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1. Il dialogo e l’ironia.

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Academic year: 2021

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1. Il dialogo e l’ironia.

Niente è più tipico di Socrate delle sue conversazioni e del loro articolarsi in una sfilza di domande. Socrate altro non fa che domandare: in questo modo e nella richiesta di dare risposte brevi e apposite consiste l’essenza del dialogo socratico.

Questa infatti è una delle caratteristiche che distinguono Socrate dai Sofisti, con cui erroneamente fu identificato come emerge dall’accusa . Ma Socrate ha molte ragioni per non ritenersi tale; una di queste è il fatto che egli non ha tratto nessun provento di questa attività, ma, l’aspetto più importante che ne segna la differenza è la diversa modalità di comunicazione del sapere.

I Sofisti infatti si avvalgono della makrologia, cioè di discorsi lunghi e ciò comporta una mancata considerazione dell’interlocutore, poiché essa mira a dimostrare soltanto le capacità oratorie del locutore.

Socrate invece contrappone alla loro makrologia la brachilogia (Plat. Gorgia 449 a – c ): discorso breve e conciso, fatto di battute corte e veloci. Attraverso questo tipo di dialogo Socrate coinvolgeva l'interlocutore costringendolo ad analizzare le proprie convinzioni fino a mettere in dubbio le premesse date per scontate, mostrando come esse fossero il frutto di un'accettazione passiva dei pregiudizi e delle opinioni diffuse.

Socrate non aveva un posto suo: egli insegnava dove e quando capitava, Atene in

generale era per lui il posto per filosofare; lo faceva perciò mentre beveva e

scherzava in compagnia, o quando si trovava in piazza, o infine anche quando si

trovava in carcere a bere la cicuta.

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Socrate non si ritiene un maestro: nell’Apologia (33a) afferma di non essere mai stato maestro di nessuno e se non è maestro non ha neanche allievi, e dunque vengono meno le condizioni per la trasmissione disciplinare del sapere. La conoscenza filosofica non è trasmissibile in modo passivo ma richiede partecipazione e proprio per questo motivo l’insegnamento socratico non presuppone un sapere già dato. Socrate concepisce la dinamica educativa in termini di rapporto tra anime, che cooperano nell’ambito del dialogo al conseguimento di un accordo, il quale costituisce una prima garanzia della verità dei risultati ottenuti.

Come abbiamo avuto modo di accennare nel paragrafo precedente, la filosofia è per Socrate cura dell’anima; egli mediante un articolatissimo dialogo fa venire alla luce le contraddizioni nelle anime dei suoi interlocutori. Alcuni definivano l’incontro con Socrate conturbante perché ribaltava le concezioni di chi era convinto di sapere e gli dimostrava invece di non sapere, Menone addirittura lo definiva una torpedine:

Socrate, anche prima di incontrarmi con te, sapevo per sentito dire che tu non fai altro che mettere in dubbio te e gli altri: ora poi, come mi sembra, mi affascini, mi dai beveraggi, m’incanti, tanto da non avere più alcuna via d’uscita. E, se mi è lecito scherzare, mi somigli davvero, nella figura e nel resto, alla piatta torpedine di mare: perché anche questa, se qualcuno le si avvicini e la tocchi, subito lo fa intorpidire. Ora mi sembra che tu abbia avuto su di me lo stesso effetto, poiché sono veramente intorpidito nell’anima e nella bocca, e non so più cosa risponderti. E sì che ho fatto tante orazioni sulla virtù e dinanzi a un gran pubblico, e molto bene, come mi pareva. E ora, invece, non so neppure dire che cosa essa sia

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. (Plat. Menone 79 a - b).

1 Platone, Menone, trad. it. di F. Adorno, in Opere, I, Laterza, Roma - Bari, 1966.

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Socrate assillava i suoi interlocutori obbligandoli a fare attenzione a sé stessi: si limitava a creare un contesto nel quale l’interlocutore poteva utilizzare le proprie risorse e conseguire una trasformazione, cioè riconoscere i propri limiti. Lo scopo del dialogo è quello di far crescere l’individuo, ampliando le sue possibilità esistenziali. Proprio come Menone, gli interlocutori del dialogo socratico presumono di sapere quale sia l’oggetto di cui stanno parlando ma non lo sanno, e perciò compito di Socrate è quello di renderli consapevoli. La capacità di mettere costantemente in dubbio le conoscenze dei suoi interlocutori al fine di farli giungere ad una verità più profonda di quella superficiale che ostentavano prima, ha inizio con la semplice domanda “che cosa è?”. Socrate nell’interrogare il suo interlocutore mette in opera due momenti: il primo, momento distruttivo, è l’ironia, che consiste nello scuotere le certezze dell’interlocutore e far crollare così la tracotanza dei suoi interlocutori. Crollate le certezze, subentra il momento più drammatico, il dubbio, che insieme all’ironia formano la parte distruttiva del metodo socratico. Una fase iniziale dunque in cui, servendosi dell’ironia, finge di adulare il sapere del suo interlocutore e abbatte il finto sapere, ed una seconda parte, costruttiva, in cui Socrate aiuta il suo interlocutore a partorire da solo ciò che va cercando, ed è la cosiddetta maieutica.

