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365/2015 Intellettuali di se stessi. Lavoro intellettuale in epoca neoliberale

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(2)

rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti

redazione: Sergia Adamo, Paulo Barone, Graziella Berto,

Deborah Borca (editing, deborah.borca@gmail.com), Damiano Cantone, Mario Colucci, Alessandro Dal Lago, Pierangelo Di Vittorio,

Giovanna Gallio, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Massimiliano Nicoli, Ilaria Papandrea, Fabio Polidori, Rosella Prezzo, Pier Aldo Rovatti, Massimiliano Roveretto, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Davide Zoletto

direzione: c/o il Saggiatore, via Melzo 9, 20129 Milano sito web: autaut.ilsaggiatore.com

collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, R. Bodei, L. Boella, S. Borutti, J. Butler, M. Cacciari, A. Cavarero, R. De Biasi, G. Dorfles, M. Ferraris, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, A. Heller, F. Jullien, J.-L. Nancy, A. Prete, M. Serres, G.C. Spivak, G. Vattimo, M. Vegetti, P. Veyne, V. Vitiello, S. Žižek per proposte di pubblicazione: autaut@ilsaggiatore.com

Si fa presente che “aut aut” non pubblica recensioni e non accetta testi di ampiezza superiore a 40.000 battute (note e spazi compresi).

il Saggiatore S.r.l.

via Melzo 9, 20129 Milano www.ilsaggiatore.com

ufficio stampa: stampa@ilsaggiatore.com

abbonamento 2015: Italia € 60,00, estero € 76,00 servizio abbonamenti e fascicoli arretrati:

Il Saggiatore S.r.l., via Melzo 9, 20129 Milano Telefono: 02 20230213

e-mail: abbonamentiautaut@ilsaggiatore.com

Registrazione del Tribunale di Milano n. 2232 in data 13.1.1951 Proprietà: Francesca Romana Paci

Stampa: Lego S.p.A., Lavis (

TN

)

Spedizione in abbonamento postale 45% art. 1, comma 1, decreto legge 353/03 convertito in legge 46/04 – Filiale di Milano.

Finito di stampare nel marzo 2015

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3

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D opo un fascicolo monografico dedicato alla problematizzazione dell’insegna- mento scolastico (La scuola impossibile, 358, 2013) e un altro dedicato alla critica dei dispositivi di valuta- zione della ricerca (All’indice. Critica della cultura della valutazione, 360, 2013), “aut aut” mette ora a tema la condizione del lavoro intellettuale in epoca neoliberale. In questo campo, le categorie socio-politiche che organizzano gli spazi e i tempi delle professioni saltano, rendendo estremamente complessa l’impresa di mettere ordine tra figure del lavoro che proliferano, si ibridano, e molto spesso si incorporano in una o più persone contemporaneamente.

La condizione del lavoro intellettuale emerge come stretta fra il

desiderio di indipendenza e di cooperazione, di un buon lavoro e di

una buona vita, da una parte, e il ricatto esistenziale, la sussunzione

reale della vita imposti dall’appartenenza a un eterno esercito in-

dustriale di riserva, dall’altra. Abbiamo pensato di definire questa

figura complessa e contraddittoria con l’espressione “intellettuale

di se stesso”, che segnala la penetrazione della forma di vita neo-

liberale dell’“imprenditore di se stesso” nell’ambito del lavoro

intellettuale, ma marca anche uno scarto rispetto alla figura che il

Novecento ci ha lasciato in eredità: quella dell’intellettuale a cui è

demandato il compito di pensare e farsi espressione di un collettivo,

di una classe, di un partito o di un’istituzione. L’intellettuale di se

stesso è piuttosto il rovescio neoliberale di quell’“intellettualità di

massa” che i movimenti degli anni settanta avevano delineato in

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quanto esito dell’affermarsi del general intellect nell’ultima fase del modo di produzione fordista. In seguito, il mercato neoliberista ha organizzato in regime di concorrenza le potenzialità che un’in- tellettualità diffusa produce, eleggendone l’individuo proprietario a portatore unico.

Le questioni che si aprono sono diverse e tutte cruciali: è possibile valorizzare il desiderio di autonomia del lavoro indi- pendente senza che quel desiderio sia catturato, nella forma della concorrenza, da parte del mercato neoliberista? È possibile quindi praticare l’indipendenza e la cooperazione in modo non alterna- tivo o contrapposto? Quella dell’intellettuale di se stesso è una scelta o un’imposizione? Il lavoro intellettuale, in effetti, costituisce una cartina di tornasole del livello di integrazione e commistione fra pratiche di soggettivazione e modi di assoggettamento, se si pensa alle forme di autodisciplina, autosorveglianza, così come di ascetismo o di “marketing del sé” che pure appartengono a questa condizione e alle sue forme di visibilità. Eppure, come emerge dal fascicolo, questa profonda individualizzazione del lavoro in- tellettuale delinea anche la possibilità di determinare una forma di vita comune proprio laddove sembrano agire con la massima efficacia i dispositivi di concorrenza e competizione che separano, distinguono, isolano.

Le pratiche relazionali che hanno caratterizzato la composi-

zione di questo fascicolo non possono che partecipare a quella

forma di vita a cui abbiamo accennato, tanto quanto i contenuti

dei singoli contributi. Ci siamo rivolti, infatti, ad autori e autrici

il cui lavoro intellettuale non è quasi mai strutturato all’interno di

questa o quella istituzione, ma che partecipano, più o meno loro

malgrado, alla condizione dell’intellettuale di se stesso. Le nostre

discussioni intorno a questo tema si sono svolte tra un’application

da chiudere per una position nell’università straniera di turno, una

deadline incombente, un lavoro intermittente e un pagamento da

rincorrere, distanze geografiche da ridurre per e-mail o Skype –

insomma, tra vite i cui pezzi sono da tenere insieme quasi quoti-

dianamente. In questo quadro, l’intellettuale di se stesso non è una

categoria che ha la pretesa di una legittimazione/ricomposizione

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5

teorica di una forma di vita così composita, variegata e contraddit-

toria, vuole piuttosto costituire uno spunto per aprire un discorso

che, attraverso e nonostante le sue pratiche e i suoi stili diver-

si – anche di scrittura, come questo stesso fascicolo mostra –,

tenti di sottrarre il lavoro intellettuale alla individualizzazione più

esasperata. [D.G., M.N.]

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A oltre trent’anni dalla morte di Enzo Paci, con il moltiplicarsi degli studi e delle iniziative legate alla sua opera, l’Archivio chiede a chi ha scritto e scriva su Enzo Paci di voler gentilmente inviare copia del proprio lavoro all’Archivio stesso. Lo scopo evidente è quello di riunire e fare conoscere lavori e ricerche, e i loro autori, per fa- vorire altri studi. Nello stesso tempo si intende garantire la presenza di una collezione completa di scritti di e su Enzo Paci nel luogo che ne conserva manoscritti e biblioteca.

L’invito si rivolge anche a chi abbia scritto una tesi di laurea o una dissertazione di dottorato su Enzo Paci e/o sul contesto culturale in cui si è mossa la sua attività. Al momento la collezione è parziale e sembra utile completarla. Si potrà in questo modo compilare anche un elenco degli studiosi interessati.

Inoltre si è avviata l’acquisizione e la catalogazione dell’epistolario. Chiediamo per- tanto a chi sia in possesso di lettere di Enzo Paci di collaborare, inviandoci fotocopia delle lettere; se ne ha tenuto copia e non ha nulla in contrario, sono benvenute anche fotocopie delle lettere del corrispondente.

L’indirizzo al quale inviare il materiale è:

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Ringraziamo tutti anticipatamente e raccomandiamo di accludere al materiale anche

il proprio recapito.

