• Non ci sono risultati.

Luoghi della memoria e memoria dei luoghi in Memoir di John McGahern

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Luoghi della memoria e memoria dei luoghi in Memoir di John McGahern"

Copied!
32
0
0

Testo completo

(1)

CAPITOLO SESTO

Luoghi della memoria e memoria dei luoghi in Memoir di John McGahern

A human life, I think, should be well rooted in some spot of a native land, where it may get the love of tender kinship for the face of earth, for the labors men go forth to, for the sounds and accents that haunt it, for whatever will give that early home a familiar unmistakable difference amid the future widening of knowledge: a spot where the definiteness of early memories may be inwrought with affection, and kindly acquaintance with all neighbors […] may spread not by sentimental effort and reflection, but as a sweet habit of the blood.

G.ELIOT, Daniel Deronda, 1876

I was born here. Ireland.

J.JOYCE, Ulysses, 1922

Nell’introduzione al volume collettaneo Modern Irish Autobiography (2007) Liam Harte esordisce con la constatazione che in Irlanda si è di recente assistito a un vero e proprio successo del genere autobiografico1, un boom cui tuttavia non hanno corrisposto a livello nazionale studi teorici determinanti quanto quelli avviati altrove2, e soprattutto nei

1

Cfr. L. HARTE, «Introduction. Autobiography and the Irish Cultural Moment», in Id. (ed.),

Modern Irish Autobiography. Self, Nation and Society, Palgrave, London 2007, pp. 1-13, qui p. 1.

2

Non mancano tuttavia le eccezioni, tra le quali vale la pena segnalare: P.REILLY, «Irish Literary

Autobiography. The Goddesses That Poets Dream of», Éire-Ireland, 16(3), 1981, pp. 57-80; T. BROWN, «Literary Autobiography in the Twentieth-Century Ireland», in A. Martin (ed.), The

Genius of Irish Prose, Mercier, Cork 1985, pp. 89-98; S.DEANE, «Autobiography and Memoirs,

1890-1988», in Id. (ed.), Field Day Anthology of Irish Writing, Field Day, Derry 1991, vol. 3, pp. 380-560; R. FERRIEUX – P. AMIOT-JOUENNE – O. BOUCHER-RIVALAIN et al. (éds.), La

littérature autobiographique en Grande-Bretagne et en Irlande, Ellipses, Paris 2001;

E.GRUBGELD, Anglo-Irish Autobiography. Class, Gender, and the Forms of Narrative, Syracuse

UP, Syracuse-New York 2004; E. GRUBGELD, «Life Writing in the Twentieth Century», in J.W. Foster (ed.), The Cambridge Companion to the Irish Novel, Cambridge UP, Cambridge 2006,

pp. 223-37; C.LYNCH, Irish Autobiography. Stories of Self in the Narrative of a Nation, Peter Lang, Bern 2009.

(2)

Paesi anglosassoni, dove la virulenza del dibattito contemporaneo sulla scrittura del sé ha spesso implicato risposte eterogenee e di grande complessità.

Per questo il curatore della raccolta si propone di fornire, più che una risposta ai fattori

che hanno reso l’autobiografia materia di speculazioni teoretiche, una riflessione – suffragata da esemplificativi case studies – sulle ragioni per cui, specialmente negli

ultimi anni, tale genere ha assunto per molti scrittori irlandesi un rilievo perspicuo, trasformandosi a livello macro-individuale in fenomeno endemico e caratteristico della letteratura di quella che è stata da più parti ribattezzata con l’appellativo di «tigre celtica»3.

L’apogeo dell’autobiografia, specifica Harte, va innanzitutto compreso quale effetto di un articolato processo storico, che ha unito alla riflessione estetica considerazioni di matrice sociale e culturale, e ha innalzato l’interesse della critica a un livello teorico assai più propizio alla letteratura: la forma autobiografica, in questo senso, si è rivelata una pratica consonante con l’odierna temperie epocale perché congenitamente tesa – come abbiamo avuto più volte occasione di ribadire – al racconto di una storia che, individuando nel vissuto di un autore il proprio oggetto tematico, non può esentarsi dal ritrarre il paesaggio geografico e storico, e dunque il contesto, nel quale egli si situa.

Un contesto che la critica descrive come contrassegnato su vasta scala da una crisi del senso storico talmente acuta da svalutare la capacità della storiografia di ritrarre il passato nelle sue molteplici varianti, e da favorire allo stesso tempo la ricerca di nuovi generi cui poter consegnare il bilancio di vite che urgono di essere raccontate in quanto complemento essenziale delle versioni ufficiali della Storia.

Insieme all’accrescimento, rilevato da Lasch, delle tensioni narcisistiche verso le quali nei Paesi avanzati è proiettato il soggetto della contemporaneità4, è stata perciò la perdita di fiducia nelle ideologie moderne della conoscenza storica a suffragare il desiderio di ripercorrere quei sentieri che per mezzo della scrittura ricompongono il disegno

3

Va ricordato che tale appellativo – coniato da David McWilliams sul modello del termine con cui alla fine degli anni ’90 sono stati designati alcuni Paesi asiatici in forte via di sviluppo – designa propriamente il periodo, tra gli anni ’90 e i primi anni del 2000, durante il quale si assiste alla crescita economica che trasformerà la Repubblica d’Irlanda in una delle nazioni più ricche d’Europa.

4

Si veda quanto precedentemente discusso nella sezione introduttiva del cap. 3, dove emerge con evidenza come all’interno del quadro della contemporaneità il narcisismo – inteso nel senso conferitogli da Lasch – sia tutt’altro che irrelato alla crisi del senso storico. Per quanto concerne le tematiche qui affrontate, è da notare inoltre che in Irlanda l’indebolimento di un individualismo religioso storicamente radicato, che è esito di una progressiva laicizzazione e secolarizzazione della società, si qualifica come uno dei fattori determinanti per l’affermazione definitiva del genere autobiografico. Puntualizza Harte: «in an era of burgeoning narcissism and affluent secular individualism, personal stories that were once admitted only to partner or priest [are] now more likely to be committed to the page. In a culture of diminished faith and discredited clergy, the cathartic appeal of the confessional memoir would appear to have thoroughly eclipsed that of the confessional box» (L.HARTE, op. cit., pp. 1-2).

(3)

esistenziale dell’individuo e che sono spesso congiunti al destino di una nazione5

: «We no longer believe in objectivity; we don’t trust the history books to tell the story of ourselves, whether because it is too disturbing or merely too mundane», nota Claire Armistead, «[b]ut we are desperate for that story to be told, so we look for lives that intersect with the bits of history that affect us. The great power of the memoir is that, when it works, it […] touches a common humanity we sometimes fear no longer exists»6.

Nel percorso intrapreso da coloro che soddisfano il desiderio di raccontarsi facendo propri i paradigmi e le modalità discorsive della scrittura dell’io, è inoltre possibile osservare che la testualità autobiografica si segnala come un importante sito di costruzione identitaria, tramite cui lo scrivente esercita la propria volontà di reazione alle implicazioni di una cultura nei cui interstizi Armistead riscontra – con un evidente, per quanto implicito rimando alle teorizzazioni di Bhabha7 – il permanere di storie troppo a lungo taciute8.

Di questa marcata intenzionalità, promossa su più fronti dalle spinte convulsive del rinnovamento tutt’ora in atto all’interno della società irlandese9, si possono verificare gli

effetti lungo le pagine di numerose autobiografie, dove voci provenienti dai margini con frequenza sempre maggiore cercano nella scrittura un mezzo di edificazione, che

promuova il valore di un’esistenza anche al di fuori dei ristretti confini in cui quest’ultima è stata vissuta.

