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Le misure straordinarie per la riduzione del contenzioso civile pendente in grado d’impugnazione, di cui all’art. 26 l. 12 novembre 2011, n. 183 - Judicium

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www.judicium.it ALBERTO A.ROMANO

Le misure straordinarie per la riduzione del contenzioso civile pendente in grado d’impugnazione,

di cui all’art. 26 l. 12 novembre 2011, n. 183

SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. L’individuazione dei procedimenti. – 3. L’avviso di cancelleria e la sua omissione. – 4. L’istanza di trattazione. – 5. La sua omissione o tardività. – 6. La sua tempestiva presentazione. − 7. Rilievi conclusivi.

1. La l. 12 novembre 2011, n. 183, l’ultimo provvedimento normativo approvato dal parlamento per iniziativa del quarto governo Berlusconi, recante «disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello stato» (c.d. «legge di stabilità per il 2012»), introduce alcune novità concernenti il diritto processuale civile. In particolare, accanto a previsioni volte a rinforzare l’impiego della posta elettronica certificata nel processo (art. 25), a dissuadere dalla formulazione di istanze di inibitoria ex art. 283 c.p.c. manifestamente infondate, ed a rendere più semplici trattazione e decisione del giudizio d’appello (art. 27), dalle quali non è lecito attendersi speciali miglioramenti del perenne stato di crisi della nostra giustizia, ma che probabilmente consentono nell’insieme un timido passo in avanti, la legge citata contiene un art. 26 che, per tecnica e più ancora per concezione, appare davvero un’assai nociva improvvisata.

Si tratta di una disposizione rubricata «misure straordinarie per la riduzione del contenzioso civile pendente davanti alla Corte di cassazione ed alle corti d’appello», che, in quanto transitoria, non novella il codice di rito, ma è destinata a restarne fuori. In sintesi, essa riguarda i giudizi d’impugnazione attualmente pendenti da più lunga data, esigendo che, per ciascuno di tali giudizi, le cancellerie provochino, dalle parti costituite, la presentazione di una «istanza di trattazione» entro un termine perentorio, decorso il quale, se l’istanza non sia intervenuta, l’impugnazione si intenderà rinunciata ed il procedimento estinto.

La disposizione, che ricorda per più versi la perenzione dei ricorsi ultraquinquennali di cui all’art. 82 cod. proc. amm., entra in vigore il 1° gennaio 2012 (art. 36 l. cit.).

2. I giudizi d’impugnazione ai quali l’art. 26 ambisce ad applicarsi sono individuati nel 1° comma della norma, secondo parametri obiettivi e cronologici lievemente diversi per i procedimenti dinanzi alla Corte di cassazione, da un lato, e dinanzi alle corti d’appello, dall’altro.

Quanto ai primi, la disposizione nomina testualmente i «procedimenti civili aventi ad oggetto ricorsi avverso le pronunce pubblicate prima della data di entrata in vigore della l. 18 giugno 2009, n.

69». Poiché la l. n. 69/2009 è entrata in vigore il 4 luglio 2009, si tratta dei ricorsi per cassazione diretti contro decisioni pubblicate o depositate fino al 3 luglio 2009 compreso1. Non fa differenza, direi,

1 L’ambito di applicazione dell’art. 26 dunque essenzialmente coincide con quello dei ricorsi per cassazione ai quali non si applicano le norme della riforma del 2009, bensì regimi di procedura anteriori: in particolare, quelli cui si applichi ancora la regola del c.d. «quesito di diritto», perché abbiano ad oggetto provvedimenti depositati o pubblicati dopo il 1° marzo 2006, a’ sensi dell’art. 27, 2° comma, d. lgs. 2 febbraio 2006, n. 40; ovvero cui si applichino regimi ancor più datati, perché ancor più datate siano le pronunce che ne costituiscono l’oggetto.

