cellule di uno stesso organo esprimono proteine differenti ed anche lo stesso tipo di cellule in condizioni diverse (età, malattia, ambiente) può esprimere proteine diverse (76). Esistono 2 aree principali in questo campo:
• La proteomica funzionale : permette la caratterizzazione dell’attività, delle interazioni e della presenza di modificazioni post-traduzionali delle proteine, per la descrizione a livello molecolare dei meccanismi cellulari.
• La proteomica profiling : fornisce la descrizione dell’intero proteoma di una cellula, organismo o tessuto. E’ un approccio
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puramente descrittivo e comprende la localizzazione e l’identificazione dei prodotti di espressione proteici. A causa della diversità delle proteine, è emerso un range vario di tecnologie proteomiche che integrano metodi biologici, chimici ed analitici: la principale tecnologia utilizzata è la spettrometria di massa (MS), accoppiata con metodi di separazione delle proteine (77) . La MS è una tecnica altamente sensibile e versatile per lo studio delle proteine: è utilizzata per quantificare le proteine e per determinarne sequenza, massa e informazioni strutturali(in particolare modificazioni post-traduzionali, come glicosilazioni o fosforilazioni) (78). Il successo nell’identificazione della proteina, comunque, dipende dalla preparazione del campione e dal tipo di spettrometro di massa utilizzato. La combinazione della MS, per l’identificazione proteica, con l’elettroforesi bidimensionale(2-DE), come tecnica separativa ad alto potere risolutivo, è il metodo classico e il più utilizzato in questo tipo di studi (79). Negli ultimi anni la proteomica, grazie anche allo sviluppo di nuove tecniche di spettrometria di massa e alla disponibilità di sequenze genomiche, è progredita con crescente interesse nel mondo scientifico: al momento è usata come un moderno strumento nella scoperta di farmaci, per la determinazione di processi biochimici implicati nelle malattie, per monitorare processi cellulari, per caratterizzare sia i livelli di espressione che le modifiche post trasduzionali delle proteine, per ricercare differenze tra fluidi biologici o cellule di soggetti sani e malati e per identificare markers patologici e possibili candidati per l’intervento terapeutico. Generalmente uno studio proteomico è composto dalle seguenti fasi:
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II fase: separazione delle proteine, una delle tecniche più utilizzate è l’elettroforesi bidimensionale anche se ha dei limiti. III fase : identificazione delle proteine tramite l’uso della spettrometria di massa, le proteine identificate vengono poi confrontate con quelle già identificate presente nel database che contiene le proteine codificate dal genoma.
1.3.2 ELETTROFORESI BIDIMENSIONALE
Questa tecnica, introdotta nel 1975 da O’Farell e Klose, è considerata un potente strumento per separare e dividere complessi proteici estratti da cellule e tessuti. E’ molto efficace poichè permette di separare migliaia di proteine per gel comprese quelle che differiscono per un singolo amminoacido o per minime differenze nel loro pI e/o PM. Ogni spot ottenuto, in seguito alla separazione, corrisponde ad una singola specie proteica (80) . La tecnica è migliorata nel corso degli anni soprattutto con l’introduzione di gradienti di pH immobilizzati che hanno garantito una miglior riproducibilità, mentre l’uso di coloranti fluorescenti ha migliorato la sensibilità nell’individuazione proteica. Alcune limitazioni però rimangono: la lunghezza dell’esperimento, problemi nel caricare proteine troppo grandi o con spiccate caratteristiche idrofobiche che non entrano nel gel per la prima dimensione, infine le proteine troppo acide o basiche (con pI minori di 3 o maggiori di 10) non sono ben rappresentate. L’elettroforesi bidimensionale (2-DE) consiste di due fasi di separazione: la prima e la seconda dimensione. Nella prima dimensione le proteine vengono separate in base al loro punto
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isoelettrico (pI), mentre nella seconda dimensione la separazione avviene in base al loro peso molecolare (PM oMW).