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7

aut aut, 365, 2015, 7-20

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. Sarei tentato di cominciare questo testo con una critica del titolo che io stesso ho scelto: è troppo roboante e per di più cede alla moda assai diffusa di parafrasare i titoli di opere capitali della cultura occidentale. Senza contare le generalizzazioni indebite che esso contiene e che il testo non sarà in grado di giustificare, come se esistessero oggetti già ben definiti, e sui quali fosse possibile in- tendersi senza troppe difficoltà, come “lavoro intellettuale” (con la sua “etica”) e “spirito del capitalismo”. Il riferimento al libro più celebre di Max Weber e all’importante e voluminoso saggio di Boltanski e Chiapello,

1

solo da poco tradotto in italiano, non basterà certo a sciogliere i nodi problematici implicati da un tito- lo che, pertanto, non andrà preso troppo sul serio. Dichiariamo subito la posta in gioco che tale titolo – ironico, quindi, e un po’

provocatorio – sottende: si tratterà di provare a partecipare, con un minuscolo contributo, alla lunga storia della riflessione critica che si interroga sul rapporto fra le condizioni oggettive e soggettive

Massimiliano Nicoli, redattore di “aut aut”, attualmente è borsista F. Braudel presso il Laboratorio di ricerca Sophiapol dell’Università Paris Ouest Nanterre La Défense. Si occupa soprattutto di Foucault e di critica del management e ha appena pubblicato la monografia Le risorse umane per le edizioni Ediesse di Roma.

1. Mi riferisco, ovviamente, a M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904-1905), trad. di A.M. Marietti, Rizzoli, Milano 2011, e a L. Boltanski, È. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo (1999), trad. di M. Schianchi, Mimesis, Milano-Udine 2014.

1

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della produzione intellettuale, l’organizzazione capitalistica del lavoro e le forme di governo politico degli individui.

2

Oggi, la formula “intellettuale di se stesso” sembra funzionare come uno dei nomi di tale rapporto. Un chiarimento preliminare è però necessario. L’espressione “intellettuale di se stesso” è stata recentemente impiegata da Pier Aldo Rovatti in relazione, per l’ap- punto, alle trasformazioni che la funzione e il ruolo dell’intellettua- le stanno attraversando nel nostro presente e all’interno di quello

“stile” di governo degli individui che chiamiamo neoliberalismo.

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L’espressione è anfibola. Da un lato essa rinvia, con una smorfia, al ritornello neoliberale che invita tutti e ciascuno a trasformarsi in imprenditori di se stessi. In questo senso, l’espressione “intellet- tuale di se stesso” costituirebbe in primo luogo la traduzione nel campo intellettuale di quel ritornello, segnalando la penetrazione della competizione, della concorrenza, dei principi del libero mer- cato nella cosiddetta economia della conoscenza e l’affermazione della forma-impresa come forma di vita dei lavoratori intellettuali.

In questa traduzione, “imprenditore” e “intellettuale” si sostitui- scono e si sovrappongono, e il lavoratore della conoscenza appare come un atleta della gestione manageriale del proprio “capitale umano”, nel quadro della biopolitica neoliberale. Nello stesso tempo, però, la traduzione tradisce qualcosa, e la sovrapposizione fra i due termini non è senza resto.

“Intellettuale di se stesso” diventa anche, seguendo l’indicazione di Rovatti, il nome di una potenzialità politica che inerisce a cia- scuno quando lo sviluppo del general intellect fa decadere la figura dell’intellettuale universale e si estinguono le guide veritative a cui demandare il problema di distinguere il vero dal falso. In termini marxiani,

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l’espansione del “sapere sociale generale” fa evaporare la distinzione fra lavoro intellettuale o manuale e modifica il rapporto

2. Tema sul quale “aut aut” è più volte intervenuta, soprattutto negli anni settanta: cfr.

i fascicoli 142-143 del 1974 e 154 del 1976.

3. Cfr. P.A. Rovatti, Noi, i barbari. La sottocultura dominante, Raffaello Cortina, Milano 2011, p. 145.

4. Mi riferisco soprattutto al celeberrimo “Frammento sulle macchine” dei Grundrisse.

Cfr. K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica (1939), trad. di E.

Grillo, La Nuova Italia, Firenze 1968-1970, pp. 389-411.

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fra teoria e prassi all’interno della vita di ciascuno, così che ciascuno può diventare intellettuale critico di se stesso: si delinea un mondo senza maîtres de vérité a cui è assegnato l’incarico di pensare per tutti. A ognuno la possibilità e il compito di criticare tutti i poteri che ci attraversano sospendendone la necessità – come direbbe invece Foucault, coniando in proposito il termine “anarcheologia”

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–, e di impiantare nella concretezza dell’esistenza quel “poco di verità”

che serve alla vita.

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Contemporaneamente, si presenta l’occasione di inventare nuove modalità di organizzazione del lavoro intellet- tuale e della trasmissione dei saperi, nuove istituzioni che mettano in discussione la separazione fra discorsi e pratiche, fra soggetto e oggetto, fra – di nuovo – teoria e prassi. Ancora Marx, questa volta nei Manoscritti,

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ci insegna che la soluzione delle opposizioni teo- retiche è possibile solo in maniera pratica, è un compito che spetta alla vita e non, per esempio, alla filosofia.

Le ricerche sociali che indagano i comparti del “lavoro cogniti- vo” – l’università, il giornalismo, l’editoria, la comunicazione – ci restituiscono altrettanta ambivalenza rispetto alla “postura” che caratterizza questo tipo di lavoro:

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da un lato la knowledge-based economy spinge gli individui verso un ethos intensamente autoim- prenditoriale e competitivo, fino al limite dell’autosfruttamento e della disponibilità al lavoro gratuito in cambio di una promessa di visibilità

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o di una riga da aggiungere al proprio curriculum.

5. M. Foucault, Del governo dei viventi. Corso al Collège de France (1979-1980) (2012), a cura di M. Senellart, trad. di D. Borca e P.A. Rovatti, Feltrinelli, Milano 2014, p. 86.

6. Id., Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri

II

. Corso al Collège de France (1984) (2009), a cura di F. Gros, trad. di M. Galzigna, Feltrinelli, Milano 2011, p. 187. Cfr. anche P.A.

Rovatti, Quel poco di verità. Una lezione su Michel Foucault, Mimesis, Milano-Udine 2013.

7. K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844 (1932), trad. di N. Bobbio, Einaudi, Torino 1970, p. 120.

8. Mi riferisco, per esempio, all’inchiesta avviata nel 2013 da

IRES

Emilia Romagna,

IRES

Toscana e

IRES

Veneto sui lavoratori della conoscenza e basata su un centinaio di interviste individuali oltre che su circa 1100 questionari raccolti attraverso una piattaforma online. Si veda in proposito F. Chicchi, N. Masiero, Posture e imposture del lavoro cognitivo. Ripensare la pratica sindacale nel capitalismo delle reti e dei saperi, “Economia e società regionale”, 1, 2014, pp. 90-115.

9. Si tratta di quella “economia politica della promessa” di cui parla in modo acuto ed

efficace Marco Bascetta in un articolo del 22 ottobre 2014 sul quotidiano “il manifesto”,

consultabile online all’indirizzo: <ilmanifesto.info/leconomia-politica-della-promessa>.

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aut aut, 365, 2015, 21-36

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La figura dell’intellettuale, quella di cui lamentiamo oggi la crisi se non proprio l’estinzione, si comincia a delineare nel corso del

XVIII secolo, alla vigilia della Rivoluzione francese, con le sembian- ze del “critico”. In Critica illuminista e crisi della società borghese, Reinhart Koselleck ci fornisce gli elementi che configurano il con- cetto di “critica”; ma non solo: altrettanto importante per definire la critica e la sua efficacia risulta essere la “disposizione” di tali elementi. Fondamentale è allora la “posizione” che deve assume- re il “critico” rispetto all’oggetto della sua critica – nella “critica politica”, per esempio, il potere dominante, lo Stato – perché que- sta sia davvero efficace. Partiamo dunque da Koselleck – e dalla figura del “critico” – per delineare la genealogia dell’intellettuale nell’epoca del neoliberalismo:

Già nel concetto di critica è insito il fatto che mediante la critica si opera una separazione. La critica è un’arte del giudizio, la sua attività consiste nel vagliare l’esattezza o la verità, la giustezza o la bellezza di un contenuto già dato, per ricavare dalla cono- scenza così ottenuta un giudizio […]. La “critica”, in quanto arte del giudicare e del dividere, […] è legata fin dall’origine all’immagine dualistica del mondo allora dominante. […] A questo riguardo, per comprendere l’importanza politica della

Dario Gentili svolge attività di ricerca in filosofia presso l’Università di Roma Tre e altre

istituzioni in Italia e all’estero. Il suo ultimo libro è Italian Theory. Dall’operaismo alla bio-

politica (il Mulino, Bologna 2012).

