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Parte I Capitolo I Baudelaire e il Salon del ‘59

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Parte I

Capitolo I

Baudelaire e il Salon del ‘59

«In questi nostri tempi tristi, è sorta una nuova industria che ha contribuito non poco a rafforzare la stupidità nella propria fede e a distruggere quanto poteva restare di divino nello spirito francese. Va da sé che questa folla idolatra esigeva un ideale degno di sé e conforme alla propria natura. Nella pittura e nella scultura, il Credo attuale della società altolocata, soprattutto in Francia (e non credo che nessuno vorrà sostenere il contrario), è il seguente: “Credo nella natura e non credo che nella natura (e vi sono buoni motivi per questo). Credo che l’arte sia e non possa essere se non la riproduzione fedele della natura (una setta timida ed eretica pretende che siano scartati gli

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oggetti di natura ripugnante, quali un vaso da notte o uno scheletro). Perciò l’industria che ci desse un risultato identico alla natura sarebbe l’arte assoluta”. Un Dio vendicatore ha esaudito i voti di questa moltitudine. E Daguerre fu il suo messia. E allora la folla disse a se stessa: “Giacché la fotografia ci dà tutte le garanzie desiderabili di esattezza (credono proprio questo gli stolti!), l’arte è la fotografia”. Da allora la società immonda si riversò, come un solo Narciso, a contemplare la propria immagine volgare sulla lastra. Una frenesia, uno straordinario fanatismo si impossessò di tutti questi nuovi adoratori del sole»

E ancora, poche righe oltre:

«l’industria fotografica era il rifugio di tutti i pittori mancati, troppo poco dotati o troppo pigri per portare a piena esecuzione i loro studi[…]

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[…] facendo irruzione nell’arte, l’industria ne diviene la nemica più mortale[…] Occorre dunque che essa torni al suo vero compito, che è quello di essere l’ancella delle scienze e delle arti, ma ancella piena di umiltà, come la stampa e la stenografia, le quali non hanno né creato né sostituito la letteratura.[…] Ma se le è concesso di sconfinare nella sfera dell’impalpabile e dell’immaginario, in tutto quello che vale soltanto perché l’uomo vi infonde qualcosa della propria anima, allora siamo perduti!»1.

Questa famosa e feroce critica nei riguardi non solo della fotografia, ma più in generale di ogni arte illusionistico-mimetica, contenuta alla voce Il pubblico moderno e la fotografia nelle Lettere al direttore della «Revue Française», costituisce probabilmente la nota più amara della recensione che Baudelaire scrisse in occasione dell’esposizione di Parigi del 1859; esposizione che accolse per la prima volta nel Palais de l’Industrie, accanto all’area riservata alla pittura e alla scultura, un Salon dedicato alla fotografia.

1

Charles Baudelaire, Salon del 1859, in Scritti sull’arte, Einaudi, Torino 2004, pp. 219-221.

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Nel 1855 la Société héliographique, la più antica associazione di fotografi, fondata a Parigi nel 1851 (che contava fra i propri fondatori anche il pittore Delacroix), si era trasformata nella Société française de photographie «con lo scopo precipuo di fare riconoscere la fotografia come arte»2. Sotto le pressioni concordi della Société française de photographie e dei suoi sostenitori, autorizzata dal ministro di Stato e dal direttore imperiale delle Belle Arti, la fotografia fece il suo ingresso trionfale nel palazzo delle esposizioni annuali con un contributo ricco di ben 1295 fotografie provenienti da ogni parte del mondo. Una significativa caricatura di Nadar3, accompagnata dalla didascalia: «La pittura offre alla fotografia un posto all’Esposizione di Belle Arti», omaggiò l’evento, che raccolse un notevole favore di

2

Aaron Scharf, Arte e fotografia, Einaudi, Torino 1979, p. 141.

3

All’anagrafe Gaspard-Félix Tournachon, noto fotografo e

caricaturista bohemien, pioniere della fotografia aerea e di quella alla luce artificiale, uno dei protagonisti del movimento di promozione estetica della fotografia al rango di arte bella e il più acclamato dei fotografi in esposizione. Nel suo studio al 113 di rue Saint-Lazare in boulevard des Capucines si tenne nel 1874 la famosa prima

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pubblico e recensioni positive anche in sede critica.

Certo le parole di Baudelaire non restarono un caso isolato e anzi le voci di disapprovazione animarono le edizioni successive dei Salons e il dibattito crescente sull’eventuale, da subito ritenuta problematica, artisticità della fotografia.

Emile Zola nel 1866 nella sua prima recensione al Salon (Mon Salon), a proposito di un dipinto di François Bonvin, La Grand’maman, criticò l’eccessiva attenzione al dettaglio insignificante, la pedante meticolosità di certa pittura del periodo, ricordando che la realtà deve essere subordinata al temperamento dell’artista.

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Nonostante inizialmente il bersaglio degli strali si identificasse soprattutto con un tipo di pittura particolarmente in voga all’epoca in Francia ed anche in Inghilterra, la cosiddetta scuola del realismo - la cui poetica si pensava fortemente condizionata dall’avvento della nuova tecnica fotografica - ben presto l’attenzione si concentrò sulla fotografia, vista non più come prodigio, strumento scientifico e oggetto di meraviglia, ma come nemico della vera arte e ambizioso usurpatore, soprattutto dal punto di vista della pittura, dell’attenzione e dei favori del pubblico. Dietro la critica del nuovo mezzo di riproduzione del reale si nascondeva una forte istanza polemica antinaturalistica che si opponeva a una idea d’arte e a un modo di fare pittura oramai molto diffuso. Così, dopo il forte entusiasmo iniziale che aveva accolto la sua nascita (la sua presentazione ufficiale all’Accademia delle Scienze di Parigi nel gennaio del 1839), la fotografia si trovò a interpretare un ruolo da protagonista nel dibattito estetico ottocentesco, condensando su di sé le

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problematiche inerenti alle forme possibili - talvolta opposte - di realismo in arte, e ai rapporti essenziali tra opera d’arte e tecnica, inseribili nel quadro più ampio dei legami tra arte e scienza. Il rapporto fatalmente privilegiato col reale e il suo essere strumento tecnico, meccanico, oltre che essere gli obbiettivi salienti della bocciatura baudelaireiana sono stati e sono gli snodi fondamentali di qualsiasi discorso teorico ed estetico sulla fotografia. Questa è la ragione per cui, nel dibattito ottocentesco e novecentesco, il problema dell’artisticità della fotografia, della sua posizione nel sistema delle arti, è andato di pari passo col problema della definizione di opera d’arte stessa.

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Capitolo II

Realisticità ideale

«Di giorno in giorno l’arte perde il rispetto di se stessa, si prosterna davanti alla realtà esteriore, e il pittore diventa sempre più incline a dipingere non già quello che sogna ma quello che vede»4.

La critica baudelaireiana è cara agli studiosi del settore per la qualità di sintesi dei punti cruciali della problematica estetica connessa alla fotografia e al suo statuto di opera d’arte. Si sofferma inizialmente sulla sua equivoca, troppo schietta realisticità. Per l’autore in questione l’immaginazione è la regina delle facoltà dell’animo dell’artista - come recita un paragrafo della sopraccitata lettera al direttore Jean Morel

4

Charles Baudelaire, Salon del 1859, in Scritti sull’arte, Einaudi, Torino 2004, p. 222.

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della Revue Française - e l’opera d’arte deve poter essere la sua piena evocazione e concretizzazione. Motivo per cui la fotografia, vista come copia fedele, una riproduzione quasi spudorata della natura, della realtà, non possa aspirare ad essere considerata una arte bella. Il suo limite, ma paradossalmente anche il suo contributo più importante, sarebbe quindi da ricercare in un affettata esteriorità congenita allo strumento, incapace di restituire una visione ideale e idealizzante della natura; quest’ultima intesa come necessario veicolo dell’artisticità. Preclusa questa strada, alla fotografia non rimarrebbe che servire umilmente come appunto visivo, ma anche come potenziatore della visione umana naturale, la vera arte, l’arte consacrata dall’immaginazione e dalla umanità, nel senso antimimetico, in esplicita opposizione alla verità dagherrotipica, in cui la intende sempre Zola nel Mon Salon del ’66 con le parole: «L’arte è un prodotto umano»5.