1.3.3.PRIMA DIMENSIONE O ISO- ELETTROFOCUSING (IEF) L’iso-elettrofocusing separa le proteine secondo il loro punto isoelettrico (pI) che rappresenta il valore di pH per il quale la carica netta della proteina è zero. Le proteine sono molecole anfotere, cioè presentano una carica positiva, negativa o nulla in base al pH dell’ambiente in cui si trovano. Avremo quindi proteine caricate positivamente a pH minori rispetto al loro pI, mentre le troveremo caricate negativamente a pH superiori .Attraverso l’influenza del campo elettrico le proteine si muovono all’interno del gradiente di pH fino al punto in cui la loro carica netta è nulla, per cui una proteina caricata positivamente migrerà verso il catodo riducendo progressivamente la sua carica mentre si avvicina al suo pI. Al contrario la proteina carica negativamente migra verso l’anodo e si ferma nel punto in cui raggiunge il suo pI, il processo è schematizzato in figura 5.
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In questo modo si ottiene l’effetto focusing dell’IEF che concentra le proteine al loro pI e ne permetterla separazione anche per proteine che differiscono per minime differenze di carica. La risoluzione del campione è determinata dall’ampiezza del gradiente di pH e dalla forza del campo elettrico. Si utilizzano comunemente voltaggi alti(oltre 1000 V): quando le proteine hanno raggiunto la posizione finale nel gradiente di pH nel sistema c’è un piccolo movimento ionico che risulta in una corrente finale molto bassa (sotto 1 mA).
1.3.4 STRIP
Originariamente la prima dimensione si effettuava caricando il campione completamente denaturato in un tubo di vetro riempito di poliacrilammide saturata con una soluzione di elettroliti anfoteri, che sottoposte ad un campo elettrico si separano e formano un gradiente continuo basato sulla loro carica netta. Questo gradiente di anfoliti determina un gradiente di pH (81). Con l’introduzione dei gel a gradiente di pH immobilizzato (IPG) nel campo dell’elettroforesi sono stati superati i problemi e le limitazioni di questi supporti. I gradienti a pH immobilizzato sono stati ottenuti incorporando covalentemente un gradiente di gruppi acidi e basici nel gel di poliacrilammide (82). Per le strip sono utilizzate molecole ben caratterizzate, monomeri di acrilammide legati ognuno ad un singolo gruppo basico o acido come evidenziato in figura n 6.
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FIGURA N 6: monomeri di acrilammide.
Le strip IPG sono prodotte su supporti in plastica usando due soluzioni: una miscela acida ed una basica di monomeri di acrilammide (entrambe contenenti inoltre bis-acrilammide e catalizzatori). Le concentrazioni dei gruppi nelle due soluzioni determinano il range di pH del gradiente prodotto. I gel sono poi lavati, disidratati e tagliati a strisce. In commercio si trovano strip (Amersham Biosciences, Sigma, etc.) di varie lunghezze (7-11-13-18-24cm) e con vari intervalli di pH (3-10; 4- 7; 6-11; 6-9; 3,5-4,5; etc), lineari (L) e non lineari (NL). L’uso delle strip IPG aumenta la riproducibilità e la qualità dei risultati (83). Figura 6: a) acrilammide legata ad R che può essere un gruppo acido o basico; b) legame dei gruppi acidi o basici al reticolo formato dall’acrilammide. I vantaggi nell’uso dello strip a pH immobilizzato sono molteplici :
La possibilità di reperire in commercio i gel preformati minimizza le variazioni dovute alla preparazione dei gel.
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La preparazione dei gel su pellicole di plastica ne facilita il loro utilizzo.
I gradienti sono stabili nel tempo e non subiscono alterazioni legate alla presenza del campione.
I gradienti in commercio sono costruiti per seguire diverse esigenze, si trovano lineari e non lineari, con range di pH molto vasti (pH 3-10) o molto ristretti (pH 4-5).
1.3.5 SECONDA DIMENSIONE
La seconda dimensione dell’elettroforesi bidimensionale è rappresentata dall’SDS-page che separa le proteine presenti nel campione in base al loro PM, sfruttando il gel di acrilammide come setaccio molecolare. L’SDS (sodio dodecil solfato) è un detergente anionico che in soluzione acquosa stabilizza le molecole proteiche denaturate formando attorno ad esse un guscio di solvatazione che genera micelle dotate della stessa carica elettrica, in questo modo la carica elettrica della proteina viene mascherata e tutte le proteine risultano caricate negativamente quindi la loro separazione avviene unicamente in funzione del loro PM poichè tutte migrano verso l’anodo.
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