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Ed è un punto di domanda che mette in causa il rapporto fra due soggetti: il giudice ed il perito

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Academic year: 2022

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IL GIUDICE PERITUS PERITORUM di

Salvatore Senese*

Il tema che mi è stato assegnato è contrassegnato da un punto di domanda che riguarda la validità ancora attuale della regola espressa in questo brocardo.

Ed è un punto di domanda che mette in causa il rapporto fra due soggetti: il giudice ed il perito.

Questo interrogativo rimanda necessariamente alla storia dalla quale il brocardo ci viene.

Un brocardo che ha origini antiche, tuttavia non ripercorrerò tutta la storia di questo principio, ma muoverò da quel contesto storico nel quale si fissano le coordinate essenziali del nostro processo, il diciottesimo secolo. Il secolo in cui si afferma un principio strettamente connesso a quello del libero convincimento del giudice.

Questo principio, che rappresenta una grande conquista della nostra epoca, è il sistema di superamento delle prove legali. Queste, originariamente destinate ad imbrigliare e guidare l'arbitrio del giudice, avevano poi finito per irretire la pronuncia del giudice e la sentenza in un reticolo di regole minuziosissime che si traducevano in arbitrio massimo della autorità giudiziaria.

Così come la moltiplicazione delle regole, delle distinzioni e sottodistinzioni, finisce per vanificare qualsiasi reale controllabilità del processo.

C'era dietro l'irrompere del principio del libero convincimento la pressione dei movimenti culturali del diciassettesimo secolo.

C'è anche in quel clima l'emergere di un dubbio sulla reale possibilità della conoscenza, mi riferisco ad Hume, e comincia a strutturarsi la figura del giudice quale è pervenuta fino ad oggi. Figura sulla quale agiscono spinte di libertà e rivendicazioni di sovranità del soggetto.

L'illuminismo si caratterizzò per la pretesa di ridurre il dettato legislativo ad enunciati chiari immediatamente comprensibili, percepibili.

Si caratterizzò per l'illusione che questi enunciati non abbisognassero di interpretazioni, che il giudice potesse essere soltanto bouche de la lois, e che quindi il giudice rispetto alla traduzione del dettato legislativo fosse quasi una macchina.

Ma al tempo stesso vi era la rivendicazione di sovranità del soggetto, dei singoli componenti del corpo sociale, che faceva sì che la funzione giurisdizionale nei primi anni della rivoluzione francese venisse affidata interamente alle giurie popolari. Queste erano contrassegnate dal principio che non dovevano motivare proprio perché il popolo è sovrano.

Esso quando si costituisce in giuria e quando accerta il fatto non deve motivare, l'induzione fattuale è un atto di sovranità immediato.

Di questo c'è un'eco anacronistica ancora oggi nel funzionamento delle Corti d'Assise francesi che decidono i fatti criminali di maggiore incidenza e non devono motivare, devono soltanto dire se l'imputato è colpevole o innocente.

L'ammonimento che campeggia nelle aule delle Corti d'Assise, che il presidente legge ai giurati prima che si ritirino nelle camere di consiglio, dice: la legge non vi chiede di dar conto delle strade attraverso le quali voi siete pervenuti ad accertare la verità, vi chiede soltanto di rispondere a questa domanda: avete voi un intimo convincimento?

Questa sottrazione a controllo della ricostruzione del fatto ha anch'essa ascendenze antiche.

*Senatore - Magistrato Corte di Cassazione

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Coloro che hanno consuetudine degli studi di diritto sanno che fin dal III secolo dopo Cristo si afferma il principio, la cui prima enunciazione è attribuita a Papiniano, secondo cui il giudice non può cambiare la legge, ma può liberamente ricostruire il fatto.

Ebbene il Consulente Tecnico, in quanto ausilio del giudice per apprendere una realtà che implica particolari cognizioni scientifiche, viene attratto in questa orbita di insindacabilità.

Egli fornisce le sue opinioni, le sue valutazioni, il sussidio della sua scienza e tecnica, ma poi il giudice nel dire l'ultima parola sulla fattispecie di fatto e' svincolato da qualsiasi onere di motivazione.

E in questo senso il brocardo peritus peritorum acquista una sua forte pregnanza espropriante dei diritti delle parti, del controllo logico e razionale sulla ricostruzione della situazione fattuale.