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Queste e le tante altre voci che all’epoca intervennero nel dibattito europeo per condannare la fotografia e le sue influenze o per lo meno ridimensionarne i compiti e le possibilità, avevano in realtà un bersaglio polemico più vasto.

La fotografia oltre a divenire presto un fenomeno di costume, aveva profondamente sconvolto la percezione comune e scientifica del reale, dagli effetti della luce sui corpi, allo stravolgimento, dagli anni ottanta in poi con l’istantanea, delle nozioni sul movimento. Il mondo dell’arte sin dalla sua nascita non aveva potuto ignorarne conseguenze e potenzialità. È noto, come si dirà più diffusamente in seguito, l’impiego massiccio delle fotografie, da parte di pittori di qualsiasi schiera e professione, come studio preliminare, appunto visivo, se non base stessa delle loro opere (Degas, Courbet, Delacroix, Manet, Ingres per citare i più noti); ed è altrettanto sostenuta e

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testimoniata l’influenza della nuova industria ad un livello più sostanziale: non solo un utilizzo materiale della fotografia, ma una vera e propria emulazione della visione fotografica, sia nel senso di una cura e, per cui, un attenzione ossessiva nella riproduzione dei dettagli, ma anche nell’impiego, frequente ad esempio nei dipinti di Degas, di prospettive insolite, effetti chiaroscurali o di movimento e caratteristiche stilistico-compositive proprie del nuovo strumento o comunque dei risultati del suo impiego da parte dei fotografi.

Ciononostante la polemica sul nuovo mezzo si inseriva su un dibattito, come dicevamo, più ampio, in cui la fotografia compariva come una concretizzazione di atteggiamenti e istanze spirituali, da alcuni acclamate e da altri addirittura temute come morbose, che erano frutto di un nuovo rapporto dell’arte con la conoscenza scientifica; forze che sembravano aver generato o

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perlomeno accelerato i natali del nuovo occhio fotografico, piuttosto che esserne state la diretta conseguenza.

Quel atteggiamento spirituale, quella nuova coscienza dell’uomo e della realtà che trova espressione nel positivismo costituì il terreno in cui naturalmente la fotografia, ma anche l’arte realistica, fiorì e trovò risalto. Ma questo atteggiamento di ricerca, esemplificato dalle parole di Taine: «Voglio riprodurre le cose come sono o come sarebbero, anche se io non esistessi»6, pur generando dei risultati consimili e rivelando alla base una comunione di intenti, in pittura è stato spesso e volentieri accompagnato da un aperto contrasto e dichiarata inimicizia nei confronti della fotografia, dei fotografi e della presunta artisticità del loro lavoro. L’esempio più eclatante resta probabilmente quello dei realisti,

6

Riportato in Gisèle Freund, Fotografia e società, Einaudi, Torino1976, p. 65

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capitanati da G. Courbet, in Francia, il cui manifesto fu la rivista Réalisme uscita nel 1856. Secondo Gisèle Freund «La teoria di quei primi realisti è inseparabile dall’estetica positivista. Le loro esigenze sembrano derivare dalla comparsa dell’apparecchio fotografico. “Si può dipingere soltanto quello che si vede”, dichiarano. L’immaginazione è condannata in quanto non obiettiva, in quanto tendenza soggettiva alla falsificazione. Secondo quei pittori, l’atteggiamento verso la natura deve essere del tutto impersonale, impersonale al punto che l’artista deve essere capace di dipingere dieci volte di seguito lo stesso quadro, senza aver dubbi e senza che fra l’una e l’altra copia vi sia la minima diversità.[…] L’opera d’arte deve presentare un contenuto obiettivo, attinto immediatamente dalla natura circostante». Ma ancora: «I realisti, nonostante il loro programma, si rifiutavano di considerare la fotografia come un’arte. Champfleury7, in un articolo uscito nella

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“Revue de Paris”, dichiarava: “Quello che io vedo entra nella mia testa, scende nella mia penna, diventa quello che ho visto… Poiché l’uomo non è un macchina, non può prendere gli oggetti macchinalmente. Il romanziere sceglie, raggruppa, distribuisce; il dagherrotipista fatica altrettanto?”»8.

Oltremanica parallelamente Ruskin difendeva l’arte imitativa dei preraffaelliti, sostenendo una funzione dell’artista come mero registratore della natura; abolendo l’originalità, l’invenzione e l’immaginazione in favore di una verità scientifica, obiettiva e cinica raggiungibile con lo studio dal vero ma anche con il prezioso aiuto della fotografia. Tuttavia senza che questo comportasse una sua elevazione al rango di arte.

della Société héliographique ma, significativamente, non fra quelli della Société française de photographie.

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Neppure lo zoccolo duro del realismo si opponeva in fin dei conti ad una valutazione poco più che strumentale dell’apporto fornito dalla fotografia all’arte istituzionale. Mentre i fotografi ricercavano ostinatamente un riconoscimento in questa direzione, l’unica vera comunione colla pittura era quella rimproverata apertamente dai nemici dell’arte realista, che accusavano la pittura di Courbet, o quella dei preraffaelliti, alla stregua della dagherrotipia, di promuovere un estetica del Brutto, del volgare e del banale. Così, a proposito di un dipinto di Courbet: «Il suo Retour de la foire, […], esposto al Salon del 1850-51, fu definito “una scena banale degna soltanto del dagherrotipo”.[…] I sacri templi eretti alla “Bellezza” e all’ “Ideale”, che avevano così ben resistito ai capricci del tempo e dello stile erano ora minacciati dal cosiddetto culto del Brutto. Il realismo era il nuovo nemico dell’arte: e la fotografia era accusata di averlo nutrito e sostenuto»9

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Delécluze affermava: «L’intelletto e l’occhio del pittore naturalista sono trasformati in un specie di dagherrotipo che, senza volontà, senza gusto, senza coscienza si lascia soggiogare dall’apparenza delle cose, quali esse siano, e registra meccanicamente le loro immagini.»10.

«Anziché offrirci un immagine veritiera – scrisse Henri Delaborde nel 1856 – la fotografia ci dà una realtà brutale. La sua caratteristica è di essere negazione del sentimento e dell’ideale.[…] anche se è di utilità per i pittori, le immagini fotografiche non devono mai essere considerate modelli assoluti.»11.

Charles Blanc, allievo di Paul Delaroche e direttore, nonché fondatore, della Gazette des Beaux-Arts, sosteneva che il disegno non fosse

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Ivi, p. 130.

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«una semplice imitazione, una copia matematica che si adegua all’originale, una riproduzione inerte. Il disegno è un’espressione dello spirito, di un pensiero e di un sentimento, ed è superiore alla verità letterale.»12. E ancora: «La fotografia imita tutto e non esprime nulla. Spiritualmente è cieca»13.

Charles Kingsley, nel romanzo Two years ago del 1857, sosteneva che le opere dei preraffaelliti mancassero di fedeltà alla natura, come del resto le fotografie stesse, perché ree di raggelare la vita, presentare gi oggetti diversamente da come vengono percepiti dall’occhio umano. E a sostenere questa idea diffusa che la fotografia fosse depositaria di un’idea distorta, parziale, vuotamente esteriore di realismo sono i pittori stessi, come Delacroix: «Tuttavia, non bisogna perdere di vista che il dagherrotipo deve essere

12

Ivi, p. 153.

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Heinrich Schwarz, Arte e fotografia, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 71.

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ritenuto soltanto un traduttore incaricato d’iniziarci più addentro nei segreti della natura; giacché, nonostante la sua stupefacente realtà in certe parti, non è che il riflesso del reale, che una copia, in un certo senso falsa a forza di essere esatta.[…] L’occhio corregge a nostra insaputa le infauste inesattezze di una prospettiva rigorosa; e subito assolve il compito di un artista intelligente: in pittura è lo spirito che parla allo spirito, non la scienza alla scienza.»14. L’arte per Delacroix non poteva che essere l’esito di un «perfezionamento intellettuale e visivo»15.

Ruskin stesso sosteneva che la pittura potesse superare la fotografia nella descrizione della realtà. Che l’occhio potesse correggere le imperfezioni della lastra.

