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Narciso e Pigmalione.

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI FIRENZE

Dottorato di Ricerca in Filosofia XXIX Ciclo

TESI DI DOTTORATO

Narciso e Pigmalione.

Figure del mito e della riflessione nella filosofia di Jean-Jacques Rousseau

RELATORE

Prof. Alfonso Maurizio Iacono

CANDIDATA Anna Romani

ANNO ACCADEMICO 2016/2017

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INDICE

Introduzione ... p. 3

1. Fiction, mito e fable nel Settecento ... p. 16

1.1 Ragione illuminata, verità e mito ... p. 16

1.2 Mito come fable: definizione preliminare ... p. 23

1.3 Finzioni ... p. 25

1.4 Filosofia e fiction: analisi concettuale e utilizzo strumentale ... p. 26

1.5 Primo approfondimento: comprensione e usi della fable ... p. 41

1.6 Secondo approfondimento: creazione e usi di un sapere sul mito ... p. 51

1.7 La mitologia come scienza rigorosa? ... p. 59

2. Narciso e Pigmalione: una storia di due miti ... p. 75

2.1 Alle fonti del mito di Narciso: Conone, Partenio e Ovidio ... p. 76

2.2 …a narce narcissum dictum: sonno, morte e dionisiaco ... p. 83

2.3 Una prima razionalizzazione: la versione di Pausania ... p. 85

2.4 Narciso riflesso nelle arti: Filostrato e Callistrato ... p. 86

2.5 Tarda antichità: il pericolo del riflesso ... p. 88

2.6 Il Medioevo: variazioni attorno alla fonte ... p. 92

2.7 Il Rinascimento: Narciso inventore della pittura ... p. 98

2.8 Età moderna: poesia e razionalizzazione ... p. 105

2.9 Il mito di Pigmalione tra antichità e modernità ... p. 115

3. La Préface al Narcisse ... p. 138

3.1 Vincennes 1749: la nascita di un pensiero ... p. 138

3.2 Il primo Discorso: presa di posizione e scandalo ... p. 143

3.3 Un successo non celebrato: Le Devin du village ... p. 147

3.4 Narcisse, o la celebrazione di un fallimento ... p. 150

3.5 Il Narcisse e la sua Préface: introduzione di un problema ... p. 151

3.6 Analisi di un depistaggio ... p. 157

3.7 Un crocevia di contraddizioni ... p. 161

3.8 …cominciai a mettere in luce i miei principi… ... p. 164

3.9 Esibizione di sé, proprietà, disuguaglianza: verso il secondo Discorso ... p. 172

3.10 Che fare della scienza e delle arti? La farmacia di Rousseau ... p. 178

3.11 Per concludere, un divertissement? ... p. 184

3.12 Jean-Jacques e la messa in scena del filosofo ... p. 187

3.13 Vedere non vedere: il ruolo del Narcisse ... p. 189

4. Narcisse, ou l’Amant de lui-même e Pygmalion, scène lyrique ... p. 192

4.1 Valère come Narciso: ridicule ... p. 192

4.2 Narcisse e narcisismo: much ado about nothing? ... p. 210

4.3 La metamorfosi redentiva di Valère: i limiti della rappresentazione ... p. 220

4.4 La statua di Glauco e le orecchie di re Mida: immagini della metamorfosi dell’uomo

naturale ... p. 229

4.5 …e di conseguenza o è bestia o è dio ... p. 237

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4.6 L’uomo naturale come Narciso ... p. 245

4.7 Proprietà e alienazione di sé: l’uomo-Narciso e il truffatore ... p. 249

4.8 Pygmalion: finzione, inganno e il fuoco di Prometeo ... p. 254

4.9 Modellare l’individuo? Pigmalionismi educativi: Emilio ... p. 269

5. Educare la società: sovvertimento dello spettacolo ... p. 287

5.1 Educazione civile e creazione del cittadino ... p. 287

5.2 Lettera a d’Alembert sugli spettacoli: il problema della distanza ... p. 311

5.3 Le feste, rappresentazioni senza mediazione ... p. 315

Conclusioni ... p. 320

Appendice ... p. 326

Prefazione ... p. 326

Narciso, o l’amante di se stesso ... p. 337

Pigmalione, scena lirica ... p. 353

Bibliografia ... p. 358

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INTRODUZIONE

In questo lavoro si analizzano due opere teatrali di Rousseau: la commedia giovanile Narcisse, ou l’Amant de lui-même e il melodramma Pygmalion, scène lyrique.