Questa situazione muta a partire dalla metà del diciannovesimo secolo, in particolare sotto l'influenza del diritto germanico con il declino progressivo delle giurie popolari, il restringimento del loro ambito di competenze a fatti di particolare gravità, l'emergere della figura del giudice funzionario che è propria dell'ordinamento napoleonico e che poi si diffuse negli altri ordinamenti.

Con questi mutamenti si comincia ad esigere che il giudice motivi la ricostruzione del fatto e per quanto riguarda il diritto è già tramontato il mito della meccanica applicazione della legge. Motivando egli apre la porta ad un controllo delle parti, ma anche del giudice superiore ed anche dell'opinione pubblica.

Il controllo potrà riguardare le inferenze probatorie delle quali si è avvalso, i criteri che hanno guidato l'induzione fattuale e il percorso che ha seguito per giungere ad una ricostruzione del fatto.

C'è un parallelo di questo processo con il più generale processo di ridimensionamento della sovranità che si afferma con il costituzionalismo.

Il legislatore non è più ultima istanza non è più arbitro di fare ciò che gli aggrada, deve muoversi nell'ambito di alcuni sommi principi che sono quelli della costituzione.

Questa diversa curvatura della cultura e delle regole che presiedono alla figura del giudice come si riflette sulla regola del giudice perito dei periti?

Si riflette nel senso che fermo rimanendo che il perito o il Consulente Tecnico è pur sempre un ausiliare del giudice, è pur sempre qualcuno che offre al giudice strumenti e sussidi per percepire alcuni dati della realtà per i quali sono richieste particolari cognizioni tecnico scientifiche.

Bene pur rimanendo ferma questa collocazione del Consulente Tecnico accanto al giudice, tuttavia le conclusioni cui il perito è pervenuto, i percorsi che lo stesso ha seguito, cadono sotto l'onere di motivazione che più in generale riguarda tutto il percorso logico seguito dal giudice per pervenire alla ricostruzione del fatto. Quindi il giudice non può esimersi dal motivare anche in presenza di una consulenza tecnica, non può esimersi dall'offrire criteri e ragioni che lo inducono a far proprie quelle conclusioni e per converso non è vincolato a quelle conclusioni a condizione che ne dia adeguatamente conto.

Questa la conclusione, il punto di approdo, della dottrina e dell'elaborazione in materia. La giurisprudenza traduce questa nozione in una serie di puntualizzazioni a seconda che il giudice aderisca o meno alla conclusione del Consulente Tecnico.

Laddove vi sia una consulenza tecnica, il giudice può esimersi dal motivare quando questa motivazione significherebbe ripetere pedissequamente il percorso seguito dal Consulente, può fare un rinvio alle conclusioni ed alle argomentazioni del Consulente e questo rinvio finisce con l'integrare la sua motivazione. Deve invece particolarmente motivare quando ritiene di discostarsi in tutto o in parte.

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Nell'ambito di questo schema generale ancora avanzano conclusioni differenziate nel senso che il rinvio alla consulenza non è più sufficiente quando la consulenza sia stata fatta oggetto di critiche puntuali dall'una o dall'altra parte.

In questo caso il giudice deve darsi carico di queste critiche. Quando la consulenza esibisca salti logici il richiamo ad essa si traduce nel trasferimento di quei salti logici all'interno della decisione, e la vizia. Questa serie di soluzioni articolate, spesso non coerenti fra loro, ha consapevolmente o meno dietro di sé, la più ampia problematica dell'accertamento della verità dei fatti nel processo. Questo è un punto di forte crisi oggi nel pensiero giuridico e più in generale sottende problemi epistemologici e filosofici di accertamento della verità tout court.

Per quanto riguarda in particolare il processo sono note quelle teorie che esprimono un sostanziale scetticismo sulla possibilità che nel processo si possa conseguire un accertamento veritiero dei fatti.

Questo orientamento ha varie motivazioni.

Una, quella più nobile, è quella espressa da Carnelutti o da Capograssi, il processo come fatto irripetibile di rapporto del giudice con la re giudicante, come intuizione, come attività del soggetto, connotata indelebilmente dalle caratteristiche del soggetto stesso.

Un'altra variante che si colloca su un terreno funzionalistico, fa riferimento agli scopi del processo: esso non deve accertare la verità.

Il giudice non ne ha gli strumenti; quello che viene sottoposto al giudice è un frammento di verità. Nel processo civile è un frammento di verità per di più delimitato dal principio dispositivo.