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Aaron Scharf, Arte e fotografia, Einaudi, Torino 1979, p. 121.

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Se neppure i sostenitori di quello che possiamo chiamare occhio innocente hanno scelto di conferire all’industria fotografica la dignità di arte, ben cospicuo appare il novero di coloro che hanno apprezzato e utilizzato nel proprio lavoro la fedeltà riproduttiva dell’immagine – nella maggior parte dei casi tenendolo nascosto - pur giungendo alle stesse conclusioni.

Per tornare all’esempio celebre di Delacroix, che, come abbiamo ricordato, è stato socio della prima società fotografica francese, è interessante notare che oltre a servirsi direttamente delle fotografie nel suo lavoro, egli stesso si prese la briga di far posare i propri modelli e fotografarli.

«Ingres fu tra i primissimi artisti che si servirono del dagherrotipo per eseguire ritratti su

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commissione.»16 e uno dei primi a utilizzare la riproduzione fotografica per far conoscere i propri dipinti. Se prove “testuali” (ed è significativo che esse vadano ricercate!), insieme a varie testimonianze (fra cui quella di Nadar), dimostrano con piccolo margine di dubbio l’utilizzo da parte sua della fotografia (ad esempio l’assenza dell’inversione laterale propria dell’utilizzo dello specchio negli autoritratti successivi al ’65), è altrettanto conosciuta la sua avversione, almeno in linea teorica, al dagherrotipo.

Un acquaforte del 1865, Ritratto di Charles Baudelaire, di Manet fu tratta - e non fu un caso isolato nella sua opera - da una fotografia dello scrittore scattata da Nadar pochi anni prima. Innumerevoli sono le testimonianze di pittori che si servirono di fotografie per accelerare il loro lavoro (risparmiandosi lunghe sedute e

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risparmiandole ai loro modelli), o per migliorare la fedeltà del loro tratto (soprattutto nel genere del ritratto su commissione dov’era particolarmente apprezzata la somiglianza con l’originale), ma anche per superare le difficoltà nel dipingere soggetti particolarmente difficili, come le nuvole o il volo degli uccelli.

Il che è attestato dal proliferare rigoglioso, specie verso la fine del secolo, di uno stile pittorico che oggi definiremmo senza tanti scrupoli iperrealistico.

Ma ancora più equivoci appaiono quei casi in cui l’artista appare debitore nei confronti dell’apparecchio fotografico in un senso, come dicevamo prima, più sostanziale. Quei casi in cui le modalità di rappresentazione del soggetto pittorico non possono prescindere dal modello di

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visione inaugurato dal nuovo strumento, o dagli stilemi compositivi tipici di certo modo di fare fotografia.

Quadri in cui compaiono effetti anomali di diffusione della luce, del tutto simili ad aberrazioni luminose - dovute in fotografia all’uso delle lastre di vetro come supporto per le emulsioni fotosensibili - e la conseguente rifrazione luminosa (il cosiddetto alone presente nelle opere di Camille Corot sul finire degli anni ’40).

L’esasperazione o l’alterazione dei contrasti tonali, che, sino all’introduzione delle pellicole pancromatiche nei primi del Novecento, erano caratteristiche, difetti propri della fotografia.

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Una certa negligenza compositiva che era tipica del dilettantismo fotografico dell’epoca, conseguenza della relativa semplicità di utilizzo dello strumento fotografico che aveva aperto le porte dell’arte ai non addetti ai lavori. Ad esempio figure tagliate quasi confusamente dai bordi del quadro (come in Carrozza alle corse, 1873, o Place de la Concorde, c. 1875, di Degas), che sembrano comunicare con uno spazio esterno, uno spazio fuori campo.

Ma, ancora, prospettive insolite, distanze dei piani anomale e, soprattutto dopo gli anni ottanta del secolo, una rappresentazione davvero eccezionale del movimento: inizialmente, verso la metà del secolo, è da rimarcare la presenza in molti dipinti di soggetti mossi, figure appena visibili, parallelamente all’impiego in fotografia di lastre poco sensibili e otturatori lenti, incapaci di congelare il movimento. Invece, dopo la diffusione nei primi anni ottanta dei risultati delle

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ricerche sul movimento - le cronofotografie di Muybridge e di Marey - una rappresentazione sequenziale dei movimenti (come nel Ballerina che si allaccia la scarpina di Degas), oppure una totale trasformazione della maniera di raffigurare il movimento e le sue fasi rispetto all’epoca precedente: quasi tutti i pittori accolsero, magari con qualche reticenza, i consigli dell’apparecchio fotografico su come andasse rappresentato il galoppo del cavallo nei suoi vari stadi, o la posizione delle ali nel volo degli uccelli, e alcuni vecchi topoi nella rappresentazione di questi soggetti (come la cosiddetta posizione del galoppo volante, ben rappresentata dal quadro Corse de chevaux à Epsom, le Derby en 1821 di Géricault) crollarono in seguito alla dimostrazione indiscutibile dell’apparecchio fotografico.

Anche dalla parte di chi criticava apertamente il finto realismo della macchina fotografica, la cui realtà risultava essere «falsa a forza di essere

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esatta», vi era così un’implicita ammissione del valore insostituibile e incontestabile della verità fotografica, così forte da prevalere, come nel caso citato della locomozione animale, sulle vecchie convinzioni e sovrapporsi, come nuovo strumento di visione, alla tanto celebrata visione naturale, idealizzante dell’occhio umano.17

Degas, prima del 1880, raffigurava i movimenti del cavallo secondo schemi tradizionali. Il pittore Meissonier - che godeva della fama di essere un pittore particolarmente attento alla fedeltà artistica18, al realismo spinto sino al dettaglio più minuto - quando gli furono mostrate le fotografie di Muybridge nel 1881, ne trasse di buona lena le conseguenze per il suo lavoro e mutò la sua

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Ne seppero qualcosa i comunardi Parigini nel 1871 che furono perseguiti dalle autorità in seguito all’attestazione fotografica. Coloro che attraverso le immagini furono riconosciuti furono quasi tutti fucilati. Dice Gisèle Freund:«Per la prima volta nella storia la fotografia servì da delatrice alla polizia» in Gisèle Freund, Fotografia

e società, Einaudi, Torino, 1976, p. 93.

18

Sempre Charles Blanc a questo proposito aveva scritto a Jean-Louis-Ernest Meissonier: «Mio caro maestro, voi avete previsto la fotografia tre anni prima che esistessero i fotografi». Riportato in Heinrich Schwarz, Arte e fotografia, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 33.

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maniera di dipingere. Il suo esempio fu seguito dalla stragrande maggioranza dei pittori.

Le immagini scattate dal fotografo inglese, alla velocità di otturazione record di un millesimo di secondo, pubblicate infine nel 1887 nel volume Animal Locomotion, fecero presto il giro del mondo, riscossero notevoli apprezzamenti e sconvolsero più che un luogo comune se come dice Scharf «L’espressione “verità fedele alla natura” perdette la sua forza; quello che era vero non sempre poteva essere visto, e quello che poteva essere visto non sempre era vero. Ancora una volta la fotografia dimostrò che per molti artisti la parola verità s’identificava con convenzione.»19.

Seppure rimanesse chi, come Rodin (la sua statua San Giovanni Battista trasgrediva coscientemente

19

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le nuove scoperte sulla locomozione), si rifiutasse di cedere alle lusinghe di questo occhio meccanico, la nuova percezione della realtà inaugurata dalla fotografia aveva fatto una folta schiera di taciti accoliti. Tutti la usavano e quasi nessuno (come nel secolo precedente era accaduto per la camera obscura e le varie machine à dessiner) superava il pudore di ammetterlo.