La narrazione autobiografica si fa in tal modo non solo potenzialmente, ma attualmente latrice di tragitti tematici più ampi, che l’analisi intrapresa nei precedenti capitoli ha già contribuito a mettere in luce:

[The] assertion of a personal narrative voice, which also speaks beyond itself, is a compelling means of cultural inscription. It is not just a matter of giving voice of grievance or setting the record straight. By situating personal accounts of pain and suffering within wider social and institutional contexts, these confessions critique larger cultural and political forces and so reconfigure the relations between self, nation and society in counter-hegemonic ways. […] such memoirs represent a damning critique of Ireland’s «architecture of containment», which functioned «to confine and render invisible segments of the population whose very existence threatened Ireland’s national imaginary». Yet, as George O’Brien observes […], they also «rehearse the possibility of recuperating the subject’s abjection and advance the desire for

5

Il connubio tra narrazione del sé e storia nazionale restituisce il significato profondo di una metamorfosi che ha coinciso con una più generale rivisitazione critica delle funzionalità del genere autobiografico. Su quest’ultimo punto si veda quanto sottolineato nel cap. 2, § 3. in merito al rapporto tra autobiografia e narrazione storica.

6

C.ARMISTEAD, «A Tale of Two Tribes» (2001), cit. in L. Harte, op. cit., p. 2. 7

Cfr. in proposito quanto precedentemente discusso al cap. 4, § 2 della presente dissertazione. 8

Cfr. L.HARTE, op. cit., p. 2. 9

Per un quadro sinottico dell’evoluzione della società irlandese a partire dalla fine dell’’800, rinviamo a D.KIBERD, «The Celtic Tiger. A Cultural History», in Id., The Irish Writer and the

(4)

social structures willing to integrate rather than segregate, to cherish rather than punish, to acknowledge individuality rather than dismiss it»10.

La produttività degli sviluppi narrativi suscitati dall’autobiografia, oltre a dipendere dagli itinerari (la resistenza al processo di assimilazione al sistema globalizzante che è stata segnalata tra le cause soggiacenti al narcisismo contemporaneo, lo scetticismo nei confronti della riflessione storiografica, la necessità di affermare e riscattare il proprio sé dalla marginalità) che vi confluiscono e di cui si è appena fatta menzione, è altresì passibile di collegamenti con alcune questioni che hanno indirizzato l’affermarsi di una tradizione autobiografica irlandese, e che storicamente hanno costituito lo stimolo, ci ricorda anche Said in riferimento alla capacità di molta letteratura contemporanea di ripensare la Storia secondo un’ottica geograficamente e culturalmente più comprensiva, per rivitalizzare il passato e trasformarlo in una nuova estetica di riformulazione condivisa11.

La questione, chiarisce Harte, può essere a questo punto illuminata da lati diversi, e secondo una serie di tendenze accomunate dalla reiterazione di temi che con particolare puntualità percorrono opere dalle fisionomie anche molto diverse tra loro: basti pensare all’influenza plasmante di un impulso identitario affermatosi fin dall’epoca coloniale, alla condizione marginale della donna, o ancora all’esperienza straniante degli emigrati

déracinés.

Una delle capacità di affabulazione tra le più notevoli è, per esempio, quella sollecitata dai racconti assimilabili all’alveo dell’intersezione della storia del soggetto con gli eventi che hanno plasmato lo spazio nazionale: eredi prossime delle strategie retoriche caratterizzanti le narrazioni del sé prodotte sulla scia del movimento nazionalista di fine ’800 – quando la traiettoria dell’autobiografia irlandese, puntualizza opportunamente Declan Kiberd, «was not so much an autobiography set in Ireland, as an autobiography of Ireland»12 –, molte delle odierne autobiografie si mostrano infatti orientate a esplorare e

10

L.HARTE, op. cit., p. 12. 11

Cfr. E. SAID, Orientalism. Western Conceptions of the Orient, Penguin, London 1995 [1978], p. 353.

12

D. KIBERD, «Yeats, Childhood and Exile», in P. Hyland – N. Sammels (eds.), Irish Writing.

Exile and Subversion, Macmillan, London 1991, pp. 126-45, qui p. 126. Corsivi nel testo. Sean

Ryder sintetizza così i caratteri delle autobiografie nazionaliste di questo periodo, molti dei quali poi permeati nella produzione memorialistica dei secoli successivi: «The nationalist autobiography […] serves multiple functions. In place of the discontinuities and fissures of actual history, it offers reassuring stories of order, continuity and completion. As historiography, it gives a first-hand and attractively vivid account of the nation’s history. As a narrative, it also provides a structure for understanding national history as a whole. The story of the individual hero becomes a synecdoche

for the history of the nation itself […]. […] Autobiography is […] precisely one of the ways by

which the ‹imagined communities› we call nations are constructed. It enables the national subject

to participate in a communal identity and to imagine that participation as a fulfilling thing»

(S. RYDER, «‹With a Heroic Life and a Governing Mind›. Nineteenth-Century Irish Nationalist Autobiography», in L. Harte, op. cit., pp. 15-31, qui pp. 16-17. Corsivi miei). Considerazioni affini

(5)

definire la crescita del protagonista in termini di valori comuni, coinvolgendo la discussione dell’influenza modellante della società sul suo percorso di vita13

.

Se d’altronde il passato – per rifarci a un concetto ampiamente dibattuto da Halbwachs – è l’esito di costrutti realizzati da un aggregato sociale, narrazioni come quelle

cui si è poc’anzi accennato possono essere vagliate in rapporto a esso e intese quali dispositivi deputati alla rievocazione delle esperienze fondative di una comunità nel suo complesso. Nelle suddette narrazioni il dato spaziale assume il ruolo di catalizzatore di una vera e propria etica del ricordo, poiché riattualizza il passato e la Storia nel quadro del presente14, in maniera tale da stabilire quelle connessioni che per Jan Assmann permettono di pervenire a un «senso di comunanza, legittimità, autorità e fiducia»15.

Nell’ottica prospettata da tali presupposti, e in specifico riferimento alla scrittura del sé praticata in Irlanda, è perciò evidente che nel quadro esistenziale tracciato da numerosi autobiografi gli spazi della nazione, nel ruolo di elementi agglutinanti di un patrimonio socialmente condiviso, vengono caricati di un potenziale semantico il cui accrescimento dipende, oltre che dai filtri emotivi dello scrivente, dall’ideologia, dalla storia e dall’immaginario di una comunità intera16.

La congiuntura sintomatica tra destino individuale e nazionale è in effetti uno dei tropi che le autobiografie ottocentesche hanno trasmesso a numerose autobiografie dei secoli successivi, dove è stata variamente riproposta la questione mai sopita del riscatto dal dominio coloniale e del reperimento di nuove vie d’accesso all’enunciazione non di un’unica, ma di tante soggettività. Chiarisce Gerry Smyth:

[The] protracted process of decolonization has had a profound impact on life throughout the island. In the years since the treaty it seemed that the different communities sharing Ireland could not, or did not wish to, shake off the legacy of the past. So traumatic was the rearrangement of relations with Great Britain, and so powerful the emotions and beliefs needed to negotiate those changes, that the revolutionary period maintained a hold on the Irish imagination long after 1922. As a consequence, the peculiar political formation of post-colonial a quelle di Ryder sono inoltre reperibili in E.HUGHES, «‹The Fact of Me-ness›. Autobiographical

Writing in the Revival Period», Irish University Review, 33(1), 2003, pp. 28-45. 13

Cfr. L.HARTE, op. cit., p. 3. 14

Per una trattazione circostanziata della questione, cfr. M.HALBWACHS, op. cit., pp. 135-62. 15

J. ASSMANN, La memoria culturale: scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà

antiche, tr. it. a cura di F. De Angelis, Einaudi, Torino 1997 [1992], p. 9.

16

Non si dimentichi del resto che la stratificazione di significati di cui si fa vettore il dato spaziale è caratteristica di gran parte della letteratura irlandese, dove l’importanza del legame con i luoghi di appartenenza ha da sempre rappresentato un mezzo attraverso il quale ribadire l’unicità e l’identità del popolo nativo, soprattutto nel momento in cui quest’ultimo ha dovuto confrontarsi con la destabilizzazione prodotta dall’emergere di fratture endemiche e ingerenze esogene. Benché tale legame si manifesti già in molte saghe e narrazioni mitologiche, critici quali Wilson Foster hanno fatto risalire al periodo coloniale il suo più vistoso sviluppo. Per un excursus sinottico sulla questione rinviamo a: J.W. FOSTER (ed.), Nature in Ireland. A Scientific and Cultural History, Lilliput, Dublin 1997.

