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LES LANGUES DU THÉÂTRE ITALIEN CONTEMPORAIN

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÉ CHARLES-DE-GAULLE – LILLE 3

ÉCOLE DOCTORALE SCIENCES DE L’HOMME ET DE LA SOCIÉTÉ LILLE NORD DE FRANCE

UNIVERSITÀ DI PISA

SCUOLA DI DOTTORATO IN STORIA, ORIENTALISTICA E STORIA DELLE ARTI

LES LANGUES DU THÉÂTRE ITALIEN

CONTEMPORAIN

Riassunto

Tesi di dottorato di

Élodie Cornez

Tesi in cotutela sotto la direzione del Professore Giorgio Passerone e della Professoressa Anna Barsotti.

Giuria composta da:

Anna BARSOTTI (Università di Pisa) Leonardo CASALINO (Université Grenoble 3)

Silvia CONTARINI (Université Paris Ouest Nanterre La Défense) Piergiorgio GIACCHÈ (Università di Perugia)

Giorgio PASSERONE (Université Lille 3)

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Introduzione

a. Contestualizzazione e definizione della questione

La questione della lingua in Italia è una problematica che da diversi secoli interessa i vari campi della cultura, sia orale che scritta. La lingua italiana, fino all’Ottocento, rimane infatti una realtà tutt’altro che ovvia, in un territorio a lungo frammentato in una infinità di culture locali che hanno subìto influenze varie. Quest’idioma, che si definisce nel Trecento specialmente grazie all’opera dei tre scrittori Dante, Boccaccio e Petrarca, si sviluppa per quasi cinque secoli come lingua scritta, normalizzata in base a una linea petrarcheggiante – alta, illustre, rigorosa – piuttosto che a quella dantesca, maggiormente rivolta verso un plurilinguismo che non esita ad alternare vari registri linguistici molto diversi tra loro. L’italiano che viene codificato allo scritto e che ben presto diventa la lingua di tutti i letterati, non conosce tuttavia una pari evoluzione nella dimensione orale: infatti, le diverse popolazioni locali presenti sul territorio continuano ad esprimersi quotidianamente nella loro lingua dialettale, la cui varietà corrisponde alla diversità delle lingue-sostrato e delle influenze culturali esterne accumulate fin dall’Antichità. La storia della lingua sul territorio italiano sembra quindi procedere secondo due vie, presentando da una parte una lingua altamente normata, che unifica gli sforzi di espressione principalmente attraverso lo scritto; e d’altra parte una realtà linguistica molteplice negli scambi orali quotidiani, che varia nel tempo e nello spazio, e non gode della stabilità né del prestigio della lingua scritta.

Questo particolare profilo della storia linguistica dell’Italia ha influenzato tutta l’evoluzione della cultura sin dal Medioevo, ed interessa in particolar modo l’ambito drammatico. Infatti, il genere teatrale unisce strettamente la sfera della scrittura e dell’oralità: diventa quindi uno spazio decisivo in cui la lingua viene confrontata da una parte alla sua elaborazione testuale e dall’altra alla sua realizzazione scenica. Il carattere molto particolare della parola teatrale (che Pietro Trifone definisce come «scritto per l’esecuzione orale nella finzione scenica»1) le conferisce quindi una naturale propensione al plurilinguismo, all’uso diversificato di lingue, di registri, di linguaggi. Nel teatro, l’emissione e la ricezione della parola possiedono un carattere immediato, il che rende necessario, da parte degli artisti, il prendere in considerazione una dimensione percettiva della lingua oltre quella cognitiva: la

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Pietro Trifone, «L’italiano a teatro», in Luca Serianni, Pietro Trifone (a cura di), Storia della lingua italiana. Vol. 2, Scritto e parlato, Torino, Einaudi, 1994, p. 88.

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lingua non è soltanto vettore di senso, è anche materia sonora e ritmica, il cui effetto sullo spettatore è significativo.

La questione della lingua sembra diventare più complessa per quel che riguarda la storia particolare del teatro italiano. Infatti, la sua organizzazione artistica ed economica viene assunta – e questo fin dalla Commedia dell’Arte nel Cinquecento – più dalla polivalenza degli stessi attori che dall’autorità dei drammaturghi. Infatti, al teatro italiano manca una forte tradizione di autori drammatici autorevoli che abbiano stabilito una lingua teatrale definita e di portata nazionale. Il teatro italiano – ad eccezione della tragedia – si costruisce quindi con forze vive, e la creazione drammatica viene realizzata in una molteplicità di idiomi, senza che una linea linguistica federatrice orienti l’invenzione di una lingua teatrale nazionale.

L’unificazione linguistica diventa una delle priorità della classe dirigente subito dopo l’Unità. Tuttavia, di fronte all’analfabetismo del 75% della popolazione2

, il progetto nazionale risulta complesso, e il teatro figura tra i mezzi che la classe dirigente intende usare per questa diffusione. L’unificazione linguistica viene pienamente realizzata soltanto dopo la Seconda Guerra mondiale, specialmente grazie all’avvento dei mass media, e della televisione in particolare. Il divario tra la lingua italiana e le lingue orali del quotidiano si riduce notevolmente: la padronanza dell’italiano da parte della popolazione si afferma sempre più, mentre le lingue dialettali subiscono una certa «italianizzazione»3. I fenomeni di scambio tra i due codici aumentano e questo si vede in particolare nelle realizzazioni delle varianti regionali della lingua nazionale. L’italiano sembra diventato una lingua praticabile sia nella scrittura che nell’oralità, e questo anche nelle crezioni artistiche.

Tuttavia, la presente ricerca nasce da una constatazione semplice: in un’epoca in cui l’italiano è diventato lingua nazionale compiuta, il genere teatrale continua a proporre creazioni originali in cui le lingue dialettali occupano un posto importante. Non si tratta di opere legate al folclore oppure alla rievocazione nostalgica di un passato locale, ma proprio di creazioni che hanno portato il loro autore a diventare motore della scena nazionale, nonché a rappresentare il teatro italiano sulla scena internazionale. Questa dinamica risale agli anni che seguono l’Unità: infatti, i risultati più significativi sulla scena drammatica vengono raggiunti

2 Tullio De Mauro, L’Italia delle Italie, Roma, Editori Riuniti, 1992, p. 130.

3 Davide Ricca, «Italianizzazione dei dialetti» [online], sul sito dell’Enciclopedia Treccani, disponibile

all’indirizzo http://www.treccani.it/enciclopedia/italianizzazione-dei-dialetti_%28Enciclopedia_dell%27Italiano%29/ (consultato il 29/10/2014).