Sul finire del secolo lo stile fotografico imperava in pittura e quadri come Nozze del fotografo di Dagnan-Bouveret del 1879, Il bagno grande a Broussa di Gérome del 1885, St Martin-in-the-Fields di Logsda esposto nel 1888, furono seguiti da innumerevoli esempi analoghi che riempirono le pareti delle varie esposizioni al Salon di Parigi e alla Royal Academy di Londra. «Le tele di Jan van Beers, Camille Bellanger, Benner e Bouguereau esposte al Salon di Parigi del 1899 sono immagini fotografiche tradotte in pittura.[…] Il Salon del 1900 non fu diverso: potremmo

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aggiungere che buona parte delle sculture esposte erano altrettanto fotografiche quanto i quadri»20. E davanti ai quadri che venivano celatamente dipinti qualche volta sopra le stesse fotografie, i fotografi che cosa fecero? Negarono alla fotografia quella che era la sua più intima peculiarità, il suo potere esclusivo rispetto ad ogni altra arte, il suo rapporto privilegiato, diretto con il reale - mediato solamente dalla luce - e il sigillo di questa abiura fu quel tanto deprecato movimento, quella tendenza che gli storici della fotografia hanno significativamente chiamato Pictorialism.

20

Ivi, p. 256. L’Esposizione del 1900 tra l’altro ospitò una grande retrospettiva di tutta l’opera di Nadar.

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Capitolo III

Conflitti e processi

Che sul terreno concettuale del realismo fotografia e pittura sembrassero sostenere reciprocamente un conflitto, non toglie che – al di là dei motivi teorici, di barometro estetico - tale guerra fu combattuta sul campo terreno della professione del pittore e del commercio di opere d’arte. Quasi istantaneamente l’invenzione del prodigioso apparecchio fotografico, cresciuta e alimentata da un esigenza di realismo diffusa e subito contestata, venne interpretata da più parti come il più grande attentato alla vita della pittura, il più angusto presagio di morte dell’antica musa. Paul Delaroche si sbagliò senz’altro quando affermò (il 19 agosto 1839, dopo la seduta plenaria dell’Accademia delle Scienze e delle

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Belle Arti) in seguito all’annuncio dell’invenzione di Daguerre: «A partire da oggi la pittura è

morta»21 ed anzi, non perdendo d’occhio la

varietà di rapporti che si instaurarono tra le due arti, è probabile che la pittura più della fotografia durante l’Ottocento seppe trarre giovamento dal conflitto, senza peraltro dover arrivare a sacrificare o rinnegare sé stessa. Innegabile è che un conflitto ci fu e che il timore di essere in un certo qual modo soppiantati dagli ultimi arrivati può aver contribuito a generare o comunque ad alimentare tra i pittori quella antipatia per la fotografia; che più spesso si espresse col silenzio sulla sua utilità e valore che con plateali dissensi. Di certo la pittura, l’arte in genere ne fu influenzata; in un modo o nell’altro dovette farne i conti. Su questa scia Jean Cocteau, quando diceva che «la fotografia ha liberato la pittura»22, sosteneva una tesi popolare all’epoca: che insomma la fotografia, almeno per alcuni fosse

21

Nadar, Testi di Nadar Jean Prinet e Antoniette Dilasser Lamberto Vitali, Einaudi, Torino 1973, p. 3.

22

Heinrich Schwarz, Arte e fotografia, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 25.

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ormai un esempio cattivo da non seguire (tanto per cominciare gli impressionisti - anche se alla base della loro pittura vi era una certa familiarità di intenti con l’occhio fotografico23 - ma anche gli espressionisti tedeschi che nel loro Brücke Manifesto scrivevano: «Oggi la fotografia riesce a dare una rappresentazione esatta. Perciò la pittura, liberata da questo compito, riconquista la sua primiera libertà d’azione»24), un sentiero che ormai la nuova pittura, casomai vi si fosse trovata, doveva imparare ad abbandonare. La fotografia aveva liberato la pittura dalla scomoda necessità di rappresentare il vero, per lo meno quello esteriore promulgato dall’estetica del realismo, così affine a quella che era la natura del nuovo medium. Ciò che risulta è che del declino di almeno un certo tipo di pittura fu senz’altro responsabile lo sviluppo, artistico e commerciale, della fotografia: la miniatura. Il ritratto in miniatura nella prima metà dell’Ottocento era un

23

Heinrich Schwarz, Arte e fotografia precursori e influenze, Bollati Boringhieri, Torino, 1992, p. 14.

24

Riportato in A. Scharf, Arte e fotografia, Einaudi , Torino, 1979, p. 267.

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articolo molto in voga presso l’aristocrazia e la borghesia ascendente e alcuni pittori si erano specializzati nella creazione di queste piccole riproduzioni. La fedeltà nei dettagli, la somiglianza della riproduzione col soggetto originale ritratto era un valore tenuto assai in conto dagli acquirenti di questi ciondoli, che spesso raffiguravano familiari, amici e amanti.

I mutamenti che la fotografia impose a questo immediato concorrente furono plurimi. Dapprincipio, per soddisfare l’ansia di fedeltà e somiglianza a cui il dagherrotipo cominciava ad abituare, i miniaturisti dovettero iniziare a utilizzare e copiare le foto nei loro lavori. Ben presto furono costretti a sostituire direttamente con il dagherrotipo la preziosa e meticolosa riproduzione pittorica. Tantissimi miniaturisti divennero fotografi abbandonando il precedente impiego, altri nello specifico si diedero alla colorazione delle stampe. Ciò che rimase della

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miniatura fu un breve ritorno di fiamma sul finire del secolo, quando forse ci si era già stancati dell’assoluta somiglianza della lastra.

Antoine-François-Jean Claudet - un francese che Daguerre aveva autorizzato a fare dagherrotipi in Inghilterra all’epoca del brevetto - nel 1865 difese la fotografia con queste parole: «Non possiamo non riconoscere che vi sono alcune arti che stanno scomparendo ed è la fotografia che ha inferto loro il colpo mortale! Perché non vi sono più miniaturisti? Per la semplicissima ragione che chi vuole miniature trova che la fotografia assolve meglio il compito e, invece di ritratti più o meno accurati per forma ed espressione, fornisce somiglianze perfettamente esatte che almeno piacciono al cuore e soddisfano la memoria»25.

25

Riportato in A. Scharf, Arte e fotografia, Einaudi , Torino, 1979, p. 41.

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Un’altra industria subì simile sorte. Come scrive Aaron Scharf, «la professione dell’incisore fu

spazzata via dai metodi fotomeccanici»26. «La

pratica di riprodurre opere d’arte per mezzo della stampa fotografica, anziché col sistema tradizionale dell’incisione e della litografia, era diffusa intorno al1865. In quegli anni molti libri d’arte erano illustrati con fotografie. I vantaggi de procedimento fotografico dal punto di vista sia dell’accuratezza sia della rapidità erano quasi universalmente riconosciuti. Quanto al costo, le incisioni raggiungevano spesso prezzi proibitivi, mentre la fotografia, che poteva essere riprodotta infinite volte, era alla portata delle classi anche più modeste»27.

Il mestiere di riprodurre opere d’arte per mezzo dell’incisione era legato all’abilità dell’artista nell’interpretare l’opera originale. Ora con la

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Ivi, p. 28.

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riproduzione fotomeccanica si poteva garantire una fedeltà senza paragoni e a un prezzo più concorrenziale. I mutamenti in questo passaggio di testimone apportati al mondo dell’arte furono anche più profondi. Innanzitutto l’abbattimento dei costi e dei tempi e la nuova qualità dei prodotti, oltre che spingere i pittori a perpetuare la loro opera per mezzo della fotografia, rese disponibili a un pubblico enormemente più vasto tanti capolavori (e non) provenienti da diverse tradizioni artistiche ed epoche storiche, provocando un mutamento nel modo di trasmettere e di leggere la storia dell’arte, ciò a cui allude Scharf quando dice: «La nuova possibilità di vedere e di mettere a raffronto riproduzioni d’opere d’arte abbastanza accurate provenienti dalle più diverse fonti doveva non solo accelerare il processo di mutamento dei diversi stili, ma contribuire anche a creare stili ibridi, indipendenti da particolari tradizioni artistiche. Lo studio tradizionale della storia dell’arte era destinato a subire una trasformazione

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radicale, in quanto si cominciò a dare maggior rilievo a considerazioni formali che non a quelle iconografiche, con notevole influenza sull’arte contemporanea»28. Le riproduzioni fotografiche avevano il merito di rispettare lo stile dell’autore, non essendo mediate dal lavoro creativo dell’incisore.