(6)

Ireland […] is characterised by insecurity and a constant need for self-identification, conditions which are left over since colonial times17.

Il genere autobiografico si è confermato, in questi termini, un medium attraverso cui diffondere ai posteri la testimonianza generazionale di un’esperienza storica – quella appunto dell’egemonia britannica, protrattasi per quasi otto secoli – e attestare i modi in cui essa è stata metabolizzata negli assetti politici e sociali della nazione: un esempio, nel quadro di una disamina che potrebbe prevederne molti altri, proviene dalle opere di George Moore, Sean O’Casey e Brendan Behan, che Bernice Schrank ci descrive come «deeply embedded in […] the economic, political and cultural realities of Ireland from the late colonial period to the second half of the twentieth century»18.

In ognuna di queste autobiografie il telos narrativo, continua Schrank, va quindi rintracciato nella creazione «[of] multiple layers of perception in which the intricacies and improvisations of individual consciousness become inseparable from the political realities of power, oppression and the long dream of Irish independence. In other words, [these autobiographies] function simultaneously as individual life stories and as cultural narratives»19.

Il connubio tra sé, nazione e sostrato sociale è in realtà un elemento in buona misura epitomatico non soltanto delle autobiografie destinate alla perpetrazione di ideali che dapprima sono nati e si sono rafforzati allo scopo di affermare il principio fondante di identità e differenza rispetto ai colonizzatori britannici20, e che successivamente, con la conquista dell’indipendenza, sono stati interiorizzati fin tanto da imprimersi in modo permanente nelle coscienze irlandesi.

Si tratta piuttosto di un motivo che con palpabile rilevanza informa, per citare due soli casi tra i tanti possibili, le autobiografie femminili e quelle dei migranti, in cui lo spazio nazionale, nelle sue varie declinazioni, si carica di valenze che ne incentivano la

17

G. SMYTH, The Novel & the Nation. Studies in the New Irish Fiction, Pluto, London-Chicago 1997, pp. 3-4. Quello che Gerry Smyth definisce «l’imperativo identitario» è parte integrante dell’economia psicologica degli irlandesi (ivi, p. 4), che in molti, alla luce del passato coloniale della nazione, hanno opportunamente analizzato secondo prospettive attinte dai postcolonial

studies. Per un riscontro in materia cfr. D.LLOYD, Anomalous States. Irish Writing and the

Post-Colonial Moment, Duke UP, Durham 1993; D.KIBERD, Inventing Ireland. The Literature of the Modern Nation, Vintage, London 1996 [1995]; C. GRAHAM, Deconstructing Ireland. Identity,

Theory, Culture, Edinburgh UP, Edinburgh 2001;L.M.G.ARIAS, «Ireland», in J. McLeod (ed.), The Routledge Companion to Postcolonial Studies, Routledge, Oxford-New York 2007, pp.

108-19. 18

B. SHRANK, «Creating the Self, Recreating the Nation. The Politics of Irish Literary Autobiography from Moore to Behan», in L. Harte, op. cit., pp. 32-50, qui p. 33.

19

Ibidem. 20

(7)

trasfigurazione in «significante primario dei vari linguaggi ideologici e culturali»21 di cui è intrisa la storia del Paese.

In entrambi i casi la funzionalizzazione dello spazio è tanto manifesta, quanto

convergente con alcuni degli orientamenti precedentemente esaminati22. Da un lato, le donne adottano la narrazione autobiografica per dare voce a una soggettività

il cui autentico disvelarsi è espressione concreta del desiderio di eludere, mettendole in discussione, le figurazioni del sé femminile promosse da un’ottica maschilista e patriarcale, il tutto in vista di un cambiamento di paradigmi e di un effettivo

posizionamento all’interno di ambiti – quelli della vita sociale e nazionale – dai quali prima

la donna stessa era esclusa23.

Dall’altro, gli emigrati, e in special modo coloro che hanno eletto la Gran Bretagna a seconda patria, si appropriano della discorsività autobiografica perché vi rintracciano uno strumento utile più di altri alla messa in luce delle difficoltà che notoriamente scaturiscono dall’inserimento in un contesto antitetico, dove chi è costretto, in quanto outsider, a negoziare la propria identità per adattarsi alla nuova cultura, è stigmatizzato a causa del suo status di individuo marginale24.

L’autobiografia, per ognuno di questi soggetti, detiene in ultima istanza un ruolo formativo primario per la costruzione del sé, e lo fa in esplicita connessione con lo spazio sul cui sfondo le vicissitudini personali confluiscono nella vita collettiva. Lo si può facilmente evincere dai memoirs (è il caso questo di Are You Somebody? [1996] di Nuala O’Faolain’s, 44: Dublin Made Me [1999] di Peter Sheridan e A Dublin Girl. Growing Up

in the 1930s [1999] di Elaine Crowley) che commentano i recenti effetti della

globalizzazione mostrando in quale modo essa abbia influito sulla metamorfosi dello spazio cittadino, e di conseguenza sugli stessi processi della memoria individuale,

21

A. BINELLI, Semiologia dello spazio in letteratura: il caso del romanzo irlandese

contemporaneo, tesi di dottorato, Università di Pisa, Pisa 2001, p. 114.

22

Per approfondimenti rinviamo in special modo al cap. 4 della presente dissertazione, dove sono stati discussi alcuni dei più rilevanti tropi tematici delle autobiografie appartenenti alle categorie qui menzionate.

23

L’Irlanda ha da sempre coltivato l’iconografia, già presente nella cultura gaelica, che in epoca coloniale aveva fatto corrispondere alla nazione l’immagine della donna per sottolinearne metaforicamente la sottomissione alla politica dell’Inghilterra, allegorizzata invece come figura maschile. Con la decolonizzazione, precisa Smyth, «[Ireland] attempted to deny its representation as “an essentially feminine race” by reconfiguring the national division of the sexes along specific (unequal) lines. Thus, the Irish male was constructed as active, a fighter and earner, occupying the public and political realm outside the home; the Irish woman was passive, a nurturer, mainstay of the family, bastion of the domestic realm of home and hearth» (G.SMYTH, op. cit., pp. 55-56). Sull’argomento si veda inoltre C. NASH, «Remapping the Body/Land. New Cartographies of

Identity, Gender, and Landscape in Ireland», in A. Blunt – G. Rose, op. cit., pp. 227-50. 24

Cfr. L.HARTE, op. cit., p. 9. Si veda inoltre quanto più dettagliatamente descrittoci da Harte in «‹Loss, Return, and Restitution›. Autobiography and Irish Diasporic Subjectivity», in L. Harte, op.

(8)

chiamata a rielaborarne l’immagine per comprendere «what is being lost and how identities are being reshaped»25.

Perfino nelle narrazioni in cui è più propriamente l’intricato lavoro della reminiscenza a trovare un congeniale luogo di argomentazione (si pensi stavolta a The Star Factory [1997] di Ciaran Carson, Irish Nocturnes [1999] di Chris Arthur, o ancora a Time Tracks [2003] di Michael Cronin), tale binomio non cessa di riproporsi. Nel racconto delle proprie esperienze gli autobiografi contemporanei propendono, anzi, per una sorta di articolazione dialogica dei significati conferibili al dato spaziale, e combinano lo spazio simbolico con uno spazio geograficamente preciso, che contestualizza la dimensione simbolica in un

milieu definito sotto il profilo sociale e culturale.

Come già riscontrato a proposito di Lively, non è un dettaglio trascurabile che in un numero elevato di autobiografie il sé venga tradotto

as the performative subject of space, showing how identities and social relations are defined not only by the palimpsestic accretions of time, but also by a spatialised landscape of mundane objects and activities. Each of these texts traces the local habitations of memory, reading its sinuous character analogically in so many edifices and artefacts that the narrators emerge as versions of Lévi-Strauss’s bricoleur, who «“speaks” not only with things […], but also through the medium of things: giving an account of his personality and life by the choices he makes between the limited possibilities»26.