Per un difetto di coordinamento, potrebbe non esservi, però, coincidenza perfetta tra i ricorsi esclusi ratione temporis dal c.d. «filtro», a’ sensi dell’art. 360-bis c.p.c., appunto introdotto con l. n. 69/2009, ed i ricorsi sottratti all’art. 26 in esame. L’art. 58, 5° comma, l. n. 69/2009, infatti, prevede che le norme concernenti il ricorso per cassazione, introdotte con tale legge, si applichino ai ricorsi contro provvedimenti depositati o

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www.judicium.it se siffatte decisioni siano state rese in forma di sentenza, ordinanza o decreto, né se il ricorso sia di quelli ordinari o piuttosto straordinari ex artt. 111, 7° comma, cost., e 360, 4° comma, c.p.c.

Simmetricamente, non importa nemmeno se la causa, che ha da esser comunque «causa civile», sia giunta in Cassazione all’esito di un processo ordinario, dopo due gradi di giurisdizione di merito, o invece vi sia giunta all’esito di un processo di rito speciale, magari addirittura articolato in grado unico.

Mi pare, inoltre, che la norma possa senz’altro trovare applicazione, quand’anche il ricorso per cassazione sia proposto per regolamento di competenza ad istanza di parte, a’ sensi dell’art. 42 o 43 c.p.c., o ancora per revocazione o opposizione di terzo, giusta gli artt. 391-bis e 391-ter c.p.c.2. L’art. 26 l.

cit. non sembra per contro applicabile ai regolamenti di giurisdizione ed ai conflitti di cui all’art. 362, 2° comma, c.p.c., perché tali procedimenti non costituiscono procedimenti d’impugnazione, mentre la norma palesemente suppone un gravame (arg. ex 2° comma).

Quanto ai secondi, la norma in commento nomina testualmente i procedimenti civili «pendenti davanti alle corti d’appello da oltre due anni prima della data di entrata in vigore della presente legge».

Poiché, il già ricordato art. 36 prevede che la legge di stabilità entri in vigore il 1° gennaio 2012, i procedimenti interessati sono quelli che risultavano già pendenti il 1° gennaio 2010. Anche qui, deve naturalmente trattarsi di giudizi di impugnazione: la norma si applica dunque senz’altro agli appelli, non importa se di rito ordinario o speciale, alle revocazioni ed alle opposizioni di terzo3, e probabilmente anche alle impugnazioni per nullità dei lodi arbitrali rituali; essa non pare invece potersi applicare ai giudizi per i quali la corte d’appello sia competente in unico grado, per lo più privi della richiesta natura di gravame4.

Si noti, infine, che nulla la norma prevede per i giudizi di impugnazione, ordinari o straordinari, pendenti dinanzi ai tribunali o ai giudici di pace, ai quali la novità dunque non si applica.

3. Nei procedimenti come sopra individuati, lo stesso 1° comma dell’art. 26, nell’ultima sua parte, dispone che la cancelleria «avvis[i] le parti costituite dell’onere di presentare istanza di trattazione del procedimento». L’avviso deve anche contenere l’indicazione del termine per adempiere l’onere e degli effetti che si produrranno in caso d’inadempimento5. Si tratta di una comunicazione di cancelleria indirizzata al domicilio eletto dalla parte costituita, ch’è certo possibile eseguire anche nelle forme informatiche e telematiche ormai da tempo consentite, e tra i destinatari della quale sono giustamente

pubblicati «successivamente alla data di entrata in vigore» della stessa legge, e codesta previsione è comunemente intesa nel senso che il «filtro» riguarda i ricorsi proposti a partire dal 5 luglio 2009 (e dunque, di fatto, dal 6 luglio, ché il 5 era domenica: cfr., in questo senso, DE CRISTOFARO, Artt. 360-bis-392, in Codice di procedura civile commentato. La riforma del 2009, a cura di Consolo, Milanofiori Assago, 2009, p. 265). Se quest’ultima interpretazione fosse corretta, del che per la verità dubito, contro i provvedimenti pubblicati o depositati il giorno 4 luglio 2009, che comunque era un sabato, al ricorso non sarebbe ancora applicabile il regime del nuovo art. 360-bis c.p.c., eppur esso si sottrarrebbe all’applicazione dell’art. 26 l. n. 183/2011.