Il conflitto, l’inimicizia tra le due arti, non disdegnò di entrare persino nell’aula di un tribunale. Il 1861 fu l’anno d’avvio di un procedimento giudiziario che una volta per tutte fu chiamato a decidere dell’artisticità della fotografia. Nei tribunali francesi si svolse un acceso dibattito che pare essere il riflesso di quello che seguitava a svolgersi al di fuori, tra gli addetti ai lavori. I fotografi Mayer e Pierson avevano accusato altri due fotografi (Betbeder e Schwabba) di aver riprodotto abusivamente due loro fotografie (una raffigurante il conte di

28

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Cavour e l’altra tale Lord Palmestron) e si erano appellati alle leggi francesi sui diritti d’autore del 1793 e del 1810. Fattostà che queste leggi si applicavano soltanto alle arti, cosicché la sentenza del tribunale avrebbe avuto preliminarmente il compito di dirimere l’annosa diatriba sul che la fotografia fosse o non fosse un’arte.

La prima sentenza del 9 gennaio 1962 fu loro sfavorevole. Il 10 aprile Mayer e Pierson ricorsero in appello davanti alla Corte imperiale. La tesi del loro difensore, premente sulle similitudini tra le due arti, fece conquistare una sentenza favorevole. Emessa il 4 luglio 1862 essa stabiliva che la fotografia è un’arte e come tale andava tutelata dagli stessi statuti che governavano le altre arti. Il fotografo, che quando è artista non è mai limitatamente un mero esecutore, come il pittore è capace di concepire con l’inventiva e l’immaginazione l’immagine che cerca, che vuole realizzare, mentre parallelamente il pittore stesso,

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quando cerca di rendere fedelmente la natura, si comporta similmente al fotografo. I due fotografi nel 1862 avevano pubblicato un libro La photographie in cui si proponevano di legittimare le loro rivendicazioni.

Ciò che ne venne fuori, dopo l’ultima sentenza, fu una vera e propria rivolta del mondo dell’arte. Un numero «impressionante»29 di artisti capeggiati da Ingres firmava una petizione presentata alla corte contro la sentenza. La petizione diceva: «Considerato che in processi recenti la corte è stata costretta a occuparsi della questione se la fotografia debba essere ritenuta un’arte bella e ai suoi prodotti debba essere concessa la stessa protezione di cui godono le opere degli artisti; considerato che la fotografia consiste in una serie di operazioni esclusivamente manuali che esigono, senza dubbio, una certa abilità nelle necessarie manipolazioni, ma non si risolvono

29

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mai in opere che possano in qualsivoglia circostanza essere paragonate a quelle che sono frutto dell’intelligenza e dello studio dell’arte: per questi motivi, i sottoscritti artisti protestano contro qualsiasi paragone che possa essere fatto fra la fotografia e l’arte»30. Ingres: «Ora vogliono mescolare l’industria all’arte. L’industria! Noi non vogliamo saperne! Rimanga al suo posto e non venga a insediarsi sui gradini della nostra scuola di Apollo, consacrata soltanto alle arti della

Grecia e di Roma»31. Il 28 novembre 1862 la

corte respinse la petizione, confermando la precedente sentenza. «La corte dichiarò che la fotografia poteva essere un prodotto del pensiero e dello spirito, del gusto e dell’intelligenza, e può

30

Riportato in A. Scharf, Arte e fotografia, Einaudi , Torino, 1979, p. 157.

31

Ingres, Réponse au rapport sur l’école impériale des Beaux-Arts, Paris 1863. Riportato in Gisèle Freund, Fotografia e società, Einaudi, Torino, 1976, p. 71.

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recare l’impronta della personalità. La fotografia può essere arte»32.

32

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Capitolo IV

Pictorialism

«Per quanto riguardava l’assunzione dell’oggetto fotografia e pittura apparivano quindi abbinabili per una coincidenza di compiti da cui peraltro, nella concezione del tempo, solo la pittura poteva elevarsi per gli impliciti margini di creatività, invenzione e stile da sempre riconosciutile»33.

Creatività, invenzione e stile che, messi in bella mostra, andavano a testimoniare davanti al sentore dell’epoca la presenza di una vera e propria opera d’arte. La fotografia - che sin dal principio, soprattutto in campo commerciale, per darsi un tono da grande arte, aveva imitato

33

M. Miraglia, Note per una storia della fotografia italiana

(1839-1911), in Storia dell’arte italiana, vol. IX, parte II, Grafica e immagine. Illustrazione, fotografia, Einaudi, Torino 1981, p. 438

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fedelmente gli stereotipi di quella che per tutto l’Ottocento nella migliore delle possibilità sarà una sorella maggiore - sembrava aver rinunciato alla ricerca dei suoi «impliciti margini di creatività». André-Adolfe Disderi fu un fotografo che riscosse un grande successo commerciale brevettando nel 1854 un nuovo procedimento fotografico, che permetteva di scattare in una sola lastra, tagliando notevolmente i costi, grazie all’utilizzo di un apparecchio multifocale da lui stesso inventato, da sei a otto immagini di piccole dimensioni, a cui fu dato il nome di carte de visite. Oltre che essere un anello importantissimo nel processo di massificazione della fotografia - processo che ha reso ancora più complicata l’assunzione dell’artisticità della fotografia - Disderi costituisce un buon esempio di questa precoce, piccola debolezza della fotografia: tra le sue foto troviamo ritratti ambientati che ammiccano spesso nelle pose e nelle scenografie alle soluzioni classiche, trite e ritrite, adottate e formalizzate dalla pittura; espressioni meditanti,

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volumi in bella mostra e penna alla mano per immortalare lo scrittore, ma anche colonne, tendaggi, accessori e quant’altro per messe in scena che ben presto diventarono distintive di tutto un mestiere.

Nella sua Estetica della fotografia, pubblicata nel 1862, è lui stesso a chiarire in pochissimi punti le qualità che, assai riduttivamente, potevano e dovevano bastare a fare di una fotografia una buona fotografia.

Naturalmente in gran parte furono, oltre alle esigenze commerciali, tali velleità artistiche a portare i fotografi a inseguire ossequiosamente la pittura, copiarne gli stilemi, i linguaggi allo scopo di raggiungerne infine l’altezza; ma non si può dimenticare che una delle caratteristiche fondamentali, specifiche della fotografia, la sua

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fedeltà al soggetto, fu per molto tempo la causa principale della sua svalutazione e quindi della supposta mancanza di creatività. In realtà la fotografia era portatrice di una carica innovativa, una creatività destinata a rimanere, in campo estetico, più spesso incompresa - dopo l’entusiasmo iniziale - che apprezzata. Se è vero che proprio inizialmente una certa preservazione della sua costituzione naturale aveva preso piede sotto la forma di un disprezzo per la manipolazione delle stampe, una messa al bando del ritocco - procedimento che cercava allo stesso tempo di mascherare la crudezza, la bruttura del dettaglio reale e di emulare nello stile la bellezza patinata, ideale che solo la pittura poteva raggiungere – è anche vero che la chiusura del secolo costituisce una plateale esaltazione dell’intervento manuale - o comunque una sua simulazione ottenuta con mezzi meccanici – sia sulla stampa che effettuato in fase di ripresa - con sfocature e utilizzo di effetti particolari - atto a modificare stilisticamente le fotografie e renderle

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almeno esteriormente simili a un quadro. Così mentre nel 1855 l’esposizione universale di Parigi aveva proibito la presentazione in mostra di stampe ritoccate34, durante gli ultimi decenni del secolo ci si trova davanti ad un imbarazzante plauso generale della fotografia pittorica, o fotografia artistica come è stata spesso definita.

Fotografia caratterizzata dal sacrificio delle specifiche qualità naturali del mezzo (la automaticità e semplicità d’esecuzione, la realisticità); magari in favore di un esplicito richiamo al tratto impressionista, o in altri casi della negazione di quella sorta di casualità e della mancanza di pieno controllo sulla realtà ritratta, tipica di uno strumento che inquadra e ricompone una natura esterna e in qualche modo preesistente e indipendente dalla mente dell’artista.

34

«7. – Saranno egualmente escluse dall’esposizione tutte le copie colorate e tutte quelle che presenteranno ritocchi essenziali di natura tale da modificare il lavoro fotografico propriamente detto,

sostituendovi un lavoro manuale». «Bulletin de la société française de photographie», 25 gennaio 1855.

