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I PREZZI PREDATORI NEL DIRITTO U.S.A

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Capitolo III

I PREZZI PREDATORI NEL

DIRITTO U.S.A

Il diritto della concorrenza nasce negli Stati Uniti d’America nella seconda metà del 1800. Infatti, benché le prime leggi contro gli accordi restrittivi della concorrenza siano state approvate in Canada nel 1889, le origini del diritto antitrust vengono comunemente fatte risalire allo Sherman Antitrust Act, emanato dal Congresso degli Stati Uniti su proposta del senatore John Sherman nel 1890.

Negli anni ’80 del XIX secolo, si assiste negli Stati Uniti al fiorire di numerosi accordi fra imprese, detti trusts, nei settori nevralgici dell’industria1.

Il successo registrato dal sistema del trust determinò in breve tempo l’impoverimento e lo scontento della middle class americana. Durante la campagna presidenziale del 1888, pertanto, sia i democratici che i repubblicani introdussero nei rispettivi programmi misure contro i trusts. È da queste premesse che nacque l’espressione di ‘anti-trust’, oggi adottata per indicare il diritto della concorrenza in via unitaria2. La legge proposta dal senatore John Sherman mirava a razionalizzare concetti propri della common law e ad integrarli con la previsione di sanzioni pecuniarie, penali ed economico-strutturali,

1

Il termine trust, di derivazione dal sistema di common law, indica correntemente un accordo in base al quale un soggetto fiduciario diviene titolare di determinati diritti di proprietà da detenere e gestire in favore di uno o più beneficiari. Alla fine del XIX secolo, tuttavia, il trust assumeva negli Stati Uniti un’accezione diversa, ovvero era un accordo per unire diverse imprese sotto proprietà unitaria mediante il conferimento di quote ad un soggetto unico (il trust).

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sull’assunto che il sistema venutosi a creare fosse contrario ai fondamenti e ai principi che avevano portato alla costituzione degli Stati Uniti.

Con la nascita della prima normativa antitrust si crerono i presupposti ed il terreno giuridico necessario per poter concettualizzare la pratica di predatory pricing, quale pratica abusiva in detrimento della concorrenza in una economia di mercato.

Oltre cento anni di diritto antitrust degli Stati Uniti d’America hanno mostrato che tanto la natura quanto le finalità delle norme antimonopolistiche, assumono valori differenti in funzione degli sviluppi sociali, economici e politici del Paese. Quasi ogni generazione politica statunitense ha abbandonato le linee tracciate dei suoi predecessori a favore di qualcosa di nuovo. L’evoluzione e il susseguirsi delle differenti teorie economiche abbracciate dal policymaker nordamericano in seno al diritto della concorrenza hanno dato orgine a diverse scuole di pensiero: la ‘common law school’, la ‘rule of reason

school’, la ‘monopolistic competition school’, la ‘workable competition school’, la ‘liberal school’ e la più recente ‘law and economics school’ o Scuola di Chicago3. Ognuna di

queste scuole ha contribuito alla definizione del diritto antitrust statunitense, lasciando, ognuna, traccia del suo passaggio nei differenti criteri utilizzati per definire e condannare un prezzo come predatorio.

Questo terzo capitolo si propone di studiare l’origine e l’evoluzione del concetto di

predatory pricing all’interno della normativa e della giurisprudenza degli Stati Uniti

d’America, non solo in quanto luogo di nascita del diritto antitrust, ma anche per l’importanza che il diritto della concorrenza assume nel sistema politico ed economico statunitense. Il capitolo, seguendo quella che è la storia del diritto antitrust negli U.S.A., si divide in tre sezioni, ciascuna delle quali analizza un differente periodo storico in corrispondenza del quale il divieto delle strategie escludenti di prezzo ha assunto configurazioni distinte. Così come ci impone il modello di common law nordamericano, ovvero quel modello secondo cui la sentenza giudiziaria crea il diritto, ciascun paragrafo sarà suddiviso in una parte relativa alla legislazione ed una relativa alla giurisprudenza.

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3.1 La nascita del diritto antitrust: Sherman

Act e prezzi predatori

Già prima della creazione da parte del legislatore statunitense di un corpo normativo avente come principale scopo il divieto di monopolizzazione dei mercati, la pratica dell’ ’irrazionale’4 ribasso dei prezzi i volto ad eliminare la concorrenza era già stata conosciuta dalla dottrina quale pratica di concorrenza sleale, dotata della grande potenzialità di riuscire ad eliminare dal mercato un concorrente che, seppur più piccolo in termini di potere di mercato, fosse in grado di raggiungere un ‘soddisfacente’ livello di efficienza. La nascita dei trusts nell’economia di libero mercato U.S.A. portò ad un notevole incremento delle pratiche di predatory pricing.

Nella seconda metà dell’Ottocento iniziò a svilupparsi negli Stati Uniti d’America il ricorso ai trusts come strumenti giuridici di cooperazione e concentrazione delle attività industriali.

Secondo tale sistema, il leader industriale induceva gli azionisti delle società concorrenti in un determinato settore ad affidare il proprio capitale azionario e i relativi diritti di voto a un consiglio di amministratori fiduciari (board of trustees), in cambio di certificati per l’ottenimento di dividendi. Il trust così costituito provvedeva poi alla gestione delle varie società per conto dei comuni azionisti, annullando virtualmente la concorrenza nel settore interessato. Ebbe così avvio un intenso dibattito, sia a livello politico che economico e giuridico, sui pro ed i contro di tale fenomeno.

Un fatto pressoché indiscusso tra gli economisti era che i trusts potessero, grazie al loro potere economico, attuare manovre predatorie in danno dei rivali più piccoli estromettendo dal mercato anche concorrenti potenzialmente più efficienti.

4 Sebbene anche una vendita sottocosto con fini predatori possa essere considerata razionale secondo i

più recenti sviluppi dell’analisi economica del diritto, il termine ‘irrazionale’ viene utilizzato in tal caso come sinonimo di vendita sottocosto, omettendo l’intrinseca razionalità di una strategia predatoria basata sul prezzo.

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Clark, uno dei più celebri economisti del tempo, scolpisce la questione come segue: «Certamente non sono senza basi le accuse che sono universalmente portate contro i

trusts per il loro comportamento verso i concorrenti. La loro politica è sufficientemente

predatoria. Essi non uccidono gli uomini in senso letterale, ma in sostanza uccidono la concorrenza. [...] Il potere dei trusts di schiantare i concorrenti si fonda su tre diverse pratiche di concorrenza sleale: la prima è la discriminazione sleale dei prezzi [...]Ancora, la discriminazione può essere attuata, non tra diverse località, ma su diversi tipi di merce sulla generale scala dei prezzi. Il trust può produrre molte varietà di un certo tipo generale di merce, mentre la concorrente ne può fabbricare solo uno. In quel caso anche se quest’ultimo può operare in molte aree del Paese, il trust lo può inseguire e distruggere. Esso può ridurre sotto il costo il prezzo del tipo di merce prodotta dal concorrente, tenendo tutti gli altri prezzi all’originario alto livello [...]In terzo luogo il

trust, può rifiutarsi del tutto di vendere prodotti in certe situazioni»5. Dunque, gli strumenti predatori a disposizione del trust erano individuati nei prezzi discriminatori e sottocosto, nonchè nel rifiuto di contrarre.

Alla fine del XIX secolo, sotto la pressione sempre maggiore della middle class, fu approvata dal Congresso la prima legge federale antitrust, lo Sherman Act6, che diede il via ad una serie di interventi volti al contenimento degli atteggiamenti ‘unfair’ che potevano assumere imprese particolarmente forti.

Le motivazioni che portarono all’approvazione dello Sherman Act sono molteplici. Esse possono essere individuate: nell’intento di ridurre l’influenza delle grandi concentrazioni di potere economico sull’assetto economico, sociale e politico della società americana, favorendo allo stesso tempo le opportunità di successo delle piccole e medie imprese; nel tentativo meramente politico di catturare i consensi della middle class, costituita

5

J. B. Clark, Trusts, Political Science Quarterly, Vol. 15, Num. 2, 1900, pp. 181-195. È interessante notare che Clark nel suo articolo propone di impedire la discriminazione di prezzo, in quanto postula che i prezzi predatori siano irrazionali in assenza della possibilità di sussidi incrociati: «Se, per schiantare la concorrenza in uno Stato, un trust dovesse portare i propri prezzi sotto il costo in tutti gli Stati, si rovinerebbe così come rovinerebbe i propri concorrenti. La dimensione del proprio capitale non lo proteggerebbe, perché le sue perdite sarebbero proporzionali alla grandezza del suo capitale e della sua produzione».