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dal teatro verista di Giovanni Verga, che si allontana dalla tendenza del teatro borghese abbozzata nella seconda metà dell’Ottocento e propone creazioni fortemente influenzate dalla cultura e dalla lingua siciliana. Più tardi, sono le opere di Eduardo De Filippo a Napoli e di Dario Fo nella Pianura Padana a segnare in modo duraturo il panorama del teatro italiano contemporaneo. La linea pirandelliana, che stabiliva una lingua italiana idonea alla recitazione sul palcoscenico, ripulita dai manierismi e dalle eversioni dell’inizio del secolo, e che si presentava quale «uno stile di cose» e non «di parole»4, appare come una soluzione proposta tra diverse altre più che come modello incontestato per l’evoluzione della scrittura drammatica italiana.

La nostra ricerca si interessa particolarmente agli ultimi trent’anni e intende esaminare le ragioni per le quali le lingue dialettali vengono tuttora usate in teatro nonostante gli artisti abbiano ormai a disposizione una lingua italiana orale, parlata e capita da tutti. In una società in cui i ritmi si accelerano, in cui il ricorso a soluzioni audiovisive si fa sempre più sistematico, la convergenza di due realtà culturali in situazione di relativa fragilità – le lingue dialettali e il genere teatrale –mette al centro del dibattito i legami che uniscono la parola dialettale alla scena.

b. Definizione del campo di ricerca

Il limite cronologico del periodo dal quale provengono le opere che analizziamo in modo dettagliato, corrisponde all’inizio degli anni Ottanta del Novecento. Una transizione decisiva si opera nel teatro italiano: il periodo della neoavanguardia degli anni Sessanta e Settanta si chiude, mentre inizia il ritorno ad un «teatro di parola»5. Questa espressione indica che non si tratta di un teatro fondato sul testo (sul quale le neoavanguardie teatrali avevano destato sospetti), bensì di un approccio particolarmente attento alla realizzazione di questa parola. Infatti, sembra inevitabile prendere in considerazione il polo dell’attore; la sua prospettiva, considerata con grande attenzione nel nostro lavoro, risulta determinante per capire le dinamiche – fra cui quelle linguistiche – del teatro contemporaneo, giacché esso

4

Distinzione fatta da Luigi Pirandello, che cita i nomi di Petrarca, Guicciardini, Tasso, Monti e D’Annunzio per lo «stile di parole» e Dante, Machiavelli, l’Ariosto, Manzoni e Verga per lo «stile di cose». Luigi Pirandello, «Giovanni Verga», in Saggi, poesie, scritti varii, Milano, Mondadori, 1973, p. 392.

5 «Il teatro di parola» è un’espressione usata da Silvia Sinisi per segnare questa svolta importante nella storia del

teatro contemporaneo. «Neoavanguardia e postavanguardia in Italia», in Roberto Alonge e Guido Davico Bonino (a cura di), Storia del teatro moderno e contemporaneo. Vol. III: Avanguardie e utopie del teatro. Il Novecento, Torino, Einaudi, 2001, pp. 732-733.

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continua ad essere un teatro dell’attore prima che un teatro dell’autore6

. Tra gli artisti di teatro, numerosi attori sono anche autori dei propri testi – che lavorino soli oppure con compagnie – e talvolta i registi di loro stessi. Così l’attore-autore assume su si sé non solo l’elaborazione della lingua teatrale, ma anche la sua realizzazione in scena: una sensibilità di interprete si unisce quindi alle capacità d’autore in ogni momento della creazione teatrale. Questa elaborazione della lingua teatrale non viene considerata soltanto quale strumento esclusivamente cognitivo, necessario alla trasmissione di un contenuto, ma anche quale materiale la cui apprensione è innanzitutto percettiva, specialmente grazie al ritmo, alla cadenza, alla tonalità che ogni lingua dialettale può presentare. Inoltre, queste lingue dialettali si iscrivono pienamente in una corporeità intensa, altamente significativa, che molto spesso viene a completare la parola. La nostra scelta di considerare la questione della lingua nel teatro italiano contemporaneo, partendo dalla prospettiva dell’attore, permette anche di fondare la nostra riflessione non solo sui testi esistenti, ma anche sulla regia di queste creazioni linguistiche, attraverso la visione diretta delle opere, oppure con le registrazioni video7. Ciò consente di lavorare in modo preciso sulle effettive realizzazioni linguistiche, e di valutarne gli effetti in ambito sonoro, attraverso la recitazione degli attori.

c. Ipotesi di lavoro

La nozione di lingua dialettale è strettamente legata ad una nozione di territorio da una parte, e a una nozione di tempo, dall’altra. Questi due concetti portano a loro volta la riflessione a interrogarsi su una terza nozione, quella di identità.

L’idea di lingua dialettale sembra definire i limiti di un territorio: un territorio prima di tutto spaziale, dato che, per definizione, il dialetto viene parlato soltanto in una zona circoscritta, e poi un territorio culturale, dato che la lingua è l’espressione diretta di un’eredità locale, costituita da una tradizione linguistica e comportamentale propria di una zona geografica definita. Questa constatazione induce un primo problema, che concerne la capacità del nostro teatro a oltrepassare i limiti del proprio territorio per essere percepito, o anche

6

Cfr. Anna Barsotti, Eduardo, Fo e l’attore-autore del Novecento, Eduardo, Fo e l’attore-autore del Novecento, Roma, Bulzoni, 2007.