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Che l’intervento manuale fosse o paresse essere il valore aggiunto, capace di dirimere le controversie sull’artisticità di un prodotto e, in scala minore, di un medium è ben attestato sin dagli anni sessanta, anni che videro il fiorire della produzione manualistica sulla colorazione e sul ritocco fotografico. Negli stessi anni in cui la Société héliographique indicava come funeste per la fotografia e per la pittura stessa quelle opere ibride, in Francia e in Inghilterra soprattutto si cominciò a festeggiare la nuova arrivata fotografia pittorica come una liberatrice; non più solamente tecnica ma in tutto e per tutto arte bella.

In Francia nel 1862 uscì un libro intitolato L’art de la photographie in cui ancora Disderi descriveva gli strumenti artistici a disposizione del fotografo, giungendo a paragonare le proprie tecniche a quelle di grandi pittori come Ingres, Delaroche e altri. Nel 1861 in Inghilterra fu pubblicato il Manual of artistic colouring as

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applied to photographs dell’ex-pittore miniaturista Alfred H. Wall.

Oltre al ritocco si era diffusa parallelamente oltremanica l’usanza di comporre le immagini con un certo numero di singole fotografie prese in tempi e spesso in luoghi differenti e giustapposte insieme sulla lastra o sul negativo. L’opera finale costituiva un collage, perfettamente costruito nel rispetto delle regole della composizione pittorica accademica, di differenti scatti fotografici. I due maggiori autori di questo genere di lavori, Oscar Gustave Rejlander e Henri Peach Robinson, ricevettero critiche ma anche notevoli elogi: come abbiamo visto, in Francia il procedimento fu, almeno inizialmente, ripudiato mentre in Inghilterra l’Art Journal, sostenitore delle fotografie composite, a proposito dell’opera del primo fotografo inglese appena citato, così si espresse: «L’artista fotografo non fa nulla di più dell’artista della Roal Academy: studia

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singolarmente ogni figura, poi raggruppa insieme i diversi “negativi” per formare una sola positiva». Ed effettivamente il modus operandi di entrambi i fotografi era inaugurato da schizzi e schemi preparatori, che precedevano la ripresa delle singole figure o la loro ricomposizione nella fotografia-quadro. Siano d’esempio l’opera maggiore di Rejlander, Two Ways of Life35 del 1857, e, fra le altre, Quando il lavoro della giornata è finito di Robinson, del 1877. Nel 1862 l’Art Journal pubblicò una nota di protesta della Photographic Society indirizzata ai commissari dell’Esposizione internazionale, responsabili di non aver classificato la fotografia tra le Arti Belle e averla relegata «fra gli utensili da falegname e

gli attrezzi agricoli»36. Come un Raffaello

sceglieva i pennelli migliori, i colori più appropriati allo stesso modo faceva il fotografo con i suoi strumenti. Strumenti e metodi precocemente resi disponibili al fotografo ma il

35

Composta da non meno di trenta negativi e ispirata al quadro di Thomas Couture, I romani della decadenza.

36

Riportato in A. Scharf, Arte e fotografia, Einaudi, Torino, 1979, p. 162.

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cui utilizzo cominciò a farsi veramente forte e diffuso negli ultimi decenni del secolo e a cavallo dell’altro. Essi consistettero principalmente in obiettivi difettosi o vetri e altri materiali traslucidi utilizzati allo scopo di ottenere il cosiddetto effetto flou, lo sfuocato artistico; l’utilizzo di supporti alternativi alle comuni lastre sensibili, come i fogli da disegno ruvidi, per dare l’impressione dell’imprecisione tipica del disegno a matita o a carboncino; il ritocco con qualsiasi metodo immaginabile e nuove tecniche da stampa ampiamente documentate e divulgate dalle riviste di settore. La stampa al carbone, l’ozobromia, il charbon-velours , la stampa alla gomma bicromatata, rivalorizzata negli anni novanta dal fotografo francese Robert Demachy - che fu tra i promotori del Linked Ring Brotherhood di Londra: circolo esclusivo di fotografi che annoverò tra i suoi associati lo stesso Robinson. Tecniche che avevano in comune l’obbiettivo di ottenere immagini vellutate, dall’aspetto di uno schizzo al carboncino – anche grazie all’aggiunta

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di un pigmento nella fase di stampa - e comunque di tradire la fedeltà, l’impressione di realtà propria della fotografia. La macchina fotografica nel lavoro di questi fotografi - come quello pionieristico di Julia Margareth Cameron, o del già citato Robert Demachy - cominciava ad assomigliare sempre più al pennello di un pittore, magari impressionista. Infatti così come in alcuni quadri di Degas le «prospettive spesso lasciate al caso» e la «presenza di figure e oggetti tagliati dalla cornice del quadro e spostati in un angolo della scena, riflette l’istantaneità e la casualità tipiche del lavoro del fotografo»37 e quindi il debito del pittore nei confronti dell’estetica del nuovo mezzo, la fotografia di Robert Demachy per converso era ispirata (Schwarz parla di vera è propria imitazione!) al lavoro dello stesso pittore, oltre che nel “tratto” – ottenuto proprio grazie alla tecnica alla gomma bicromatata di cui parlavamo - anche nella scelta dei soggetti, come le scene di balletto.

37

Heinrich Schwarz, Arte e fotografia precursori e influenze, Bollati Boringhieri, Torino, 1992, p. 42.

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All’interno del Pictorialism, che fu un momento complesso e fortemente dibattuto anche all’epoca, ci furono divisioni e opposte schiere, come quella che oppose i nettisti ai flouisti.

Tra i nettisti, cioè tra quelli che pur non disprezzando gli altri metodi di intervento sulle immagini rifiutavano l’uso dello sfocato, si annoverano Rejlander e Robinson, mentre dalla schiera dei flouisti emerge la figura del medico cubano Peter Henry Emerson, padre della fotografia naturalistica, che ebbe i battesimi nella pubblicazione di Naturalistic Photography for Students of Art del 1889.

Per Emerson la fotografia «non deve mostrare necessariamente la verità, ma ciò che vede l’occhio umano» per questo proponeva la sua visione naturalistica, ottenuta mediante la

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selezione visiva dei piani, di volta in volta attenuati con la sfocatura o evidenziati dalla messa a fuoco, comunque selettiva. Di nuovo il dibattito sul realismo, ma questa volta interno ad un movimento che disprezzava di principio proprio la fedeltà esteriore della fotografia, la mera riproduzione della natura. In maniera diversa rispetto alle fotocomposizioni dei nettisti inglesi anche le sue fotografie (come Gunner Working Up to Fowl, 1985) rivelano un auraticità pittorica. Rispetto alle fotocomposizioni dei colleghi inglesi le sue opere non cercano però di annullare quel legame insito nel medium fotografico col soggetto.

Rifiutati dalle accademie, dall’esposizioni e spesso additati come i nemici della vera arte i fotografi nella seconda metà del secolo, mostrando chiaramente i propri complessi e insieme le proprie ambizioni, non ebbero la possibilità ma neppure la forza di ricreare un

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sostrato estetico-critico e culturale, capace di accogliere tutte le potenzialità artistiche del loro strumento, senza finire col violentarne in ogni modo le peculiarità, la carica innovativa, il suo specifico. Sta di fatto che nel cammino che ha portato la fotografia e i fotografi a prendere coscienza di sé e a ricominciare ad esprimere un nuovo modo di fare arte, come avvenne durante il Novecento all’epoca delle avanguardie degli anni venti, il dibatto cresciuto intorno al Pictorialism ha avuto un’impareggiabile importanza.

La fotografia ha avuto la fatalità - ma non è certamente un caso - di nascere in una congiuntura tra due modi di pensare l’oggetto d’arte, la bellezza, che infine ha portato allo scardinamento dei vecchi principi e all’affermarsi di nuovi. Oltre che esserne in un certo senso promotrice essa ha in gran parte subito le influenze di uno statuto estetico come quello

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ottocentesco, che non era affatto costruito su misura per lei.