2 La soluzione pare imposta dal testo di legge, sebbene per le revocazioni straordinarie e le opposizioni di terzo il discrimen temporale prescelto dal legislatore risulti praticamente molto insoddisfacente: a rigore, esso potrebbe infatti comandare l’applicazione dell’art. 26 anche ad un ricorso recentissimo, se quest’ultimo abbia per oggetto, come sicuramente può accadere, un provvedimento della Corte anteriore al 4 luglio 2009.

3 Vale tuttavia anche qui, per le impugnazioni straordinarie, l’avvertenza di cui alla nota precedente.

4 Cfr. ad esempio le controversie di cui all’art. 3 l. 24 marzo 2001, n. 89, o le azioni di nullità e risarcimento di cui all’art. 33 l. 10 ottobre 1990, n. 287. Non sempre, peraltro, la qualificazione sub specie di impugnazione sarà immune da difficoltà: quid iuris, ad esempio, di un’opposizione a decreto ingiuntivo della corte d’appello, nei rari casi in cui un simile decreto è possibile? O ancora, delle controversie instaurate dinanzi alla corte d’appello, per reazione ad un atto della pubblica amministrazione, come quelle di cui all’art. 54 d. lgs. 8 giugno 2001, n. 327?

5 In verità, la manchevole ultima parte dell’art. 26, 1° comma, si limita a prescrivere che la cancelleria avverta le parti costituite delle sole «conseguenze di cui al 2° comma», i.e. dell’effetto di rinuncia all’impugnazione che la legge connette all’omissione dell’istanza nel termine semestrale. Non fa invece parte del contenuto necessario della comunicazione di cancelleria l’avvertimento circa la conseguente estinzione del giudizio: ma è peccato tutto sommato veniale, in virtù della relativa ovvietà di quest’ulteriore effetto, previsto dal 3° comma.

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www.judicium.it escluse le parti dichiarate contumaci. Non è previsto, per la cancelleria, un termine ultimo per il compimento dell’avviso, sebbene sia evidentemente raccomandabile la maggior celerità possibile.

Quid iuris se la comunicazione di cancelleria non sia fatta? Io credo che, finché la cancelleria non abbia provveduto all’avviso, parti e giudice debbano comportarsi come se la norma non vi fosse, perché il termine per presentare l’istanza di trattazione non può cominciare a decorrere. In particolare, non vedo ragioni per rinviare l’udienza di precisazione delle conclusioni o l’udienza di discussione, onde attendere che la cancelleria provveda all’avviso; né, mi pare, nelle cause già rimesse in decisione alla data del 1° gennaio 2012, si debba, allo stesso malinteso scopo, ritardare la pronuncia della sentenza6. Diversamente, si finirebbe per condizionare la decisione dell’impugnazione ad un adempimento della cancelleria che potrebbe, in caso di protratta omissione, intervenire anche molto in là nel tempo.

Non vi è dubbio, beninteso, che le parti possano presentare l’istanza in questione, evitando gli effetti di cui al 2° e 3° comma dell’art. 26, quand’anche l’avviso di cancelleria sia stato omesso; ma la presentazione dell’istanza non può ritenersi indispensabile, ai fini della trattazione e della definizione del procedimento, finché l’avviso non sia fatto ed il termine semestrale prenda a scorrere.

4. Allorché l’avviso sia eseguito, decorre dunque dal giorno di esecuzione il predetto termine semestrale, potenzialmente soggetto, se ne ricorrano pure gli altri rispettivi presupposti, così a sospensione feriale, a’ sensi della l. 7 ottobre 1969, n. 742, come a rimessione ex artt. 184-bis, vecchio testo, e 153, 2° comma, c.p.c.