Poi il processo ha per scopo quello di risolvere le liti, di risolvere i conflitti, ha uno scopo eminentemente sociale non storico culturale, volerlo ancorare alla verità significa indebolirlo e frustrarne le finalità sociali.

Poi c'è il realismo giuridico, in fondo la verità è quella che i giudici dicono così come il diritto quello che i giudici dicono? Il realismo americano: i cittadini devono ricavare dalla giurisprudenza i criteri in base ai quali possono ritenere con una certa attendibilità quali probabilità vi siano di far risultare dei fatti e quali possibilità di applicare una regola.

Da questo insieme di posizioni che con una certa sommarietà accomuno sotto il termine di scetticismo giudiziario derivano due conseguenze diverse sul rapporto giudice - perito e sul principio del giudice peritus peritorum.

L'una è la esaltazione acritica di questo principio, cioè la rivendicazione al giudice di un potere di decisione comunque scavalcando o superando le risultanze peritali.

L'altra una tendenziale incontestabilità della consulenza tecnica. Questo punto è bene sottolinearlo perché finirebbe con il trasformare il Consulente da ausiliare del giudice a fonte di prova cui il giudice sarebbe legato. Si dice, anche in alcune pronunce della Cassazione, che il giudice non potrebbe più esercitare quella libertà di valutazione e di critica insita nel principio del iudex peritus peritorum, tutte le volte in cui il Consulente Tecnico gli fornisca dei dati obiettivi che sono percepibili solo grazie ad una particolare conoscenza tecnico scientifica.

Un'altra tesi ancora dice che libertà del giudice verrebbe meno per i fatti riscontrabili solo mediante specifiche cognizioni tecniche, parlo di fatti, e non di dati obiettivi, cioè per quelle conclusioni che implicano l'istituzione di relazione. Ed anche per i fatti strettamente connessi alle indagini tecniche demandate al Consulente o al perito.

Naturalmente di queste tre posizioni si trova traccia nella giurisprudenza.

Credo che ai nostri fini che sono contrassegnati da un inizio di ricerca, che sono segnati dal punto di domanda posto al titolo della relazione, sia opportuno chiedersi quale è l'ideologia del processo che noi vogliamo o dobbiamo scegliere.

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Perché è forse in funzione di questa ideologia che noi potremmo risolvere le antinomie cui ho fatto cenno.

Ebbene io propongo come ideologia del processo alla cui stregua valutare le antinomie, quella del processo come inteso ad una decisione giusta. E' giusta quella decisione che non è svincolata dai fatti e quella decisione che riesca a parlare razionalmente della realtà.

Naturalmente esprimere una scelta significa addossarsi l'onere di motivarla. E la motivazione che io offro è l'unica che a me sembra possibile quando si parla di diritto, è una motivazione di diritto positivo costituzionale.

Vi sono dei precisi riferimenti costituzionali che inducono a ritenere che il processo debba essere teso a decisioni tendenzialmente giuste ed ancorate alla verità. Dico tendenzialmente perché un salutare ridimensionamento dell'illusione che nel processo si possa ottenere la verità assoluta mi pare una premessa d'obbligo.

I riferimenti costituzionali sono l'art. 24 che stabilisce come diritto fondamentale il diritto di azione e di difesa. Ora dire che io ho il diritto fondamentale di agire e di difendermi significa che ho anche il diritto di investire attraverso le mie difese.

E queste debbono essere tutte verificabili o falsificabili in modo che la decisione terminale del giudice possa uscir fuori da questo confronto, da questa dialettica che è l'unica garanzia di tendenziale verità.

Non un sostanzialismo che postuli la presenza di una verità apprendibile comunque, ma l'accettazione di una possibile corrispondenza tra le posizioni in fatto e la realtà.

E tale corrispondenza si deve formare attraverso il fuoco del contraddittorio della difesa, della presenza.

Il contraddittorio deve investire allora anche quei segmenti del ragionamento del giudice mutuati dalla consulenza tecnica e dal perito.

Ed in questo senso il giudice peritus peritorum, perché non può essere vincolato a ciò che dice il perito.

Perché a questo modo si escluderebbe la possibilità della parte di discutere del risultato dell'attività del perito. Ma la libertà del giudice rispetto alle conclusioni del perito è una libertà che oltre che nutrirsi del contraddittorio deve poi accollarsi l'onere della motivazione.