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critica del secolo decimottavo, si dovrà innanzitutto indicare come si formò l’istanza critica nel suo rapporto di opposizione allo Stato, per seguire poi lo sviluppo graduale e la crescente ipoteca posta dall’istanza critica su questo Stato.

1

Il concetto di “critica” e la funzione del “critico” hanno radici molto antiche, che risalgono al mondo greco. Come sottolinea Koselleck, la critica rientra nell’arte del giudizio ed è in un senso strettamente “giudiziario” che Aristotele la contempla nella Politi- ca: “Da tutto ciò è evidente chi sia il cittadino: colui che ha facoltà di partecipare a una carica deliberativa e giudiziaria (kritichés), noi diciamo che è senz’altro cittadino di questa città e, per parlare in senso stretto, diciamo città quella moltitudine di individui di questo tipo che soddisfi l’autosufficienza di vita”.

2

Senza poter ora tenere conto delle diverse e fondamentali implicazioni di questo passo aristotelico, basti per il nostro discorso evidenziare come la funzione “critica” sia una prerogativa di ogni cittadino della polis:

la capacità di giudizio – fosse pure soltanto quella espressa in un tribunale – è una qualità che rientra tra quelle che definiscono la vita politica. La critica può insomma avere luogo solo all’interno di una comunità politica.

A partire già dall’Antichità ma poi più chiaramente nel Medioe- vo, la critica abbandona l’ambito politico-giuridico dove la collocava Aristotele e – a differenza del suo corrispettivo “crisi” che invece metterà radici nel lessico medico – finirà per diventare una pecu- liarità della filologia, della logica e dell’estetica.

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Nel XVIII secolo, la critica esercita una modalità di giudizio che è peculiare di un ambito extra-politico, al di fuori quindi del “politico” che al tempo assume la forma dello Stato assolutistico. Diventa dunque prerogativa della borghesia nascente e della sua intellighenzia, che, esclusa dal potere

1. R. Koselleck, Critica illuministica e crisi della società borghese (1959), trad. di G.

Panzieri, il Mulino, Bologna 1972, p. 120.

2. Aristotele, Politica, 1275b, 17-21.

3. Cfr. K. Röttgers, Kritik, in O. Brunner, W. Conze, R. Koselleck (a cura di), Geschicht- liche Grundbegriffe. Historisches Lexikon zur politisch-sozialen Sprache in Deutschland, vol.

3, Klett-Cotta, Stuttgart 2004, pp. 651-675.

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politico, faceva procedere la sua critica da istanze prima religiose e poi morali, ma non senza connotazioni anche estetiche; la critica procede cioè da quell’ambito “privato” che lo stesso Stato assoluti- stico aveva separato dal dominio della politica. È pertanto la critica e non la crisi a preparare la Rivoluzione francese, nonostante – è questa la tesi di Koselleck – gli illuministi tendano a nascondere

“ipocritamente” la portata politica della loro critica cosiddetta

“morale”, che presume di essere tale soltanto perché procede dal di fuori del politico, ma in realtà mina le fondamenta del potere dello Stato: “La crisi come dissoluzione di qualsiasi ordine, come crollo di tutti i rapporti di proprietà, che sarà collegato a convulsioni e imprevedibili disordini, la crisi come crisi politica dell’intero Stato non fu affatto il significato centrale del concetto in cui si sarebbe condensata la coscienza borghese della crisi. La coscienza prerivo- luzionaria della crisi si nutre piuttosto del tipo di critica politica che è specifica della borghesia nello Stato assolutistico”.

4

Ciò che la critica produce è una posizione “esterna” rispetto al potere dominante, posizione che consente il giudizio e la messa in questione del potere stesso. È dalla critica illuminista – che procede appunto da una posizione esterna rispetto allo Stato, che ne separa, divide, distingue una parte a esso potenzialmente alternativa – che scaturisce il concetto politico di crisi come momento della decisione finale. E non viceversa. Koselleck lo scrive chiaramente:

“Dal pro e contro del processo critico scaturisce, non appena lo Stato viene coinvolto nel processo, l’aut-aut di una crisi che ine- vitabilmente impone la decisione politica”.

5

La “crisi decisiva” è il prodotto politico della critica e, si potrebbe aggiungere, finirà per caratterizzare l’idea che della crisi avrà la modernità.

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Quando con la Rivoluzione francese la borghesia conquista l’ambito del politico, la posizione privilegiata della critica illuminista viene

4. R. Koselleck, Critica illuministica e crisi della società borghese, cit., p. 211 (trad.

modificata).

5. Ivi, p. 215.

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37

aut aut, 365, 2015, 37-53

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. Ancor prima di essere una figura sociale, ispi- rata a una declinazione specifica del soggetto neoliberale (“imprenditore di se stesso”, l’Io S.p.A.), l’intellettuale di se stesso è una forma di intuizione. È un atto rivolto verso il conoscente e non è orientato verso l’altro, un oggetto, il mondo. Nel suo caso, il conoscere si incarna in una forma di intuizione spirituale il cui obiettivo è l’autoriconosci- mento in quanto soggetto agente dell’intuizione. Intuendo se stesso, il soggetto si colloca presso di sé. In una società popolata da Sé atomizzati, questo è il primo atto di cittadinanza. Nel suo piccolo, l’intellettuale di se stesso compie un atto comune a chiunque voglia partecipare al gioco della cittadinanza neolibe- rale: per dimostrare di esistere deve affermare che il proprio Sé esiste ed è produttivo.

L’auspicio di una prossimità assoluta all’origine della percezione più intima di un essere umano fonda un’ontologia dell’essere pres- so di sé. Tale ontologia si forma nei dintorni di quel luogo oscuro, ma cogente e pienamente operante, del Soggetto. Un Soggetto che continua a essere il mistero del discorso pubblico e culturale, pur essendo stato pienamente decostruito dalla filosofia critica o dalla

1

Roberto Ciccarelli, filosofo e giornalista, ha scritto, tra l’altro, Potenza e Beatitudine. Il diritto

nel pensiero di Baruch Spinoza (Carocci, Roma 2003), Immanenza. Filosofia, diritto e politica

della vita dal

XIX

al

XX

secolo (il Mulino, Bologna 2008), La furia dei cervelli (manifestolibri,

Roma 2011, con Giuseppe Allegri), Il Quinto Stato. Perché il lavoro indipendente è il nostro

futuro (Ponte alle Grazie, Milano 2013, con Giuseppe Allegri).

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38

genealogia di Michel Foucault, dalla différance di Jacques Derrida, dall’immanenza nel pensiero di Gilles Deleuze.

Questo Soggetto è oggi l’argomento preferito della filosofia del- la mente, così come delle declinazioni locali e postume del pensiero debole, analitico, giuridico o variamente ontologico, psicoanali- tico e antropologico, infine di quello antagonista o della filosofia radicale, a tal punto da dominare in maniera inesausta l’orizzonte delle scienze umane, sociali, giuridiche – quelle che un tempo si chiamavano “scienze dello spirito” – e ancor più di quelle episte- mologiche, scientifiche o applicative – le “scienze della natura”.

Questa rinnovata centralità è stata travolta da un’impetuosa corrente neoscientista ispirata a paradigmi deterministi e im- prenditoriali, indirizzati dal mercato accademico e implementati dal sistema della valutazione delle pubblicazioni scientifiche. Il dispositivo ha rafforzato il mistero del Soggetto attribuendogli una trasparente familiarità domestica. Il Soggetto – e il suo risvolto più immediato, l’Io – rappresenta oggi il sostrato allusivo, ma non per questo meno falsamente “oggettivo”, di tale orientamento.