7 È necessario precisare che una rappresentazione, sia quando vi si assiste che quando se ne guarda la

registrazione, genera un approccio soggettivo della creazione: si tratta soltanto di un punto di vista, da un posto nella sala, oppure di un punto di vista imposto da una telecamera (attraverso lo sguardo di un regista) a un dato momento della tournée di uno spettacolo che può ancora modificarsi (specialmente nel caso degli spettacoli di narrazione).

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compreso, da un pubblico non dialettofono, e per avere la possibilità di essere rappresentato oltre i confini dell’Italia.

La nozione di dialetto, inoltre, sembra dover necessariamente rimandare ad una nozione di tempo passato. Infatti, l’evocazione dei dialetti pare rifarsi a culture regionali di un tempo trascorso, quello di un’Italia rurale, i cui usi e costumi vanno scomparendo. Questo tempo passato è anche quello dello stesso attore, per il quale il dialetto è spesso la madre lingua, che lo rimanda all’infanzia, ad un mondo che precede quello degli adulti e precede anche la società odierna. Infine, l’uso del dialetto in teatro rimanda alla tradizione teatrale in lingua dialettale propria di ogni regione, e perfino di ogni città (è molto forte a Napoli e a Venezia, per esempio).

La lingua del teatro contemporaneo che attinge dal dialetto, proveniente da una cultura sempre più fragilizzata, circoscritta in un territorio preciso, potrebbe diventare allora il vettore privilegiato per ridefinire un’identità, nell’ambito di un contesto culturale più vasto e uniformizzante qual è l’Italia odierna, la cui lingua ormai è prevalentemente l’italiano. Quindi l’ipotesi dalla quale parte il nostro studio è che gli artisti che scelgono di praticare il teatro usando il dialetto si iscrivano in una prassi di riaffermazione di un’identità e di una cultura locali di fronte ad una cultura nazionale uniformizzante. L’operazione teatrale svolta da questi artisti cerca quindi paradossalmente di lavorare una materia linguistica a priori volta al passato, per farne, invece, uno strumento di modernità, di valorizzazione dinamica di un patrimonio culturale. Il nostro studio intende stabilire una cartografia del teatro italiano contemporaneo in dialetto, in modo da verificare queste ipotesi.

d. Organizzazione della riflessione

Il nostro lavoro di ricerca si divide in due parti principali: in un primo momento, si tratta di definire il contesto in cui si iscrive il problema della lingua drammatica dopo l’Unità, in modo da capire in quale ambito si collochino le odierne ricerche linguistiche teatrali. Dal teatro borghese fino al «teatro di parola», le aspettative culturali ma anche politiche cambiano, così come le stesse pratiche teatrali. La seconda parte propone l’analisi di opere di cinque attori-autori: Marco Paolini, Ascanio Celestini, Spiro Scimone (Compagnia Scimone Sframeli), Emma Dante (Compagnia Sud Costa Occidentale) e Enzo Moscato. La scelta di questi artisti corrisponde a vari criteri: sono gli autori dei testi che recitano (o che sono recitati dalla loro compagnia), sono originari di diverse regioni (rispettivamente il Veneto, il Lazio, la

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Sicilia per Scimone e Dante, e la Campania), il che ci permette di osservare l’uso della lingua dialettale in un’ampia parte del territorio nazionale. Questi artisti hanno ormai acquisito una visibilità nazionale, recitano sulle scene italiane, nonché europee, e hanno tuttora una parte attiva nella creazione italiana contemporanea. Un’opera di ciascun artista viene poi esaminata in modo più preciso: Bestiario italiano. I cani del gas (1999) di Marco Paolini, Scemo di

guerra (2004) di Ascanio Celestini, Nunzio (1994) di Spiro Scimone, mPalermu (2001) di

Emma Dante e Compleanno (1992) di Enzo Moscato.

1. La lingua e i dialetti nel teatro contemporaneo: un punto sulla

questione

La questione della lingua nel teatro italiano è stata oggetto di numerosi lavori: la lingua della Commedia dell’Arte, quella dei drammaturghi di corte del Cinquecento, quella di Goldoni oppure quella di Pirandello sono state studiate da linguisti quali Maria Luisa Altieri Biagi, Gianfranco Folena, Pietro Trifone8, che lavorano in ambito filologico in base a fonti soprattutto scritte. Per quanto riguarda gli ultimi anni, gli studi dei linguisti sono meno numerosi. Citiamo tuttavia quelli di Stefania Stefanelli che si interessa molto agli attori-autori contemporanei, come pure qualche studio di Paolo D’Achille9

. Negli anni 2000, tuttavia, un nuovo interesse per la questione della lingua nel teatro contemporaneo dà luogo a diversi convegni che accolgono storici del teatro insieme a professionisti della scena. La loro testimonianza, del resto, invalida l’ipotesi secondo la quale il problema della lingua teatrale si risolverebbe con una naturale sintesi tra dialetto ed italiano. Appare infatti chiaramente che la lingua teatrale è sempre il risultato di scelte consapevoli e che le lingue dialettali vengono quindi usate volontariamente. A differenza dei precedenti studi più strettamente linguistici,

8 Citiamo alcuni lavori: Pietro Trifone, L’italiano a teatro. Dalla commedia rinascimentale a Dario Fo,

Pisa-Roma, Edizioni editoriali e poligrafici Internazionali, 2000 ; Maria Luisa Altieri Biagi, La lingua in scena, Bologna, Zanichelli, 1980 ; Gianfranco Folena, «Il linguaggio del Goldoni dall’improvviso al concertato», in

Paragone, VIII, 1957, 94, pp. 4-28 e «L’esperienza linguistica di Carlo Goldoni», in Lettere italiane, X, 1958,

pp. 1-54.

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Stefania Stefanelli, Va in scena l’italiano. La lingua del teatro tra Ottocento e Novecento, Firenze, Franco Cesati Editore, 2006, nonché Varietà dell’italiano nel teatro contemporaneo (a cura di Stefania Srtefanelli), Pisa, Edizioni Della Normale, 2009 ; Paolo D’Achille, «Parole in palcoscenico: appunti sulla lingua del teatro italiano dal dopoguerra a oggi», in Maurizio Dardano, Adriano Pelo, Antonella Stefinlongo (a cura di), Scritto e parlato.