Solamente un processo più ampio di rivalutazione estetica della tecnica e dell’industria porteranno ad una sua più concreta e significativa accettazione nel panorama consolidato delle arti; quando cioè saranno mutate molte delle convenzioni artistiche che ne hanno guidato e impedito parzialmente lo sviluppo. La rivoluzione novecentesca comincerà proprio con l’esaltazione di una fotografia cosiddetta diretta e il ripudio dell’opera di quei fotografi che cedettero alle blandizie della fotografia pittorica.

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Capitolo V

La prospettiva rinascimentale e la fotografia

«La fotografia è una scoperta meravigliosa, una scienza che avvince le intelligenze più elette, un’arte che aguzza gli spiriti più sagaci – e la cui applicazione è alla portata dell’ultimo degli imbecilli»38.

Se ricordiamo le parole di Baudelaire («In questi nostri tempi tristi, è sorta una nuova industria», «l’industria fotografica era il rifugio di tutti i pittori mancati, troppo poco dotati o troppo pigri per portare a piena esecuzione i loro studi»; «sono convinto che i progressi distortamente applicati della fotografia abbiano contribuito non poco, al

38

Nadar, Corte imperiale di Parigi, I Sezione, udienza del sabato 12 dicembre 1857. Dal processo di rivendicazione esclusiva dello pseudonimo di Nadar ai danni del fratello Adrien. Riportato in Nadar, Testi di Nadar Jean Prinet e Antoniette Dilasser Lamberto Vitali, Einaudi, Torino 1973, p.65.

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pari del resto di ogni progresso unicamente materiale, all’impoverimento del genio francese»; «facendo irruzione nell’arte, l’industria ne diviene la nemica più mortale, e che la confusione delle funzioni impedisce che nessuna di esse sia correttamente attuata»; «che essa torni al suo vero compito, che è quello di essere l’ancella delle scienze e delle arti, ma ancella piena di umiltà, come la stampa e la stenografia, le quali non hanno né creato né sostituito la letteratura»39) ci accorgiamo che il secondo punto su cui lo scrittore fonda la propria analisi, se consideriamo la critica al realismo il primo, è la natura eminentemente strumentale, tecnica della fotografia. La macchina fotografica, come la stampa, è figlia dell’industria, un suo prodotto, e quest’ultima viene contrapposta fieramente alla vera arte, di cui per altro si dimostra essere un mortale nemico.

39

Charles Baudelaire, Salon del 1859, in Scritti sull’arte, Einaudi, Torino 2004, pp. 219-221

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È sin d’ora evidente che, come nel caso del realismo, il problema dei rapporti tra fotografia, in quanto industria, e l’arte consacrata delle accademie si inserisce in un dibattito estetico ben più ampio di quello mosso dalla discussione sulla sua artisticità. Il dibattito estetico in questione è antico e affonda le sue radici, come ha messo in luce Heinrich Schwarz e come ci accingiamo a vedere, nel singolare connubio tra arte e scienza che si è venuto a creare durante il Rinascimento. Prima dell’invenzione della fotografia l’Ottocento aveva posto questa questione come decisiva.

Visto che la critica di Baudelaire non si fonda sulle problematiche inerenti all’opera d’arte tecnica e alla sua riproducibilità, bensì sull’automatismo e la meccanicità che sono proprie dell’impiego degli strumenti tecnici, inizieremo la trattazione proprio da questo punto.

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Come chiarimento preliminare diciamo che il termine automatismo richiama ad un uso non completamente, non perfettamente consapevole dello strumento da parte dell’operatore fotografico e di conseguenza una mancanza di controllo - o, se si preferisce, di pieno dominio - sull’opera conclusiva, effetto della natura del mezzo fotografico capace di registrare da sé la natura. Tant’è che le prime fotografie venivano chiamate significativamente eliografie, immagini create direttamente dal sole, e il primo libro illustrato da fotografie mai pubblicato (nel 1844-46, di William Henry Fox Talbot) è intitolato The pencil of nature. La meccanicità è l’altra faccia della stessa medaglia e il termine in questione non fa che mettere maggiormente in risalto la semplicità di utilizzo dello strumento fotografico rispetto ad esempio al pennello del pittore o allo scalpello dello scultore (fatta eccezione per i decenni d’esordio della fotografia, anni in cui i vari procedimenti fotografici erano appannaggio di pochi esperti). Facilità di impiego che ha aperto

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le porte della creazione artistica ad un grande numero di non addetti ai lavori, creando gli effetti che ben conosciamo.

È su questo punto che preme la critica ottocentesca e che può essere considerato il secondo fuoco dell’elisse - l’altro è il Realismo – nel nostro percorso d’analisi all’interno dello statuto estetico dell’Ottocento.

Chiarimenti terminologici a parte, cominciamo da un dato banale quanto incontestabile: la macchina fotografica, come strumento di registrazione meccanico e automatico della natura, ha come precursore tecnico e diretto antecedente uno strumento ottico noto sin dall’antichità: la camera obscura. Italo Zannier: «Gli storici della fotografia propongono Aristotele (384-22 a. C.) tra coloro che per primi hanno teorizzato il

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fenomeno della camera oscura»40. Passando per i trattati di ottica arabi - Alhazen Ibn Al-Haitham (956-1038) – la scoperta che un piccolo foro apportato in una stanza a tenuta di luce facesse proiettare un’immagine - invertita lateralmente e sottosopra, ma dettagliata - della scena esterna sulla parete opposta al foro giunse e fu tenuta in gran conto da molti artisti: un esempio su tutti Leonardo (che «nel Codice Atlantico, oltre a spiegare come si determina il fenomeno della camera oscura[…] ne suggerisce l’applicazione pratica, ponendo un foglio di carta sulla parete dove appare l’immagine»41).

«La camera obscura si diffuse negli studi degli artisti durante il Seicento: da camera immobilis, una semplice camera ottica, essa era ormai diventata camera portabilis, uno strumento mobile dall’aspetto sorprendentemente simile a quello

40

Italo Zannier, Storia e tecnica della fotografia, Laterza, Bari-Roma 2001, p. 2.

41

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della futura macchina fotografica. Nel secolo successivo la camera obscura era considerata un attrezzo quasi indispensabile nello studio dell’artista[…]»42.

La camera obscura non fu l’unico strumento utilizzato dagli artisti per aiutarsi nel disegno dal vero: ci furono diverse machine à dessiner, la camera lucida, lo specchio, i cognegni per la silouette e il physionotrace. Tutti strumenti che dovevano servire ad ottenere una riproduzione più fedele del soggetto rappresentato e semplificare enormemente il lavoro dell’artista. «Così come il Quattrocento, il Cinquecento e il Seicento sono i secoli della machine à dessiner43, il Settecento, l’ultimo secolo dell’era prefotografica, si caratterizza come l’epoca della camera

42

Heinrich Scharz, Arte e fotografia, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 38

43

Definizione coniata in Francia nel XVII secolo. I primi esempi di cui si hanno descrizioni dettagliate sono il vetro di Leonardo e il reticolo di Leon Battista Alberti. Heinrich Scharz, Arte e fotografia, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 36

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obscura»44. È proprio dal desiderio di fissare le immagini transitorie della camera obscura, dal rendere duraturo l’effimero, il transeunte che prenderà corpo dapprima l’idea della fotografia e infine la macchina fotografica stessa. Ma ciò che è importante nell’economia del discorso che andiamo facendo non è tanto l’esistenza di questi strumenti, che confluiranno nell’Ottocento nella gestazione e nell’invenzione della macchina fotografica, quanto il loro progressivo utilizzo a partire da quella storica congiunzione tra arte e scienza che è costituita dal Rinascimento. Come attestato dalla ricerca di grandi studiosi e critici dell’arte moderna come lo stesso Schwarz l’utilizzo di questi strumenti tecnici nel disegno era molto diffuso già nel Cinquecento e destinato ad esserlo sempre di più nel trascorrere dei secoli, in particolare nel Settecento, e verrà sostituito solamente dall’invenzione di uno strumento ancora più preciso e fedele che è proprio l’immagine fotografica.

44

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Ciò che appare sintomatico di un imbarazzo critico non risolto - e che per altro non troverà soluzione se non nel Novecento – è che come è avvenuto in seguito per l’utilizzo – ancillare, potremmo dire – della fotografia da parte dei pittori, anche sull’utilizzo di strumenti come la camera obscura e le varie machine à dessiner i pittori e incisori abbiano preferito tacere e mantenere un totale riserbo.