Entro questo termine semestrale, ciascuna delle parti costituite − e verosimilmente pure la parte contumace al momento dell’avviso, se si sia costituita nel frattempo – può autonomamente provvedere al deposito di un atto, il cui preciso contenuto sembra doversi determinare combinando i disposti del 2° e del 3° comma dell’art. 26. A codesto atto, il 2° comma mette nome d’«istanza di trattazione», mentre il 3° comma suggerisce che, più che «instare», la parte semplicemente in esso «dichiari» la persistenza del suo interesse alla trattazione dell’impugnazione. Se ne ha probabilmente che l’atto in discorso deve contenere sia la dichiarazione che l’istanza, ma la precisazione è di poco conto, poiché un atto in cui meramente si domandi la trattazione vale certo dichiarazione d’interesse alla medesima, mentre un atto limitato alla dichiarazione d’interesse alla trattazione ben può intendersi implichi l’istanza corrispondente. Le cancellerie potrebbero d’altronde rendere utile servizio fornendo ad hoc moduli parzialmente precompilati.

Perché l’istanza di trattazione eviti che l’impugnazione si consideri rinunciata, essa può provenire da una qualsiasi delle parti, non importa se sia l’impugnante principale, quello incidentale, o una parte che semplicemente resista all’impugnazione. Deve però trattarsi della parte personalmente, a nulla valendo perciò un’istanza sottoscritta dall’avvocato.

A rigor di lettera, l’art. 26, 2° comma, richiede appunto che l’istanza sia sottoscritta

«personalmente dalla parte che ha sottoscritto il mandato», ma mi pare che un minimo d’elasticità nella sua interpretazione si riveli necessaria: se il mandato professionale fu a suo tempo sottoscritto da un rappresentante volontario ex art. 77 c.p.c., l’atto potrà certo indifferentemente provenire sia dal rappresentante stesso, sia dalla parte in persona; se la parte sia una persona giuridica o un incapace, ed il rappresentante legale sia nel frattempo cambiato, l’atto dovrà per contro provenire dal rappresentante nuovo.

Né la norma esclude che la parte in persona rilasci, direi nelle forme di cui all’art. 77 c.p.c., una procura ad hoc ad un rappresentante volontario, specificamente limitata alla presentazione dell’istanza; e che magari la rilasci proprio al suo difensore, in guisa di ampliamento del mandato professionale già in essere; non credo invece che l’istanza possa esser presentata dall’avvocato, al quale sia stato fin dall’inizio della causa conferito un mandato professionale, generale o speciale, molto ampio, di quelli che comprendono il potere di conciliare e di compiere pure gli atti riservati dalla legge alla parte personalmente: ammettere questa possibilità significherebbe probabilmente tradire la ratio

6 V. anche infra, n. 6.

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www.judicium.it della norma, ch’è quella di esigere un supplemento di riflessione da parte dei destinatari degli effetti della futura decisione.

Anziché depositata in cancelleria, l’istanza in esame potrebbe alternativamente esser presentata in udienza, con menzione nel processo verbale, o contenuta in calce, a margine o nel corpo di un atto di causa, ad esempio di una comparsa conclusionale o di una memoria ex art. 378 c.p.c., purché naturalmente l’atto sia sottoscritto allo scopo anche dalla parte in persona. Ancora, l’istanza potrà esser contenuta − e fors’anche addirittura ritenuta implicita, se ne siano comunque integrati i requisiti formali − nell’atto di riassunzione o di costituzione volontaria successivo al prodursi di un evento interruttivo.

5. Il termine semestrale è di sicuro perentorio, sì che gli effetti previsti dall’art. 26, 2° e 3°

comma, per il caso di sua violazione, si producono identicamente, sia che l’istanza di trattazione non sia presentata, sia che essa sia presentata con ritardo. Analogamente, codesti effetti si producono, se l’istanza sia presentata con vizio che ne importi l’invalidità.

Gli effetti in questione, ridondanti e già sommariamente ricordati, consistono nel fatto che l’impugnazione «si intend[e] rinunciat[a]» (2° comma) e che «il presidente del collegio [ne] dichiara l’estinzione con decreto» (3° comma).

