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Requiem per l’art. 26 della legge 12 novembre 2011, n. 183: in via di abrogazione la norma sull’istanza di trattazione delle cause pendenti innanzi alle Corti di appello e in Cassazione. - Judicium

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Gian Paolo Califano

Requiem per l’art. 26 della legge 12 novembre 2011, n. 183: in via di abrogazione la norma sull’istanza di trattazione delle cause pendenti innanzi alle Corti di appello e in Cassazione.

1. Introduzione. 2. Ambito di applicazione della norma. 3. Legittimazione, termini e forme dell’istanza. 4. L’estinzione del processo. 5. Profili di illegittimità costituzionale. 6. L’iter del d.l. in Senato e la prossima abrogazione della norma.

1.Introduzione. E’ entrata in vigore il 1° gennaio del corrente anno una norma che gravemente rischiava di complicare la già caotica professione forense.

Una norma eccezionale, in deroga di qualsiasi altra contraddittoria previsione del codice di procedura civile, e che pretende un momento di riflessione sulle cause pendenti innanzi alla Corte di Cassazione e alle Corti di appello, verificando l’attuale persistente interesse delle parti a che esse giungano a sentenza. Anche in Cassazione (contro il principio dell’impulso d’ufficio) e dinanzi al giudice di merito (in coerenza qui con l’impulso di parte) la gran parte dei processi pendenti può oggi proseguire (e non estinguersi per inattività) soltanto se la parte interessata formula tempestiva istanza di trattazione.

L’originaria formula dell’art. 26 della legge 183/2011 prevedeva che “ a monte” le cancellerie, previa ricognizione dei carichi pendenti, avvisassero le parti costituite dell’onere di presentare istanza di trattazione del procedimento, a pena di estinzione, entro il termine perentorio di sei mesi dalla data di ricezione dell’avviso. Si è poi ritenuto di non accollare un tale onere alle già “stressate”

cancellerie; e il testo in vigore è stato modificato abolendo il preliminare intervento delle medesime e sostanzialmente affidando l’operazione agli avvocati che assistono le parti costituite. Con l’immediata conseguenza che il termine per l’atto di impulso processuale decorre, ora, dalla data di entrata in vigore della norma (come modificata).

2. Ambito di applicazione della norma. L’art. 26 della legge 183/2011 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato; legge di stabilità 2012), in G.U. n. 265 del 14 novembre 2011, suppl. ord. n. 234, (come modificato dall’art. 14 del d.l. 22 dicembre 2011, n.

212 in vigore il 23 dicembre 2011) ed entrato in vigore il 1° gennaio 2012 detta, quindi, una previsione tesa a sgombrare i ruoli dei giudici dal contenzioso inutile.

Il comma 1 stabilisce che: “Nei procedimenti civili pendenti davanti alla Corte di Cassazione, aventi ad oggetto ricorsi avverso le pronunce pubblicate prima della data di entrata in vigore della legge 18 giugno 2009, n. 69, e in quelli pendenti davanti alle corti di appello da oltre tre anni prima della data di entrata in vigore della presente legge, le impugnazioni si intendono rinunciate se nessuna delle parti, con istanza sottoscritta personalmente dalla parte che ha conferito la procura alle liti e autenticata dal difensore, dichiara la persistenza dell’interesse alla loro trattazione entro il termine perentorio di sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge” (1° luglio 2012).

Chiarito, poi, al comma 2, con la consueta previsione –ipocrita e verosimilmente illegittima, perlomeno dall’angolo visuale della Corte europea dei Diritti dell’Uomo- che “il periodo di sei mesi di cui al comma 1 non si computa ai fini di cui all’articolo 2 della legge 24 marzo 2001, n. 89”, il comma 3 conclude stabilendo che “nei casi di cui al comma 1 il presidente del collegio dichiara l’estinzione con decreto”.

La norma ha un ambito di applicazione circoscritto ai giudizi pendenti innanzi alla Suprema Corte e alle Corti di appello. Per il primo caso sono interessati i giudizi pendenti in Cassazione –in qualsiasi procedimento: ricorso ordinario o straordinario, per saltum, regolamento di competenza ecc.- ma soltanto quando il ricorso sia stato proposto avverso una pronuncia “pubblicata prima della data di entrata in vigore della legge 18 giugno 2009, n. 69”. La formula, un po’ sadica per il fatto che tace

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l’immediata individuazione del dies a quo, esclude (senza ragione) che siano interessate dalla nuova previsione le cause di regolamento di giurisdizione che nascono senza impugnazione di alcun provvedimento. E si riempie ricordando che la l. 69/2009 (recante disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile) è entrata in vigore il giorno 4 luglio 2009. Quanto ai giudizi pendenti innanzi alle Corti di appello, ne sono interessati quelli nati tre anni prima del 1° gennaio corrente anno. Ed anche qui non rileva come la causa sia pervenuta all’esame della Corte; ossia se come giudizio di appello ovvero perché trattasi di casi in cui la Corte giudica in primo grado.