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principalmente da piccoli e medi imprenditori; nello scopo puramente economico di proteggere i consumatori tramite la tutela dell’efficienza economica; ed infine nell’intento legislativo, anch’esso, come il precedente puramente economico, che riguarda primariamente gli effetti sulla distribuzione del reddito derivante dell’esercizio del potere monopolistico e, quindi, si concentra sulla difesa del surplus del consumatore7.

Identificare le motivazioni che spinsero il legislatore federale statunitense alla creazione del diritto antitrust, non è tema di banale importanza. Alla luce delle ragioni ispiratrici cui viene ricondotta la disciplina antitrust è possibile individuare la sussistenza dell’identità tra tutela della concorrenza e tutela dei concorrenti, ovvero se il fine ultimo di quella parte dell’antitrust che attiene ai comportamenti unilaterali sia quello protezionistico e non il raggiungimento di una maggiore efficienza economica8 in cui la tutela dei consumatori assume carattere rilevante.

Per quanto la ricostruzione delle istanze che portarono all’emanazione dello Sherman

Act sia ancora oggi un tema di discussione apertissimo, mirato ad individuare l’intento

legislativo ed a fissare, così, l’oggetto di tutela della legge, non vi sono dubbi sui prodromi socio-politici dell’intervento normativo che intendeva rispondere al crescente fremito che montava nella società americana contro le pratiche predatorie di cui i grandi

trusts, prima tra tutti la Standard Oil9 di Rockfeller erano sospettati.

La sezione rilevante dello Sherman Act ai fini della nostra analisi è la sezione 2, preordinata a contrastare qualsivoglia tentativo di monopolizzazione o di monopolio del mercato e suscettibile di applicazione anche alla condotta di singole persone fisiche o giuridiche, indipendentemente da accordi con terzi. Secondo la norma statunitense «ogni persona che monopolizzerà o tenterà di monopolizzare, o si associerà per cospirare con una o più persone per monopolizzare qualsiasi aspetto del commercio tra i

7 P. Giudici, I prezzi predatori, Giuffrè, 2000, pp. 43-46. 8

Questa tesi è quella notissima sostenuta da Bork e dalla Scuola di Chicago.

9

La Standard Oil nacque nel 1870 come una società tra il noto industriale John D. Rockefeller, suo fratello William Rockefeller, William Flagler, il chimico Samuel Andrews, e Stephen V. Arkness. Usando strategie efficaci, ma anche assai criticate, la compagnia assorbì e distrusse molti dei suoi concorrenti prima a Cleveland, nell'Ohio, poi nel resto del nordest degli Stati Uniti facendo così fallire molti suoi concorrenti più piccoli.

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vari Stati [federati U.S.A.] verrà ritenuta colpevole di un reato grave». Per quanto si possa interpretare la seconda sezione come divieto del monopolio, di fatto però le autorità ne hanno fornito un’interpretazione diversa.

L’applicazione della suddetta normativa, infatti, ha dato adito a orientamenti interpretativi differenti, con precipuo riferimento al dettato secondo il quale ‘qualsiasi’ (‘any combination’) restrizione della concorrenza doveva essere perseguita. Da un lato, invero, si sosteneva l’applicazione omnia della norma, dall’altro, invece, in virtù del principio di common law della rule of reason10, si riteneva doversi escludere dalla sfera di competenza del diritto della concorrenza quelle restrizioni che potevano definirsi ragionevoli o accettabili, o che comunque potevano produrre effetti positivi in relazione allo sviluppo del mercato e dell’intero sistema economico del Paese. Le linee guida elaborate dalla Corte Suprema nei primi casi di antritrust hanno costituito la premessa per una notevole flessibilità di giudizio da parte delle corti, principalmente riconducibile all’applicazione del criterio della rule of reason implicante una valutazione ‘case by case’ a fini antitrust.

Si è persino assistito, nella varietà delle pronunce che sono seguite, al manifestarsi di una posizione associazionalista motivata dagli eventi politico-economici dell’epoca. La crisi del 1929, ad esempio, ha generato un’esigenza di riduzione dell’output di mercato, che ha determinato a sua volta uno stretto coordinamento tra governo ed imprenditori, da un lato, e fra imprenditori stessi, dall’altro. È in questo contesto che la Corte Suprema ha pronunciato la sentenza Appalachian Coals11, con cui riconosceva la legittimità di un accordo tra una pluralità di imprese minerarie finalizzato alla ripartizione della produzione tra le imprese aderenti e alla fissazione di un prezzo di riferimento12.

10 Una traduzione efficace di ‘rule of reason’ potrebbe essere ‘regola del buon senso’. La rule of reason può

essere definita come un particolare standard per accertare la compatibilità di una determinata fattispecie con il diritto della concorrenza e consiste nel prendere in considerazione tutte le circostanze attinenti alla fattispecie oggetto dell'analisi allo scopo di verificare se questa determina un'irragionevole limitazione della concorrenza.

11

Appalachian Coals Inc. vs United States, 228, U.S. 344, 1933. In questo senso anche: Board of Trade of

the city of Chicago vs United States (1918) e United States vs Colgate & Co. (1919).

12

Nello stesso anno in cui si giunse alla sentenza Appalachian Coals, il Congresso degli Stati Uniti adottò provvedimenti volti a porre un freno all’‘antitrust enforcement’. Sul piano storico, si è avuta una certa evidenza che nei periodi di crisi l'applicazione delle norme antitrust subisca un rallentamento spontaneo.

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L’elaborazione di una norma, quindi, dotata di scarsa specificità, che si limita a vietare in termini astratti e generici la monopolizzazione del mercato, lasciando spazi semantici aperti a differenti interpretazioni, combinato col criterio della rule of reason utilizzato dalla Corte Suprema nell’applicazione della norma permettono un differente utilizzo della legge, annebbiando e confondendo gli scopi dello stesso diritto antitrust statunitense, definendolo alternativamente, almeno in tale primo periodo, come diritto della concorrenza e diritto dei concorrenti.

Nel 1911 il predatory pricing venne definitivamente proiettato nell’empireo delle maggiori pratiche di monopolizzazione della Corte Suprema nel caso Standard Oil. Mentre iniziava il contenzioso legale sulla materia alla luce dello Sherman Act, a partire dal 1902 alcune impazienti legislazioni statali, senza specificare se seguissero ipotizzati principi di antitrust o, piuttosto, ipotizzati principi di concorrenza sleale13, avevano iniziato ad introdurre divieti atti ad impedire le sospette manifestazioni patologiche di ribasso dei prezzi. L’elemento qualificante intorno al quale si costruirono le diverse fattispecie normative fu, questa volta, la vendita in perdita, identificata nell’alienazione dei beni o servizi ad un prezzo inferiore al costo di produzione o di acquisto, ossia al costo totale medio.

Tuttavia, al fine di non compromettere con un intervento troppo generalizzato ipotesi di vendita sottocosto motivate da ragioni economiche legittime diverse dalla monopolizzazione del mercato, a tale elemento qualificante di natura oggettiva alcune normative disposero che ai fini dell’accertamento di un prezzo come predatorio fosse necesserio un ulteriore elemento soggettivo, ovvero l’intento monopolistico. In diversi Stati federati statunitensi, fu così vietata la vendita a prezzi inferiori ai costi totali medi con «l’intento o lo scopo di estromettere i concorrenti o lo scopo di causare loro danni

Ciò, per la presunzione di legittimità che si indotti ad attribuire al senso comune, induce a pensare che questo rallentamento sia anche giustificato. Per un maggiore approfondimento su come le crisi economiche portino ad freno nell’applicazione delle politiche antitrust, si veda: M. Libertini, Il diritto della

concorrenza in tempi di crisi economica (ODC-Roma, 20 giugno 2009).

13 Come si vedrà nel successivo capitolo al paragrafo 4.4, a proposito delle legge antitrust italiana, è

ricorrente nella dottrina vietare le pratiche predatorie basate sul prezzo alla luce di norme attinenti la concorrenza sleale, fornendo un’interpetazione in chiave antimonopolistica di disposizioni proprie del diritto privato.