L’ironia è un atteggiamento psicologico secondo cui l’individuo cerca di

sembrare inferiore a quello che è, quindi si svaluta da solo. Nel caso del dialogo,

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questa disposizione consiste nel fingere di dare ragione all’interlocutore, e Socrate personalmente si svalutava completamente di fronte al suo interlocutore, pensando una cosa e dicendone un’altra, e dicendo soprattutto di non sapere.

Socrate dunque soleva usare quella dissimulazione che i greci chiamavano

“ironia”. Questa emerge nel momento in cui Socrate finge di volere imparare qualcosa dal suo interlocutore e assumendo come punto di partenza la posizione di questo ultimo lo porta a contraddire quello che aveva detto al’inizio del dialogo. Alla fine sarà l’interlocutore ad entrare inconsapevolmente nel discorso di Socrate e identificarsi con lui ma, poiché Socrate non sa nulla alla fine del dialogo anche l’interlocutore non saprà nulla. Anzi non sa più nulla. Ma l’esito dell’ironia non è negativo come sembra perché dopo lo smascheramento del finto sapere dell’interlocutore, nasce talvolta in questi un atteggiamento di ricerca.

Due esempi opposti, uno amichevole di Alcibiade nel Simposio, l’altra malevola di Trasimaco, nella Repubblica. Trasimaco è l’unico personaggio platonico che accusa Socrate di simulare ignoranza:

lo sapevo io, anzi lo dicevo prima a questi qui, che tu non solo non avresti voluto rispondere, ma avresti fatto dell’ironia e tentato ogni via piuttosto che rispondere alle domande che ti fossero state rivolte.

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(Plat. Resp., 337a).

Trasimaco attacca Socrate accusandolo di riservare a sé stesso la facile parte dell'interrogare, quando si sa che replicare è molto più difficile, e di essere un dissimulatore che, valendosi dell’ironia, ricorre ad espedienti per non rispondere

2 Platone, La Repubblica, trad. ital. di F. Sartori, Laterza, Roma - Bari, 2006.

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alle domande. Socrate, affettando ignoranza, se ne va in giro ad imparare dagli altri e non ringrazia neppure; ma per Socrate la prima condizione della ricerca e del dialogo è la coscienza della propria ignoranza. Dall’altra parte invece troviamo Alcibiade, allievo e ammiratore di Socrate che considera ironica l’intera attività del maestro: «passa il suo tempo a far l’ingenuo e a prendersi gioco della gente» (Plat. Symp., 216e).

Il tratto più conosciuto dell’ironia socratica nei dialoghi giovanili di Platone è quello della “dissimulazione” di ignoranza: di fronte alla sicurezza di sapere esibita dai suoi interlocutori, Socrate si atteggia ad ammiratore entusiasta della loro sapienza e, per altro verso, si dichiara afflitto da totale ignoranza: egli non sa, e proprio per questo interroga e vuole sapere; egli non ha nessuna verità da insegnare e protesta di non essere mai stato “maestro” di nessuno. Così facendo Socrate si pone in una posizione di vantaggio rispetto ai suoi interlocutori, ma ciò non vuol dire che il senso ironico di un’affermazione sia il contrario di quello letterale; significa invece che un’affermazione ironica è un’affermazione che presenta una certa qual profondità che, sostenendo x, in qualche misura nega anche x.

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Per meglio capire questo concetto è opportuno analizzare la famosa dichiarazione socratica del sapere di non sapere. Così facendo, Socrate si mette in una posizione di vantaggio rispetto all’interlocutore costretto ad esporre il proprio sapere e iniziare la sua confutazione. Il sapere di non sapere è un’affermazione ironica ma che è vera in un senso e falsa nell’altro: vera perché Socrate non

3 F. Ferrari, Socrate tra personaggio e mito, Rizzoli, Milano, 2007.

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possiede conoscenze definite che possano essere insegnate, ma anche falsa, perché egli è in possesso di qualche competenza come la capacità di confutare i suoi interlocutori.

Ma è anche consapevole di questo suo non sapere. L’ironia di Socrate non ha nulla a che vedere con l’“inganno” e leggerla in tal modo infatti, implicherebbe un Socrate sapiente che fingesse deliberatamente di non sapere, mentre la dissimulazione socratica consiste non già nel proclamarsi non-sapiente, ma nell’affermare che sapienti sono i suoi interlocutori!

Intendere l’ironia socratica come inganno significherebbe inoltre ricadere nella rappresentazione che Aristofane fece nelle Nuvole di Socrate come Sofista.