In questi testi Rousseau mette in scena due miti di amore e metamorfosi: l’adattamento in ambientazione settecentesca della storia di Narciso, innamorato della propria immagine, e il mito dello scultore Pigmalione, innamorato della propria opera. La produzione letteraria di Rousseau, specialmente opere minori come quelle qui presentate, è stata spesso considerata lontana dalla sua filosofia e trascurata dalla critica. Eppure con questi testi teatrali Rousseau porta sul palco, insieme alle storie dei protagonisti, alcuni dei problemi filosofici tipici della sua riflessione: la tensione tra essere e apparire, le patologie dell’amor proprio, l’inganno delle relazioni, l’ambiguità della finzione, l’ineguaglianza sociale. I personaggi sulla scena divengono metafora e figura dei concetti filosofici con cui Rousseau analizza discorsivamente le metamorfosi dell’uomo nella società. La complessa Préface che precede il testo del Narcisse indica una via per l’interpretazione e la valutazione filosofica di questi piccoli lavori teatrali: è così che scrittura e riflessione si implicano e si illuminano a vicenda per chi voglia decifrare i richiami e i rimandi tra le due.

Il presente lavoro si può idealmente suddividere in due sezioni: la prima, composta dai primi due capitoli, è dedicata alla contestualizzazione delle opere e dei temi in esame all’interno del panorama storico e culturale del ‘700 francese e dell’Illuminismo in generale, mentre i tre capitoli successivi si addentrano nell’analisi dettagliata dei testi di Rousseau, inserendoli nel quadro complessivo della sua filosofia.

Il primo capitolo è dedicato alla concezione generale del mito e della finzione in

generale nel ‘700, al fine di studiare il contesto di ricezione dei lavori di Rousseau presi in

esame. Come accennato sopra, si tratta di due opere teatrali che rielaborano due miti

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classici, quello di Narciso e quello di Pigmalione. Parlando di contesto, in questo caso ci si riferisce a due ambiti principali, quello filosofico e quello, più ampio, della produzione artistica e culturale dell’epoca. La domanda di partenza concerne le forme secondo le quali si attesta la presenza del mito nel periodo dell’Illuminismo. La questione offre l’occasione di mostrare i limiti esegetici di una certa semplificazione della filosofia dei lumi, intesa come trionfo della ragione sic et simpliciter. Tramite l’analisi si mostra invece una dialettica nel rapporto tra il pensiero filosofico e le istanze del mito e della finzione, e dunque dell’immaginazione in senso lato. In questo periodo si assiste infatti all’energica affermazione della ragione, modellata sui successi della matematica e della fisica, come forza metodica capace di spiegare il mondo naturale e di opporsi all’eredità della tradizione teologica e metafisica. Questa grande presa di coscienza delle potenzialità della razionalità scientifica e filosofica si accompagna a un apparente rifiuto di tutto quanto concerne il favoloso, il mitico e l’immaginativo, respinto in quanto eccessivo, sregolato e privo di fondamento, e ammissibile al più come intrattenimento ludico. È così che alle immaginazioni composte di miti e vane congetture dei popoli antichi e moderni si contrappongono i lumi della filosofia, capaci appunto di illuminare le reali cause dei fenomeni naturali. È tuttavia nel cuore stesso della professione della razionalità moderna, vale a dire nel Discorso sul metodo di Cartesio, che si apre uno spiraglio per l’ammissibilità e la presenza del mito e della finzione in generale. Se infatti queste forme vengono respinte dal campo del sapere in quanto aventi a che fare col verosimile e non con il vero, l’autore presenta il proprio stesso lavoro come un mito, une fable. La posizione di Cartesio è emblematica dell’ambivalenza del rapporto dell’Illuminismo con il mito e le forme della finzione, che oscilla tra la condanna e l’utilizzo retorico o strategico.