Si è così sviluppata una nuova attitudine nel lavoro intellettuale che ha creato – o rafforzato – un’attitudine iper-individualista e fondamentalmente corporativa nell’esercizio della professione della ricerca e nelle attività classificabili come “letterarie”. Al di là del banale, intramontabile e autoevidente imperativo capitalista applicato in questi campi – “si scrive per vendere e vende solo chi possiede lo status di scrittore di successo o di opinionista leader” –, al centro di questa generale trasformazione c’è l’intellettuale di se stesso. Il protagonista indiscusso, la stella polare della cultura neoimprenditoriale applicata alla valutazione della ricerca, il co- siddetto sistema- ANVUR , come quello della scuola incarnato dall’au- tovalutazione degli istituti o delle prove Invalsi.

1

Il capitale (di pubblicazioni, di status, di relazioni) accumulato nel “portafoglio”

dei titoli e dei meriti costituisce la ricchezza dell’impresa personale.

La forma è il contenuto del Soggetto poiché tale accumulazione

1. Cfr. il numero monografico di “aut aut”, All’indice. Critica della cultura della

valutazione, 360, 2013; e V. Pinto, Valutare e punire, Cronopio, Napoli 2012.

(15)

39

consiste nel percepirsi come imprenditori delle proprie capacità, buone pratiche o intuizioni.

2. “Intellettuale di se stesso” è una locuzione, il cui conio credo derivi da una suggestione fornita da Pier Aldo Rovatti,

2

che allude a un sopravvissuto, o revenant, in un mondo desertificato dalla cata- strofe capitalista della privatizzazione e dell’iperburocratizzazione dello Stato. Gli organi del suo corpo rappresentano i comparti di un’azienda che lavora per il successo delle idee prodotte dalla testa-cervello – l’organo che rappresenta la parodia del Prometeo contemporaneo: il manager. Una rappresentazione che pervade le retoriche governative in tutto il mondo, ricavata dall’immagi- ne che dal Policraticus di Giovanni da Salisbury al Leviatano di Hobbes ha forgiato l’immaginario moderno della rappresentanza politica. Al posto dell’impresa (o del manager) a quel tempo c’era il sovrano, il re. I ruoli oggi sono cambiati, ma le posizioni restano le stesse, all’interno di una rappresentazione verticistica, organi- cista e meccanica del corpo del sovrano inteso come corpo della nazione. Alla base c’è un dispositivo che assegna la funzione del comando – l’imperium – a un soggetto onnisciente e onnipotente.

Le parti, organi, funzioni, ruoli obbediscono agli impulsi dettati da un unico centro decisionale incarnato – per una salda credenza antropomorfica – in un soggetto eminente che esercita una funzione pastorale. Come la monarchia anche l’impresa, e il politico che governa il suo paese come un imprenditore, aspira a dirigere la coscienza e l’anima dei singoli come “il pastore veglia sulle sue pecore”. L’impresa e, per proprietà transitiva, il soggetto imprenditore applicano al corpo della popolazione i principi del controllo e del comando esercitati un tempo dal monarca.

Questa trasformazione ha creato la governamentalità neolibera- le, contraddistinta dalla “presa del potere sull’uomo come essere vivente”, la “biopolitica”. Quella che Foucault ha definito una

“statalizzazione del biologico” oggi si è trasformata nell’impren-

2. Cfr. P.A. Rovatti, Maschere filosofiche e società degli individui, “aut aut”, 10 aprile

2014, <autaut.ilsaggiatore.com/2014/04/maschere-filosofiche>.

(16)

54

aut aut, 365, 2015, 54-65

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1. Hai diciannove anni e un vago riflesso edipico, una fragile coscienza politica, un insensibile moto generazionale ti spingo- no a pensare che no, non hai nessuna voglia di entrare nel ciclo produttivo del “capitalismo occidentale”. La tua posizione è al- trove, a margine, leggermente decentrata rispetto al “sistema”. Lo senti: il tuo posto sarà quello di uno spettatore, ma non uno spet- tatore passivo: uno spettatore critico, attivo, molto loquace. Di- ciamo pure un intellettuale.

– Ti arroghi il diritto di coltivare questo privilegio e ti iscrivi a filo- sofia pieno di entusiasmo per il futuro che ti aspetta: vai al punto 2.

– Insistenti pressioni famigliari o un travagliato percorso interiore ti convincono che a certe occupazioni è meglio riservare il tempo libero (ti sei imbattuto in una frase di Primo Levi, autore prediletto:

“Di scrittura non si vive, perciò mi sono iscritto a chimica”). Meglio dedicare le proprie energie allo studio di un mestiere “vero”. Ti iscrivi a medicina e vai al punto 4.

2. Sei scaltro, ben consigliato e coperto economicamente da una famiglia che, volente o nolente, accetta di farsi carico di una car- riera accademica che si prospetta lunga e difficile. Accetti la spesa

Non bisogna mai essere troppo choosy.

Elsa Fornero

L’uomo non è altro che la serie delle sue azioni.

G.W.F. Hegel

Anche in questo caso, il racconto è finito.

Raymond Queneau

Carlo Mazza Galanti è nato a Genova nel 1977. Ha lavorato in Francia come ricercatore univer-

sitario prima di tornare in Italia, a Roma, dove vive e lavora. Ha scritto e scrive su diversi giornali

e riviste, tra cui “Alias”, “D di Repubblica”, “lo Straniero”, “IL”, “minima&moralia”, “L’Ul-

timo Uomo”. Fa parte della redazione di “Nuovi Argomenti”. Traduce romanzi dal francese.

(17)

55

morale per la tua affiliazione alla parrocchia di un potente barone:

dopo la laurea consumi tre anni di assistentato volontario prima di vincere il dottorato con borsa che ti è stato promesso. Per il post-doc devi attendere altri quarantotto mesi guadagnando un compenso poco più che simbolico in cambio di sei ore settimanali di tutoraggio e didattica integrativa. Di fronte alla prospettiva di micragnosi assegni di ricerca a singhiozzo valuti l’offerta di una sistemazione più promettente in un campus dell’Iowa.

– Decidi di partire per l’Iowa: vai al punto 3.

– Decidi di perseverare in Italia: vai al punto 5.

3. Negli sconfinati territori del Midwest scopri un mondo univer- sitario inedito, efficiente, democratico, meritocratico, abitabile.

Tuttavia dopo un paio d’anni ti rendi conto che il lavoro è pesante e le gratificazioni della ricerca non sono esattamente quelle che speravi. Ti manca l’Italia, il clima, la lingua, gli amici, la mozza- rella. Seduto davanti all’Apple del tuo studio privato, lo sguardo vaga distratto nel cerchio di conifere del parco alla ricerca di una soluzione.

– Allo scadere del contratto prendi la decisione sofferta di tornare indietro? Vai al punto 7.

– Meglio la sconsolata routine di un buon lavoro lontano da casa piuttosto che la certezza di un futuro malsano: l’Italia è un posto buono per andarci in vacanza, non per lavorarci (abbastanza cini- camente ripeti questa frase con l’unico amico di Roma che ancora senti, a intervalli sempre più prolungati, su Skype). Continui a sgobbare nel campus e corri al punto 6 per conoscere il tuo futuro.

4. Gli insegnamenti obbligatori del primo anno ti assorbono completamente: non solo non trovi il tempo di aprire i romanzi e i saggi che ti eri prefisso di leggere ma perfino le uscite serali con gli amici sono diventate un bene di lusso. Impossibile giocare a calcio, impossibile suonare nei Nuovi Vaghi, il tuo gruppo stori- co del liceo. Impossibile fare qualsiasi cosa che non sia studiare.

Uniche distrazioni: un solitario di Windows o una partita a scac-

chi contro il computer come pausa distensiva tra un capitolo di

(18)

56

embriologia e gli ingarbugliati schemi preparatori al temibile test di anatomia umana.

– Dopo un anno di studio disperato scegli di fare il passo indietro e tornare a una vita normale, a quella che desideri: socialità e cultura, persone interessanti e cose belle, viaggi, creatività, tempo libero.

