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Discrimen » L’ascesa del potere giudiziario, tra mode culturali e mutamenti costituzionali

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Academic year: 2022

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NICOLÒ ZANON

L’ASCESA DEL POTERE GIUDIZIARIO,

TRA MODE CULTURALI E MUTAMENTI COSTITUZIONALI

1. Si tratta, in questo breve scritto, di avvicinare un tema assai complesso, e che mal si presta a sbrigative osservazioni. Definire il clima culturale nel quale si afferma l’odierna crescita di ruolo e potere del giudiziario è infatti impresa ostica, che travalica, e di molto, le competenze del diritto costituzionale.

Si tratterebbe soprattutto, in un ottica sociologica e di scienza politica, di comprendere, eventualmente differenziando i diversi Paesi tra loro, quali sono le cause, il contesto e i soggetti sociali che sostengono questa “montée en puissance”

del potere giudiziario.

Il sottoscritto non è né uno scienziato politico né un sociologo, ma intanto sa che, ai fini indicati, è possibile ricorrere, in Italia, agli studi ben noti di Giuseppe Di Federico e di Carlo Guarnieri.

Fuori dai nostri confini, è ad esempio utile il riferimento allo studio suggesti- vo (fin dal titolo) di Ran Hirschl, Towards Juristocracy1, che prende in esame al- cuni case study apparentemente molto distinti da quello italiano (Israele, Nuova Zelanda, Canada, South Africa ed altri), nei quali si assiste a fenomeni analoghi.

Il costituzionalista, per parte sua, è almeno in grado di dare conto del clima culturale dominante nelle materie giuridiche di sua spettanza. E con le debite av- vertenze (e diffidenze) che debbono circondare le definizioni semplificatorie, può affermare che il cd. “neocostituzionalismo”, attualmente assai forte e diffu- so, è intrinsecamente legato all’ascesa del giudiziario, o quantomeno ne costitui- sce il robusto retroterra (e la giustificazione) culturale.

Ai fini che qui interessano, può dirsi che un pensiero è “neo-costituzionale”

se riunisce in sé alcune caratteristiche di fondo: se pone enfasi sul fatto che un ordinamento democratico contemporaneo è uno “stato costituzionale” e non più uno “stato legislativo”; se ritiene che questa evoluzione sia frutto di una dicoto- mia qualitativa tra costituzione e legge (tra di esse sussisterebbe una differenza di sostanza, non risultando più accomunate dall’essere fonti del diritto, solo diverse per grado gerarchico); se ritiene che la qualità essenziale del diritto costituziona- le sia il suo essere composto da principi piuttosto che da regole; se, coerente-

1 R.HIRSCHL, Towards Juristocracy: The Origins and Consequences of the New Constitu- tionalism, Harvard University Press, Cambridge (MA) 2004, p. 296 ss.

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mente, riflettendo sui meccanismi di applicazione del diritto, rifiuta il tradiziona- le sillogismo giudiziario della sussunzione nella fattispecie legislativa e valorizza al massimo grado il metodo del cosiddetto “bilanciamento” tra principi, laddove si tratti di assumere decisioni su casi controversi (lo stesso termine decisione – in tedesco Entscheidung, separazione – non rende affatto il pathos neocostituziona- lista, perché ogni decisione è anche una rinuncia, mentre la tecnica del bilancia- mento predica che nessuno dei principi in bilanciamento vada sacrificato del tut- to); se ritiene che in tale operazione di bilanciamento il testo della disposizione di riferimento non abbia decisiva importanza, e invece acquisiscano maggior ri- lievo le caratteristiche concrete del caso da decidere, insieme a canoni interpreta- tivi – come il giudizio di ragionevolezza o il test di proporzionalità – nei quali il contenuto della decisione normativa (la voluntas dell’atto politico “legge”) è so- verchiato dalla ratio che l’interprete (vedremo: il giudice) gli attribuisce, e che è spesso frutto di sue arbitrarie valutazioni; se riconosce senza particolari preoc- cupazioni, ed anzi con soddisfazione, l’importanza crescente del potere giudizia- rio – dei giudici comuni e anche di quelli costituzionali – rispetto al ruolo tradi- zionale del potere politico-rappresentativo, identificato nel Parlamento legislato- re, preferendo l’autorevolezza e la forza persuasiva dei ragionamenti giudiziari, appunto la ricerca della ratio, rispetto alla voluntas autoritativa proveniente da una legittimazione politica.

Aspetti importanti del modo “neocostituzionalistico” di trattare le questioni giuridico-costituzionali, in particolare (ma non solo) quelle che hanno a che fare con i diritti fondamentali, sono – sul piano del metodo interpretativo – l’esplicito riconoscimento della necessità di un moral reading of the Constitution, e – sul pi- ano delle opzioni di politica del diritto – la convinzione che il progressivo, inar- restabile, riconoscimento dei diritti, e di diritti sempre nuovi, per via giurisdizio- nale, costituisca un processo inarrestabile, sempre positivo e produttore di un’infinita democrazia.