Per approfondire questo rapporto si fornisce una definizione preliminare della

comprensione generale del mito nel Settecento come “narrazione fittizia tipica del

paganesimo”, per poi analizzare la questione più generale della finzione. Tale nozione

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raduna attorno a sé significati molteplici, legati agli ambiti della produzione di figure ed effigi, dell’immaginazione e infine dell’inganno e della menzogna. Nell’ambito filosofico del Settecento la finzione costituisce da un lato un oggetto di indagine e analisi concettuale, mentre dall’altro lato può farsi strumento della filosofia stessa nel suo procedere.

La finzione viene indagata sia come atteggiamento mentale rispetto ai contenuti considerati che se intesi come fittizi non vengono presi sul serio, sia dal punto di vista estetico in quanto produzione dell’arte, alla quale si richiede di mantenere un rapporto di fedeltà ai modelli naturali tale da agevolare la rappresentazione delle idee formulate dalla filosofia. Nel campo della metodologia filosofica la finzione viene invece contrapposta all’ipotesi e scartata come strumento legittimo per lo sviluppo del ragionamento, dal momento che essa è troppo slegata dalla realtà e dalla verificabilità dei fatti tramite l’esperienza. È tuttavia è da mettere in luce proprio la diffusione di mezzi riconducibili alla finzione nelle opere filosofiche dell’epoca, raggruppabili sotto le categoria dell’esperimento mentale e della fable cosmogonica, che servono fini epistemologici, o dell’atteggiamento retorico affabulatorio teso a catturare l’attenzione del lettore e a risvegliare il suo senso critico. È infine da citare l’utilizzo della finzione in senso strategico, per mascherare posizioni polemiche o incompatibili con il sistema dominante di valori e poteri.

Come risultato dell’analisi emerge dunque la presenza di un doppio registro della

filosofia rispetto alla finzione e, di conseguenza, rispetto al mito, compreso come una

specie del genere finzione. Per quanto riguarda l’approfondimento della concezione del

mito, si distingue tra fable e mitologia, intesi rispettivamente come corpus delle narrazioni

mitiche dell’antichità pagana e come scienza adibita alla spiegazione razionale della fable

stessa. Dal punto di vista della produzione culturale in genere, i soggetti mitici possono

assumere un ruolo meramente ludico, oppure essere strumentalizzati in funzione

celebrativa del potere sovrano. Il corpus della fable fornisce tuttavia anche la possibilità di

muovere critiche al potere sotto lo schermo dei personaggi e delle vicende mitiche,

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offrendo al contempo una libertà espressiva non consentita da altri soggetti proprio grazie all’idea diffusa secondo la quale la fable non presenta alcun rapporto con la verità.

Dal punto di vista dell’indagine razionale compresa sotto la categoria di mitologia, il proposito è quello di indagare le origini e il significato del mito, sottraendolo sia alla catalogazione antiquaria che alla sua sussunzione all’interno delle congetture teologiche della storia universale. Anche in questo caso nel Settecento, l’indagine dei miti e delle loro fonti, spesso volta a individuare un loro nucleo di verità originaria, non è scevra da un’attitudine polemica contro le credenze religiose in generale, facendo di nuovo del mito uno strumento in mano al progetto illuministico di rischiaramento ed elucidazione razionale, alimentando al contempo la sua diffusione e valorizzazione come oggetto di riflessione.

Nel secondo capitolo si offre una ricostruzione, per quanto necessariamente incompleta, di aspetti della fortuna dei miti di Narciso e Pigmalione, al fine di mostrarne l’evoluzione e la stratificazione di significati e immagini che si legano al nucleo originario delle storie. Il punto di riferimento principale è costituito dalle Metamorfosi di Ovidio, delle quali si ricercano le fonti anteriori e si mostrano l’influenza e le successive rielaborazioni.

La storia di Narciso narra di come un bellissimo giovane, altero al punto da respingere tutti i suoi pretendenti, cada vittima della maledizione lanciata da uno di loro: giunto di fronte a una fonte limpida, egli rimane catturato dall’immagine del proprio riflesso, del quale si innamora senza rendersi conto di ciò che sta vedendo. Solo alla fine egli comprende di aver scambiato la propria immagine per un’altra persona, ma, ormai incapace di distaccarsi dalla fonte, rimane lì fino a quando non viene tramutato nel fiore che porta il suo nome.