Cambi facoltà, ti iscrivi a filosofia e torni al punto 2.

– Tieni duro. Pensi a quello che stai facendo come a un necessario investimento sul futuro. Dopo la laurea recupererai il tempo perso, insieme a tutto il resto. Sei un giovane coscienzioso e questa storia non ti riguarda più: il tuo racconto finisce qui.

5. Al sesto anno di precariato post-laurea cominci a portare il piz- zetto gentiliano del tuo professore e quando cammini congiungi le mani dietro la schiena in un atteggiamento meditativo-patriarcale che nasconde un principio di prostrazione psichica. A trentanove anni sei in vista della promozione sperata ma continui a dividere la casa con un’amica ex compagna di dottorato (primo Wittgen- stein), ora commessa di profumeria. La tua famiglia per quanto mediamente benestante non può permettersi di sostenere l’affitto di un appartamento intero per ogni figlio (ce ne sono altri due).

Per arrotondare gli stipendiucoli intermittenti hai trovato un

lavoro alimentare che preferisci tenere nascosto ai colleghi uni-

versitari. A quarantatré anni diventi ricercatore, prendi in affitto

un bilocale dove vivi da solo, abbandoni i lavoretti clandestini e

cominci a delegare parti sempre più cospicue delle tue mansioni

a dottorandi o laureandi in odore di dottorato. Il tuo sguardo si è

illanguidito, presti meno attenzione al tuo aspetto fisico, a come ti

vesti, alla tua immagine pubblica, ma hai una discreta reputazione

come studioso di Hegel e la tua sciatteria viene interpretata dagli

studenti come un sintomo di genialità. Scavalcando gli ostacoli

delle successive riforme diventerai associato a cinquantun anni e

aspetterai l’ordinariato senza troppa fretta conducendo una vita

apparentemente tranquilla, ormai dimentico delle belle speranze

ma ancora capace di goderti i sudati privilegi infliggendo ai su-

bordinati piccole soperchierie, vanagloriose ostentazioni, pignoli

e spesso oziosi esercizi di potere. Questa storia per te finisce qui.

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66

aut aut, 365, 2015, 66-83

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Che cosa rimane del lavoro nella società delle reti globali e dei pro- cessi di accumulazione basati sulla finanziarizzazione della vita?

Cosa resta del lavoro nel momento in cui l’estrazione del valore nel capitalismo pare avere sempre meno a che fare con la quantità di lavoro impiegato nei processi di produzione? La questione è tanto spinosa quanto controversa e merita, da un lato, cautela analitica e, dall’altro, una buona dose di coraggio interpretativo.

Il lavoro (o meglio la sua attuale scarsità sociale), non c’è dubbio, occupa con rinnovata e maniacale frequenza lo spazio circoscritto dai riflettori della discussione pubblica. La crisi eco- nomica globale morde così forte il lavoro, infatti, che finisce per smembrarlo e quindi per allentare la sua tradizionale capacità di istituire coordinate e norme per il riconoscimento e l’orientamento sociale. L’istituto dell’impiego, vero punto di capitone della società

Federico Chicchi è professore associato presso il Dipartimento di sociologia e diritto dell’economia dell’Università di Bologna. Insegna Sociologia economica e del lavoro presso la Scuola di scienze politiche dell’Università di Bologna. È membro associato dell’Associazione lacaniana italiana di psicoanalisi e docente

IRPA

. Tra le sue più recenti pubblicazioni segnaliamo: Soggettività smarrita. Sulle retoriche del capitalismo contempora- neo (Bruno Mondadori, Milano 2012) e, con Mauro Turrini, Precarious Subjectivities Are Not for Sale (“Global Discourse”, 3, 2013).

Nicoletta Masiero è dottoranda all’École doctorale “Cultures et société”, Université Paris

XII

e ricercatrice presso

IRES

Veneto, dove si occupa di ricerca sociale e trasformazioni del

lavoro. Fra le ultime pubblicazioni, Esplorare il lavoro cognitivo: una ricerca alla prova della

contemporaneità (con D. Dieci), in A. Verrocchio e E. Vezzosi (a cura di), Il lavoro che cam-

bia (

EUT

, Trieste 2014), e

VAE

en Italie et paysages sociaux (con I. Padoan e C. Chiusso), in

P. Lafont (a cura di), Politiques publiques et privées pour la mise en oeuvre des dispositifs de

validation des acquis de l’expérience et leur internationalisation (

UPE

, Paris 2014).

(20)

67

economica fordista e industriale, descritto in modo così prezioso da Robert Castel, perde infatti completamente “legittimità” con il precisarsi progressivo della nuova razionalità sociale neoliberale.

1

Inutile allora, ci pare, tentare di esorcizzare l’evaporazione del lavoro,

2

visto che viene progressivamente meno la sua esclusiva centralità nel processo di accumulazione capitalistico.

Che cosa rimane, quindi, di ciò che ancora ci ostiniamo a chiamare un lavoro? Quali sono le misure del valore-lavoro nel capitalismo biopolitico e cognitivo? Come si ricostruiscono oggi i transiti sociali dentro il farsi confuso del confine tra vita e lavoro?

In che modo la soggettività istruisce la sua dimensione produttiva e cooperativa se nel lavoro salariato (l’impiego) non può più trovare il suo dispositivo privilegiato di approdo sociale?

Per poter tentare di dare alcune risposte a tali quesiti, dob- biamo, a nostro avviso, innanzitutto dotarci, seguendo Michel Foucault, di un metodo peculiarmente genealogico,

3

capace cioè di rintracciare le sporgenze positive che attraversano e pongono in fibrillazione, a partire da un certo momento, le relazioni tra i poteri, i saperi e i corpi all’interno di quella che fu la “Società del lavoro”.

Occorre allora fare i conti con ciò che Boltanski e Chiapello hanno weberianamente definito l’emergere di un nuovo spirito del capitalismo,

4

spirito che comincia a fare presa sul piano economico e sociale già alla fine degli anni sessanta del secolo scorso. Secondo gli autori è l’imporsi di una nuova forma di critica, la “critique artiste”, che associandosi a quella più tradizionale di tipo sociale, introduce uno spostamento qualitativo in seno al capitalismo. Ca- pitalismo che si rifonda, metabolizzando e neutralizzando perlopiù

1. Cfr. P. Dardot, C. Laval, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista (2009), trad. di R. Antoniucci e M. Lapenna, DeriveApprodi, Roma 2013.

2. Cfr. F. Chicchi, Soggettività smarrita, cit.

3. La genealogia, come è noto e come è proposta da Foucault, è una pratica di ricerca che rifiuta di adottare un metodo di indagine storico di tipo tradizionale; si oppone alla ricerca dell’origine, alla distillazione del fenomeno per ricavarne una supposta purezza. Il suo obiettivo fondamentale è quello di “reperire la singolarità degli eventi, fuori da ogni finalità monotona” (M. Foucault, “Nietzsche, la genealogia, la storia”, 1971, trad. di A.

Fontana, P. Pasquino, G. Procacci, in Microfisica del potere, Einaudi, Torino 1977, p. 29).

4. L. Boltanski, È. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo (1999), trad. di M. Schianchi,

Mimesis, Milano-Udine 2014.

(21)

68

tali critiche, dentro quella che gli autori chiamano la “cité par projets”.

5

Se la critica sociale aveva come obiettivo fondamentale la denuncia delle diseguaglianze sociali e l’organizzazione della lotta contro lo sfruttamento del lavoro, la critica artistica rivolge invece la sua azione contro la disciplina, l’omogeneizzazione, la razionalizzazione e l’ortopedia della vita così come il fordismo l’aveva concepita, spingendo al contempo a valorizzazione un ideale sociale di autonomia e autenticità.