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finanziari»14 e quella «sotto i normali costi di produzione per scopi monopolistici»15. Si costituì in tal modo un doppio filtro al fine di non incidere troppo sul principio fondamentale della libertà negoziale e colpire solo il fenomeno dei prezzi predatori. Talvolta, però, sotto la pressione dei gruppi di interesse della middle class che cominciavano ad agitarsi, i fini protezionistici presero la mano. Alcune legislazioni giunsero a vietare le vendite sottocosto «con lo scopo di distruggere l’onesta concorrenza» o, addirittura, le vendite sotto il «giusto o usuale prezzo».16 Il divieto della vendita sottocosto iniziava, così, almeno in taluni enunciati, a dipartirsi dal nucleo originario dei prezzi predatori, assumendo le vesti di strumento generalizzato di uniformazione tariffaria.

In siffatta configurazione, il divieto andava a minare la capacità del gioco concorrenziale di eliminare dal mercato i concorrenti meno efficienti. Il fatto che il prezzo sia non remunerativo per chi subisce il ribasso non dice nulla circa la natura predatoria dello stesso, né può certo segnalare l’esistenza di ipotetici fenomeni di concorrenza autodistruttiva. Dunque, la circostanza non può essere elemento qualificante della fattispecie astratta che si ipotizza. Se ai costi totali di produzione si vuole guardare per una comparazione con i prezzi da cui trarre elementi d’individuazione di una fattispecie predatoria o di concorrenza auodistruttiva, è evidente, a prescindere da ogni ulteriore considerazione, che il parametro di confronto devono essere i costi del presunto predatore. Il riferimento legislativo a non meglio definiti costi generalizzati dell’industria, insiti in formule quali quelle riferentesi alla distruzione dell’onesta concorrenza o, ancora di più, al prezzo usuale o giusto, finiva dunque per congelare17 il processo di selezione concorrenziale basato sui prezzi. In definitiva, i divieti di vendita sottocosto così conformati esplicitano un palese uso protezionistico del diritto della concorrenza.

14

Espressione usata in South Carolina Laws 1902, Act n. 574, p. 1057.

15 Espressione usata in Mississipi Code 1906, Ch. 145. 16

Espressione usata in Tennesse Laws 1907, Ch. 36.

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Sarà la stessa Corte Suprema ad utilizzare l’espressione ‘chilling’ in una nota sentenza degli anni ’80, per indicare gli effetti anticoncorrenziali che possono generare alcune norme.

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3.1.1 (Segue). Il caso Standard Oil

Uno dei primi casi giudiziari, successivo all’approvazione dello Sherman Act, in cui la pratica di predatory pricing assunse particolare importanza, a causa del suo uso sistematico e puntuale, è il caso Standard Oil18.

Tra gli anni 1870 e 1899 la Standard Oil raggiunse una posizione dominante nel mercato statunitense dell’industria della raffinazione del petrolio, acquisendo più di 120 società concorrenti ed ottenendo in questo modo una quota di mercato pari al 90%. Per poter procedere con queste acquisizioni la Standard Oil prima formulava un'offerta al raffinatore concorrente che voleva acquisire e, nel caso in cui questi rifiutasse tale offerta, cercava di far perdere di valore l’impresa rivale spingendola fuori dal mercato, attuando una vera e propria guerra sui prezzi.

Una volta raggiunta la propria posizione dominante nel settore della raffinazione del petrolio e nella sua distribuzione, la Standard Oil decise di aumentare i prezzi. Questo comportamento condusse alla sua accusa federale ed al successivo smembramento. Nella sua decisione, la massima autorità giudiziaria statunitense condannò un gruppo di persone, tra cui spiccava John D. Rockfeller, per aver attuato tramite il trust Standard Oil in tre distinte fasi temporali, comprese tra il 1870 e gli inizi del Novecento, un piano di monopolizzazione del mercato petrolifero che, tra gli altri strumenti abusivi, avrebbe visto il largo impiego di prezzi predatori, nella forma di sistematici abbattimenti tariffari localizzati entro specifici ambiti territoriali (‘local price cutting’) volti ad estrommettere dai singoli mercati geografici i concorrenti ivi operanti, e resi sostenibili, secondo l’accusa, dai sovraprofitti scaturenti dalla posizione di monopolio sugli altri mercati geografici.

Il Commissario federale incaricato di investigare sulle operazioni di mercato poste in essere dalla Standard Oil per il periodo compreso tra il 1904 ed il 1906 giunse a tale conclusione: «senza ombra di dubbio [...] il predominio della Standard Oil Company nel

18

Standard Oil Co. of New Jersey vs. United States, 221 U.S. 1 (1911); per un’analisi critica della sentenza si veda: J. S. McGee, Predatory price cutting: The Standard Oil Case, Journal of Law and Economics, Vol. 1, 1958, pp. 137-169.

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settore della raffinazione petrolifera è stato raggiunto attraverso [tra gli atri] metodi di concorrenza sleale nella vendita dei prodotti petroliferi raffinati».

Riguardo alla pratica dei prezzi predatori la Corte di Giustizia constatò che le prove raccolte portavano, alla conclusione secondo cui la Standard Oil, da un lato, praticava prezzi eccessivamente alti nelle aree geografiche dove non incontrava alcuna forma di concorrenza, o comunque dove vi erano scarse probabilità che nuovi concorrenti entrassero nel mercato, e, dall'altro, laddove vi era un certo grado di concorrenza, spesso praticava prezzi particolarmente bassi, senza ottenere alcun beneficio o comunque benefici molto ridotti, capaci di lasciare, nella maggior parte dei casi, margini di profitto nulli ai concorrenti, i cui costi erano in genere un pò più alti.

Nel 1911, la Corte Suprema degli Stati Uniti stabilì che la Standard Oil doveva essere sciolta ai sensi dello Sherman Act, suddividendola così in 33 imprese indipendenti più piccole. La sentenza, come scrisse Mecgee più di mezzo secolo dopo, creò una leggenda: «la Standard Oil divenne l’archetipo del monopolista predatore»19.

La figura del predatory pricing acquistò così definitivamente credito, sia pure all’interno di un apparato analitico ancora molto grezzo, avallando le altre simili accuse giudiziarie che erano state portate agli altri trusts20. Il meccanismo prefigurato era il seguente: l’impresa in posizione dominante riduceva i prezzi su aree geografiche selezionate o nei confronti di alcuni clienti fino ad un livello tale da non rendere acettabile per i concorrenti la prosecuzione dell’attività o, per i concorrenti potenziali, l’ingresso nel mercato; estromessi i rivali, essa, sopravvissuta grazie ai suoi ‘deep pocket’, ossia le sue maggiori risorse finanziarie, rialzava i prezzi, sfruttando appieno l’acquisito potere di monopolio.

Da tale prima costruzione concettuale, si evince che la strategia di predatory pricing si concreta e si manifesta nelle differenze di prezzo praticate in una zona o a determinati clienti, rispetto ai prezzi generalmente fissati dall’impresa: predatory pricing e price

19

J. S. McGee, Predatory price cutting: The Standard Oil Case, Journal of Law and Economics, Vol. 1, 1958, pp. 137-169.

20

All’epoca furono accusati di ricorrere a pratiche predatorie tra gli altri: l’American Sugar Refinery Company giudicata con la sentenza American Sugar Refining Co. v. New Orleans 181 U.S. 277 (1901) e l’American Tobacco, sentenza States v. American Tobacco Company, 221 U.S. 106 (1911).

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discrimination, sono, agli albori del secolo, locuzioni che coprono la stessa aree

semantica21.

Tuttavia, nonostante il corretto ragionamento della Corte Suprema, i metodi utilizzati per identificare la strategia di predatory pricing erano ancora poco precisi e scarsamente intrisi delle necessarie valutazioni economiche che impone una giusta analisi volta ad identificare il prezzo predatorio.22

Nell’impianto accusatorio della Corte Suprema sostanzialmente mancava un’analisi prezzo/costo; il giudice si limitò a considerare il locale taglio dei prezzi come ulteriore elemento probatorio della strategia predatoria.