In questo clima culturale dominante, si assiste al fenomeno che, appunto, Ran Hirschl ha indagato da scienziato politico, cioè la crescita di potere e di ruolo del giudiziario, che avviene soprattutto attraverso la presenza di carte costituzionali dei diritti e lo sviluppo della judicial review of legislation. Egli sostiene, in parti- colare, che la crescita di potere del giudiziario non è casuale, ma riflette l’appropriazione di una retorica della giustizia (sociale, economica, dei diritti ecc.) da parte di élites politiche (o classi politiche) che agiscono per difendere e proteggere le proprie posizioni di potere nell’ambito di lotte politiche e che in tale azione si trova alleata con élites giudiziarie ed economiche.

Non ho gli strumenti per giudicare la bontà di questa analisi. Essa ai miei oc- chi ha almeno il merito di ancorare un poco più saldamente l’analisi della tra- sformazione istituzionale in esame a metodologie di studio tradizionali nelle

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scienze sociali, che fanno riferimento alla necessità di identificare il soggetto so- ciale, il traeger (il portatore), di questo spostamento di potere (dalla democrazia rappresentativa e politica a quella giudiziaria).

Nell’identificazione di questo soggetto “portatore”, si sarebbe anche tentati di fare un riferimento, che sembra un poco “leggero” ma non lo è affatto, a quel- la sorta di c.d. “New Class” di cui parla Robert Bork, in un corrosivo libro, tra- dotto in Italia sotto il titolo “Il giudice sovrano”2, che si riferisce appunto a que- sto nuovo ceto di giuristi accademici e/o togati, evoluti e “illuminati”, che – in- segnando nelle più importanti università e scrivendo i libri più letti – “fanno” le mode culturali e intellettuali del momento, ma anche – componendo spesso le Corti supreme dei vari paesi o quelle sovranazionali – decidono (talvolta con ef- ficacia erga omnes) questioni sensibili che orientano il costume delle società.

Come che sia di tutto ciò, è innegabile che si assiste spesso alla teorizzazione, consapevole e voluta, di concezioni quasi “paternalistiche” dei processi di crea- zione e formazione delle regole giuridiche. In esse, la pretesa superiorità del di- ritto di formazione giurisprudenziale viene argomentata ora sulla base della sua estraneità alle miserie di una politica generalmente mal considerata e giudicata, ora in virtù di qualità intrinseche di razionalità e professionalità incontestabil- mente maggiori di quelle invocabili a favore delle scelte legislative, tacciate di i- nevitabile dilettantismo. Una sorta di “paternalismo giurisdizionale”, insomma, nutrito di profonda diffidenza verso la legge perché nutrito di profonda diffi- denza verso il legislatore, per definizione in balìa di maggioranze irrazionalmente mutevoli ed emotive, e naturalmente privo, rispetto alle materie da regolare, del- la indispensabile consapevolezza tecnica, posseduta invece da tutti i veri profes- sionisti del diritto (tra i quali i magistrati, certo, ma anche i professori, i tecnici, i

“sapienti”).

Come dicevo all’inizio, questo atteggiamento culturale si diffonde in ambiti diversi: nella dommatica, nella teoria dell’interpretazione, nella teoria della for- me di Stato e di Governo. E non conosce confini di branca del diritto: i penalisti sanno bene quanto, ormai, ad esempio, la crisi della riserva di legge abbia pene- trato il loro ambito e quanto la convergente azione delle Corti italiane ed euro- pee abbia eroso i tradizionali punti di riferimento.

2. L’attualità del tempo presente esibisce complesse e delicate esigenze, teo- riche e pratiche, di politica delle istituzioni e di riordino dei rapporti tra i poteri.

Si tratta di esigenze che non possono essere qui nemmeno sfiorate.

Nell’epoca del neo-costituzionalismo, e con riferimento alla posizione del

2 R.H.BORK, Il giudice sovrano. Coercing virtue, Liberilibri, Macerata 2006, p. 224 ss.

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giudice, può tuttavia essere detto almeno questo: per quanto da condividere in principio, servono a poco le perorazioni che ammoniscono a non affidare alla so- la giurisdizione la responsabilità di fornire prestazioni di unità rispetto al ricono- sciuto pluralismo dei valori – e, ormai, delle complessive culture – che percorro- no le nostre società. Nonostante gli auspici, accade ugualmente che tale respon- sabilità si trovi in molti casi, di fatto, attribuita alla sola giurisdizione, per un in- sieme di circostanze ben note, che non occorre richiamare. Si tratta allora di re- cuperare strumenti e metodi di “limitazione del danno”, che permettano, almeno, di evitare sia la sovraesposizione del giudice su terreni che non gli dovrebbero ap- partenere, sia le conseguenze negative di tale sovraesposizione, cioè l’inevitabile addebito di responsabilità nell’alimentare i conflitti tra culture e valori.

Sono particolarmente in questione i casi controversi, che assumano rilievo generale per ragioni etiche, politiche o di costume, sui quali sia in atto un con- fronto politico all’interno e all’esterno delle assemblee rappresentative e sia fa- cilmente registrabile una pluralità di visioni nell’opinione pubblica, dovuta alla diversità di preferenze ideologiche.