6

Sotto la sferza della critica artistica, l’azienda viene ridotta alla funzione di istituzione oppressiva, analoga allo stato, all’eserci- to, alla scuola o alla famiglia. Di conseguenza, la lotta antiburo- cratica per l’autonomia sul luogo di lavoro ha preso il soprav- vento sulle questioni relative all’eguaglianza economica e alla sicurezza dei più deboli e dei meno protetti. Le rivendicazioni

“qualitative”, come si diceva al tempo, sembravano più rilevanti e, addirittura, più rivoluzionarie, di quelle “quantitative” per la loro capacità di agire sulle forme stesse dell’accumulazione capitalistica.

7

Nella città per progetti si producono e annidano, quindi, le norme che sostengono le giustificazioni utili a far “funzionare” social- mente il terzo spirito del capitalismo. In questo senso è bene evidenziare come, secondo i due autori, la critica che viene rivolta al capitalismo svolge anche una funzione di indirizzo e sostegno normativo delle sue progressive trasformazioni, sia sul piano eco- nomico, sia sul piano della sua complessiva organizzazione sociale.

5. Le caratteristiche di questa nuova cité sono descritte nel volume Il nuovo spirito del capitalismo: “Abbiamo enumerato le qualità il cui possesso, all’interno di questa cité, porta a definire qualcuno come ‘grande’. Sono le caratteristiche per eccellenza del manager, del capo progetto, mobile, leggero, dotato dell’arte di stabilire e intrattenere numerose connessioni, diverse e arricchenti, e della capacità di estendere le reti” (L. Boltanski, È. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, cit., p. 411).

6. Su questo a nostro parere sono particolarmente preziose le riflessioni di Alain Ehrenberg contenute nel suo volume La società del disagio. Il mentale e il sociale (2010), trad. di V. Zini, Einaudi, Torino 2010.

7. L. Boltanski, È. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, cit., pp. 254-255.

(22)

84

aut aut, 365, 2015, 84-98

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T ra le varie definizioni e riflessioni sulla crisi che Antonio Gramsci sviluppò nei Quaderni ve n’è una, forse meno nota, dalla quale vorremmo partire per rendere conto della serie di ro- vesci prospettici che la recente crisi finanziaria ha generato. Ciò ci permette di tracciare il contesto genealogico in cui inserire una discussione sulla condizione del lavoro culturale non strutturato in Europa ed esaminare, per questa via, alcune pratiche di auto- organizzazione articolate attorno all’esperienza del comune. Nel 1933, proponendo di valorizzare la nozione di “svolgimento” in alternativa a quella assai diffusa di “evento”, Gramsci chiariva, in un frammento, che la crisi si dispiega come “l’intensificazione quantitativa di certi elementi, non nuovi e originali, ma special- mente l’intensificazione di certi fenomeni, mentre altri che prima apparivano e operavano simultaneamente ai primi, immunizzan- doli, sono divenuti inoperosi o sono scomparsi del tutto”.

1

Si è ampiamente discusso di come, a livello di iscrizione simbolica, la recente crisi si sia giocata, assieme ad altri fattori, sul piano

Andrea Mura è ricercatore in Filosofia politica presso la Facoltà di scienze sociali della Open University. Ha contribuito a numerosi volumi e riviste internazionali in ambito di filosofia comparata, psicoanalisi e analisi delle ideologie e dei discorsi. È in corso di pubblicazione presso Ashgate la sua monografia The Symbolic Scenarios of Islamism: A Study in Islamic Political Thought.

1. A. Gramsci, “Q 15 (

II

) § 5, Passato e presente. La crisi” (1933), in Quaderni dal carcere,

Einaudi, Torino 2001, vol.

III

, p. 1756.

(23)

85

dell’intensificazione del dispositivo del debito.

2

In un processo di progressiva torsione, il paradigma dell’indebitamento avrebbe finito per sostituire o parzialmente immunizzare la posizione do- minante che la correlata retorica del credito e della libertà aveva giocato negli anni della prosperità neoliberale, quando l’Europa si autorappresentava come superficie illimitata di credito innanzi a un Terzo Mondo in attesa di una “benevola” rinegoziazione del debito. Che la discussione sulla rinegoziazione del debito traversi oggi lo spazio europeo, a poco più di dieci anni di distanza dall’em- blematica esperienza del social forum, ponendosi come segno di rinnovate pratiche disciplinari a livello continentale, fa parte della serie di ritorni dal campo dell’Altro e di conseguenti rotazioni dell’immaginario europeo che la crisi ha prodotto.

Secondo la recente analisi di Maurizio Lazzarato, la crisi,

“svelando la natura delle relazioni di potere, porta a forme di controllo molto più ‘repressive’ e ‘autoritarie’, che non devono più preoccuparsi della retorica della ‘libertà’, della creatività e dell’arricchimento come negli anni Ottanta e Novanta”.

3

Per Lazzarato, tale passaggio segna una rottura e una “nuova fase”

rispetto a quel modello di cattura biopolitica che l’ideale di libertà mobilitava all’interno del discorso neoliberale postbellico, e che Foucault aveva posto al centro della sua analisi indicando una cruciale transizione dalla prospettiva liberale classica dell’homo oeconomicus, soggetto di scambio nel mercato all’interno di una logica utilitaristica, alla figura neoliberale dell’imprenditore di se stesso, organizzata attorno all’idea “che l’analisi economica deb- ba ritrovare, come elemento di base per le sue decifrazioni, non tanto l’individuo, non tanto dei processi o meccanismi, ma delle imprese”.

4

In questa prospettiva, inserito in un quadro di crescente competitività, l’imprenditore di se stesso era così agganciato a un

2. Per una discussione recente sul tema si rimanda all’insieme di contributi apparsi nel numero The Greek Symptom: Debt, Crisis and the Left, “Radical Philosophy”, 181, 2013.

3. M. Lazzarato, La fabbrica dell’uomo indebitato. Saggio sulla condizione neoliberista (2011), trad. di A. Cotulelli e E. Turano Campello, DeriveApprodi, Roma 2012, pp. 121-122.

4. M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France, 1978-1979 (2004),

trad. di M. Bertani e V. Zini, Feltrinelli, Milano 2005, p. 186.

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86

sistema di valutazioni e calcoli attraverso cui si costituiva la sua responsabilità e razionalità imprenditoriale, la sua capacità duttile di assumere decisioni di investimento atte ad assicurare l’accre- scimento e la valorizzazione di sé in quanto capitale umano.

5

Il lavoro su di sé poteva però contare sulla promessa di un ritorno produttivo, nella forma di un soddisfacimento o di un resto, attra- verso il consumo di godimento e l’offerta retorica di forme nuove di autorealizzazione, riconoscimento ed emancipazione.

Si è visto come Lazzarato evidenzi il lato della rottura rispetto a tale modello, annunciando l’irruzione di una “svolta autorita- ria” che trasforma quella promessa di libertà e autorealizzazione annessa al lavoro su di sé in un “imperativo a farsi carico dei rischi e dei costi che non vogliono assumersi né lo Stato, né le imprese” e che costringe l’imprenditore di se stesso a essere sempre più imprenditore dei propri debiti.

6

Rispetto all’enfasi qui posta sull’emergenza di una svolta autoritaria, suggeriamo tuttavia di considerare la dimensione illiberale che il discorso dell’austerity ha impegnato in seno all’orizzonte neoliberista come indicativa, piuttosto, di un rovescio discorsivo e simbolico del neoliberalismo stesso, rovescio che manterrebbe intatta, a nostro avviso, la sua contiguità strutturale con quel fantasma di libertà a cui Foucault aveva dato particolare rilievo nella sua analisi sulla Nascita della biopolitica. In linea con l’idea di crisi come svolgimento complesso elaborata da Gramsci, tale svolta, più che una rottura, parrebbe infatti denotare una torsione dell’ideale neoliberale di libertà, torsione che evidenzierebbe la diminuita operatività della retorica sulla liberalità, sul successo, sulla prosperità e sul credito a fronte di quei termini di correlazione – pratiche illiberali, fallimento, po- vertà e debito – che un tempo erano posti a margine (o al di fuori dei confini autorappresentativi dell’Europa), e che andrebbero ora a intensificarsi, tornando nel campo europeo e producendo un evidente effetto di desedimentazione del discorso sull’Europa.