Si tratta di un fortissimo pudore manifestato dalla maggior parte degli artisti moderni ad ammettere di essersi aiutati nell’esecuzione delle loro opere con questi strumenti tecnici, strumenti dell’industria. Anche laddove il loro utilizzo può trovarsi raccomandato e descritto dettagliatamente – come in molti manuali di pittura – viene definito un puro esercizio tecnico - propedeutico all’arte - a cui dovrebbe ricorrere solo l’artista inesperto per guadagnare in abilità o l’aspirante,

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l’apprendista e infine chiunque necessiti di una riprova scientifica del proprio operato.45

Insomma il canone estetico a cui sembra richiamarsi Baudelaire nella sua invettiva - che potremmo chiamare per comodità canone della manualità - è un’eredità di questo imbarazzo critico: un imbarazzo manifestato proprio nel momento in cui la congiunzione tra arte e scienza si fa più pressante, in cui la rappresentazione artistica si vuole matematicamente, assolutamente misurabile e ricorre per esserlo ad ogni supporto tecnico, ad ogni industria allora disponibile e per giunta impone ai propri congegni un’evoluzione e un perfezionamento continui proprio in vista di questo utilizzo - di questo servizio reso all’arte. È quindi nel momento in cui si fa maggiormente

45

«Leonardo non vede di buon occhio nemmeno coloro che per ottenere riproduzioni perfette si affidano a strumenti come il velo di Alberti o al metodo di dipingere su un pezzo di vetro messo davanti a ciò che si vuol copiare. Simili trucchi dovrebbero essere usati, per risparmiare tempo e fatica, solamente da chi abbia già una certa padronanza della teoria, vale a dire soprattutto della prospettiva, allo scopo di sottoporre il lavoro a una riprova scientifica». Anthony Blunt, Artistic theory in Italy, 1450-1600, Oxford 1940, p. 28.

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necessario, cogente e pressante trovare da un punto di vista teorico, di critica estetica, una reciproca collocazione, un equilibrio tra i due diversi poli venutisi fatalmente ad incontrare - un equilibrio capace di stabilirne i relativi regimi di competenza, di scambio e i limiti invalicabili tra l’uno e l’altro - che questa sistemazione viene a mancare. Di questa mancanza la fotografia sarà la prima a patirne e a pagarne le conseguenze per lo meno durante tutto l’Ottocento.

Del resto è ben noto come l’impronta della tecnica, dell’ «industria», abbia modificato sensibilmente e profondamente i modi di creazione e anche di fruizione dell’opera d’arte. La cosiddetta perdita dell’aura, come Walter

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Benjamin46ha definito quella svalutazione dell’hic et nunc – il valore espositivo, cultuale - che era proprio dell’opera d’arte prima dell’avvento dei sistemi di produzione e riproduzione grafica e sonora – emblematicamente la fotografia e il cinema, ma anche la stampa, l’incisione, etc. Prima del loro avvento difatti un’opera aveva una presenza fisica ben precisa: non aveva il dono dell’ubiquità. Aveva una storia, un percorso ricostruibile nel suo esser passata di mano in mano e di epoca in epoca. Era sensibile all’usura del tempo: non poteva essere periodicamente rinnovata come una stampa dal negativo. Un’ arte più lontana dall’uomo comune, meno coinvolta nei regimi della comunicazione di massa. Una rivoluzione, per Benjamin in un certo senso inaugurata dalla litografia, di cui durante l’Ottocento la fotografia accoglierà su di sé le sorti, le conseguenze e i torti.

46

Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua

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«L’arte del XIX secolo è profondamente influenzata dalla visione scientifica della vita che si afferma in quel periodo. Le esplorazioni e le scoperte nel campo della geografia e della fisica contribuiscono a fornire le basi per lo sviluppo della pittura paesaggistica, e la riscoperta degli stili del passato ha le sue radici nello spirito retrospettivo della ricerca storica[…] I prodromi di questa interdipendenza vanno ricercati nell’epoca rinascimentale quando per la prima volta si instaura il legame fra arte e scienza, legame che troverà una sua consacrazione nel XIX secolo allorché gli studi di ottica e la teoria dei colori, affiancandosi ai nuovi fermenti in campo artistico, allargano il campo della ricerca»47.

Se è vero che l’ «aspirazione al naturalismo, che avrebbe permeato di sé tutto l’Ottocento, si era già prepotentemente manifestata nel rinascimento»48 altrettanto lo è che la «regola del

47

Ivi, p. 19.

48

(68)

punto di vista fisso e le rigide limitazioni imposte dalla prospettiva miranti alla rappresentazione di una verosimiglianza scientificamente provata, fine ultimo delle arti visive nel primo Rinascimento, trovano una loro applicazione nella camera obscura e nella machine à dessiner, entrambe presupposti fisici necessari all’invenzione della

fotografia»49. Evidentemente l’eredità che la

fotografia trova inscritta nella propria costituzione genetica è qualcosa di più di una parentela meramente fisica, tecnica, strumentale se, come dice Panofsky, quello che è stato affermato nel Rinascimento è un principio di teoria estetica tutt’altro che banale ed anzi estremamente problematico e cioè «il dogma secondo cui l’opera d’arte sarebbe una diretta e fedele rappresentazione di un oggetto reale»50. Insomma quando nel 1435 Leon Battista Alberti formulò i principi teorici della piramide visiva (descrivendo anche il funzionamento di alcuni strumenti tecnici

49

Ivi, p. 23.

50

E. Panofsky, La prospettiva come “forma simbolica”, Feltrinelli, Milano 1961.

(69)

quali il reticolo e il velo) riassunse in essi un’intera visione del mondo.

La macchina fotografica come deriva, culmine e realizzazione di presupposti così marcatamente ideologici oltre che tecnici è portatrice sana (nel senso che gli effetti possono anche non manifestarsi come accade in ogni utilizzo contemporaneo della fotografia, come l’ho intende Claudio Marra) di una visione del mondo tipicamente e originariamente moderna. Ed è questo che porta Marra a parlare a proposito della fotografia di «una sorta di schizofrenia del mezzo, implicato da un lato col vecchio della modernità e nello stesso tempo capace di partecipare al nuovo della contemporaneità. Non un compromesso[…] ma un’effettiva condizione di frontiera».51

51

Claudio Marra, Fotografia e pittura nel Novecento, Bruno Mondadori, Milano2000, p. 13.

(70)

Un medium strutturalmente moderno che può all’occorrenza fruire dello statuto di medium contemporaneo. Va da sé che «un mezzo che storicamente compare proprio nel periodo di trapasso tra due cicli naturali»52 si porti appresso una doppia natura e con essa una doppia logica di funzionamento che come abbiamo visto porta da una parte l’immagine fotografica in conflitto con l’immagine pittorica - l’oggetto quadro - dall’altra - come vedremo nella seconda parte dedicata al Novecento - a distaccarsene considerevolmente fino a fuggire il conflitto e mostrare parentele insospettate con altre forme, modalità artistiche addirittura alternative al quadro – come saranno i ready made duchampiani e l’objet trouvé surrealista53.

52

Ivi, p. 14.

53

Per citare Schwarz: «una fotografia scattata ai tempi di Daguerre o Di Hill e Adamson rifletterà un metodo di Rappresentazione diverso dal nostro. La natura e l’apparecchio fotografico non sono cambiati in modo tale da poter spiegare questo fenomeno: ciò che è

profondamente cambiato è la visione che l’uomo ha del mondo e il suo modo di accostarsi ad esso.». Heinrich Schwarz, Arte e fotografia, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 5.

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Scrive ancora Schwarz «tramite la tecnica fotografica i principi enunciati nel Rinascimento vennero estremizzati e, mostrando i loro limiti, finirono quasi per sfiorare l’assurdo. In questo modo si preparava il terreno per la svolta che sarebbe avvenuta all’inizio del XX secolo»54. Ed è un’ironica casualità che l’anno in cui fu brevettata la fotografia (1839) sia anche l’anno di nascita di Cézanne, la cui pittura ha decretato una cesura netta, finale con la prospettiva scientifica e il dogma rinascimentale e che sarà la fonte di ispirazione privilegiata per i due padri dell’avanguardia cubista.

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