In tali casi, sarebbe necessario – per gli interpreti dotati di reale potere deci- sorio, appunto i giudici – recuperare una deontologia e un lessico minimali, ispi- rati al self-restraint, alla judicial modesty, al rigoroso e controllato ricorso ai cano- ni interpretativi.

In primo luogo, sarebbe importante che le decisioni dei giudici non preten- dano di mettere la parola “fine” al confronto pubblico, quando esso risulti in itinere, dentro e fuori le istituzioni rappresentative (questa è, peraltro, delicata questione che riguarda soprattutto i giudici costituzionali, che sono proprio giu- dici “finali”…).

In secondo luogo, nei casi cruciali e controversi, l’interpretazione meramente testuale degli atti normativi sarà certo considerabile “primitiva”, ma il tenore let- terale del testo resta limite e confine di ogni interpretazione pretesamente “con- forme” (a Costituzione, alla Cedu, al diritto europeo…) – questo nuovo totem del foro interiore del giudice proiettato, senza prudenza e mediazioni, sulla scena pubblica delle esigenze regolatrici esterne cui le sentenze dovrebbero rispondere.

In questa chiave, non è affatto banale, come sembra, ricordare che un certo grado di “testualimo” formalista assicura, in fondo, che il governo sia governo delle leggi e non degli uomini, come mette in luce Antonin Scalia.

Sempre con specifico riferimento ai casi più controversi, come sopra descritti, restano dunque forti le ragioni teoriche (la separazione dei poteri, l’assenza di le- gittimazione democratica dei giudici), che sostengono un approccio caratterizza- to da prudenza giurisprudenziale, per quanto spesso ignorate o consapevolmente negate. Ad esse si affiancano, specialmente nel caso italiano, alcune peculiarità strutturali e funzionali dell’ordine giudiziario, caratterizzato da ampia “diffusivi-

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tà” e libertà interpretativa (direttamente riconnesse all’art. 101, comma 2, della Costituzione), non adeguatamente compensate da una funzione nomofilattica in crisi di efficienza (non per sua colpa, in verità): ciò che accentua i rischi per le e- sigenze regolatrici unitarie che la giurisdizione deve soddisfare.

Non parrebbe sufficiente, per superare il complesso di tali ragioni, richiamar- si all’impossibilità del non liquet, cioè alla necessità tipicamente giudiziaria della decisione, che sarebbe particolarmente pressante quando il legislatore è assente, o è imputato di inerzia o ritardi. Vi è anzi, in quest’ultimo argomento, una singo- lare inversione concettuale: quando si sostiene che il silenzio o l’inerzia del legi- slatore democratico-rappresentativo nell’accogliere il nuovo diritto o il nuovo va- lore legittimerebbero l’innovazione giurisprudenziale, si dimentica (o si finge di ignorare) la banale verità che la discrezionalità legislativa si esercita non solo nel- la espressione di nuove scelte normative, ma anche nella stessa tacita conserva- zione, nel tempo, delle opzioni normative già affermate nell’ordinamento (pur- ché, certo, esse non siano “diventate” incostituzionali…).

Inoltre, quel che non si decide in sede politico-rappresentativa, non per ciò solo va deciso in altre sedi, giacché, com’è ovvio, bisognerebbe in primo luogo chiedersi se la mancata decisione non racchiuda in realtà una decisione negativa, comunque da rispettare.

Naturalmente, è bene precisarlo, questa “modestia” deve avere i suoi confini.

I casi controversi di cui qui si ragiona devono essere realmente tali, collocandosi in uno spazio “vuoto” di diritto costituzionale, o che tale possa ragionevolmente apparire. Al tempo attuale, soprattutto, dovrebbe invece restar fermo che il pri- mato dei principi costituzionali fondamentali non può risultare attenuato da nes- suna deriva relativistica, ossequiosa rispetto alle sirene di un malinteso multicul- turalismo, da nessuna pretesa tolleranza di fronte a tradizioni che rispetto a tal primato si pongano in frontale contrasto: di fronte a casi del genere, nessuna

“modestia” giurisprudenziale sarebbe auspicabile!

Infine: si comprende bene che decenni di teorizzazioni sulla figura del giudice unico e vero “garante dei diritti” possano non invogliare alla “modestia” così de- lineata, la quale, per inciso, è altra cosa rispetto alla pigrizia o alla fuga dalla deci- sione.

E tuttavia: nell’opinione dissenziente del Chief Justice Roberts alla recente de- cisione della Corte Suprema statunitense che impone a tutti gli Stati della Fede- razione, quale diritto fondamentale di “livello” federale, l’estensione del same-sex marriage (Obergefell v Hodges, n. 14-556, 26 giugno 2015), compare un motto as- sai efficace, interessante esempio di psicologia (o auto-consapevolezza) giudizia- ria, e che ovviamente vale a prescindere dal caso specifico in cui è pronunciato.

Di fronte all’opinione di maggioranza, che il dissenziente considera un esempio i- naccettabile di “judicial hubris”, si chiede Roberts: “Just who do we think we are?”.

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