Gli elementi considerati dalla Corte Suprema possono essere riassunti nella posizione dominante quale elemento oggettivo e nell’intento predatorio, che, in quanto scevro di una sostanziale analisi del mercato e della posizione dell’impresa, assumeva carattere relativo. Con riguardo al primo elemento fu sufficiente per il giudice federale dimostrare che il presunto predatore era dotato di significativo potere di mercato e che questo potere era stato aumentato a seguito di una politica di prezzi, la cui illiceità, diremmo oggi, in assenza di un raffronto prezzo/costo solo presunta. L’accertamento del maggior potere di mercato detenuto dall’impresa predatrice risultava necessario al giudice al fine di dimostrare la capacità del predatore di incorrere in pedite, ovvero la teoria dei ‘deep pocket’ su cui poggiava il modello di predatory pricing. Relativamente invece all’intento predatorio, la Corte Suprema dichiarò che «la concentrazione del potere e del controllo sul petrolio e i suoi prodotti derivati» aveva dato luogo «prima

facie, in assenza di circostanze di compensazione, a presumere l’intento e lo scopo di

mantenere il dominio nell'industria del petrolio». In altre parole, l'intento predatorio veniva presunto a partire dal un dato strutturale, quale il potere di mercato.

21

Sarà curioso verificare come gli organi Comunitari europei siano tornati a sovrapporre i concetti nonostante essi si siano scissi nel successivo sviluppo storico statunitese. Infra capitolo 4.

22 Si ricordi che solo cinquant’anni dopo il caso Standard Oil, le scienze economiche si sono occupate del

predatory pricing, suggerendo alle scienze giuridiche utili strumenti volti all’identificazione di un prezzo

predatorio. Sono comprensibili, quindi, i limiti mostrati dalla Corte Suprema fino alla metà degli anni ’50 nel decidere sui primi casi predatory pricing.

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L’intento predatorio, quindi, venne dimostrato attraverso una rapida analisi della condotta (un abbassamento del livello dei prezzi) e della performance dell'impresa (un aumento del potere di mercato), senza realmente analizzare se le condotte aziendali avessero una spiegazione razionale differente dall’intento preatorio23. Seguendo tale logica, ogni volta che un tribunale accerti una riduzione di prezzo da parte del presunto predatore, questa potrebbe essere direttamente assunta come conferma del presunto intento predatorio, indipendentemente dalla portata del taglio dei prezzi o da una valutazione comparativa con una certa misura di costo o dell'esistenza di motivazioni razionali alternative allo stesso ribasso dei prezzi. Ovviamente, tale postura del giudice statunitense è stata oggetto di forti critiche per il semplice motivo che considerando la volontarietà come sinonimo di intenzionalità, si può logicamente giungere alla concluisione secondo cui ciascuna impresa che acquisti o mantenga intenzionalmente il suo potere di mercato, nonostante la sua posizione sia raggiunta ‘on the merits’, possa essere condannata per aver ristretto la concorrenza in un quel mercato24.

In conclusione, alcuni economisti hanno osservato, che la Standard Oil era in procinto di perdere il suo maggiore potere di mercato già cinque anni prima che venisse imposto il suo scioglimento dalla Corte Suprema. Infatti, nonostante la Standard Oil possedesse nel 1904 il 90% della capacità di raffinazione degli Stati Uniti, tale capacità si era ridotta del 20% nel 1906 sino a giungere al 60% nel 1911. Inoltre la domanda di prodotti petroliferi aumentava più rapidamente della stessa capacità di Standard Oil di incrementare la sua produzione per soddisfarla. Anche in tal caso la teoria economica richiede come presupposto essenziale per attuare una strategia di predatory pricing una capacità produttiva sufficiente a soddisfare l’aumento di domanda generato dall’abbassamento dei prezzi e la possibilità di recupero delle perdite subite attraverso lo sfruttamento della posizione di monopolio che dovrebbe essere raggiunta.

23

Tale relazione trova espressione, a partire dagli anni ’40, nel paradigma S-C-P

(‘Structure-Conduct-Performance’), secondo il quale le variabili strutturali del mercato, influendo sulla condotta, determinano

la performance del mercato stesso, che si traduce in termini di output e prezzo.

24

N. Giocoli, When low is no good: Predatory pricing and U.S. antitrust law (1950-1980), European Journal of the History of Economic Thought, Vol. 18, Num. 5, 2011, pp. 777-806.

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L’insistenza delle richieste di tutela della middle class portarono il Congresso degli Stati Uniti d’America all’approvazione di quella che può essere considerata la prima legge antitrust, lo Sherman Act. Nonostante la ricostruzione delle istanze che condussero all’emanazione della legge antimonopolistica sia ancora oggi un tema di discussione apertissimo, mirato ad individuare se l’originario oggetto di tutela dello Sherman Act sia la concorrenza o i concorrenti, la seconda sezione della norma vieta i comportamenti unilaterali volti alla monopolizzazione del mercato.

Alla luce di quanto disposto in tale seconda sezione, nel 1911, con il caso Standard Oil, il

predatory pricing venne definitivamente riconosciuto quale pratica volta alla

monopolizzazione del mercato. Il meccanismo individuato dalla Corte Suprema attraverso cui la Standard Oil tentava di monopolizzare il mercato era il seguente: l’impresa in posizione dominante riduceva i prezzi su aree geografiche selezionate o nei confronti di alcuni clienti fino ad un livello tale da non rendere accettabile per i concorrenti la prosecuzione dell’attività o, per i concorrenti potenziali, l’ingresso nel mercato; una volta estromessi i rivali, essa, sopravvissuta grazie alla sua ‘deep pocket’, ossia le sue maggiori risorse finanziarie, rialzava i prezzi, sfruttando appieno l’acquisito potere di monopolio.

Nonostante la corretta teorizzazione da parte della Corte Suprema della pratica predatoria, i criteri utilizzati al fine di identificare il predatory pricing ai primi del Novecento non sono esenti da critiche. Oltre alla totale mancanza di un raffronto prezzo/costo, la Corte al fine della decisione ha considerato come elementi rilevanti la mera posizione dominante detenuta dalla Standard Oil e l’intento predatorio, dimostrato sulla base di elementi strutturali, quali la posizione di dominio dell’impresa e la performance della stessa, senza una corretta e minuziosa analisi economica. Tuttavia, seppur all’interno di un apparato analitico ancora molto grezzo, il prezzo predatorio acquistò così definitivamente credito nelle aule di tribunale quale strategia escludente. Con il caso Standard Oil, infine, viene esplicitamente affermato dal giudice federale l’utilizzo della ‘rule of reason’ nei casi di antitrust, ad eccezione dei casi di predatory

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‘restrains of trade’ possono essere ragionevoli, mentre la strategia di prezzo predatorio non lo è mai.

3.2 L’evoluzione del diritto antitrust: la

‘Grande Depressione’ ed il diritto dei

concorrenti

L’impressione suscitata dal caso Standard Oil mandò in risonanza l’intero ordinamento federale. La spiegazione predatoria dei ribassi dei prezzi pareva logicamente inoppugnabile; inoltre il meccanismo si segnalava per la sua disarmante semplicità e i riscontri empirici sembravano confortare la diffusione e la pericolosità del fenomeno. In questo clima i più celebri ed influenti giuristi americani del periodo qualificavano senza indugio i prezzi predatori come la più potente arma del monopolio25. Ben presto furono approvate nuove norme volte a superare, mediante una più precisa individuazione delle pratiche vietate, le incertezze interpretative che la rule of reason adottata nel caso Standard Oil pareva lasciare sul campo.

La normativa antitrust contenuta nello Sherman Act aveva mostrato da subito delle lacune sul piano applicativo, dovute principalmente alla scarsa chiarezza delle relative previsioni e alla facilità di elusione delle stesse. A fronte della sopravvenuta necessità di procedere alla modifica del testo di legge, nel 1914 il Congresso degli Stati Uniti approvò il testo predisposto dal deputato Henry De Lamar Clayton.