Sarebbe fuor di luogo discutere qui della corretta sistemazione di questa nuova figura di

«rinuncia» all’impugnazione, seppur non si possa far a meno di rilevare come forse non vi fosse nessun bisogno di scomodare quest’istituto di carattere generale 7, per disciplinare una fattispecie che somiglia piuttosto a certe ipotesi di estinzione per inattività. Certo è che il riferimento alla «rinuncia»

non aggiunge nulla alle conseguenze dell’omissione dell’istanza, che sono appunto quelle, e solo quelle, dell’estinzione del gravame.

Così, in particolare, quanto ai mezzi d’impugnazione ordinari, le conseguenze del decreto presidenziale di estinzione non potranno che essere quelle previste dall’art. 338 c.p.c., e dunque, essenzialmente, il passaggio in giudicato della sentenza impugnata; sempre che non ne siano stati modificati gli effetti con provvedimenti pronunciati nel procedimento estinto, nel qual caso sono questi provvedimenti a sopravvivere al decreto.

Non è agevole stabilire se il decreto d’estinzione debba contenere una pronuncia sulle spese.

Poiché mi pare corretto assimilare l’ipotesi in esame a quelle di estinzione per inattività, riterrei di no, nemmeno se si tratti di ricorso per cassazione: l’art. 310, 4° comma, risponde meglio allo spirito della disposizione, di quanto non facciano l’art. 306, 4° comma, e l’art. 391, 2°, comma, c.p.c., perché, potendo l’istanza provenire da una qualsiasi delle parti, non può dirsi, in difetto di essa, che all’estinzione abbia dato causa un solo soggetto (si confronti, del resto, in proposito, l’art. 83 cod. proc.

amm.).

Quid iuris, se il giudice abbia definito l’impugnazione nel merito, nonostante ricorressero i presupposti dell’estinzione ex art. 26 l. cit.? Se si tratti di pronuncia ricorribile per cassazione, si potrà ovviamente denunciare l’errore a’ sensi dell’art. 360, n. 4, c.p.c. Se invece si tratti di pronuncia della Corte di cassazione, potrà forse talora esperirsi la revocazione ordinaria, per errore di fatto, a’ sensi dell’art. 391-bis c.p.c.

Un po’ più complessa è la soluzione del caso speculare, in cui il presidente abbia dichiarato l’estinzione dell’impugnazione, in difetto dei presupposti previsti dall’art. 26 l. cit., inopportunamente taciuto dal legislatore. Se si tratti di un procedimento dinanzi alla corte d’appello, si potrebbe probabilmente invocare, con buoni argomenti, il reclamo al collegio di cui all’art. 308, 2° comma, c.p.c.

Questa norma, però, discorre di ordinanza, ed è pensata per l’impugnazione al collegio di un provvedimento del giudice istruttore, non già del presidente; e c’è il rischio che siffatta incertezza spinga l’interessato, per scrupolo, ad impugnare sia col reclamo che col ricorso straordinario per cassazione.

Se invece si tratti di pronuncia della Corte di cassazione, il reclamo al collegio sembra fuori gioco;

potrà forse anche qui talora esperirsi la revocazione ordinaria per errore di fatto.

7 Studiato in dottrina soprattutto da GIORGETTI, Le rinunce alle impugnazioni civili, Milano, 2000, p. 1 ss.

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6. Se per contro l’istanza di trattazione sia regolarmente depositata, il giudizio d’impugnazione è senz’altro definito.

Qualche difficoltà potrebbe invero sorgere, nei prossimi mesi, in dipendenza del momento in cui l’avviso e l’istanza siano fatti. I casi più semplici sono quelli in cui l’istanza intervenga prima dell’udienza di precisazione delle conclusioni o di discussione. Se poi, al tempo dell’udienza, risulti già fatto l’avviso, ma non risulti depositata l’istanza, e questa non sia presentata in udienza, il giudice dell’impugnazione farà bene a rinviare l’udienza ad una data posteriore alla scadenza del termine semestrale, per consentirne la presentazione o stabilirne l’estinzione.

Come ci si deve comportare, invece, se l’avviso sia comunicato alle parti quando l’ultima udienza sia già stata tenuta?