Metodi, testi e contesti, atti del convegno internationale, 5-6 febbraio 1999 Roma, Roma, Aracne, 2001, pp.

181-219, nonché «L’italiano regionale in scena», in Nero Binazzi, Silvia Calamai (a cura di), Lingua e dialetto nel

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questi lavori prendono maggiormente in considerazione la realizzazione della lingua in scena, ed in questo senso si sono rivelati molto utili per la nostra ricerca.

2. Il problema della lingua nel teatro dell’Ottocento: l’Unità, il teatro

borghese, il dialetto e l’italiano

Gli eventi relativi all’Unità d’Italia fanno apparire la necessità di una nuova politica linguistica che sviluppi i mezzi per insegnare ai nuovi italiani la lingua nazionale. Il teatro, allora, viene considerato uno dei possibili vettori di questa diffusione. Il panorama del teatro italiano dell’Ottocento è dominato da una parte dagli attori, i quali molto spesso sono anche autori, capocomici, impresari, e dall’altra da una logica economica tanto più imperiosa quanto più severa risulta la concorrenza dell’opera lirica. Tuttavia, incalzato da altri impegni, il nuovo Stato ben presto abbandona le proprie ambizioni per il genere drammatico, e la questione di un teatro di dimensione nazionale rimane sospesa.

Ciononostante, la classe borghese, in pieno sviluppo nella seconda metà dell’Ottocento, intende usare il teatro per legittimare l’egemonia a cui essa aspira e per creare un repertorio nazionale degno degli altri repertori europei. Le opere del teatro borghese (citiamo i nomi di Paolo Giacometti, Achille Torelli, Marco Praga, Giuseppe Giacosa) vengono quindi scritte in una lingua nazionale ancora esitante, venata di un certo manierismo, e vertono su temi quali l’ambiente della famiglia, l’amore e il denaro. Il dialetto è escluso da queste opere, che cercano di raggiungere una certa dignità linguistica. Diverse grandi opere, tuttavia, continuano ad essere scritte in dialetto teatrale: Le Miserie di Monssù Travet di Vittorio Bersezio (1863), il teatro di Antonio Petito oppure quello di Giacinto Gallina.

Verso la fine del secolo, l’entusiasmo per la recente Unità è scomparso, e le conseguenze del cammino verso il progresso appaiono anche nel loro aspetto negativo: un certo arcaismo non è stato eliminato in molte campagne, specialmente nel sud dell’Italia. Diversi artisti sentono l’esigenza di interessarsi a queste popolazioni di esclusi, male integrati e ancora ampiamente dialettofoni. È così che il verismo di Giovanni Verga s’incarna in teatro nel dramma Cavalleria rusticana (1884), in cui viene proposta una soluzione linguistica inedita: scritto in italiano, il dramma riproduce tuttavia una cadenza chiaramente siciliana grazie ad una sintassi direttamente ispirata dal dialetto. La terza via scelta da Verga, a metà strada tra le opere in dialetto e quelle del teatro borghese in italiano, è quella del plurilinguismo, della mescolanza delle lingue. Questa stessa linea era stata adottata da

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Goldoni, che sfruttava tutti gli idiomi parlati nella Venezia dinamica e commerciante della sua epoca, ed è questa stessa linea che viene adottata da Eduardo Scarpetta per il teatro napoletano, da lui abilmente collocato in un ambito borghese comico, in cui la particolarità locale viene di continuo mescolata con l’italiano. Il teatro borghese, quindi, non riesce a innescare l’ambita dimensione nazionale in lingua che molti drammaturghi aspettavano, mentre si afferma la linea del plurilinguismo.

3. La scelta difficile della lingua in teatro: Antonio Gramsci, Pier

Paolo Pasolini e l’avvento dell’italiano nazionale

La riflessione sulla lingua del teatro viene arricchita nel Novecento dal pensiero di Antonio Gramsci e di Pier Paolo Pasolini. Attraverso gli scritti di Gramsci, infatti, si avverte l’ampiezza del paradosso da lui evidenziato nel teatro italiano. La classe borghese post-unitaria non è riuscita a portare avanti il suo progetto di unificazione della Nazione, e soltanto una classe egemonica, liberamente approvata da tutti, riuscirà a federare il paese intorno ad interessi comuni. In questa prospettiva, secondo Gramsci, i dialetti parlati in Italia non hanno più posto. Tuttavia, il teatro non sembra iscriversi in questo quadro. Nelle sue cronache teatrali, specialmente per il giornale Avanti ! (1915-1920), Gramsci appare più entusiasta per il teatro di Pirandello in dialetto che in lingua, e diverse cronache esprimono la sua insofferenza di fronte al teatro borghese. Il talento dell’attore Angelo Musco, che recita in dialetto siciliano, lo porta diverse volte a fare l’elogio di un teatro vivo, giusto, «sincero». Gramsci osserva quindi, quasi suo malgrado, che la lingua del teatro è efficace soltanto se è di matrice dialettale, mentre la lingua italiana rimane o inaudibile o vettrice di ragionamenti strutturati più che di un’azione drammatica, come nota per Pirandello.

Pier Paolo Pasolini, nell’importante riflessione sulla lingua portata avanti durante la sua intera vita, si è interessato anche alla lingua del teatro, specialmente negli anni Sessanta quando scrive i suoi sei drammi10. Se esiste una koinè italiana di origine borghese, l’italiano orale, secondo Pasolini, non esiste, il che rende inaudibili nella bocca degli attori le opere scritte in italiano. Critica gli sforzi di pronuncia che eliminano ogni accento regionale e parla di «un italiano in cui in realtà nessuno chiacchiera (nemmeno a Firenze)»11, e che risulta

10 Si tratta di Bestia da stile, Porcile, Calderòn, Oreste, Edipo, Affabulazione, drammi scritti tra il 1966 e il 1969. 11

Pier Paolo Pasolini, Manifesto per un nuovo teatro [on line], sul sito Pier Paolo Pasolini. Pagine corsare (a cura di Angela Molteni), disponibile su http://www.pasolini.net/teatro_manifesto.htm, alinea 22.