Gli elementi che caratterizzano il mito di Narciso alla fonte sono relativi a vari ambiti, che

si intersecano a diverse riprese con la tradizione filosofica. Le questioni dell’ingannevolezza

delle immagini e della propensione di un carattere vanitoso e superficiale a cadere trappola

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delle lusinghe del mondo, in particolare, sono temi che mantengono costante la fortuna del mito nel corso dei secoli. A sua volta Pigmalione, lo scultore mitico che vede esaudita la propria preghiera a Venere di animare la statua della quale si è innamorato, offre alla riflessione un materiale sempre vivo riguardo ai temi della produzione artistica, dell’inganno, della follia e della passione amorosa. I due miti presentano inoltre dei punti di contatto tali da essere talvolta ricordati insieme, in particolare per quanto riguarda i problemi legati all’illusione, alle immagini e alla follia.

Ripercorrendo alcune delle tappe del cammino di questi due miti nella storia del pensiero e della cultura occidentale, si vuole offrire un quadro dei significati racchiusi in essi fino al momento in cui Rousseau vi ricorre nelle due opere poste a tema di questa trattazione. In tal modo si intende mostrare la varietà dei nessi e dei rimandi impliciti nell’utilizzo di questi due miti e dello spazio di comprensione comune condiviso tra l’autore e il suo pubblico, preparando inoltre il terreno per la comprensione della distanza o vicinanza rispetto al materiale tradizionale delle versioni elaborate da Rousseau.

Concluso il lavoro di contestualizzazione, si passa alla delineazione di un percorso concettuale all’interno del pensiero di Rousseau, che tiene insieme ed esplicita i molteplici concetti che si raccolgono attorno al Narcisse e al Pygmalion. Lo scopo generale dell’analisi è di mostrare come queste due opere, tradizionalmente reputate marginali, trovino invece un loro posto e una funzione teorica viva e capace di aprire nuovi orizzonti interpretativi all’interno della filosofia sociale e politica di Rousseau.

Il terzo capitolo è dedicato allo studio della Préface al Narcisse. L’uscita dell’opera viene

collocata nel contesto degli inizi dell’attività filosofica di Rousseau, la cui genesi viene

presentata da quest’ultimo come il frutto di un momento di illuminazione fulminea che lo

colse alla lettura del concorso dell’Accademia di Digione. La questione relativa al rapporto

tra il progresso nelle scienze e nelle arti e quello morale nella società scatena un flusso di

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immagini e di pensieri nella mente del filosofo, che rivendica la coerenza e l’unitarietà del proprio pensiero, concepito come un’incessante rielaborazione dell’illuminazione rispetto alle condizioni di ingiustizia in cui vivono gli uomini nelle società moderne.

Nonostante Rousseau sminuisca la propria commedia, presentandola come un lavoro giovanile del quale si sarebbe ormai pentito, la lettura puntuale della Préface rivela la presenza di un ruolo e di un compito per questo lavoro, coerenti con la vocazione di critica sociale inaugurata con il Discorso sulle scienze e sulle arti. Con questa opera, vincitrice del premio dell’Accademia di Digione, Rousseau rompe con la fiducia negli effetti positivi del rischiaramento culturale operato tramite la diffusione della conoscenza. In controtendenza rispetto ai principi ispiratori del progetto dell’Encyclopédie, Rousseau afferma provocatoriamente l’esistenza di una correlazione tra la nascita e la diffusione delle scienze e delle arti e il decadimento morale, ma soprattutto politico, delle società. In questa fase molto attiva della produzione di Rousseau la scrittura teatrale e la riflessione filosofica coesistono secondo un equilibrio difficile da mantenere, che si interseca con l’aspirazione del filosofo di incarnare un ideale morale attraverso il proprio personaggio pubblico. Il Narcisse viene messo in scena da Rousseau in questo momento ricco e delicato al contempo.

Queste circostanze scatenano una lunga serie di dure reazioni e accuse di contraddittorietà tra il pensiero e l’operare del filosofo, il quale nella Préface alla sua commedia dedica un ampio spazio alla difesa della propria coerenza intellettuale.