5. Si veda l’attenta analisi di E. Stimilli, Il debito del vivente. Ascesi e capitalismo, Quodlibet, Macerata 2011.

6. M. Lazzarato, La fabbrica dell’uomo indebitato, cit., p. 107.

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99

aut aut, 365, 2015, 99-119

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Q uando ci vediamo per la prima volta, Lorena si trova dai suoi, in un tran- quillo quartiere medio-borghese di una città meridionale. Una casa in cui lei stessa ha abitato per tan- ti anni. Nella città in cui è nata e vissuta, che adora. Una città con cui Lorena sembra fare corpo attraverso il suo linguaggio, che nelle interazioni informali suona vivace, ricco di espressioni locali, e che può tuttavia prendere – improvvisamente – una piega forma- le, contrassegnata da un tono imparziale, tipico dell’atteggiamento professorale. Cosa che accade puntualmente quando Lorena par- la delle sue ricerche.

“A casa dei miei”, dice Lorena, anche se nel corso dell’intervista si farà sfuggire uno spaesante – unheimlich: è il caso di dirlo – “a casa mia”. La ricerca sociale si tiene generalmente a distanza dalla psicologia spicciola della vita quotidiana. Eppure i lapsus di questo tipo, che definirò a scanso di equivoci lapsus sociologici, sono atti mancati che, al di là, o meglio al di qua del loro significato psico- logico, spesso aiutano a capire meglio il senso delle biografie delle persone incontrate dal ricercatore. Come tutti i precari, in effetti, Lorena sa cosa significa essere alla ricerca di una casa, cambiare

Alessandro Manna svolge attività di ricerca e insegnamento presso l’

EHESS

di Parigi, dove sta

terminando un dottorato in scienze sociali. Si occupa soprattutto di politiche della salute e

psichiatria. Lavora inoltre come ricercatore sociale e traduttore free lance. Ha pubblicato

con il collettivo “Action30” il libro L’uniforme e l’anima. Indagine sul vecchio e nuovo fa-

scismo (Bari 2009).

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100

spesso casa, vivere nella paura di dover lasciare la propria casa, oppure essere tout court senza una casa, ritrovandosi sotto il tetto dei genitori.

A dire il vero Lorena è una “fortunata”, è lei stessa a dirlo: “Non mi lamento”. Ha fatto un dottorato e un post-dottorato pagati.

Ha lavorato in un’azienda con uno stipendio “di tutto rispetto”.

Vale anche per la casa. Lorena ha battagliato per conquistarsi uno spazio suo. Ha cambiato tanti indirizzi ma è sempre riuscita a vi- vere da sola. Oggi però è dai suoi perché sua madre non sta bene.

“Nulla di grave”, ma vuole starle vicino: la signora Elisa “non si ferma un attimo”.

Nel corso dei nostri incontri Lorena si allontanerà spesso dallo schermo del computer per andare da sua madre, per controllare che tutto sia a posto. Con Lorena, infatti, si è deciso di incontrarci in videoconferenza: sarebbe stato troppo complicato e troppo costoso percorrere centinaia di chilometri per intervistarla.

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Il fatto di cimentarsi in un’etnografia virtuale solleva degli interroga- tivi sul modo in cui le culture dell’immaterialità possono modificare, oggi, le pratiche della ricerca sociale. L’etnografia è tradizionalmente legata a doppio filo alla materialità dei luoghi in cui si svolge un’in- chiesta: l’etnografo ama sentire con il proprio naso l’odore dei luo- ghi in cui conduce le sue inchieste e interagisce faccia a faccia con persone a cui fa delle domande, spesso indiscrete, perché desidera raccontarne le esperienze. Ma non ci sono soltanto l’epistemologia della ricerca e le riflessioni di rito sul metodo. C’è di più, e questo

“di più” ha a che fare con ciò che gli antropologi chiamano “rifles- sività”, e che i filosofi definiscono “soggettivazione”. L’etica di sé.

L’etnografia a distanza che sta alla base di questo articolo è an-

che una specie di ricerca low cost che interpella lo statuto sociale

e la precarietà di chi scrive, di quel ricercatore che, facendo di

necessità virtù, svolgendo le sue inchieste con gli elementi e attra-

verso i supporti di cui dispone, prova a comprendere la precarietà

degli altri, assumendosi infine la responsabilità di metterla nero

(27)

101

su bianco. L’etnografo spesso nutre l’illusione del “sociologo re”

1

e vuole dire la verità del mondo sociale illudendosi di osservare sovranamente ciò che gli accade intorno da una posizione ideale di presunta assoluta neutralità. Senza sporcarsi le mani con il mondo o con se stesso. Ma la precarietà che egli prova a descrivere è pure la sua precarietà, mentre parlare e scrivere della precarietà degli altri diventa un modo di sublimare e mettere a tacere la propria precarietà. L’etnografo evita di prendere pubblicamente la parola per fare la genealogia di se stesso; evita di raccontare la propria storia in prima persona a partire dal proprio nome, scandito a chiare lettere, in una ricostruzione pubblica priva di censure della traiettoria che lo ha fatto diventare quello che è. Strana macchi- nazione, attraverso la quale l’etica e la politica di sé si dissolvono in un’etica accademica della difesa della privacy degli intervistati (Lorena è infatti un nome di fantasia), e la parresia si sublima in una conoscenza distaccata dei “processi sociali”. Strano détournement, che spinge chi scrive a censurare la propria storia per raccontare la storia di un’altra persona la quale, privata a sua volta di un no- me proprio, diventa un caso anonimo ed esemplificativo di come funziona la società.

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Lorena ha 33 anni e fa la ricercatrice in scienze umane e sociali. O meglio: è una ricercatrice in scienze umane e sociali. Lo è perché lei si sente tale e si definisce come tale, e non solo, o non tanto, perché c’è un curriculum a dimostrarlo. Una ricercatrice pura: l’insegna- mento non la entusiasma. Impossibile sorprenderla a lamentarsi dell’impreparazione e dell’ignoranza degli studenti – che è poi uno degli atteggiamenti caratteristici dell’habitus professorale:

2

1. J. Rancière, Le philosophe et ses pauvres (1983), Flammarion, Paris 2010.

2. Secondo Bourdieu e Passeron il discorso della “nullità degli studenti”, simmetrico

rispetto a quello dell’“infallibilità del maestro”, è un motivo costante del discorso scolastico-

professorale: P. Bourdieu, J.-C. Passeron, La reproduction. Éléments pour une théorie du

système d’enseignement, Minuit, Paris 1970, pp. 81-82. Sul tema insiste anche Raffaele

Simone in L’università dei tre tradimenti, Laterza, Roma-Bari 2000, p. 125 sgg.

(28)

121

aut aut, 365, 2015, 121-137

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Vincenzo Ostuni è dottore di ricerca in filosofia. Redattore di minimum fax, poi editor di

saggistica e in seguito direttore editoriale di Fazi, oggi lavora per Ponte alle Grazie come

editor di saggistica e narrativa. Il suo secondo libro di poesie, Faldone zero-venti. Poesie

1992-2006, è uscito per Ponte Sisto nel 2012. Una scelta dal suo terzo libro, Faldone zero-

trentanove. Poesie 1992-2010, è stata pubblicata in volume da Aragno nel 2014, con il titolo

Faldone zero-trentanove. Estratti 2007-2010,

I

. È stato tra i fautori di Generazione

TQ

. Il suo

sito è www.faldone.it

(29)

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(«Arriviamo per tempo ovunque occorra», annunciano; «non c’è altra chance, capillarità e certezza sono marchi di fabbrica;

voi dormite pure senza preoccupazioni: sta a noi cercare le chiavi nelle tasche giuste,

scavalcare le gardenie, un salto al metro. Per i miglioramenti farete presto:

basterà l’impellenza delle vostre determinazioni»).