La stretta mediazione dello spazio intimo con lo spazio nazionale, nella quale Harte individua il fil rouge della memorialistica irlandese, costituisce la premessa fondamentale che ci permetterà di riflettere in modo approfondito sulle modalità grazie alle quali uno dei massimi scrittori contemporanei d’Irlanda, John McGahern (1934-2006), ha rappresentato le proprie geografie esistenziali nell’opera da lui intitolata Memoir (2005).

Se si focalizza l’attenzione nell’ambito dell’autobiografia di McGahern, i riscontri finora eseguiti trovano infatti una sostanziale conferma dalla verifica del ruolo che lo spazio vi riveste. Memoir è in tal senso un’esemplificazione decisiva, efficace delle attuali forme di (ri)scrittura dello spazio e di alcune delle principali vettorialità tematiche indagate da Harte.

In primo luogo, il nesso tra componente topologica e sfera privata che qui si realizza è operante nel vissuto dell’autore per motivi di carattere socio-culturale, gli stessi tra l’altro che consentono di ricondurre l’opera a una casistica più ampia, e al contempo più

25

A. KINCAID, «Memory and the City. Urban Renewal and Literary Memoirs in Contemporary

Dublin», College Literature, 32(2), 2005, pp. 16-42, qui p. 28. Il carattere preminente di questo tipo di autobiografie viene rintracciato nell’ideologia «that reinforces the line between an undeveloped and limiting past and a bright and less nationalist present, and the other that nostalgically remembers a premodernized history of communalism and affection bred from intimate geography» (ivi, p. 30).

26

(9)

circoscritta, rispetto a quella cui può essere rapportata l’autobiografia di Lively della quale si è parlato nel precedente capitolo: pur non costituendosi come esempio isolato nel suo genere, l’opera di McGahern appare infatti più difficilmente riconducibile a un chiaro filone autobiografico per il suo carattere sincretistico, a metà strada tra il saggio e il racconto personale.

Rispetto a quella di Lively, il memoir di McGahern rientra ipso facto tra i testi parametrizzati su costanti tematiche, strutturali e ideologiche meglio definiti, che secondo critici quali il già citato Harte ed Elizabeth Grubgeld rinviano alle scaturigini stesse della letteratura memorialistica irlandese nell’interazione tra il microcosmo soggettivo (il mondo privato dell’individuo, quello dell’intimismo domestico e dell’ambito degli affetti) e il macrocosmo nazionale, di cui il primo si manifesta quale evidente riflesso27.

Avallando le posizioni di Grubgeld, che ha condotto uno studio contenutistico del tematismo presente nelle autobiografie anglo-irlandesi per molti versi complementare a quello di Harte, possiamo rilevare nello specifico che:

As members of a depleted colonial class, Anglo-Irish autobiographers draw from their family histories a sense of continuity and dissolution, influence and irrelevance, identity and nothingness. They rail against their own class, and they defend its attitudes and actions; they assert their place within an Irish nation, and they question its legitimacy. […] Autobiographical self-representations exist in a mutually influential relationship with the conversation, politics, private writings, and even architecture, material culture, and domestic practices of a society. Through culturally mandated tropes of genealogical preoccupation, loss of property, a vanished utopian childhood, and a degenerative view of history, the autobiographers of Anglo-Ireland situate their life stories within what most see as the story of their culture28.

Il nesso con lo spazio (al termine «spazio», come si può intuire dalla discussione qui condotta, viene attribuito il valore di parola “ombrello”, con la quale sono allo stesso tempo designabili lo spazio della nazione e della società, così pure come i luoghi e i paesaggi implicati dall’individuo nella costruzione del proprio universo affettivo) che ha marcato il percorso esistenziale di McGahern e che, come vedremo, ha contribuito a fondarne l’immaginario, rivela in secondo luogo la propria decisiva operatività perché dipendente dall’intenzione stessa dell’autore, il quale elabora le semantiche spaziali mutuate dalla propria cultura per poi intersecarle con quelle dell’interiorità, generando così un impianto mitopoietico del tutto originale.

27

Alcune delle costanti tematiche che percorrono il macrotesto di McGahern saranno riprese e

approfondite nelle pagine che seguono. Per un riscontro in materia rinviamo per il momento a D. SAMPSON, «Introducing John McGahern», The Canadian Journal of Irish Studies, 17(1), 1991,

pp. 1-11 e a B. HUGHES, «Remembered Light. Constants in the Fiction of John McGahern»,

Revista Alicantina de Estudios Ingleses, 5, 1992, pp. 93-105.

28

(10)

Ciò risulta interessante soprattutto alla luce della considerazione che tutta l’opera di McGahern è in larga misura circoscritta agli spazi da lui vissuti e osservati in prima persona, in aderenza a un progetto estetico in base al quale il vero senso dell’arte si sostanzierebbe nella creazione di un universo dove vengono fatte rivivere le immagini depositarie dei significati più profondi dell’esistenza di chi le ha percepite.

In quella che viene spesso invocata dalla critica come una palese dichiarazione di poetica, McGahern afferma:

When I reflect on the image two things from which it cannot be separated come: the rhythm and the vision. The vision, that still and private universe which each of us possess but which

others cannot see, is brought to life in rhythm, and by rhythm I think of the dynamic quality of the vision, its instinctive, its individual movements; and this struggles toward the single image,

the image on which our whole life took its most complete expression once, in a kind of grave, grave of the images of dead passions and their days. For art is, out of the failure of love, an attempt to create a world in which we can live: if not for long or forever, it is still a world of the imagination over which we can reign, and to reign is to purely reflect on our situation through this created world of ours […]. Image after image flows involuntarily now, and still we are not at peace, […] straining towards the one image that will never come, the lost image that gave our lives expression […]. It is here, in this search for the single image, that the long and complicated journey of art betrays the simple religious nature of its activity: and here, as well, it most sharply separates itself from formal religion. Religion, in return for the imitation of formal pattern, promises us the eternal Kingdom. The Muse, under whose whim we reign, in return for a lifetime of availability, may grant us the absurd crown of style, the “revelation” in language of this private and unique world each of us possess […]29

.

Da qui discende il carattere fortemente autobiografico di pressoché tutta la produzione letteraria di McGahern – iniziando da The Barracks (1963) e The Dark (1965), per passare a The Leavetaking (1974) e The Pornographer (1980), per proseguire fino alle raccolte di narrativa breve e agli ultimi due romanzi, Amongst Women (1990) e That They May Face

the Rising Sun (2002) – che si prospetta come una sorta di universo tematico senza

frontiere, dove il materiale attinto dalla vita forgia, nella loro raffigurazione embrionale, i personaggi, le situazioni, l’ambientazione e persino il linguaggio di romanzi e racconti. (Tutto ciò nonostante il progetto narrativo dello scrittore sia quello, più volte ribadito, di conferire a tutte le sue storie una portata universale, così da permettere di identificare in

29

J.MCGAHERN, «The Image. Prologue to a Reading at the Rockfeller University [1968]», in Id., Love of the World, Faber & Faber, London 2009, pp. 5-6. Corsivi miei. «I would think that I write

out of my private or spiritual world», conferma McGahern facendo eco alle posizioni intrattenute nell’intervento sopra indicato, «I would see my business as to get my words right and I think that if you get your words right you will reflect everything that the particular form you’re writing is capable of reflecting» (intervista a John McGahern, cit. in E.MAHER, John McGahern. From the

(11)

esse il correlativo dell’esperienza di una comunità in senso lato, anziché la mera trasposizione di circostanze e luoghi famigliari)30.