Il Narcisse segna un abbandono momentaneo della produzione teatrale e, con le linee

teoriche stabilite dalla Préface, apre al contempo la strada al Discorso sulla disuguaglianza. La

Préface infatti, letta con attenzione, preannuncia temi che saranno svolti in quest’opera e

che hanno a che fare con le basi antropologiche della diseguaglianza sociale, politica ed

economica tra gli uomini. La Préface al Narcisse funge da ponte concettuale tra il primo e il

secondo Discorso. Nella sua prima opera Rousseau svolge infatti un’analisi critica della

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società dell’apparenza nonché del progetto illuminista come via di uscita da essa, mentre nel secondo Discorso egli offre una ricostruzione genealogico-immaginativa della costituzione dell’uomo naturale e del passaggio avvenuto tra stato di natura e stato sociale.

Nella Préface si inizia a delineare il legame tra l’insorgere dei fenomeni legati all’amor proprio e all’esibizione sociale del sé, gli stessi che sono alla base della pratica delle scienze e delle arti, e lo sviluppo dell’ingiustizia sociale generata dalla proprietà privata, denunciata qui per la prima volta come fonte della separazione tra i ricchi e una folla che non riesce a sollevarsi dalla propria miseria, ovvero della disuguaglianza in seno alla società. La Prefazione mette in luce il nesso genealogico, fondamentale e per così dire rimosso, tra il desiderio di distinguersi e la disuguaglianza sociale. Quest’ultima non ha infatti a che vedere solo con l’impalpabile fama, ma si concretizza nell’estrema disparità di ricchezze e di potere e dei mezzi per accedervi. La disuguaglianza costituisce la ricaduta materiale, istituzionalizzata e sociale del fenomeno psicologico che nel secondo Discorso Rousseau descriverà nei termini della trasformazione dell’amore di sé in amor proprio, ovvero nella spinta all’esibizione del sé finalizzata a vincere la competizione per il riconoscimento sociale che è all’origine anche delle scienze e delle arti.

Per quanto apparentemente slegata dal contenuto della commedia che avrebbe il compito di introdurre, la Préface instaura con essa un legame concettuale più profondo.

Questo si concretizza in una teoria del teatro come pharmakon. Nello stato di corruzione che per Rousseau caratterizza la maggior parte delle società a lui contemporanee non si otterrebbe alcun tipo di giovamento se venisse messa in atto l’ipotesi, paradossale ma imputata al filosofo dai suoi avversatori, di bandire le arti, le scienze e la cultura in generale:

non solo gli uomini non riacquisterebbero le qualità perdute, ma la società cadrebbe in uno

stato di caos e violenza ancora peggiore dell’ingiustizia attuale. Per uscire da questo impasse

l’argomentazione di Rousseau si concretizza in una teoria dell’arte e della scienza

configurate ora come pharmakon, una sostanza le cui proprietà possono essere benefiche o

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nocive a seconda dei tempi e dei modi di somministrazione. Laddove l’effetto deleterio della cultura si è consumato, essa può e deve essere utilizzata per combattere i mali che ha provocato: in tal modo Rousseau riempie di senso il gesto all’apparenza incoerente di pubblicare il Narcisse. A partire dalla constatazione del male, si prospettano due possibili soluzioni: opporre al male un elemento ad esso eterogeneo, oppure rivolgere la sua azione contro il male stesso. Nel primo caso si può parlare di “modello allopatico” di cura: fuor di metafora, esso corrisponde alle rivoluzioni radicali capaci di stravolgere completamente un regime ingiusto portandolo alla distruzione. Nel secondo caso l’idea di cura si sviluppa secondo un “modello omeopatico”, che prende atto del male e intende alleviarlo trovando una conciliazione possibile tra gli elementi del sistema. Tale conciliazione richiede una metamorfosi dell’elemento nocivo, tramite la quale esso si trasforma in rimedio.

Richiamando in causa la propria commedia, Rousseau indica per essa una motivazione

minimale d’essere: lo spettacolo costituisce un vero e proprio diversivo rispetto alle

possibili azioni malvage che i suoi spettatori potrebbero altrimenti compiere. Gli spettacoli

distolgono gli uomini dalle loro occupazioni e dai loro doveri familiari e di cittadini. D’altro

canto, in un contesto nel quale le occupazioni normali sono tendenzialmente immorali o

addirittura criminali, lo spettacolo in quanto divertimento ha il potere di distrarre gli

spettatori da attività peggiori. Lo spettacolo in quanto divertimento assume una sua