Il Clayton Act26, che mirava ad una maggiore razionalizzazione nell’applicazione delle

norme in materia di concorrenza, vietò, col pensiero rivolto alle ‘predatory price

discriminations’, tutte le discriminazioni di prezzo, accentuando enormemente

25

L. Brandeis, Competition that kills in business: A profession, 1914, pp. 250-254.

26

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l’intervento preventivo della legge sulle pratiche considerate anticoncorrenziali27. Esso cristallizzava in norma taluni divieti di comportamenti monopolistici posti in essere dalle imprese e prevedeva un più efficace controllo delle operazioni di concentrazione. Nello stesso anno fu approvato anche il Federal Trade Commission Act28, con il quale veniva creata un’autorità pubblica indipendente (la Federal Trade Commission) con il compito di perseguire i metodi sleali di concorrenza, tra i quali svettavano i prezzi predatori, e promuovere la ‘fair competition’ nel mercato statunitense29.

Lo sdegno morale che irradiava il tessuto sociale americano avviluppò, in tal modo, il linguaggio del legislatore federale. Nel suo lessico si cristallizzò un passaggio decisivo per comprendere in chiave storica lo sviluppo della materia: il concetto di pratica scorretta ed il concetto di pratica monopolistica si catalizzarono prevalentemente intorno alla figura dei prezzi predatori. Il processo di inasprimento della legislazione antitrust federale proseguì negli anni successivi: nel 1916 lo Shipping Act30 vietò l’uso dei prezzi

predatori attuato dalle ‘conferences’ marittime.31

Tuttavia, il periodo di recessione che si aprì nell’ottobre 1929 fece cadere tutte le convinzioni economiche allora imperanti. Il principio cardine che si credeva vegliare sull’intero processo di sviluppo capitalistico, la ‘legge di Say’32, si rivelò inconsistente di fronte al tracollo dei prezzi indotto dalla contrazione della domanda sul mercato americano. Le categorie più esposte alla crisi e quelle meglio rappresentate sul piano

27 Introducendo così definitivamente, come scrive R. Bork, il concetto di ‘incipiency’, ossia «la teoria che il

potenziale anticoncorrenziale di alcune pratiche sospette può essere riconosciuto, e le pratiche bloccate, ben prima che esse abbiano reali conseguenze anticompetitive». R. H. Bork, The Antitrust Paradox, New York, Free Press, 1978, p. 47.

28 Federal Commission Act, 1914, 15 U.S.C. 41-58. 29

L’articolo 5 del Federal Commission Act genericamente sancisce l’illegalità di «metodi scorretti di concorrenza» e di «azioni o pratiche scorrette o ingannevoli». In base al contenuto dell’atto, l’autorità pubblica indipendente è legittimata ad intentare azioni legali qualora sia accertata una condotta vietata ai sensi del Clayton Act e del Robinson-Patman Act, oltre che del Federal Commission Act. Peraltro, benché l’autorità pubblica indipendente difetti di una diretta competenza in materia di Sherman Act, dalla suddetta previsione può farsi comunque derivare una legittimazione ad agire anche a fronte della violazione di tale normativa.

30

Shipping Act, 7 September 1916, 39 Stat. 728-738.

31 P. Giudici, I prezzi predatori, Giuffrè, 2000, pp. 51-56. 32

Teoria, che prende il nome da Jean-Baptiste Say (1767-1832), per la quale «l’offerta crea la sua domanda». In altre parole in un sistema di libero mercato non si sarebbero potuti verificare fenomeni di sovraproduzione men che temporanei.

(16)

politico moltiplicarono le richieste di protezione dalla bufera che si stava abbattendo sui mercati, chiedendo interventi legislativi capaci di bloccare la caduta dei prezzi ed il processo concorrenziale che li alimentava, visto come un gorgo distruttivo e la causa stessa della recessione.

Per fronteggiare la crisi iniziata nel Ventinove, Franklin D. Roosevelt nel 1933 promosse l’adozione del National Industrial Recovery Act33 (NIRA), che delegò alle associazioni

imprenditoriali la stesura di codici di concorrenza che sarebbero stati approvati dalla

National Recovery Administration, nel contempo sospendendo l’applicazione del diritto antitrust per tutte le azioni prese sotto la propria egida34, gemmarono i National

Recovery Administration Codes of Fair Competition (NRA codes) contenenti disposizioni

in materia35. Dopo la caduta per incostituzionalità del NIRA, furono immediatamente introdotte nuove leggi statali sulla concorrenza sleale. Le vendite sottocosto entrarono definitivamente ed in forma genealizzata nel mirino delle normative statali, come ‘unfair

practices’.

Come già accaduto all’inizio del secolo, la costruzione delle fattispecie astratte variava notevolmente da legge a legge: alcune richiedavano per la condanna l’intento di annientare il rivale; altre, in alternativa o in esclusiva, l’effetto dell’esclusione dei rivali dal mercato; altre ancora, la vendita sottocosto pura e semplice senza ulteriori elementi qualificanti. Anche nel definire il concetto di vendita sottocosto, i vari legislatori federati hanno utilizzato, in taluni casi formule alquanto vaghe, mentre in altri predeterminavano rigidamente i criteri di calcolo da utilizzare, ed infine, in altri ancora, facevano ricorso esplicito a statistiche dei costi medi dell’industria in cui operava il soggetto incriminato. Nonostante queste differenze nelle discipline degli Stati federati, i giudici nell’interpretazione delle diverse formule normative rimasero, per quanto possibile, strettamente aderenti alla radice antimonopolistica e, quindi, al legame genetico con i

33 National Recovery Act, Pub. L. 73–67, 48 Stat. 195, 16 June 1933, codified at 15 U.S.C. 703. 34

Nel presupposto che la crisi economica richiedesse cooperazione tra le imprese e non concorrenza.

35

‘Fair competition’ assumeva, nella realtà dell’epoca, il significato di gestione amministrativa dei prezzi, generando come risultato l’assenza di una reale ed effettiva competenza.

(17)

prezzi predatori, in tal modo spesso oscurando il vero fine legislativo di stampo privatistico, quale proteggere i concorrenti dalla concorrenza sleale36.

Questo atteggiamento, che non sarebbe rimasto circoscritto alla sola esperienza giuridica americana37, non deriva solo da una particolare sensibilità alla radice strorica della disciplina ed alle istanze economiche che la potevano giustificare, ma era tecnicamente motivato da precise ragioni di indole giuridica: s’interpretavano i divieti in un modo chiaramente capace di resistere ad eccezioni ed incostituzionalità38. Non a caso le leggi che contenevano nella fattispecie una espressa caratterizzazione antitrust, ossia il riferimento all’intento o all’effetto monopolistico, riuscirono a salvarsi dalla accuse di incostituzionalità via via avanzate.

Tornando in ambito federale, a seguito della caduta del NIRA, fu approvato nel 1936 il

Robinson-Patman Act39, con il fine di modificare ed integrare il Clayton Act, in modo da colpire anche le differenze di prezzo aventi per effetto l’alterazione della concorrenza al livello dei contraenti dell’impresa discriminatrice. La norma proibisce qualsiasi tipo di discriminazione basata sul prezzo di vendita di prodotti «dello stesso grado e tipo di qualità», destinati alla vendita o all’uso nel mercato statunitense, qualora ne possa derivare un pregiudizio rilevante alla libera concorrenza. Tale normativa, tuttavia, pare avere come fine principale proteggere i concorrenti e non la concorrenza, peggiorando il benessere dei consumatori: proteggere le discriminazioni di prezzo senza rapportarle ad alcuna misura di costo vuol dire impedire lo stesso gioco concorrenziale40.

36 R. Callmann, Unfair competition, trademarks and monopolies, Sweet & Maxwell, 1990, Cap. 7. 37

In Italia, ad esempio, fino agli anni ’90 il predatory pricing è stato espressione di un uso in funzione antimonopolistica della disposizione sulla concorrenza sleale. Si veda Infra paragrafo 4.4.

38 Seppur in maniera marginale, il successo del ‘private enforcement’ come strumento di tutela della

concorrenza si spiega anche per le caratteristiche proprie del diritto processuale statunitense e per gli incentivi specificamente concessi ai soggetti danneggiati da lesioni del diritto antitrust. Si pensi, ad esempio, alla regola dei ‘treble damages’, che conferisce loro il diritto ad un risarcimento pari al triplo dell’ammontare del pregiudizio patito.

39

Conosciuto anche con il nome di Anti-Price Discrimination Act, Pub. L. No. 74-692, 49 Stat. 1526 codified at 15 U.S.C. 13.