3. Legittimazione, termini e forme dell’istanza. La norma prevede che l’estinzione del giudizio si determina se “nessuna delle parti” dichiara la persistenza dell’interesse alla trattazione. Si è quindi adottata una formula generica, che non riferisce l’istanza alla sola parte impugnante. Sembra, dunque, che l’istanza possa efficacemente provenire da una qualsiasi delle parti costituite e, dunque, anche dall’impugnato. Non si tratta, qui, di coltivare l’impugnazione anche in sopravvenuta carenza di interesse della parte che l’aveva proposta (alla quale resta per eventualmente manifestarla il rimedio della rinuncia agli atti come disciplinato per l’appello e il ricorso in Cassazione, rispettivamente, dagli artt. 306 e 390 c.p.c.). Ma, più semplicemente di verificare se tra le parti si formi un tacito accordo per l’estinzione del giudizio, con ogni conseguenza di legge, e, soprattutto, con implicita compensazione delle spese. Non a caso, infatti, la norma tace su tale punto. E dunque il presidente del Collegio non deve regolarle nel decreto di estinzione (ma v. in senso diverso AMOROSO, L’istanza di trattazione del ricorso per cassazione ex art. 26 l. 12 novembre 2011, n.

183: note a prima lettura, in Foro it., 2011, V, 364, per il quale «può trovare applicazione l’art. 391, 2° comma, c.p.c. nella parte in cui stabilisce che il decreto che dichiara l’estinzione può condannare la parte che vi ha dato causa alle spese. Però la circostanza che la protratta inerzia processuale sia riferibile a tutte le parti costituite può rappresentare di per sé ragione sufficiente per compensare tra le parti le spese del giudizio di cassazione»).

Soluzione diversa s’imporrebbe collegando la rinunzia all’istanza di trattazione con l’interesse all’impugnazione; così attribuendone la legittimazione soltanto alla parte impugnante. Nella specie inevitabile sarebbe la condanna alle spese a favore della controparte; ciò che paleserebbe la nuova norma agli occhi dell’appellante come inutile suicidio. Sicché anche per tale verso –e, dunque, per ragioni di efficacia dell’istituto- si lascia preferire la prima soluzione.

Varie sono poi, le complicazioni che possono rinvenirsi caso per caso: e così, ad esempio, sarà ammessa una prosecuzione soltanto parziale del processo originariamente cumulato (per istanza relativa solo ad alcuna delle originarie impugnazioni in cause scindibili).

L’istanza di trattazione della causa deve essere sottoscritta personalmente dalla parte, con firma autenticata dal difensore. Sicché il professionista, previa ricognizione del suo contenzioso (e a pena di responsabilità professionale) dovrà tempestivamente rintracciare il cliente e invitarlo per la sottoscrizione dell’atto (ove ancora egli ne abbia interesse). V’è, dunque, ai fini in discorso, una sorta di sospensione degli effetti della procura (e non anche del rapporto di mandato: ciò che sarebbe ai limiti dell’incostituzionalità) e l’avvocato non può da solo porre in essere l’eccezionale atto d’impulso processuale, che, se carente della sottoscrizione della parte, sarebbe tamquam non esset ed incapace di produrre il suo effetto processuale, per mancato esercizio del potere a quest’ultima riservato. Sicché non sembra possa trovare qui applicazione nemmeno il disposto sanante dell’art. 182, comma 2, c.p.c.

Per tale profilo la nuova norma porta evidentemente deroga anche al disposto dell’art. 300, comma 1, c.p.c. per il caso che la parte costituita sia venuta meno in corso di causa e, per scelta dell’avvocato, l’evento non abbia reagito sul processo determinandone l’interruzione. Nella specie, infatti, l’istanza di trattazione dovrà assumere la sostanza di atto di prosecuzione della causa, ex art.

302 c.p.c. (ovvero, se esso provenga dalla controparte, dell’atto di riassunzione di cui al successivo

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art. 303). Con ogni consequenziale complicazione quanto, ad esempio, all’individuazione del soggetto che a tal punto deve sottoscriverla (si pensi al caso del chiamato all’eredità che ancora non l’abbia accettata).

Vista la mancata previsione di qualsivoglia specifica forma e la formula normativa assai generica, la dichiarazione di interesse alla coltivazione del giudizio può peraltro anche esser resa a verbale ove l’udienza si celebri in tempo utile. O, il più delle volte –e probabilmente di regola in Cassazione-, con atto tempestivamente depositato in cancelleria (e del quale –almeno qui saggiamente- non è previsto l’obbligo di notifica alla controparte, nemmeno contumace).