Senza scadere in facili psicologismi o indugiare troppo a lungo sul truismo secondo cui le opere letterarie, quale che sia il loro genere di afferenza, tendono in molti casi a manifestare un qualche grado di autobiografismo, e sono per questo propense allo svelamento di un mondo e della soggettività che lo rappresenta, è a questo punto impossibile non constatare come nel macrotesto di McGahern la qualità del rapporto da lui intrattenuto con il proprio mondo – gli spazi, i paesaggi, i luoghi della terra natìa – costituisca un tratto irrinunciabile, che alimenta e modula le configurazioni di tutta la sua produzione artistica.

Non mancano naturalmente raccordi teorici sull’argomento. Dalle riflessioni di Eamon Maher, il cui saggio risulta essere a tutt’oggi uno dei contributi più aggiornati su McGahern, emerge con chiarezza come i luoghi che sono stati teatro della vita dell’autore non abbiano nel suo macrotesto una funzione soltanto esornativa, ma siano invece subordinati a un simbolismo di più ampio respiro, che trova nutrimento nella profonda conoscenza dei luoghi e in un altrettanto profondo sense of place: «When we read [the author’s] books and short stories, we are transported back in time to a rural Ireland that is very close to extinction, an Ireland where people worked the land in a way that moulded their character. […] Nature – with her trees whose leaves produce sounds that speak intimately to our souls, with her animals, lakes, sea, land – is a major character in most of McGahern’s writings. He writes about the things and the people that he knows best»31

. L’importanza del dettaglio topologico nella narrativa di McGahern ha quindi permesso di riscontrare che i testi dell’autore sono costruiti per mezzo di una serie di elementi ricorrenti e significativi sul piano dello spazio, il grado di risonanza dei quali è reso esplicito sia in termini di stile e di sintassi narrativa, sia in termini più genericamente

30

Cfr. ivi, p. 5. Il movimento che definisce il progetto narrativo di McGahern, quantunque non disconosca il valore della sfera soggettiva dell’esistenza, che viene anzi riconfermata quale fonte e materia di ispirazione primaria, prevede, come nel caso di Lively (si veda in merito quanto riscontrato nel cap. 5 della presente dissertazione), il passaggio da una dimensione localistica e privata a una dimensione collettiva, nella quale poter riconoscere «the practices, speech, joys and sorrows of the people with whom [the author] grew up so that there might be a chronicle available for the generations to come» (ibidem). Nel corso di una lezione inaugurale tenutasi nel 2004 a Listowel in Irlanda, lo scrittore dichiara infatti: «Everything interesting begins with one person in one place, though the places can become many, and many persons in the form of influences will have gone into the making of that single woman or man. No one comes out of nowhere; one room or town or locality can be made into an everywhere. The universal is the local, but with the walls taken way. Out of the particular we come on what is general, which is our great comfort, since we call it truth, and that truth has to be continually renewed. What is general and true has to be found again. If we resort to what is already general in this quest, all we are likely to find is the stale air of the imitative» (J.MCGAHERN, «The Local and the Universal», in Id., Love of the World, Faber & Faber, London 2009, p. 11).

31

(12)

ermeneutici, dal momento in cui si assume che essi consentano una lettura approfondita e un’interpretazione dei personaggi e delle vicende sui quali si innesta l’impianto narrativo.

La questione è stata affrontata in termini generali da Denis Sampson, che dall’individuazione delle collazioni e sovrapposizioni tra le opere di McGahern ha appurato la solidarietà interna del suo macrotesto:

It is clear that the intimate knowledge of a known place and time, Roscommon-Leitrim of the forties, fifties and sixties, and Dublin of the fifties and sixties, is the material of McGahern’s art. And from ethos to vivid and raw details […]. His style is rooted in this material and, especially, in the immanence in ordinary life of violence, sex, death and mystery, and, hence, both visceral and mystical elements are woven into a style which seems intimate and confessional. The accuracy of his images reflects an intimacy which is rooted in personal experience […]. [McGahern] lives in the world of everyday experience, and that experience is of rural Ireland through the decades of this century. In fact, if we take all of his novels and stories as a whole, and reassign the parts into a chronological sequence, there is no better record of the inner and outer stresses to which a rural Irish family was subject over a period of more than two generations. While McGahern has seemed to concentrate only on personal and domestic concerns, he has cunningly and obliquely been the Balzac of Roscommon-Leitrim, following the evolution of a community through the focus of one family, although the name sometimes varies32.

È esattamente in connessione a questo livello di solidarietà – tanto spesso ribadito da poter essere ormai annoverato tra le evidenze – e soprattutto ai riscontri effettuati dalla critica sulla coerenza della produzione di McGahern33, che il movente spaziale può divenire oggetto di approfondita analisi per quanto concerne l’autobiografia dello scrittore.

Con precipuo riferimento alle discussioni cui è andato ricollegandosi in modo regolare lo studio fin qui condotto sul ruolo rivestito dallo spazio nella rappresentazione dell’esperienza soggettiva, sarà perciò possibile mettere a fuoco alcuni dei dati spaziali presenti in Memoir, al fine di indagarne il rapporto con il costituirsi dell’identità dell’autore, e arrivare a definirne tanto la funzione, quanto il significato di volta in volta assunto all’interno del tessuto narrativo.

Unica autobiografia di una produzione letteraria votata in prevalenza alla forma romanzesca, nonché ultima opera intervenuta a suggellare la fama di John McGahern,

Memoir si mostra contrassegnata ab origine dalla natura patentemente ortgebunden dei

32

D. SAMPSON, op. cit., p. 5.

33

Non è possibile in questa sede fare riferimento alla densa bibliografia che esiste sul macrotesto narrativo di McGahern. Come alternativa alla segnalazione degli interventi che più hanno ribadito la costitutiva omogeneità di tale corpus in termini sia tematici che stilistici, si può rimandare agli essenziali ed efficaci riscontri effettuati nei saggi dei numeri monografici che la Irish University

Review e il Journal of the Short Story in English hanno dedicato a McGahern, rispettivamente nel

(13)

propri contenuti34, che, sulla scorta di quanto poc’anzi sottolineato in merito alla produzione dell’autore, non tralasciano di segnalare il rapporto vincolante di quest’ultimo con i luoghi e i paesaggi della sua biografia.

Nell’ottica sin qui esperita, il peso di tale rapporto nell’economia globale della narrazione va imputato all’intervento di due principali fattori: da una parte, come abbiamo già suggerito, il valore paradigmatico di cui vengono investiti i luoghi si spiega con

l’interiorizzazione del retaggio culturale e letterario nativo, tradizionalmente orientato (si pensi alle scaturigini stesse della letteratura irlandese, e a come gli orizzonti mitici

dell’antica poesia gaelica abbiano trovato nutrimento nella suggestione dei luoghi)35 a enfatizzare l’esemplarità del legame dell’individuo con la terra d’origine; dall’altra, esso si ricollega all’intima e profonda corrispondenza avvertita da McGahern nei confronti delle topografie che, proprio perché sperimentate personalmente, hanno costituito un riferimento continuo nel corso della vita, con il quale poter confrontare ogni altra esperienza36.

Come ben evidenzia Lando in relazione a questo secondo punto, infatti, «[i]l legame con un preciso luogo dà a ciascuna persona la sicurezza della propria unicità, permettendogli di apprezzare alcune delle sorgenti da cui scaturisce la sua vita: l’esser radicati in un particolar luogo, in un particolare momento, influenza chiaramente la vita di una persona, ne incoraggia la crescita e lo sviluppo, fornendogli una solida base affettiva, sociale e intellettuale su cui costruire il proprio futuro»37.

L’importanza della collocazione in un determinato spazio, nei termini del senso di radicamento, è connessa non soltanto all’idea dell’abitare, ma, per riprendere un concetto particolarmente caro alla geografia umanistica, dipende altresì dal panorama in cui il soggetto si inserisce.