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quindi artificiale. Nei suoi propri drammi, egli rimodella in modo provocatorio un certo italiano scritto della tradizione per farlo diventare una lingua che si rivolga alla mente degli spettatori.

Il pensiero di Pasolini sulla lingua rappresenta un punto di riferimento costante per la nostra ricerca, anche quando questo pensiero non riguarda direttamente il genere teatrale. Infatti, nella sua conferenza del 1965 intitolata «Nuove questioni linguistiche»12, Pasolini allude alla nascita dell’ «italiano nazionale», realizzato dalla società dei consumi attraverso la tecnicizzazione della lingua e la sua omologazione: si tratta di una lingua che ignora sia la linea alta dell’italiano letterario, aulico, sia la linea bassa del plurilinguismo e dei dialetti. Questo concetto di italiano omologato, che comunica e non esprime, secondo Pasolini, è un’idea che risulta operativa per molti attori-autori sottoposti al nostro studio.

Il pensiero di Pasolini aiuta quindi a riformulare il problema della lingua, specialmente per quel che riguarda il teatro. Ormai non è più l’italiano in sé ad essere in posizione di antagonismo rispetto ai dialetti – perché, d’altronde, la differenza diastratica e diamesica tra i due tipi di codice si è ridotta – ma un certo tipo di italiano, l’italiano della comunicazione, impoverito, medio, che si colloca in una posizione media, fissa e immobile, mentre i dialetti restano la lingua non omologata, capace di un’espressività che si sposta su una linea alta come bassa. Così, per rifarsi al pensiero di Gilles Deleuze, non si deve più riflettere in termini di lingua minore opposta ad una lingua maggiore, ma in termini di divenire minore di una lingua: si deve esaminare la capacità di una lingua a mettere le proprie variabili in situazione di variazione continua, a fuggire dal centro per tendere, invece, verso i limiti, i margini, il «di fuori».

4. Le grandi linee del teatro a partire dagli anni Ottanta: contesto per

le sperimentazioni sulla lingua

I movimenti di neoavanguardia degli anni Sessanta e Settanta a cui fa seguito il «teatro di parola» – che cerca di riconcentrare lo spettacolo intorno alla parola dell’attore – hanno tuttavia durevolmente influenzato il teatro venturo, specialmente attraverso il lavoro sulla materia sonora attuato da un altro attore-autore, Carmelo Bene, oppure anche con l’abitudine a praticare un lavoro di gruppo, essendo ogni attore anche autore del testo. Inoltre, è proprio durante gli anni della neoavanguardia che Dario Fo comincia la propria carriera. Fo si afferma

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presto quale creatore di lingua, praticando un plurilinguismo ispirato ai dialetti padani, giungendo alla creazione linguistica del grammelot. L’esperienza di Dario Fo è un esempio di lingua carnavalesca, di capovolgimento dei dogmi, inclusi quelli grammaticali e filologici. Il plurilinguismo allegro messo in scena da Fo in una pièce come Mistero buffo (1969) si iscrive chiaramente nella scelta di una mescolanza eteroclita e quindi decisamente espressionista della lingua: si tratta di una lingua molteplice, di creazione, ma universalmente comprensibile perché diventata materia sonora e corporea.

La pratica teatrale contemporanea è decisamente contraddistinta dalla figura dell’attore-autore, capace di scrivere i propri testi, di inscenarli e di recitarli, solo o con una compagnia. Così, gli spettacoli del «teatro di parola» vengono elaborati altrettanto al tavolino quanto in scena, giacché la scrittura del testo può precedere la messinscena, ma può anche esserle contemporanea, oppure posteriore. Questa simultaneità delle varie tappe della creazione risulta particolarmente idonea ad una presa in considerazione della corporeità della parola, specialmente presso gli attori-autori che usano le lingue dialettali. Questi artisti possiedono infatti una conoscenza corporea della lingua e quindi fanno del dialetto non un semplice vettore dell’azione, ma l’azione in sé.

Del resto, il «teatro di parola» si colloca inoltre in un contesto più generale di indebolimento dell’azione drammatica, che si traduce in una crisi del dialogo, teorizzata da Peter Szondi13. Questa crisi è stata particolarmente illustrata dall’opera di Beckett, e in Italia appare nelle incomprensioni dei personaggi di Pirandello così come nei silenzi sempre più lunghi dei diversi personaggi creati da Eduardo De Filippo. Questa crisi dello scambio teatrale porta quindi la scena a spostarsi verso una parola conversazionale, liberata dalla necessità di far progredire l’azione da una situazione iniziale verso uno scioglimento (quest’assenza si verifica in particolare nel teatro di Spiro Scimone ed Emma Dante). Lo scambio teatrale può anche trasformarsi in parola monologica, che diventa eco di una molteplicità di discorsi: una voce parla per un fascio di voci, attraverso un discorso indiretto libero – teorizzato

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Pier Paolo Pasolini, «Nuove questioni linguistiche» in Empirismo eretico, Milano, Garzanti, 1972, pp. 5-24.

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specialmente da Mikhaïl Bakhtine, Pier Paolo Pasolini et Gilles Deleuze14 – che estrapola il personaggio verso un diventare-altro, un diventare-voce che oltrepassa la semplice soggettività.

5. Marco Paolini e il Veneto: una lingua rizomatica

Marco Paolini (Belluno, 1956) si iscrive in quello che è stato definito «teatro di narrazione». Solo in scena, pratica il genere del racconto teatrale su soggetti relativi a precisi eventi della storia d’Italia, come nello spettacolo Vajont, 9 ottobre ’63 (1994). Oltre alle orazioni civili, Paolini elabora una riflessione sulla propria regione, il Veneto, in cui sono particolarmente visibili – specialmente nel paesaggio – i segni di un profondo cambiamento dello stile di vita e del pensiero fin dal Dopoguerra. Spinto dalla volontà di capire questa realtà che gli sfugge, di cui intravede i pericoli ma a cui non può rinunciare, Paolini incomincia allora il viaggio immobile di visitatore della propria terra. In Il Milione (1997) e poi nella serie dei Bestiari (1998-1999), il teatro di Paolini cerca di muoversi nella massima prossimità con una realtà – quella di Venezia, poi quella del Veneto – riscoperta anche attraverso la poesia di grandi autori e poeti del Veneto, specialmente Andrea Zanzotto, Mario Rigono Stern e Luigi Meneghello. La voce dell’attore-narratore solo in scena si demoltiplica nelle voci di questi poeti, di cui recita – e talvolta canta – i versi. Il discorso di Paolini si colloca quindi al di là della semplice narrazione poiché lo spettacolo si definisce più come un mosaico di frammenti sonori che sembra crescere dal centro, senza segnare un progredire in linea retta ma piuttosto un andamento di tipo rizomatico, come fu definita da Deleuze e Guattari15.