40

«Il Robinson-Patman Act si distingue per essere pressochè impopolare tra gli studiosi dell’antitrust»: così T. W. Ross, Winners and losers under the Robinson-Patman Act, Journal of Law and Economics, Vol. 27, 1984, p.243. Per una esaustiva sintesi sulle motivazioni che portano il Robinson-Patman Act ad essere considerato come la peggiore norma antitrust si veda: C. De Pasquale, R. D. Blair, Antitrust's least glorious

hour: The Robinson-Patman Act, Journal of Law and Economics, forthcoming. Per il suo spiccato carattere

(18)

Che fini protezionistici potessero essere celati in norme antimonopolistiche non può sorprendere più di tanto. Una politica antitrust che si occupa di de-concentrare i mercati oligopolistici e, in certa misura, di proteggere le piccole imprese da parte dei concorrenti di maggiori dimensioni, in generale affonda le proprie radici proprio nella teoria che solo un gran numero di piccole imprese porterebbe ad una riduzione dei prezzi, piuttosto che un ristretto numero di grandi imprese.41

La fase post-depressiva, infatti, si caratterizza per l’elaborazione della cosiddetta teoria strutturalista o costruttivista42, associata al riemergere delle ragioni dell’intervento pubblico nell’economia. Tale teoria, in particolare, fonda la valutazione di efficienza del mercato sulla struttura del mercato, intesa quale maggiore o minore grado di concentrazione. La struttura del mercato, in altri termini, influisce sulla profittabilità delle imprese e sulla probabilità di condotte collusive secondo una relazione causa-effetto presuntiva. Da tale impostazione deriva un giudizio aprioristico di pericolosità di talune pratiche, fondato sul loro intento anticoncorrenziale e svincolato dai loro effetti concreti. La politica antitrust deve garantire le condizioni di mercato minime necessarie al conseguimento dell’ottimo economico relativo e, pertanto, deve favorire strutture di mercato caratterizzate da una molteplicità di players, dall’assenza di situazioni di monopolio o di concentrazione e di barriere all’entrata.

Nell’applicazione del diritto della concorrenza, l’approccio strutturalista si fonda su obiettivi non economici, in particolare sulla definizione di regole di condotta per una ‘fair competition’ e sulla limitazione della crescita dimensionale delle imprese.

Quando la tutela della concorrenza assume come proprio fine il mantenimento di un certo numero di operatori sul mercato, si finisce necessariamente per proteggere le imprese dai rigori del processo di selezione concorrenziale, tutelando in favore dell’efficienza, l’equità dei mercati.

dottrina e la giurisprudenza sono riusciti a trovare un punto d’incontro tra le due norme volte a tutelare, una la concorrenza e l’altra i concorrenti. Sul tema si veda: P. H. LaRue, Recent judicial efforts to reconcile

the Robinson-Patman Act With The Sherman Act, Washington and Lee Law Review, Vol. 36, Num. 2, 1979

pp. 325 ss.

41

H. Hovenkamp, Antitrust policy after Chicago, 84 Michigan Law Review, 1985, p. 213.

42

(19)

3.2.1 (Segue). Il caso Utah Pie

Era evidente, quindi, che almeno fino agli anni ’70 dello scorso secolo l'equità, ancor prima che l'efficienza, sia stato l’oggetto di tutela da parte del legislatore statunitense ed il vero metro di misura delle corti d’oltreoceano. Il caso in cui, forse con maggior forza, apparsa evidente tale postura della Corte Suprema è stato il caso Utah Pie43, che, non senza ragioni, è stato ritenuto da gran parte della dottrina ‘the most anticompetitive

antitrust decision of the decade’.44

La Utah Pie Company, una piccola impresa dolciaria che operava solo a livello locale nel mercato di Salt Lake City, nei primi anni ‘60 si rivolse alla Corte Suprema accusando tre imprese di grandi dimensioni, operanti in più mercati geograficamente differenti, di aver praticato prezzi predatori al fine di eliminare la concorrente, con lo scopo di monopolizzare il mercato delle torte surgelate.

Ciascuna delle tre imprese presenti sull’intero territorio nazionale, la Continental Baking Company, la Carnation Company e la Pet Milk Company, deteneva nel mercato di torte surgelate di Salt Lake City, cadauna meno del 20% delle quote. La Utah Pie Co., invece, deteneva una cuota di mercato pari del 65,5% e quindi era l’operatore dominante. La Continental Baking Co., la Carnation Co. e la Pet Milk Co., nel periodo preso in considerazione dalla Corte Suprema, ovvero a partire dal 1958, anno dell’entrata di Utah Pie Co. nel mercato delle torte surgelate, avevano venduto il proprio prodotto nel mercato geografico di Salt Lake City a prezzi inferiori rispetto a quelli praticati in altre parti del Paese, causando, al termine della presunta fase predatoria, una leggera perdita delle quote di mercato della Utah Pie Co., che, comunque, risultava essere ancora pari al 45,3%. La Utah Pie Co., inoltre, nel presunto periodo predatorio, sebbene avesse abbassato i propri prezzi di vendita per tener testa alle concorrenti, aveva continuato a chiudere i suoi bilanci in attivo, senza subire perdite.

43

Utah Pie Co. v. Continental Baking Co., 386 U.S. 685 (1967); per un’analisi critica della sentenza si veda: W. S. Jr Bowman, Restraint of trade by the Supreme Court: The Utah Pie Case, Yale Law Journal, Vol. 77, 1967, pp. 70-85.

44

N. Giocoli, Games judges don't play: predatory pricing and strategic reasoning in US antitrust, Supreme Court Economic Review, 2013

(20)

La Corte Suprema nel 1967 condannò la Continental Baking Co., la Carnation Co. e la Pet Milk Co. per aver posto in essere strategie basate sui prezzi volte a ridurre ed impedire la concorrenza.

Anche in questa sentenza, così come per il caso Standard Oil, vi è totale carenza di una qualsivoglia analisi o considerazione condotta secondo quelli che sono i criteri suggeriti dalle scienze economiche al fine di identificare i prezzi praticati come prezzi predatori, quale ad esempio il raffronto prezzo/costo. Nella decisione, il giudice si limita semplicemente ad osservare che «alcuni prezzi praticati erano inferiori al costo di produzione» senza minimamente impegnarsi in una valutazione in tal senso45.

La Corte Suprema va addiritutta oltre quanto disposto nel caso Standard Oil, basando la propria sentenza, non su un’effettiva posizione di dominio del mercato detenuta da parte del predatore, ma solo sulle maggiori dimensioni delle tre imprese e sulla loro caratteristica di imprese di grandi dimensioni operanti sull’intero territorio nazionale, nonstante ciò non si traducesse in un maggior potere nel mercato rilevante46. Già nell’impianto accusatorio della Corte emerge la particolare rilevanza che viene data alla caratteristica dimensionale della Utah Pie Co.47, chiaro indice della posizione del giudice federale di utilizzare il diritto della concorrenza come strumento di tutela delle piccole imprese.

Il reato commesso dalle tre imprese, fondamentalmente, è stato vendere nel mercato geografico di Salt Lake City torte surgelate ad un prezzo leggermente inferiore a quello praticato negli altri mercati geografici in cui operavano. Stabilendo che l’abbassamento dei prezzi delle torte surgelate era causato dalla strategia predatoria posta in essere dalle imprese di grandi dimensioni, che avrebbe inesorabilmente portato il mercato ad

45 I prezzi di vendita vengono comparati con una misura di costi, la cui composizione non risulta

minimamente chiara o elaborata su un criterio economicamente valido. Nella sentenza della Corte Suprema si legge che il prezzo ‘was less than its direct cost plus an allocation for overhead’.

46 W. S. Jr Bowman, Restraint of trade by the Supreme Court: The Utah Pie Case, Yale Law Journal, Vol. 77,

1967, pp. 70-85.

47

Può risultare curiosa l’irrilevanza economica che avrebbero dovuto avere ai fini del caso talune osservazioni della Corte Suprema, quale ad esempio: «La Utah Pie Co. non è, tuttavia, una grande azienda. Al momento del processo, la Utah Pie Co. opera con solo 18 dipendenti, nove dei quali sono membri della famiglia Rigby». Utah Pie Co. v. Continental Baking Co., 386 U.S. 685 (1967). Il favore per le piccole imprese a conduzione familiare è evidente.

(21)

essere meno competitivo, paradossalmente il risultato della sentenza fu di proteggere la posizione dominante di Utah Pie Co., costringendo i consumatori di Salt Lake City a pagare un prezzo più elevato.