34

L’espressione «ortgebunden» è impiegata da Moretti – il quale la attinge a sua volta da uno studio di Reiner Hausherr – al fine di mettere in rilievo, sul versante letterario, l’adesione del romanzo al dato reale nelle sue connotazioni prettamente spaziali. L’assunto da cui muove l’autore, ricordiamolo, è infatti che «la geografia sia un aspetto decisivo dello sviluppo e dell’invenzione letteraria: una forza attiva, concreta, che lascia le sue tracce sui testi, sugli intrecci, sui sistemi di aspettative. E dunque, mettere in rapporto geografia e letteratura – cioè, fare una carta geografica

della letteratura: poiché una carta è appunto un rapporto, tra un dato spazio e un dato fenomeno»

(F. MORETTI, op. cit., p. 5. Corsivi nel testo). Riguardo all’espressione sopra indicata Moretti evidenzia, più esattamente, come le carte letterarie offrano la possibilità di sondare due elementi peculiari: «Primo, dimostrano la natura ortgebunden, legata-al-luogo, della letteratura: ogni forma […], con la sua geometria, i suoi confini, i suoi tabù spaziali e flussi di movimento. E poi, le carte mettono in luce la logica interna della narrazione […]. La forma letteraria apparirà così come la risultante di due forze contrarie, ed egualmente importanti: una esterna e una interna. È il problema di sempre, e in fondo il solo vero problema della storia letteraria: la società, la retorica, e il loro intrecciarsi» (ivi, p. 7).

35

Sull’argomento, si veda quanto riportato in G.SMYTH, Space and the Irish Cultural Imagination, Palgrave, New York 2001, pp. 56-76.

36

Cfr. F.LANDO, op. cit., p. 204. 37

(14)

Entro questo panorama ogni persona stringe rapporti con la comunità che risiede sul medesimo territorio, fa parte di una famiglia – anch’essa vincolata alla comunità – ed entra in contatto con le conoscenze caratteristiche del luogo. Ben lontano dall’essere concepito quale mero aggregato di proprietà fisiche, il territorio di appartenenza corrisponde, in sostanza, a una summa di elementi e tratti distintivi, che una volta assimilati condizioneranno le attitudini emotive, mentali e percettive dell’individuo nell’arco della sua intera esistenza, indipendentemente dai luoghi dove quest’ultimo si sarà stabilito o che avrà visitato38.

È appunto questo il significato conferito a Leitrim e Roscommon, le contee che hanno costituito lo sfondo della giovinezza di McGahern, e che l’autore ha reso il correlativo specifico della propria esperienza autobiografica, trasfondendone immancabilmente le immagini nei propri romanzi39. Al loro interno i luoghi, carichi di implicazioni simboliche messe in moto dalla memoria e dalla nostalgia, sono oggetto di un’ininterrotta rievocazione, sulla cui pregnanza incide, oltre alla sensibilità autoriale, un progetto narrativo implicito eppur sempre operante, che si scandisce nell’intento di affidare alla parola letteraria il perpetuarsi del ricordo di un’Irlanda rurale ormai prossima a soccombere dinanzi alle spinte propulsive dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione40

.

In modo congruente con queste riflessioni – riflessioni che tra l’altro consentono di stabilire un’ulteriore analogia con quanto emerso a proposito dell’autobiografia di Lively41 – Dermot McCarthy prende l’abbrivio dall’analisi di Yates sull’arte della memoria per illustrare come lo spazio abbia influenzato profondamente il modus operandi di McGahern, mantenendo oltretutto un’indubbia rilevanza nel processo di tesaurizzazione e

38

Cfr. ivi, p. 188. 39

Nel macrotesto dell’autore non mancano naturalmente esempi di ambientazione cittadina, come nel caso dei romanzi The Leavetaking e The Pornographer, o dei racconti «My Love, My Umbrella» e «Parachutes» – entrambi aventi per sfondo Dublino. Rispecchiando l’opinione generale della critica, Maher nota tuttavia che «McGahern’s sense of place is rooted in rural Ireland and that his most successful dramas are acted out in that setting» (E. MAHER, op. cit., p. 39). Dopodiché aggiunge: «McGahern is […] most at home when describing what Toolan describes as ‹that little postage stamp of native soil in the west of Ireland which he knows so well, in pursuit of the profound and transcendental regionalism practiced by, par excellence, William Faulkner›» (ivi, p. 45).

40

Indicative, al riguardo, le pagine di Eóin Flannery sull’investimento ecocritico dell’opera di McGahern, che in Memoir specialmente dà conto di come «personal and stylized life stories […] are part of the broader cultural project to comprehend the longevity and locality of ecological degeneration in Ireland and across the globe» (cfr. E.FLANNERY, «Ecology, Memory, and Speed in John McGahern’s Memoir», Irish University Review, 42(2), 2012, pp. 273-97, qui p. 275).

41

Si ricorderà in tal caso come nella sezione prefativa del proprio memoir, Lively renda l’opera di Yates un opportuno dispositivo critico per mezzo del quale introdurre le proprie riflessioni sulle ramificazioni semantiche degli spazi che hanno costituito lo scenario dei suoi anni giovanili. Sull’argomento, si veda quanto riscontrato nel cap. 5 della presente dissertazione.

(15)

rielaborazione dei ricordi costituenti il nucleo fondante di molta della sua produzione letteraria:

Historically, the «Art of Memory» refers to the «method of loci» technique for memorizing a large body of material that was taught to would-be orators in the schools of classical rhetoric. […] In the medieval curriculum, Ars Memoriae was included in dialectic as well as rhetoric. The phrase and the allusion it contains are appropriate for a discussion of McGahern’s fiction because of the nature and subject of McGahern’s creative activity, a «speaking» that summons something housed in memory in order to re-place it in a house of fiction. McGahern’s novels all have locations that are cognate with significant experiences in his own life: from the deathroom in the farmhouse in Aughawillan to the various rooms in the barracks (but especially his father’s room), to the Dublin dancehalls, London pubs, and schoolyard in Clontarf, and eventually the lanes, fields and lakes of his beloved Leitrim42.

Quella dello scrittore, cui dunque ben si attaglia il soprannome di «cartografo» dei paesaggi fisici e metafisici della propria generazione43, potrebbe altrimenti descriversi come un’opera di scavo finalizzata al recupero e alla salvaguardia di orizzonti topografici che, veri e propri milieux de mémoire, si fanno inclusivi di storie, tradizioni e legami ai quali soltanto la letteratura, con le sue potenzialità figurative, può ancora dar voce.

A rilevarlo è lo stesso Martin Ryle, secondo cui

[t]he location of McGahern’s work in an identifiable landscape is essential to its fictional-historical mode. As in Hardy’s novels, the topographical references which situate the writing in the remembered places of the author’s childhood and youth also put it forward as a record of a shared, publicly known landscape. Like Hardy, McGahern both reveals and disguises the setting that is the sign of autobiographical origins. Adjoining portions of Irish Ordnance Survey […] show, lying between Boyle, Carrigallen and Ballinamore, most of the towns, villages and townlands referred to in his rural fictions (in which Dublin and London figure – almost interchangeably – as places of emigration, but are barely described). […] However, McGahern, unlike Hardy, seldom uses fictional names for real places; he may not name Mohill, but he will not misname it. The intimate knowledge that it displays of a bounded, identifiable terrain is an essential dimension of the writing’s capacity to bridge the generic spaces between personal memoir, ethnographic document, historical record and imagined story. This topographical grounding opens up the border between book and world, and makes that dimension of the writer’s experience accessible to the reader. The work becomes an inscription of what the French historian Pierre Nora has called lieux de mémoire: sites that become catalysts and emblems of cultural memory44.