Il problema ha insignificante rilievo pratico in Corte di cassazione, dove lo scarto di tempo tra l’ultima udienza e la sentenza è minimo, e dove forse l’art. 390, 2° comma, c.p.c., consente addirittura di escludere che possa darsi estinzione dopo l’inizio della discussione; ma può viceversa avere rilievo notevole in corte d’appello, dove i termini dell’art. 352 c.p.c. sovente non sono rispettati e lo scarto in questione può facilmente superare i sei mesi.

Le cancellerie faranno in effetti bene a cercare di prevenire impasse del genere, accelerando l’invio delle comunicazioni nelle cause dove l’udienza di precisazione delle conclusioni in appello è più vicina nel tempo: ma naturalmente ciò non sarà sempre possibile. In particolare, non lo sarà nelle cause che il 1° gennaio 2012, allorché l’obbligo di comunicazione entrerà in vigore, non risultino ancora definite dalle corti d’appello, ma nelle quali l’udienza di precisazione delle conclusioni si sia già tenuta.

Ora, in questi casi, se l’avviso sia fatto dopo l’udienza8, può senz’altro accadere che una delle parti depositi subito l’istanza, o magari la proponga con la comparsa conclusionale o la memoria di replica, nel rispetto del termine semestrale, traendosi così da ogni impaccio. Se per contro passino sei mesi, senza che intervengano né l’istanza, né la sentenza, il presidente della corte d’appello dovrà dichiarare l’estinzione.

V’è, però, un’ipotesi problematica, che è quella in cui il collegio pronunci sentenza sul merito dell’impugnazione, prima che siano decorsi sei mesi dall’avviso, ma senza che l’istanza di trattazione sia stata presentata in seguito ad esso. Non è agevole stabilire se questa sentenza sia viziata o meno: la soluzione negativa mi pare preferibile, perché non si può certo sostenere che, al tempo in cui la decisione viene pronunciata, fossero già maturate le condizioni per l’estinzione. A questa soluzione, potrebbe tuttavia, con qualche fondamento, obiettarsi che, una volta che la cancelleria abbia fatto l’avviso, il collegio possa procedere alla decisione, solo se prima intervenga la corrispondente istanza di una delle parti, e che dunque la sentenza in questione sia affetta da un error in procedendo.

7. Come si vede, la norma in commento è cagione di più d’una difficoltà tecnica. Ora, le difficoltà tecniche e i problemi interpretativi sono conseguenze inevitabili d’ogni attività normativa, e si suole accettarli per lo più di buon grado, quando la norma che dà loro causa svolga una necessaria o un’utile funzione. L’art. 26 l. n. 183/2011, però, è norma palesemente priva della benché minima utilità.

Lo scopo che si prefigge, lo rivela la rubrica, è quello di ridurre il contenzioso civile arretrato dinanzi alla Corte di cassazione ed alle corti d’appello, evitando la definizione nel merito di quei gravami ai quali, per esser stati promossi molto tempo fa, le parti9 non serbano più forse alcun reale interesse. E, come si è visto, per verificare codesto interesse, il meccanismo ideato dal legislatore prevede che ci si rivolga alle parti di questi giudizi d’impugnazione, esigendo da loro un nuovo atto

8 Se non sia fatto, nulla quaestio: v. supra, n. 3; ma par difficile sostenere, in iure condito, che le cancellerie non abbiano l’obbligo di avvisare, anche nelle cause in cui l’udienza di precisazione delle conclusioni si sia tenuta prima del 1° gennaio 2012, ma che a tale data ancora non risultino decise.

9 Le quali, si noti, di regola non portano nessuna, o quasi nessuna, diretta responsabilità per la durata abnorme dei giudizi di impugnazione.

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www.judicium.it d’impulso, in difetto del quale il gravame si chiude senza pronuncia e la decisione impugnata si consolida.