Questo tipo di viaggio teatrale, costruito a strati, estende l’esplorazione a tutta l’Italia in Bestiario italiano: i cani del gaz (1999), in cui il narratore-viaggiatore parte dal Veneto e si reca virtualmente fino in Sicilia, passando da varie città marittime. Paolini, accompagnato da quattro musicisti, alterna le visioni fugaci, le allusioni a paesaggi che mescolano le tracce

14 Mikhaïl Bakhtine, «Discours indirect, discours direct et leurs variantes» e «Discours indirect libre en français,

en allemand et en russe», in Le Marxisme et la philosophie du langage, Paris, Les Éditions de Minuit, 1977, rispettivamente pp. 173-193 et pp. 194-220 ; Pier Paolo Pasolini, «Intervento sul discorso libero indiretto», in

Empirismo eretico, Milano, Garzanti, 1972, pp. 85-107 ; Gilles Deleuze, Félix Guattari, «20 novembre 1923.

Postulats de la linguistique», in Mille plateaux, Paris, Les Éditions de Minuit, 1980, pp. 95-139 e Gilles Deleuze,

Critique et clinique, Paris, Les Éditions de Minuit, 1993.

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Gilles Deleuze, Félix Guattari, «Introduction: rhizome», in Mille Plateaux, Paris, Les Éditions de Minuit, 1980, pp. 9-36.

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arcaiche di civiltà che stanno per scomparire e le testimonianze architettoniche di una società sempre più volta al consumo. Il discorso tende di continuo verso i limiti della parola oltrepassandola in varie forme di canto, dalla scansione di poesie in dialetto – tutti i dialetti – fino al mettere in musica le opere poetiche di referenza. Le diverse lingue dialettali, nella bocca dell’attore, diventano evocazione sonora concreta di territori che non possono essere definiti, limitati, e che il racconto, nonché la prospettiva dei poeti, trascendono. Così, l’origine veneta di Paolini si colloca in una dinamica del divenire, costantemente arricchita da queste voci poetiche, questi sguardi, questi paesaggi attraversati, vanificando l’illusione di un’identità definita, d’altronde pretesto prediletto dei movimenti secessionisti d’estrema destra dell’Italia del Nord-Est.

6. La lingua traversante di Ascanio Celestini

Ascanio Celestini (Roma, 1972) appartiene alla seconda generazione di autori-narratori e pratica una narrazione teatrale più intimistica, con un allestimento scenico ridotto, seduto il più delle volte su una sedia. Con l’eloquio estremamente rapido che lo caratterizza, Celestini racconta nelle sue prime opere la Roma del dopoguerra, in cui vissero suo padre e suo nonno. La lingua che Celestini usa è sicuramente la meno dialettale di tutte quelle esaminate in questa ricerca, ma presenta la particolarità di frammischiare di continuo all’italiano una sintassi, un lessico, una pronuncia affatto dialettali. In questo flusso continuo di parole, che in un primo momento frastorna lo spettatore, poi lo trascina con sé e lo avvince, Celestini racconta la lotta quotidiana e quasi banale dei suoi personaggi contro le istituzioni (lo stabilimento in Fabbrica nel 2002, l’ospedale psichiatrico in La pecora nera nel 2005), attraverso un punto di vista che parte sempre dal basso: quello del bambino, dell’idiota o del pazzo. Attraverso questa prospettiva, il racconto della realtà opera di continuo spostamenti verso il fantastico: il carnevalesco del mondo si rivela nella continuità sonora di questa voce che usa una gamma di effetti vocali molto ridotta. La lingua teatrale di Ascanio Celestini, in modo sottile, mette quindi in variazione continua la lingua quotidiana, informale, colloquiale del popolino romano, in cui si confondono italiano e lingua dialettale, e perfino le voci dei personaggi. Nello spettacolo Scemo di guerra (2004), che racconta quello che ha vissuto, visto e sentito il padre di Celestini durante la liberazione di Roma, la costruzione diegetica è particolarmente complessa perché la narrazione è fondata su una serie di racconti incastonati, nonché su analessi e prolessi. Le voci dei vari personaggi si susseguono lungo il filo del

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discorso, senza che questi personaggi siano più che una sagoma momentaneamente sorta dalla massa. Quindi la parola del personaggio che si esprime non è più soggettiva, non esprime più la sua identità, ma lo iscrive invece in un coro più ampio, quello di tutti i marginali, inabili, irresponsabili, quello di un popolino romano che lotta quotidianamente per guadagnarsi il pane. Nelle opere di Celestini, i personaggi percorrono il territorio, cioè le vie di Roma, come i «ragazzi di vita» di Pasolini. La lingua diventa esplorazione del territorio, della periferia. Essa mescola l’italiano e la lingua dialettale, e diventa un discorso indiretto libero di un’umanità sempre collocata sul limite (ma mai in una trascendenza). Con Celestini i morti risuscitano e muoiono di nuovo, in una continuità che rifiuta l’elemento perturbatore: tutto è movimento continuo nel teatro di Celestini, o meglio, tutto è passaggio.