42

D.MCCARTHY, John McGahern and the Art of Memory, Peter Lang, Bern 2010, p. 11. 43

Cfr. E.GRENNAN, «‹Only What Happens›. Mulling over McGahern», Irish University Review,

35(1), 2005, pp. 13-27, qui p. 26. 44

M.RYLE, «John McGahern. Memory, Autobiography, Fiction, History», New Formations, 67, 2009, pp. 35-45, qui pp. 37-38. Cogliendo nello sguardo di McGahern indubitabili affinità con gli intenti perseguiti dalla letteratura di alcuni tra gli esponenti più illustri del background culturale irlandese (basti ricordare Tomás Ó Criomhthain, Patrick Kavanagh, Kate O’Brien), anche Declan Kiberd si affianca all’opinione corrente nel rilevare come McGahern «was convinced that whenever a world was about to disappear, a writer emerged to give utterance to it. If that world had been cut off by the facts of nature from a wider society, it achieved this complex articulation through its own resources, evoking that intense form of writing which is poetic, even if formally

(16)

A una lettura ravvicinata, gran parte dell’opera di McGahern si mostra, pertanto, compiutamente intesa a segnalare l’influenza di determinate località – quei «mondi scomparsi» di cui scrittori come Joyce, Synge e Yeats prima di lui hanno offerto un’archeologia45

– sul patrimonio di coloro che come lui vi hanno risieduto, e che in virtù di un insopprimibile senso di appartenenza hanno stabilito con esse un rapporto dotato di tutti i crismi della consustanzialità.

La correlazione tra individuo e territorio, altrove definita nei termini di sense of place, è spesso evidente e altrettanto spesso simbolizzata dai romanzi (si pensi a The Barracks,

Amongst Women, By the Lake) e dai racconti (citiamo, tra i tanti, «Wheels», «Sierra

Leone», «Gold Watch», «Love of the World») nei quali l’immagine della ruota, sovente reiterata sul piano strutturale dalla circolarità della costruzione narrativa, si profila ora come riproduzione metaforica e visivamente evocativa dei «ritmi ciclici dell’autoctonia»46

, ora come motivo vòlto a tematizzare «l’idea del viaggio attraverso il moto rotativo di un percorso di ritorno», che dovrà essere interpretato non già nelle sue connotazioni strettamente archetipiche, quanto piuttosto nei termini di «una progressiva localizzazione»47, una tensione costante verso le proprie radici48.

Quanto finora riscontrato trova conferma nelle considerazioni di Maher, il quale sottolinea:

By delving into the enclosed lives of the inhabitants of rural Ireland, [McGahern] manages to capture the key ingredients of what makes them what they are. […] Their geographical displacements may separate his characters physically from their place of birth, but the roots are deep, the influences constant. The characters are, in a sense, their environment, be it familial, offered as prose»(D.KIBERD, «Introduction», in J. McGahern, Love of the World, cit., pp. xi-xxiii, qui p. xvii).

45

Cfr. ivi, p. xviii. 46

G. RUBINO – C. PAGETTI (a cura di), Dimore narrate: spazio e immaginario nel romanzo

contemporaneo, Bulzoni, Roma 1988, p. 40. Emblematico al riguardo è il caso dell’ultimo romanzo

di McGahern, That They May Face the Rising Sun, dove l’idea della circolarità della vita rurale suggerita dall’immagine della ruota coinvolge il piano stesso dei contenuti, che sono organizzati intorno al racconto dei ritmi stagionali, dei lavori campestri, di esistenze ordinarie e immutabili come i luoghi stessi nei quali sono state condotte.

47

P.PROIETTI, «La rete tematica del viaggio», in Id., Lontano dalla lingua madre: in viaggio con

la narrative del secondo Novecento, Armando, Roma 2000, pp. 23-34, qui p. 30.

48

Il movimento ritualizzato verso la campagna ha molte varianti nell’opera di McGahern. Come specifica Sampson, esso appare infatti «in many forms – of home holidays, of emigrants

returning, of going back in memory, of going back to die – and these processes are central also to the novels» (D. SAMPSON, «The ‹Rich Whole›. John McGahern’s Collected Stories as

Autobiography», Journal of the Short Story in English, 34, 2000, pp. 21-30, qui p. 5). Il richiamo all’immagine del cerchio/della ruota è il motivo intorno al quale vertono le indagini condotte da Maher in «Circles and Circularity in the Writings of John McGahern», Nordic Irish Studies, 3(2), 2004, pp. 157-66 e da Bertrand Cardin in «Un aspect du temps: le cycle dans les nouvelles de John McGahern», La Licorne, 32, 1995, pp. 179-86. Rinviamo dunque ai suddetti articoli per ulteriori approfondimenti sulla questione, già in parte riassunta in E.MAHER, John McGahern, cit., pp. 61-63.

(17)

social or physical. (I don’t mean to imply by this that McGahern is a naturalist, but he definitely does lend a good deal of weight to the importance of heredity and environment). […] [McGahern] wants us to be able to commune with the practices, speech, joys and sorrows of the people with whom he grew up so that there might be a chronicle available for the generations to come. […] People should not make the mistake of thinking that capturing the local accurately is a simple task. It requires both distance and intimacy, detachment and engagement. […] the material dealt with, as well as the settings in which they are acted out, are the same from The

Barracks through to That They May Face the Rising Sun. [pp. 4-5] We are placed in the west

midlands of Ireland for the vast bulk of the novels and the short stories. […] One gets the impression that this universe represents a vital part of Ireland’s cultural and social heritage [p. 6]49.

Gli spazi che McGahern ha rappresentato quali parti integranti della propria fucina mitopoietica e dipinto con tale vividezza da guadagnarsi – come ben si ricorderà – l’appellativo di «Balzac di Roscommon-Leitrim», aderiscono perciò, in sede espressiva, a un processo di semantizzazione che ne incrementa in modo cospicuo la valenza, rendendoli elementi pregnanti in relazione ai quali seguire, per parafrasare Sampson, l’evoluzione di un’intera comunità50

.

Alla luce della coerenza (tematica, strutturale e stilistica) assunta quale elemento paradigmatico del macrotesto dell’autore, non sembra a questo punto improprio rubricare anche Memoir tra testi che rendono lo spazio un fattore fortemente dinamico e tale da condizionare in misura tutt’altro che irrilevante sia l’inventio, sia le strutture tematiche e simboliche della narrazione, dove la resa dei luoghi della memoria non collima del tutto con il livello della singola descrizione, né tantomeno con quelle che la narratologia in genere individua tra le sue precipue finalità51.

Tutto ciò, tuttavia, con un sostanziale précis, che pertiene al tasso di impregnazione emotiva dell’opera in esame, maggiore rispetto a quello dei romanzi perché relativo a un testo che in ragione del suo statuto generico è già di per sé predisposto all’enunciazione della soggettività, e quindi a una più diretta dipendenza dai ricordi e dalla sensibilità che lo hanno ispirato: in Memoir la ricostruzione dei luoghi e degli scenari costituenti l’“omphalos spaziale” della narrativa di McGahern, infatti, è attuata sullo sfondo di un racconto che si sviluppa come una sosta meditativa sui sentieri lungo i quali viene ricomposto il percorso esistenziale dell’autore nelle sue relazioni affettive, culturali e sociali.

Il racconto è esemplato in particolare sul prototipo delle autobiografie dell’infanzia, le cui preminenti caratteristiche possono essere individuate sia nell’organizzazione

49

Ivi, pp. 4-6. 50

Cfr. D.SAMPSON, «The ‹Rich Whole›», cit., p. 5.

51

Si pensi per esempio alla classificazione operata da Genette, secondo il quale l’excursus descrittivo può essere introdotto all’interno del racconto con una funzionalità di ordine meramente

esornativo, o come una sequenza testuale a carattere «esplicativo e simbolico insieme» (cfr. G.GENETTE, «Frontières du récit», cit., pp. 58-59).

(18)

dell’impianto narrativo, generalmente strutturato su una traiettoria che muove dalla giovinezza per rintracciare in essa i germi della maturità, sia nella focalizzazione sui fattori – esperienze, traumi, rapporti familiari e «relazioni archetipiche», come direbbe Pascal52

– che fin dall’età infantile hanno influenzato il mondo dell’autore, colmandolo di «idiosincrasie, umori, pulsioni peculiari alla sua organizzazione psico-biologica»53.

Difatti i ricordi che forniscono l’impianto della narrazione autobiografica, specialmente se legati alle esperienze infantili, propongono, spiega Gusdorf, «des moments privilégiés, dont l’intéressé se souvient parce qu’ils perpétuent sous une forme figurative les points de départ d’une initiation. En de tels instants, quelle qu’en ait pu être l’occasion, le sujet a pris conscience de soi; il a découvert en lui-même son propre fondament»54.