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aut aut, 365, 2015, 139-160

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N ell’estate del 2013 ho visitato la Biennale di Venezia. Il tema dell’anno era Il palazzo enciclopedico e uno dei primi padiglioni, appena varcato il cancello dei Giardini, era quello belga. All’inter- no, una grande installazione dal titolo Krippelwood di Berlinde De Bruyckere. Prima di poter accedere alla grande sala illuminata da una tenue luce grigiastra il visitatore doveva attraversare uno stretto e corto corridoio drappeggiato di nero, dove si potevano leggere, su un foglio in formato A4, senza alcuna pretesa grafica, poche righe a firma J.M. Coetzee dal titolo Kreupelhout. Ecco il testo:

Crippelwood, il legno storto, non è legno morto, non è dead- wood. Deadwood nella mitologia del Far West era il villaggio delle speranze fallite, dove finivano le piste. Il legno storto al contrario è vivo. Come tutti gli alberi, anche il legno storto anela al sole; ma qualcosa nella sua struttura genetica, qualche tara o veleno, ne deforma le ossa.

In kreupelhout – legno storto – legno nodoso – legno torto c’è un groviglio lessicale (grommoso, noderoso, nocchioso: varianti della stessa parola):

1. kreupel – kruipen (storpio, strisciare) – gruccia – crucia (crocco)

Alessandro Di Grazia, dopo essersi occupato per molti anni di pedagogia steineriana,

attualmente lavora come consulente filosofico. Fa parte del Laboratorio di filosofia

contemporanea di Trieste.

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2. nodo < gnocco, nocchiuto (annodato)

3. gnommero: (1) un groviglio (una trappola), (2) crocchia, nodo (di capelli)

L’arbusto storto: quello che non può raddrizzarsi, che cresce piegato, accovacciato; dai cui rami strappiamo le grucce per coloro che possono solo strisciare; dalle membra nodose, di- storte, aggrovigliate.

I nodi sono di due tipi, quelli razionali, creati dalla ragione umana, che essendo stati annodati possono essere sciolti, e quelli che si trovano in natura, indissolubili, per i quali non c’è soluzione, non c’è oplossing.

Storpio/kreupel: parola non più in uso nel vocabolario civile.

Rifiutata come sordida, rispedita al mondo da cui proviene e cui pertiene, un mondo di tuguri e caseggiati popolari, di fogne allo scoperto e carbonaie, di carretti tirati dai cavalli e di cani famelici per le strade. Parola indesiderata, repressa, sotterrata.

Dal passato sepolto l’albero storto spunta nel nostro terso pre- sente, e insinua le dita nodose su per le sbarre/barre dietro cui l’abbiamo confinato.

J.M. Coetzee

Adelaide, 14 febbraio 2013

Superata questa pagina, tanto scarna quanto precisa e perfino didattica, si poteva accedere alla grande sala che ospitava l’opera dell’artista belga. Una volta entrati ci si trovava in presenza di un’installazione-opera scultorea dal materiale scarsamente iden- tificabile.

A uno sguardo superficiale si è convinti di essere di fronte a un

enorme tronco ramificato di quello che un tempo poteva essere

stato un albero. Ma avvicinandosi e guardando bene ci si rende

conto che c’è qualcosa di più: striature di sangue, accenni di tessuti,

groppi nascosti da bendature e insaccamenti suturati o cuciti. Una

presenza scarnificata di uno strano essere, una “cosa” affondata

in una luminescenza velata di scuro. L’illuminazione proveniente

dall’alto soffitto del padiglione è attutita da tendaggi neri, ma non

troppo spessi, tali da lasciar filtrare comunque la luce necessaria

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141

per scorgere i dettagli dell’installazione. Lo sguardo è così attratto e catturato da una fascinazione a tratti macabra.

Ma l’installazione non è solo Pagina-in-entrata + legno-torto- nel-padiglione. In occasione dell’allestimento del padiglione belga è comparso anche un libro, We Are All Flesh,

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curato anch’esso da J.M. Coetzee e Berlinde De Bruyckere, che possiamo ritenere parte integrante di tutta l’operazione. Non è un libro nel senso convenzionale del termine, ma una vera e propria installazione cartacea: a fotografie di opere di De Bruyckere si alternano brani che Coetzee ha estratto chirurgicamente dai propri romanzi senza alcun riferimento cronologico.

Se Kreupelhout, a un primo sguardo, appare come un resto, una sorta di relitto, questa serie di brani appare come un resto la cui storia non è rintracciabile in una narrazione ordinata. Il testo fa “gnocco” con Kreupelhout presente nel padiglione, in quanto a esso è annodato inestricabilmente e ne costituisce un rimando continuo. Ma anche il testo stesso, preso a sé, è una particolare raffigurazione di intrecci, nodi, rinvii e trappole, che si raddoppia- no intersecandosi con le fotografie delle opere di De Bruyckere.

Se Kreupelhout ha a che fare con l’interruzione continua di linee narrative, deformazioni, ritorni su se stesso di percorsi di un essere che inciampa, intoppa, è storpio e striscia, We Are All Flesh è costituito da brani d’autore che hanno perso una loro correlazione narrativa. I “brani” possono essere una parte di un racconto, o una parte di un’opera musicale, ma fare anche riferimento a dei tocchi di carne; una carne fatta a brani, strappati da quello che un tempo era stato un “corpo”. Fare a brani un “corpus letterario”; brani disposti a costituire una serie di nodi e ramificazioni tematico- figurali, il cui contenuto sembra strappato dal corpus di Coetzee stesso. Lo strappo e la disarticolazione del corpo appaiono come

1. We Are All Flesh,

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Paper Kunsthalle, s.l. 2013. Va notato che l’inglese flesh indica

la carne animale viva, distinta da meat, che si riferisce alla preparazione delle carni a scopi

culinari. Allo stesso modo, in francese abbiamo le parole chair e viande. Il tedesco ha solo

Fleisch, potendo però distinguere con Quick la carne viva lesa o aperta, sia in senso concreto

che in senso metaforico. Il tedesco sopperisce a questa parziale lacuna potendo distinguere

tra Körper e Leib, distinzione fondamentale nella fenomenologia husserliana. In italiano

queste distinzioni non sono date.

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161

aut aut, 365, 2015, 161-176

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L a relazione tra filosofia e architettura negli ultimi anni si è sempre più rafforzata: non esiste oggi teoria del progetto che rinunci alla profusione di citazioni dei pensatori più alla moda (anche se per lo più decontestualizzati, quando non fraintesi).

1

E nella dire- zione inversa, l’architettura è privilegiato terreno di verifica per il pensiero filosofico, come mostrano a titolo di esempio i prolun- gati dialoghi derridiani su archi-scrittura e architettura della de- costruzione.

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Eppure la reciproca contaminazione rimane al livel- lo della fascinazione concettuale.

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C’è un chiaro motivo per cui gli architetti oggi guardano al mondo filosofico. La polverizzazione degli approcci al progetto, divenuta endemica negli ultimi decenni,

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ha sempre più dissolto il limite

Carlo Deregibus (Torino, 1982) è architetto e dottore di ricerca. Ha partecipato a convegni e mostre in tre continenti e pubblicato articoli su riviste quali “Construction History”,

“Journal of the

IASS

” e “Il Giornale dell’Architettura”, oltre a contributi su monografie in Italia e all’estero. È del 2014 il saggio Intenzione e responsabilità. La consistenza etica dell’architettura contemporanea, edito dalla

IPOC

di Milano.

1. P. Bess, Communitarianism and Emotivism, “Inland Architect”, 5-6, 1993. L’autore poi prosegue, in realtà, in modo meno esaustivo e pervasivo di quanto l’inizio potrebbe indurre a pensare, restringendo il campo ai temi del politically correct.

2. Dialoghi su cui i dibattiti sono aspri. Cfr. per esempio, tra i “pro”, F. Vitale, Mitografie.

Jacques Derrida e la scrittura dello spazio, Mimesis, Milano-Udine 2012 e, tra i “contro”, N.A.

Salingaros, Anti-architecture and Deconstruction, Umbau-Verlag, Solingen 2005.

3. Come rilevava Manfredo Tafuri alla fine della sua Storia dell’architettura italiana 1944- Forse la cosa migliore da dire circa l’etica e l’architettura è che è un

argomento che riscuote interesse, ma non vi è né chiarezza, né consenso

sull’argomento.

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