In questo senso devono richiamarsi quelle sentenze della Corte Costituzionale che hanno richiamato illegittime quelle norme che in qualche modo vincolavano il giudice ad accertamenti tecnici compiuti al di fuori del processo da organi amministrativi.

Un esempio sono inchieste sui disastri nelle Ferrovie dello Stato. Queste sentenze hanno tutte motivato la propria decisione con la necessità di sottoporre qualsiasi elemento della decisione al contraddittorio ed all'obbligo della motivazione. Obbligo fissato nella nostra Carta a differenza dell'ordinamento francese.

L'obbligo della motivazione è uno dei motivi fondamentali scritti nella Carta Costituzionale a proposito della attività giudiziaria.

In dottrina corre una disputa sull'ambito di questo obbligo. Alcuni illustri autori hanno sostenuto che l'obbligo di motivazione stabilito dall'art. 111 Cost. riguarderebbe solo la motivazione in diritto e non quella in fatto.

A me pare, ed in questo sono in buona compagnia che una tale limitazione sia assolutamente insostenibile. Le sentenze erroneamente motivate in diritto non sono soggette a cassazione tutte le volte in cui la decisione sia comunque conforme al diritto. In questo caso la sentenza mantiene la sua validità e la Corte si limita soltanto a correggerla. Se allora noi dicessimo che l'obbligo costituzionale riguarda solo la motivazione in diritto noi diremmo che il Costituente si è scomodato ad imporre un certo obbligo la cui violazione può dar luogo soltanto ad un esercizio calligrafico mentre poi invece è proprio la motivazione in fatto quella sulla quale la

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corte non può intervenire tranne che non sia insufficiente, carente, contraddittoria od omessa quella che determina le premesse per l'applicazione del diritto.

L'accertamento della responsabilità dell'imputato nel giudizio di colpevolezza, nel penale, presuppone prima ancora dell'applicazione della norma, delle esimenti e, con alcune varianti dovute alla persistenza delle prove legali, lo stesso discorso può valere nel civile.

E allora se così è il giudice resta perito dei periti nel senso che tutto è controvertibile di fronte al giudice, anche le conclusioni dei periti, anche quelle che riguardano la percezione dei dati che richiedono particolari cognizioni tecnico scientifiche.

Tutto è controvertibile perché non è legato ad alcuna affermazione del perito, ma è legato all'obbligo di motivazione. Questo aumenta di intensità e cresce tanto più quanto la opinione disattesa si fondi su cognizioni scientifiche.

Questo comporta differenti pratiche.

Di fronte a problemi scientifici delicatissimi, in giorni in cui la scienza è divenuta sempre più specialistica, le cognizioni mediche sono sempre più di pochi.

Come potrà il giudice metterle in discussione? Qui il richiamo è al suo senso di responsabilità. Potrà ricorrere a nuovi periti, a collegi peritali più ampi, riportando la sua decisione nell'ambito di ciò che è comunemente accertato dalla comunità scientifica.

E dovrà anche avere grande prudenza perché più i problemi si complicano tanto più in ambito scientifico si va da una certezza relativa ad una serie di ipotesi e di probabilità.

In certi campi di frontiera, penso al nesso fra certi lavori e l'insorgenza di alcune malattie, esistono ipotesi che sono dotate di riscontri, ma che non hanno ancora quella verifica che le possa far ritenere verità scientifiche.

In questi casi il giudice si potrà muovere con cautela chiedendo il grado di probabilità con cui certe ipotesi si possono verificare e guardarsi da due pericoli.

L'uno quello di ritenere per criterio di verità una mera ipotesi.

L'altro di ritenere estranea alla verità fattuale una ipotesi scientifica sufficientemente suffragata, ma della quale non si riescono a conoscere i percorsi di determinazione causale.

Questa conclusione può lasciare disillusi soprattutto coloro che pensano che l'attività giudiziaria può aver il crisma della assoluta certezza o della perfezione.

Se invece si assume come premessa metodologica salutare, tanto più per i giudici e per coloro che operano in questo settore, un'irriducibile tasso di illegittimità di siffatte operazioni e ci si muove per ridurlo entro limiti accettabili allora forse questa indicazione può aiutare.

E può aiutare sia a superare il soggettivismo che le teorie scettiche comportano sia l'arbitrio del giudice o la dimissione delle sue responsabilità.

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