4. L’estinzione del processo. Ai sensi del comma 3 “il presidente del collegio dichiara l’estinzione con decreto” di ogni causa nella quale rilevi la mancata tempestiva presentazione dell’istanza di trattazione. Dichiarazione che avverrà, nella prassi mano a mano che “scorrerà” il calendario di udienza già fissato, e sempreché sia già inutilmente decorso il termine semestrale. Altrimenti inevitabile sarà la fissazione di nuova udienza a scavalco del predetto termine.

La dichiarazione di estinzione avviene con provvedimento in forma di decreto al quale può forse applicarsi quando si estingua l’appello, il disposto dell’art. 308 c.p.c. (ammettendosene reclamo al collegio) e, quando si estingua il ricorso in cassazione, il medesimo regime dettato per il caso che operi l’art. 391, comma 1, c.p.c.; sicché il provvedimento sarà qui comunicato alle parti che potranno chiedere entro dieci giorni la fissazione dell’udienza per ivi contestare i presupposti della dichiarata estinzione.

5. Profili di illegittimità costituzionale. La norma così sviscerata desta, però, un grave dubbio di illegittimità costituzionale nella parte in cui stabilisce che il termine per la istanza di trattazione decorra dalla data di entrata in vigore della legge (che la impone), senza che le parti ne siano in qualche modo “notiziate” dall’ufficio.

Una previsione assai simile fu introdotta, per il processo tributario, dall’art. 75 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546. La norma imponeva che, per le controversie pendenti, il ricorrente depositasse presso la segreteria della Commissione centrale apposita istanza di trattazione, nel termine di sei mesi dalla data di entrata in vigore del d.lgs. medesimo, a pena di estinzione. Ma la Corte costituzionale ne dichiarò l’illegittimità con sentenza del 16 aprile 1998, n. 111 (in Foro it., 1998, I, 1725; ma v., di segno opposto, Corte cost., 20 aprile 1977, n. 63, ivi, 1977, I, 1052).

Nell’occasione il giudice delle leggi, ribadì che ben può il legislatore “introdurre nel processo un onere generalizzato di istanza di trattazione, con comminatoria di estinzione … decorso un periodo ragionevole di inattività processuale, chiarendo, però, che non poteva in concreto trattarsi di

“adempimenti vessatori, di difficile osservanza o di insidiose complicazioni processuali tali da ledere il diritto di difesa delle parti…ovvero modalità assolutamente irragionevoli, tenuto conto dello specifico sistema processuale”. E dichiarò incostituzionale l’art. 75, comma 2, secondo periodo, nella parte in cui non prevedeva che il termine per l’istanza di trattazione decorresse dalla data di ricezione dell’avviso dell’onere di proposizione dell’istanza stessa.

Ma non sembra che medesima sorte avrebbe oggi la rimessione alla Corte del nuovo art. 26 posto che la sentenza 111/1998 motivò sulla constatazione che vessatorio ed in accettabilmente insidioso era il sistema nel giudizio tributario per le sue specifiche caratteristiche, di semplificazione processuale e, soprattutto, di mancata obbligatorietà dell’assistenza tecnica. Sicché qui era evidentemente imposto un onere eccessivo alla parte che agiva personalmente. Non così nel processo di cognizione, innanzi alle Corti di appello e tanto più innanzi alla Corte di cassazione.

Dove, nel nuovo sistema, l’onere sembra piuttosto diretto all’avvocato che assiste la parte costituita o affidato all’autoresponsabilità della parte contumace. Ed adeguato e, dunque, non irragionevole, sembra anche il termine –semestrale- nella sua durata temporale.

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6. L’iter del d.l. in Senato e la prossima abrogazione della norma.

Sta di fatto che lo scorso 2 febbraio l’aula del Senato, in sede di conversione del d.l. 212/2011, ha accolto l’emendamento già approvato in Commissione Giustizia, con parere favorevole anche del Governo; ed ha abrogato l’intero art. 26 della legge 183/2011. Decisione che, visto l’evidente accordo politico maturato tra Governo e Parlamento, è facile presumere sarà confermata nei prossimi giorni anche dalla Camera dei Deputati. Sicché la norma è destinata ad ingloriosa abrogazione e sarà ricordata soltanto per avere intanto (già) rallentato molti processi in appello e cassazione.

Identica sorte, peraltro, e con uguale accordo, sta per avere anche l’art. 12 del medesimo d.l.

212/2011 che, ha modificato l’art. 8 del d.lgs. 28/2010. La novella incisivamente stabiliva che la sanzione alla parte che diserta senza giusto motivo il procedimento di mediazione obbligatoria fosse irrogata dal giudice in prima udienza. Venendo meno il “ritocco”, la sanzione (anche per il futuro prevista dal menzionato art. 8) potrà allora esser comminata, come da originaria previsione, soltanto con la sentenza definitiva del primo grado di giudizio.

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