Risulta evidente che l'applicazione della legge antitrust, in questo caso, è essenzialmente diretta a proteggere le imprese di piccole dimensioni dalla maggiore competitività delle imprese più grandi. Una discriminazione di prezzo operata, quindi, da grandi imprese presenti sull’intero territorio nazionale capace di generare un ‘danno’ alle imprese rivali locali ed accompagnata da un intento predatorio era formalmente illegale per sé. La Corte Suprema riconferma, quindi, l’applicazione della per sé rule, ovvero il criterio secondo cui erano sufficienti alcuni elementi formali al fine di statuire su un determinato caso, per le strategie di di predatory pricing, così come già era stato stabilito nel 1911 nel caso Standard Oil.

All’indomani dell’approvazione dello Sherman Act furono varate due nuove leggi federali in materia di concorrenza, il Clayton Act ed il Federal Commission Act, attraverso cui non solo venivano vietate tutte le discriminazioni di prezzo, ma venivano anche istituite vere e proprie autorità indipendenti con ampi poteri investigativi e di controllo sulle pratiche sleali capaci di minacciare la libera concorrenza. Nel 1916 con lo Shipping

Act fu vietato l’uso dei prezzi predatori attuato dalle ‘conferences’ marittime.

Tuttavia, durante la Grande Depressione, il forte impulso che fu dato a inizio secolo alla normativa antitrust conobbe una battuta d’arresto, sino a giungere ad una parziale sospensione di talune norme volte a tutelare e garantire il corretto funzionamento del gioco concorrenziale. Solo a partire dalla seconda metà degli anni ’30 il diritto antitrust si riapprioprò dell’importanza centrale che aveva avuto a inizio secolo. Mentre in ambito federale fu adottata una nuova norma, il Robinson-Patman Act, che modificava ed integrava il Clayton Act, negli Stati federati, ad opera della National Association of Retail

Druggist ed altre associazioni di categoria, nascevano legislazioni volte a vietare la

concorrenza sleale, che, seppur di natura privatistica, erano contraddistinte da una forte caratterizzazione antimonopolistica e regolatoria.

(22)

I gruppi di pressione volti a promuovere e proteggere le piccole imprese dalle grandi imprese nazionali e l’approccio strutturalista alla normativa antitrust portarono i giudici ad utilizzare le norme antimonopolistiche in chiave essenzialmente protezionista. Tale atteggiamento risulta particolarmente chiaro nella sentenza Utah Pie, in cui la Corte condannò tre grandi imprese operanti sull’intero territorio nazionale, nonostante esse non fossero in posizione di dominio del mercato, l’evidenza che l’impresa vittima della presunta pratica predatoria aveva incrementato i suoi profitti restando comunque in posizione di dominio, e che i clienti ottennero benefici grazie alla presunta predazione, che in realtà pareva essere solo una feroce concorrenza. Determinati comportamenti delle imprese, quindi, venivano considerati illeciti di per sé, senza alcuna valutazione sugli effetti che potessero avere. La per sé rule viene confermata dalla Corte Suprema quale criterio da applicare ai comportamenti predatori e a tutti quei comportamenti escludenti che hanno come modello e paradigma il predatory pricing.

3.3 Dal diritto dei concorrenti al diritto della

concorrenza: gli anni ’80 ed il prezzo

predatorio

La teoria strutturalista e l’uso protezionistico delle norme antitrust occupano la scena politico-economica statunitense sino alla metà degli anni ’60, in cui si assiste ad una progressiva espansione dei mercati geografici che ha portato all’innalzamento della soglia dimensionale delle imprese in grado di concorrere efficacemente sul mercato e all’adozione di nuove tecniche di organizzazione aziendale e di tecnologie atte a garantire miglioramenti qualitativi e risparmi di costo, attraverso forme di concentrazione e integrazione che, secondo la visione strutturalista, andavano contrastate. Cominciava, ormai, ad apparire evidente il maggior grado di efficienza che poteva essere raggiunto grazie alle economie di scala e i benefici che potevano ottenere i consumatori da un corretto funzionamento del gioco concorrenziale.

(23)

Negli anni ‘60 negli U.S.A. si sviluppato il pensiero economico e giuridico della Scuola di Chicago, destinato ad influire notevolmente sulla scelta delle finalità e dei criteri di attuazione della legislazione antitrust.

L’approccio ‘chicagoniano’ si fonda su due presupposti:

 la teoria dei prezzi neoclassica rappresenta il sistema più efficace per realizzare la massimizzazione dell’efficienza economica;

l’efficienza economica deve costituire l’obiettivo esclusivo della politica antitrust. La teoria dei prezzi neoclassica assume che le imprese tengono condotte razionalmente preordinate alla massimizzazione dei profitti, in un mercato capace di mettere in atto meccanismi autocorrettivi di eventuali imperfezioni. La Scuola di Chicago manifesta, in altri termini, una fiducia pressoché incondizionata nella capacità della concorrenza, quale libero operare delle forze di mercato, di generare un risultato comunque efficiente, in contrapposizione all’intrinseca inefficienza dell’intervento pubblico48. Da tali premesse discende che non necessariamente può ravvisarsi una correlazione positiva tra struttura di mercato e potere di mercato, posto che un elevato grado di concentrazione del mercato può essere la risultante di una maggiore efficienza, ovvero profittabilità, di alcune imprese rispetto ad altri operatori nell’ambito della medesima industria. Tale concentrazione non dovrebbe, pertanto, essere contrastata dalla politica

antitrust, in quanto risultato del pieno funzionamento della dinamica concorrenziale da

cui emerge una configurazione di mercato più efficiente.

L’approccio della Scuola di Chicago, fondato sulla consapevolezza di un possibile trade

off tra effetti negativi in termini anticoncorrenziali ed effetti positivi in termini di

incremento di efficienza, sostiene il dovere di astensione dall’intervento da parte delle autorità antitrust ogniqualvolta i benefici attribuibili alla maggiore efficienza siano tali da

48

A partire dagli anni ’50, taluni economisti avevano evidenziato che l’intervento dello Stato portava ad una effettiva incongruenza tra obiettivi perseguiti e risultati raggiunti. In particolare, tale considerazione si fondava sulla constatazione che in molti Paesi industriali la regolazione delle attività economiche era stata eccessiva rispetto alle reali esigenze, determinando una proliferazione di norme talvolta confliggenti. È sul presupposto del fallimento della regolazione che si iniziarono, dunque, a ricercare nuove forme di autoregolamentazione idonee ad escludere le ingerenze dall’esterno.

(24)

compensare i potenziali effetti anticoncorrenziali dell’operazione. Siffatta valutazione si fonda sull’applicazione della rule of reason, in base alla quale le imprese sono tenute a dimostrare che le condotte contestate sono giustificabili in termini di razionalità economica mentre le autorità antitrust sono vincolate a provare l’anticoncorrenzialità indipendentemente dagli aspetti legali delle pratiche contestate.

Le nuove teorie hanno profondamente influenzato gli orientamenti della giurisprudenza statunitense e dell’autorità governativa antitrust, le quali, a partire dalla metà degli anni ’70, hanno assunto un atteggiamento più tollerante verso operazioni precedentemente considerate illegali sul presupposto di determinate caratteristiche formali, abbandonando così il criterio della per sé rule; in altre parole, il diritto antitrust assume una ‘nuova’ funzione, ovvero quella di garantire l’efficienza economica, restituendo alle norme antimonopolistiche il loro valore di diritto della concorrenza e non un loro improprio utilizzo a fini protezionistici, costringendo il giudice statunitense a tracciare una nuova linea di confine tra concorrenza illecita e concorrenza ‘on the merits’.

In tema di prezzi predatori, quale pratica anticoncorrenzile, i giudici, da un lato, abbandonarono lo stagnante criterio della per sé rule e, dall’altro, cominciarono ad apparire nelle loro sentenze argomenti derivanti direttamente dalla dottrina economica49, al fine di distinguere le condotte unilaterali benigne da quelle indebitamente escludenti.