Occorre tuttavia ricordare che le parti del giudizio d’impugnazione, prima che il giudice lo definisca nel merito, sono già chiamate ad un atto d’impulso, ch’è quello della partecipazione all’udienza di precisazione delle conclusioni, o all’udienza di discussione: se si recano a tali udienze, che notoriamente si tengono in prossimità della definizione del gravame, è segno che esse hanno interesse a codesta definizione; se non desiderano più la definizione del giudizio d’impugnazione, non si vede infatti perché dovrebbero scomodarsi per partecipare all’udienza; d’altra parte, almeno in corte d’appello, se non partecipano all’udienza il processo s’estingue; ed al ricorso per cassazione è sempre possibile rinunciare.

Così stando le cose, il meccanismo di cui all’art. 26 potrebbe utilmente operare, solo se vi sia fondata ragione di ritenere che, in un discreto numero di giudizi, i soggetti abbiano, alla definizione del gravame, un livello d’interesse così basso, da rifiutare di sottoscrivere l’«istanza di trattazione» nel termine non incongruo che la legge mette loro a disposizione; ma che, nello stesso tempo, tale livello di interesse non sia abbastanza basso, da spingere la parte a non partecipare all’udienza di precisazione delle conclusioni o di discussione, ovvero a formalizzare la rinuncia espressa di cui all’art. 391 c.p.c., se l’art. 26 non vi fosse.

Saranno tanti, soggetti del genere? È difficile crederlo. È vero, certo, che l’incomodo creato dall’istanza di trattazione è maggiore di quello creato dalla partecipazione all’udienza, perché di quest’ultima si occupa il solo difensore, mentre l’istanza richiede una sottoscrizione del cliente; ma la differenza non pare così significativa.

È abbastanza ragionevole, perciò, prevedere che l’istanza di trattazione sarà presentata nella grandissima maggioranza dei procedimenti; e che, dei pochi casi in cui sarà dichiarata l’estinzione, una discreta parte concernerà procedimenti che si sarebbero comunque estinti ex art. 309 c.p.c. o per rinuncia espressa; ed un’altra parte sarà frutto di errori o omissioni professionali o giudiziari, che determineranno ulteriore litigiosità in futuro. Il tutto, a prezzo delle difficoltà interpretative segnalate più sopra, dei ritardi che sicuramente molti procedimenti subiranno «nell’attesa» del deposito in essi dell’istanza di trattazione, e della notevole mole di lavoro in più, generato da molte decine di migliaia di avvisi di cancelleria, e da quasi altrettanti depositi di atti.

Né può francamente fin d’ora tacersi del fatto che la nuova versione della norma commentata qui, che circola in questi giorni nel quadro di uno schema di disegno di legge approvato dal governo Monti il 21 dicembre 201110, e sulla quale mi riservo di intervenire in futuro prossimo, non sembra davvero idonea a fugare le difficoltà e le perplessità manifestate in questa sede.

10 Se il decreto legge in questione fosse emanato e successivamente convertito, senza modificazioni sul punto, l’art. 26 dovrebbe risultarne emendato come segue: «1. Nei procedimenti civili pendenti davanti alla Corte di cassazione, aventi ad oggetto ricorsi avverso le pronunce pubblicate prima della data di entrata in vigore della l. 18 giugno 2009, n. 69, e in quelli pendenti davanti alle corti di appello da oltre tre anni prima della data di entrata in vigore della presente legge, le impugnazioni si intendono rinunciate se nessuna delle parti, con istanza sottoscritta personalmente dalla parte che ha conferito la procura alle liti e autenticata dal difensore, dichiara la persistenza dell'interesse alla loro trattazione entro il termine perentorio di sei mesi dall’entrata in vigore della presente legge. 2. Il periodo di sei mesi di cui al comma 1 non si computa ai fini di cui all'art. 2 l. 24 marzo 2001, n. 89. 3. Nei casi di cui al comma 1 il presidente del collegio dichiara l'estinzione con decreto». Degne di nota sono la lieve riduzione dell’area dei procedimenti di corte d’appello interessati (che sarebbero più solo quelli già pendenti alla data del 1° gennaio 2009), e soprattutto l’eliminazione dell’avviso di cancelleria: le parti dovranno, cioè, aver cura di depositare l’istanza di trattazione, entro il 1° luglio 2012, senza che occorra previamente avvertirle dell’incombente.

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