L’adesione al modello fornito dalle autobiografie che ricalcano i suddetti moduli tematici e strutturali consente di rilevare, inoltre, come nella selezione dei materiali narrativi e nella scelta dei nessi che li connettono anche Memoir adempia alla volontà di celebrare, con l’ausilio del ricordo, le voci e i paesaggi divenuti epitomi di un tempo

lontano, collocandosi così sulla medesima linea dei numerosi altri childhood memoirs (si pensi a testi quali Nothing to Say [1983] di Mannix Flynn, Walled Gardens [1994] di

Elizabeth Bowen, The Bend for Home [1996] di Dermot Healy, Waking [1997] di Hugh Maxton) che negli ultimi decenni sono andati a infoltire il già vasto repertorio della letteratura memorialistica irlandese55.

A suffragare questo assunto concorre il titolo stesso dell’autobiografia56

, attraverso il

quale McGahern rende esplicito il riferimento non tanto al genere di afferenza dell’opera

52

Cfr. R.PASCAL, op. cit., p. 88. A questi elementi si aggiungono i «remembered and currently significant places» che, nella prospettiva fenomenologica di Relph, costituiscono per l’adulto e specialmente per il bambino «concentrations of meaning and intention within the broader structure of perceptual space» (E.RELPH, op. cit., p. 11).

53

G. RUBINO – C. PAGETTI, op. cit., p. 8. Riguardo alle autobiografie dell’infanzia rinviamo in questa sede alle valutazioni di Pascal in Design and Truth in Autobiography (op. cit., pp. 84-94). 54

G. GUSDORF, Auto-bio-graphie, cit., p. 309. Nelle scritture del sé, continua Gusdorf, «[l]es souvenirs de la petite enfance ont un caractère inaugural, qui justifie leur intensité et leur permanence dans le cours d’une existence à laquelle ils fournissent une assise première. Souvenirs-valeurs, principes d’une reconnaissance de soi par soi, ils maintiennent des points de repère, dont la remémoration cautionne le devenir d’une existence» (ivi, p. 311).

55

Cfr. G.O’BRIEN, «Memoirs of an Autobiographer», in L. Harte, op. cit., pp. 214-38, qui p. 235. 56

È opportuno segnalare, per completezza d’informazione, come negli Stati Uniti la scelta sia invece ricaduta su un titolo che, rispetto a quello – all’apparenza labile e generico – dell’edizione inglese di riferimento, fosse capace di alludere fin dal frontespizio alla particolarità irriducibile

della vita dell’autore, anticipandone nel medesimo tempo i risvolti tutt’altro che tragici. Le case editrici americane hanno quindi optato per All Will Be Well, titolo con cui hanno voluto

conferire, nelle parole di Richard Russell, «a superficial gloss of concord on a life often marked by discord» (R.R.RUSSELL, «All Will Be Well. A Memoir (Review)», New Hibernia Review, 10(4),

2006, pp. 156-59, qui p. 157). Il nuovo titolo, spiega Denis Donoghue, trae ispirazione da due fonti

principali: una è il passo di Little Gidding in cui T.S. Eliot scrive: «And all shall be well and/ All manner of thing shall be well/By the purification of the motive/In the ground of our

(19)

– quello memorialistico, appunto –, quanto soprattutto al suo contenuto, che potremmo descrivere in modo opportuno come una sorta di trenodia nostalgica per la mitopoietica figura materna, la cui immagine viene visibilmente elevata a matrice del percorso memoriale intrapreso dall’autore.

Nel memoir il paratesto, nell’elemento specifico del titolo, procura al testo un primo commento autografo di cui poter quindi disporre per l’interpretazione dell’opera, della cui dimensione pragmatica (quella cioè dell’azione esercitata dall’opera stessa sul lettore) esso funge da indicatore57. In questo caso, potremmo sottolineare come quello scelto da McGahern per la propria autobiografia sia, ancora più esattamente, un titolo dalla doppia connotazione semantica, che nel prestarsi a una designazione di genere (le memorie) e nell’alludere allo stesso tempo al contenuto generale dell’opera (il ricordo, da cui appunto «memoir»), riunisce in sé funzione rematica e tematica58.

Il significato del titolo, già di per sé attestante l’attribuzione di valore riservata al ricordo nel nucleo diegetico dell’opera, appare tanto più sintomatico se messo in relazione con le indicazioni programmatiche rilasciate da McGahern in «The Image», forse l’unico tra i tanti testi dove l’autore esprime la ferma convinzione che il compito dell’arte debba essere quello di riscattare dall’oblio e di conferire nuova vita a un’immagine perduta e sostanziale («the image on which our whole life took its most complete expression once»)59, che l’artista è destinato ad assumere come elemento primario della propria ispirazione.

La visione, ossia l’universo intimo sul quale si fonda l’immagine, e che potremmo far corrispondere agli spots of time di wordsworthiana memoria60, ha la facoltà di farsi veicolo di una sorta di defamiliarizzazione del reale, in quanto implica l’innescarsi, all’interno dei contesti a noi più familiari, di un processo il cui fine ultimo va individuato

mistica Giuliana di Norwich in una delle sue visioni. Ciò che si è voluto suggerire con l’“alterazione” del titolo originale e nella prospettiva di una chiara congruenza con il macrotesto di McGahern, chiarisce Donoghue, è come nella sua produzione più tarda «prayer and

grace have been translated into natural or secular terms. Community has displaced Church; the rhythm of the seasons has ousted theology» (D.DONOGHUE, «A Version of Pastoral», The New

York Times, 23 March 2006, <http://www.nybooks.com/articles/archives/2006/mar/23/a-version-

of- pastoral/?pagination=false>). 57

Questo perché il paratesto, e dunque anche il titolo, è un luogo privilegiato «de ce que l’on nomme volontiers, depuis les études de Philippe Lejeune sur l’autobiographie, le contrat (ou pacte) générique» (G.GENETTE, Palimpsestes: la littérature au second degré, Seuil, Paris 1982, p. 9.

Corsivi nel testo). 58

Si potrebbe altrimenti parlare, sempre attenendoci ai livelli di classificazione proposti da Genette, di «rematizzazione» di un titolo tematico (cfr. G.GENETTE, Seuils, cit., p. 83).

59

J.MCGAHERN, «The Image», cit., p. 5. Sull’argomento si veda inoltre quanto sottolineato nella

sezione introduttiva del presente capitolo. 60

Cfr. J. PACCAUD-HUGUET, «‹Grave of the Images of Dead Passions and Their Days›.

‹The Country Funeral›, as McGahern’s Poetic Tombeau›», Journal of the Short Story in English, 53, 2009, pp. 2-9, qui p. 3.

Riferimenti

Documenti correlati

The psod-s on infinite root stacks that we constructed in [27] are a categorification of structure theorems in Kummer flat K-theory of simple normal crossing divisors due to

The obtained overstrength factor, the reduction factor due to ductility, response modification and deflection amplification factors based on IDA analyses under non- pulse-like

Cheng, W., Bo, Y., Lijun, L., Hua, H.: A modified particle swarm optimization- based human behavior modeling for emergency evacuation simulation system. In: 2008 IEEE

34 In genere lo sviluppo di documentazione pubblica nelle città italiane viene attribuito alla metà del secolo XIII; in realtà una più contenuta «rivoluzione» notarile era già

Fra queste competenze indubbiamente si annovera la gentilezza che riflette come altre funzioni – ospitalità, ascolto, comprensione, tenerezza, compassione, empatia, ecc – un modo

coanimatore delle iniziative di cooperazione tra Francia e Québec sulla didattica delle scienze sociali e umane (con l’Università del Québec a Montréal), sulla storia della

The EnKF is based on a Markov chain Monte Carlo (MCMC) method, propagating a large ensemble of model states to approximate the prior state error in time by using the updated states

In tal modo l’elaborazione medievale (ed in specie il periodo dei glossatori fino alla sintesi realizzata da Guglielmo Durante) costituisce un momento di rilievo della storia