Tuttavia, sebbene il dibattito teorico della Scuola di Chicago si aprì nel `58, con l’argomentazione di McGee secondo cui la strategia di prezzo predatorio una strategia irrazionale e quindi di nessun interesse per le norme antitrust, tale dibattito non ebbe effetti rilevanti sul comportamento degli organi giudicanti degli Stati Uniti per un significativo lasso di tempo. Le Corti continuarono ad avere un atteggiamento abbastanza rigido per quanto riguarda le politiche di abbassamento dei prezzi da parte delle imprese dominanti50, senza però che emergesse un criterio di giudizio unico51. Solo

49 Si ricordi che il primo più grande apporto in materia di politiche della concorrenza attribuibile alla Scuola

di Chicago fu proprio quello sulla questione dei prezzi predatori. Si veda Infra paragrafo 2.2.

50

Eppure le Corti non erano estranee alle strategie di predatory pricing: uno studio di Koller ha individuato, nel periodo che intercorre fra lo Sherman Act ed il 1969, 75 casi in cui un’impresa stata

(25)

a partire dal 1975, quando apparve l’importante contributo di Areeda–Turner volto a fornire un preciso punto di riferimento per l’approccio legale ai prezzi predatori, le Corti mostrarono di utilizzare in modo sempre più consistente criteri e argomentazioni formulate dalle scienze economiche con il risultato di rendere molto più difficile, rispetto al passato, una condanna per predatory pricing.

3.3.1 (Segue). Il caso Matsushita

Il primo caso giudiziario relativo alla strategia escludente di prezzo predatorio in cui il ‘nuovo’ approccio al diritto antitrust è stato pienamente recepito dalla Corte federale degli U.S.A. è il caso Matsushita52.

Nel novembre 1985 alcune imprese statunitensi del settore dell’elettronica, produttrici prevalentemente televisori, presentarono un ricorso alla Corte Suprema accusando 21 imprese giapponesi operanti nello stesso settore del mercato statunitense di aver tentato di restringere la concorrenza attreverso l’uso strategico di predatory pricing. Secondo le imprese nordamericane i concorrenti giapponesi avevano venduto per più di vent’anni, dagli anni ’60 ai primi anni ’80, i propri apparecchi televisivi nel mercato nordamericano a prezzi sottocosto, con lo scopo di estromettere i competitors statunitensi ed aumentare le proprie quote di mercato. Le imprese nordamericane sostenevano inoltre che i rivali nipponici al fine di poter sopportare le perdite derivanti dalla vendita nel mercato statunitense mantenevano un alto livello di prezzi dei propri prodotti nel mercato giapponese.

La Corte Suprema, mostrando di aver recepito appieno il nuovo orientamento delle politiche antitrust e di essere sensibile al possibile contributo che offriva la più recente

accusata dalle Corti statunitensi di praticare prezzi predatori. R. Koller, The myth of predatory pricing: an

empirical study, Antitrust Law and Economics Review, 1971, pp. 105 ss.

51 Per una trattazione dettagliata circa i motivi che portarono il potere giudiziario statunitense a non

prendere immediatamente in considerazione le nuove teorie economiche in tema di predatory pricing si veda: N. Giocoli, When low is no good: predatory pricing and U.S. antitrust law (1950-1980), The European Journal of the History of Economic Thought, Vol. 18, Num. 5, 2011, pp. 777-806.

52

Matsushita v. Zenith Ratio Corp. 475 U.S. 574 (1986). Per un’analisi critica della sentenza si veda: K. G. Elzinga, Collusive Predation: Matsushita v. Zenith, in J. E. Kwoka, L. J. White, The Antitrust Revolution, Herper Collins, 1994, pp. 220-238.

(26)

letteratura economica in materia di predatory pricing, giunse alla conclusione secondo cui i prezzi particolarmente bassi praticati dalle imprese giapponesi non potevano essere considerati come prezzi predatori, avviando, con gli argomenti addotti nella propria decisione, l’opera di delimitazione del raggio d’azione dell’antitrust in tema di politiche di prezzo e focalizzando l’attenzione sulla possibilità del predatore di recuperare le perdite sofferte durante l’attuazione della strategia escludente.

Il giudice, infatti, citando gli articoli di R. Bork53 e J. S. McGee54, precisava nella sentenza che «le perdite subite durante la fase di predazione possono essere considerate un’investimento per il futuro. Affinch tale investimento sia razionale, il predatore deve avere una ragionevole aspettativa di recuperare, sotto forma di profitti monopolistici durante la successiva fase, somme superiori a quelle perse». Alla luce di tale precisazione, la Corte Suprema ha accertato l’impossibilità da parte delle imprese giapponesi di recuperare le perdite subite, utilizzando propriamente strumenti di analisi economica. In primo luogo, la Corte Suprema ha constatato l’ingente quantità di perdite alla quale avrebbe portato la strategia predatoria che si era protratta per più di vent’anni, in secondo luogo, ha affermato che essendo il mercato elettronico privo di sostanziali barriere all’entrata, anche nel momento in cui i competitors giapponesi avessero raggiunto una posizione di monopolio, l’aumento dei prezzi avrebbe attirato sul mercato nuove imprese che le avrebbero impedito di recuperare le perdite sostenute55, ed infine ha considerato l’aumento delle quote di mercato delle imprese giapponesi, passate dal 40% negli anni ’60 al 50% alla fine degli anni ’70, come insufficienti per generare rendite prossime a quelle di monopolio. Si rendeva necessario, quindi, con il fine di dimostrare la predatorietà di un ribasso dei prezzi, comprovare la possibilità per il presunto predatore di recuperare le perdite.

53

R. H. Bork, The Antitrust Paradox, New York, Free Press, 1978.

54

J. S. McGee, Predatory Pricing Revisited, in J. L. & Econ., Vol. 23, 1980, p. 289.

55 In tale valutazione la Corte Suprema cita un’opera di Easterbrook (F. H. Easterbrook, Limits of Antitrust,

Texas Law Review, Vol. 63, Num. 1, 1984, pp. 1 ss.) nella quale l’autore individua il mercato elettronico come un mercato privo di barriere all’entrata, mostrando ancora una volta di conoscere i recenti sviluppi economici sul tema di prezzi predatori.

(27)

In tale prima parte della sentenza il tribunale manifestava di abbracciare la teoria del ‘two-stage approach’ proposta pochi anni prima da Joskow e Klevorick56 come metodo di preselezione per identificare la strategia di prezzo predatorio. Tale premessa metodologica si trasformerà nell’esperienza giudiziaria statunitense in un vero e proprio criterio formale di preselezione diretto a sbarrare sul nascere le domande che, dietro le mentite spoglie della denucia di una pratica anticoncorrenziale, mirano ad ottenere uno scudo giudiziario dietro cui proteggersi dai rigori del percorso selettivo che la concorrenza muove.

L’utilizzo da parte delle Corti statunitensi del recoupment test riflette un raggiunto accordo di massima intorno a due fondamentali premesse. Primo, la monopolizzazione non interessa per sé, ma per gli effetti cui da luogo, in altre parole, l’esclusione del rivale solo un momento mediato d’interesse per l’antitrust, che non ha cura delle sorti private dell’imprenditore, ma solo delle sorti del mercato57. Secondo, in una materia in cui è tanto labile il confine tra lecito ed illecito l’ordinamento deve rafforzare le proprie difese interne contro l’uso distorto del diritto della concorrenza.

Infine la Corte, dopo aver ammesso, allineandosi con la dottrina economica di stampo

chicagoniano, che i prezzi predatori sono rari e ancor più rara è la riuscita della relativa

strategia predatoria, riconosceva i prezzi predatori come prezzi al di sotto di una qualche misura di costo. Tuttavia, sebbene consapevole dell’acceso dibattito in seno alle scienze economiche sulla misura di costo più adeguata da confrontare con il prezzo praticato al fine di identificare il predatory pricing, evitava di offrire una soluzione al problema indicando la misura di costo che prenderebbe in considerazione, nascondendosi dietro l’affermazione secondo cui nel caso in questione «l’evidenza delle vendite sottocosto ha scarso valore probatorio in comparazione all’analisi economica *circa l’irrazionalità del comportamento]».

56 P. L. Joskow, A. Klevorick, A Framework for Analyzing Predatory Pricing Policy, Yale Law Journal, Vol. 89,

1979.

57

È proprio l’utilizzo del recoupment test da parte delle corti nordamericane l’elemento discriminante che definisce il diritto antitrust statunitense come diritto della concorrenza e non diritto dei concorrenti.

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