7. Il teatro di Spiro Scimone e Francesco Sframeli: la lingua-rifugio di

relazioni in rottura

Il teatro di Spiro Scimone e Francesco Sframeli (Messina, 1964 tutti e due), attori e autori siciliani, mette in scena figure di marginali, la cui situazione è sempre più in crisi nel susseguirsi dei sette drammi che hanno finora composto. Dalla coppia di amici dei primi due drammi, la loro drammaturgia prosegue sempre più verso un’umanità animata da dinamiche di violenza, di dominazione e di repressione più o meno palesate, ma sempre in agguato. Gli accenti beckettiani dei personaggi minorati, straziati, oppure moribondi dei drammi scritti da Scimone, che egli interpreta con Sframeli – il quale dirige la messinscena – sono ovvi: questi drammi esplorano diverse forme di relazioni conflittuali che nascono tra personaggi di ingenui, deboli, e sistemi opprimenti più o meno definiti (la famiglia, l’amministrazione, la società). Il teatro della Compagnia Scimone Sframeli trova nel dialetto una costante fonte di ispirazione, benché soltanto i primi due drammi, Nunzio (1994) e Bar (1997), siano stati scritti attingendo dal dialetto messinese. Tuttavia, la cadenza sintattica caratteristica del siciliano si ritrova nell’italiano messo in scena nei drammi successivi.

Nunzio, primo dramma della compagnia, mette in scena i rapporti tra due coinquilini,

l’operaio malato Nunzio (Sframeli) e il sicario Pino (Scimone). Lo spettatore assiste al confronto, nel luogo chiuso che è la cucina dell’appartamento, di queste due entità molto diverse. La loro relazione è talvolta conflittuale, ma la loro profonda intesa appare per contrasto, attraverso degli sguardi e dei silenzi, e soprattutto attraverso una stessa lingua, il dialetto messinese, necessariamente teatralizzato. I dialoghi vengono svuotati della loro

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sostanza e sono soltanto conversazioni su argomenti più o meno futili. Ma dietro questa vana logorrea si profila l’esistenza di un legame profondo che unisce Nunzio a Pino. La ripetizione degli stessi sintagmi e degli stessi temi diventa lo strumento di una resistenza contro una forza che travolge i personaggi: la figura della reiterazione diventa la possibilità di differire un esito fatale per questi due personaggi abbandonati. La lingua dialettale, così come i suoi codici paraverbali e corporei, si fa allora rifugio per queste due esistenze. Attraverso di essa si crea una relazione non esplicita, ma una messa in presenza di un’intensità che soltanto il condividere una lingua comune può permettere.

8. La lingua incivile di Emma Dante

È di nuovo un’umanità marginale quella messa in scena da Emma Dante con la Compagnia Sud Costa occidentale: l’atmosfera dei loro drammi è sempre percorsa dal peso delle tradizioni e da una certa forma mentis siciliana, che si esprimono attraverso una violenza più o meno contenuta dei personaggi, eterni prigionieri di una condizione a cui non riescono a sottrarsi. In mPalermu (2001), primo dramma della compagnia, che insieme a Carnezzeria (2002) e Vita mia (2004) forma il trittico della Trilogia della famiglia siciliana, Emma Dante mette in scena la situazione d’impedimento, fisico e morale, a cui viene sottoposta la famiglia Carollo, che tenta inutilmente di uscire per la passeggiata domenicale. I personaggi, disposti a schiera sul palcoscenico, sono di continuo intralciati da diversi incidenti futili ma dalle conseguenze immediate e violente, espresse in un dialetto teatrale di matrice palermitana molto stretto. La temporanea liberazione dei corpi che giocano nell’acqua allegramente versata dal capo famiglia non giova; allo stesso modo, lo sforzo di parlare in italiano da parte di un personaggio, che esorta gli altri ad uscire con dei ripetuti «usciamo !» rimane vano. Questa proiezione in un ambiente utopico in italiano non funziona, i personaggi sono bloccati nella loro situazione dialettale. Nelle opere di Emma Dante, il dialetto palermitano diventa così la lingua di una realtà inesorabile, in cui si esprime tutta la complessità della cultura siciliana, con mezze parole oppure attraverso gli sguardi, i corpi minacciosi o sottomessi. La lingua teatrale di Emma Dante è come gli attori: impura, bastarda, violentata, per ricavarne un’espressività di vitale immediatezza. I personaggi praticano questa lingua meno di quanto siano praticati da essa: sono delle figure senza reale soggettività, ma che si iscrivono piuttosto come insieme di voci nate dal buio per ritornarvi immancabilmente alla fine dello spettacolo. La lingua teatrale sfrutta tutte le possibilità sonore nonché fisiche del dialetto, e le parole

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proferite sono regolarmente prese in un divenire-sussurro, grido, preghiera. La lingua incivile di Emma Dante esprime queste figure di un’altra umanità, quella dei Vinti di Verga, per cui i drammi familiari sono la norma e che sanno esprimersi soltanto in una lingua immediata, violenta, dalla forte componente corporea.

9. La lingua crudele: le voci di contaminazione del teatro di Enzo

Moscato

Enzo Moscato, la cui opera viene studiata nell’ultimo capitolo si nutre dalla ricchezza di fonti d’ispirazione diversificate. La sua erudizione in vari campi della cultura europea (la letteratura, la filosofia, la psicologia, la storia) viene sfruttata nella creazione di una lingua teatrale espressionistica che di continuo oscilla tra alto e basso, tra lirismo e sordidezza, tra i riferimenti colti e l’accenno a realtà triviali. La contaminazione è uno degli aspetti più pregnanti della sua creatività. La figura ricorrente dei drammi di Moscato è quella del travestito, del transessuale, cioè un’entità in costante oscillazione tra l’alto e il basso, tra il maschile e il femminile. È una figura di cui non si può definire il contorno, sempre in perpetuo divenire, che si muove sui margini, lontano da un centro omologante ed univoco. I personaggi di Moscato parlano quindi una lingua che li rispecchia, indefinibile, antinaturalistica, che mescola la lingua napoletana con l’italiano aulico, ma anche con altre lingue (il francese, il tedesco, l’inglese) e con altri dialetti.