Confutare l’ interlocutore è la particolarità, quasi come un marchio di fabbrica,

del metodo socratico. Fu proprio questo metodo confutatorio ad attirare su di

Socrate le più dure inimicizie: i mediocri infatti reagivano negativamente alla

confutazione perché partivano da una falsa presunzione di sapere, e venivano

messi in scacco fino all’esaurimento delle loro risorse. Sorgeva così in loro una

crisi dovuta al crollo delle loro certezze e alla mancanza di nuove a cui

aggrapparsi e ciò li spingeva ad accusare Socrate di essere un seminatore di

dubbi. Ma se questo è l’effetto che la confutazione aveva sui più mediocri, ben

altro esito essa produceva sui migliori che essa “purificava” in quanto ne

distruggeva le false certezze, indirizzandoli non ad una perdita ma ad un

progresso verso la verità. Socrate procede in questo modo: assume per vera la

tesi p del suo interlocutore e lo induce ad accettare due premesse q ed r che si

riferiscono all’oggetto di p, e dimostra poi che q ed r implicano non-p, il che

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comporta la falsità della tesi di p sostenuta dall’interlocutore. Quando Socrate chiede al suo interlocutore “che cosa è x?”, dichiarandosi convinto che l’interlocutore abbia conoscenza dell’oggetto in questione anche se non ne è del tutto consapevole. Perciò la domanda “che cosa è x?” ha uno scopo preciso:

portare a consapevolezza quelle che erano solo conoscenze latenti attraverso il procedimento maieutico.

La maieutica è altro motivo essenziale della dialettica socratica; si tratta di quell’arte in grado di tirar fuori dall’interlocutore concezioni che possiede già nella sua anima e di cui non è consapevole. Nel Teeteto, Platone presenta l’altro aspetto tipico del pensiero socratico: il compito del filosofo non è quello di insegnare ma di applicare appunto la maieutica. Protagonista del dialogo, è appunto Teeteto, interrogato sul concetto di scienza. Durante il procedere incalzante delle domande di Socrate, Teeteto si trova in difficoltà a rispondere ma non rinuncia al desiderio di trovare la soluzione. Ciò dà modo a Socrate di introdurre il paragone tra il suo metodo filosofico e il mestiere di levatrice della madre:

Ora, la mia arte di ostetrico, in tutto il rimanente rassomiglia a quella delle levatrici, ma ne

differisce in questo, che opera su gli uomini e non su le donne, e provvede alle anime partorienti

e non ai corpi. E la più grande capacità sua è ch’io riesco, per essa, a discernere sicuramente se

fantasma e menzogna partorisce l’anima del giovane, oppure se cosa vitale e reale. Poiché

questo ho di comune con le levatrici, che anch’io sono sterile … di sapienza; e il biasimo che

già tanti mi hanno fatto, che interrogo sì gli altri, ma non manifesto mai io stesso su nessuna

questione il mio pensiero, ignorante come sono, è verissimo biasimo. E la ragione è appunto

questa, che il dio mi costringe a fare da ostetrico, ma mi vietò di generare. Io sono dunque, in

me, tutt’altro che sapiente, né da me è venuta fuori alcuna sapiente scoperta che sia generazione

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del mio animo; quelli che invece amano stare con me, se pur da principio appariscano, alcuni di loro, del tutto ignoranti, tutti quanti poi, seguitando a frequentare la mia compagnia, ne ricavano, purché il dio glielo permetta, straordinario profitto: come veggono essi medesimi e gli altri. Ed è chiaro che da me non hanno imparato nulla, bensì proprio e solo da se stessi molte cose e belle hanno trovato e generato; ma d’averli aiutati a generare, questo si, il merito spetta al dio e a me.»

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(Plat. Theaet. 150 b-d).

Socrate, figlio di una levatrice, si dichiara egli stesso esperto nell’arte del far nascere non bambini ma conoscenza nelle anime degli uomini, perché sterile di sapienza. Il suo interrogare iniziato con l’ironia fa venire alla luce le contraddizioni delle anime dei giovani. La maieutica non è dunque l’arte di insegnare ma l’arte di aiutare ad arrivare a quelle verità che già si posseggono.

Socrate si impegna affinché tutti i soggetti in campo rispondano facendo appello al logos, il che dovrebbe garantire una certa universalità ai risultati acquisiti poco alla volta. Il dialogo di Socrate ha dunque, come possiamo dedurre da questa analisi, una funzione terapeutica che consiste nel liberare l’interlocutore dal falso sapere e nella costruzione di un sapere positivo e di un comportamento virtuoso.

Attraverso la potenza del dialogo Socrate voleva smuovere la coscienza politica e giuridica degli Ateniesi, ma gli Ateniesi si dimostrarono incapaci di apprendere l’importanza del dialogo. La morte di Socrate è perciò conseguenza dell’impossibilità del dialogo tra il filosofo e Atene del V secolo.

4 Platone, Teeteto , trad. it. di M. Valgimigli, in Opere, I, Laterza, Roma – Bari, 1966.

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