Compleanno è un dramma del 1992, in cui un personaggio indefinito, solo in scena,

festeggia il compleanno di un’invisibile Ines, in realtà rievocazione dell’amico Annibale Ruccello, scomparso repentinamente nel 1986. Il personaggio parla alla sua interlocutrice fantasma, ma il suo discorso viene regolarmente interrotto da voci sussurranti, che gli ricordano bruscamente la tetra realtà. Moscato, che interpreta questo personaggio, si fa così vettore di una molteplicità di voci che si susseguono e s’interrompono nel flusso del discorso. Il monologo diventa allora insieme di voci convergenti e divergenti, e l’assenza viene così affrontata, ora congiurata ora subìta, da una voce che la contrasta con altre voci. L’opera teatrale di Moscato è in questo senso estremamente ricca, perché la lingua teatrale elaborata è di continuo rinnovata, tende verso i propri margini: il canto prende un’importanza notevole, e in modo generale la lingua non smette di spostarsi verso un poesia, un divenire-corpo: il corpo del personaggio (spesso martoriato, caratterizzato dai suoi flussi corporei), ma

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anche il corpo di Napoli, città-strati, città ossimorica, al cuore delle opere dell’artista, città che può soltanto produrre, a sua immagine, una lingua molteplice, inafferrabile.

Conclusione

Il teatro contemporaneo italiano che attinge dal dialetto le soluzioni necessarie all’invenzione di una lingua teatrale compie un’operazione di ricreazione della lingua. Questo teatro non vede più opporsi da una parte l’italiano e dall’altra le lingue dialettali: infatti, le frontiere tra i codici si sono ridotte e sono diventate permeabili. Tuttavia, queste creazioni che usano la lingua dialettale sono ben lungi dal proporre il dialetto come semplice patina passeista o folclorica a una lingua italiana teatrale. Al contrario, in queste creazioni, le lingue dialettali diventano materia linguistica concreta (sonora e corporea) le cui capacità espressionistiche vengono pienamente sfruttate: queste lingue vengono rielaborate dall’interno, contaminate da altri idiomi, lavorate, spinte fino al grido o al silenzio. Si fanno quindi vettrici privilegiate di un plurilinguismo fondamentale, che moltiplica gli strati linguistici e pone la lingua teatrale in situazione di variazione continua. La lingua è in costante divenire, è indefinibile e indefinente: le figure attraverso le quali si esprime questa lingua non sono più delle soggettività ma delle «ecceità» – per citare l’espressione di Deleuze

– prese nel flusso di parole di un discorso indiretto libero, che le oltrepassa, ma attraverso il

quale esistono ed esprimono il loro essere. La voce dei personaggi, o quella dell’attore-narratore, si demoltiplica in un insieme di voci, quelle di un’umanità, di un popolo minore che resiste ancora ad una certa forza centripeta, ad una certa omologazione. Il trattamento delle lingue in teatro diventa così un modo di resistere ad una certa acculturazione che Pasolini aveva definito quando accennava alla nascita dell’»italiano nazionale», ed entra in conflitto con un certo tipo di italiano impoverito, un italiano maggiore, lingua di potere, che non tollera le variazioni verso i margini.

Le ipotesi di lavoro stabilite all’inizio di questo lavoro di ricerca hanno quindi compiuto una sensibile evoluzione. Infatti, la nozione di tempo passato, che sembrava indurre l’uso della lingua dialettale, viene ridefinita alla luce di una ricreazione del dialetto che pone i personaggi in un tempo astorico, un tempo sottratto alla gerarchia della storia. Infatti, le figure messe in scena nelle opere di questi artisti sono delle voci che sfuggono alla storia maggiore, perché si fanno voci di un’umanità al margine. Nello stesso modo, il concetto di storia è stato affinato: i territori evocati dalla lingua teatrale di matrice dialettale, lungi dall’essere

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circoscritti ad una città, ad una regione, si proiettano di continuo verso un di fuori. È il resto dell’Italia per Paolini originario del Veneto, è la periferia di Roma verso la quale vengono di continuo respinti i personaggi di Celestini, è la Napoli mitica ed allucinata di Moscato, il di fuori tanto desiderato dalla famiglia Carollo di Emma Dante. Così, come dice lo stesso Gilles Deleuze «le territoire ne vaut que par le mouvement par lequel on en sort»16: gli spazi che appaiono o a cui si accenna nelle opere sono situati quindi su una mappa mobile, in costante divenire, e sono espressi da una lingua che respinge i limiti linguistici. Le lingue teatrali di matrice dialettale sono infatti dei territori idonei all’esplorazione dei margini: tendono verso un divenire-grido, un divenire-canto, un divenire-silenzio, un divenire-altro: come lingue abnormi, esplorano le possibilità linguistiche e le trasformano perpetuamente. Si offrono allora come elementi privilegiati per ripensare la nozione di frontiera.

Da quel momento, la nozione di identità è diventata inoperante: la lingua teatrale che attinge dal dialetto si pone in una prospettiva di apertura, di proiezione verso l’esterno, mentre l’identità cerca di definire un’origine fissa. Traboccando verso infinite direzioni, comprese quelle del linguaggio musicale e corporeo, essendo profondamente legate ad una realtà di percezione, queste lingue teatrali si aprono al mondo, e permettendo una percezione prerazionale, oltrepassano così le frontiere locali e nazionali. Gli artisti non usano, quindi, le lingue teatrali di matrice dialettale per definire un’identità, ma al contrario ne fanno strumenti di una transidentità, pronta ad oltrepassare tutti i limiti. Si può allora pensare che queste sperimentazioni decisamente rivolte verso la creazione e la reinvenzione linguistica, a partire da lingue dialettali, costituiscano una vera proposta originale nel panorama del teatro europeo. Bisogna notare anche che tali sperimentazioni provengono non tanto dall’elaborazione riflessiva di drammaturghi, bensì dalla pratica teatrale di attori diventati autori, che confermano, in questo senso, la particolarità italiana del teatro d’attore.

16 Gilles Deleuze, L’Abécédaire de Gilles Deleuze [VHS], réalisateur, metteur-en-scène, directeur artistique

Pierre-André Boutang, Michel Pamart ; avec Gilles Deleuze et Claire Parnet. Paris, Éditions Montparnasse, 1996.

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