funzione morale, o quasi morale. Se ci si ferma a questo livello di interpretazione, tuttavia,

il suo ruolo appare limitato e deludente. Non così se si unisce la nozione di divertimento a

quella di pharmakon: tramite lo spettacolo è possibile distogliere il pubblico dalla propria

condizione abituale concentrandone l’attenzione sulla rappresentazione. Ciò rende

possibile una comunicazione tra l’autore e il pubblico capace, se l’autore è avveduto, di

sovvertire l’effetto degli spettacoli stessi: in altre parole, di puntare il dito su quelle catene

da cui le occupazioni piacevoli tendono a distogliere gli uomini. Adottando questa chiave

interpretativa, il Narciso diviene una satira dell’uomo moderno presentata a coloro che ne

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costituiscono il bersaglio, e questo avviene proprio nel teatro, luogo simbolo delle dinamiche che la commedia denuncia.

Il quarto capitolo è dedicato alla lettura e interpretazione del Narcisse e del Pygmalion alla luce delle acquisizioni ricavate dalla ricognizione delle fonti e al loro inserimento nel quadro concettuale delineato. Con la sua teoria del pharmakon, la Préface fornisce una chiave per interpretare il ruolo del Narciso che si può estendere anche al Pygmalion. Entrambe le opere mettono in scena lo spettacolo di una cecità. L’oggetto della critica di Rousseau, ribadito nella Préface, è la disuguaglianza che caratterizza le società moderne e il fatto che queste non se ne occupino, preferendo le distrazioni offerte dagli spettacoli, dal lusso e dal sistema dell’apparenza. È dunque opportuno mettere in relazione questi due testi con il secondo Discorso, nel quale la critica dell’apparenza sociale emerge nettamente come critica politica della disuguaglianza. L’interesse di Rousseau non è semplicemente quello di sanzionare l’ipocrisia di certi ambienti, ma di combattere filosoficamente l’ingiustizia di cui essa non è che una manifestazione.

Per quanto riguarda il Narcisse, si mostrano in primo luogo i rovesciamenti e gli spostamenti messi in atto da Rousseau rispetto alla tradizione del mito. Nella commedia di Rousseau, Narciso è menzionato solo nel titolo: il protagonista è Valére, un giovane ricco e vanesio in procinto di sposarsi con la fidanzata Angélique secondo il volere del padre. La vicenda è innescata dall’iniziativa della sorella di Valére, Lucinde, che commissiona un ritratto del fratello in vesti femminili e glielo fa trovare sopra lo specchio, con l’intento di indurlo a rendersi conto della sua esagerata attenzione per la propria apparenza.

Inaspettatamente, Valére non comprende di essere lui stesso il soggetto del ritratto e parte

alla ricerca della misteriosa fanciulla, mettendo in dubbio le proprie nozze. Solo allo

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scioglimento della vicenda egli realizza il proprio errore e si dichiara disposto a superare la propria superficialità per impegnarsi seriamente nel rapporto con la futura sposa.

Delineati gli aspetti fondamentali della trama del Narcisse, si scartano le interpretazioni di ordine psicologico della commedia, che superimpongono una lettura anacronistica e incentrata sull’uomo Jean-Jacques di questo lavoro mettendone in secondo piano o ignorandone del tutto il risvolto filosofico. Si avanza invece un’interpretazione della commedia incentrata su due nozioni fondamentali. In primo luogo si evidenzia la polemica di Rousseau contro l’uso della rappresentazione come mezzo di cura dei mali sociali, dei cui limiti la vicenda del ritratto fornisce un’esposizione metaforica e, paradossalmente, una rappresentazione. Questa tensione tra la critica alla rappresentazione e l’utilizzo della medesima, che attraversa tutta l’opera di Rousseau, viene in questo caso risolta tenendo presente il fatto che la Préface offre al lettore avveduto la chiave di lettura per il Narcisse, e che quest’opera serve uno scopo diverso da quello del ritratto nella commedia, vale a dire quello di creare una consapevolezza critica e di stimolare una riflessione nel pubblico sulla società.

In secondo luogo, nell’analisi del Narcisse viene discusso il concetto di metamorfosi:

attraverso il ripercorrrimento delle tappe del secondo Discorso si vuole mostrare la centralità della metamorfosi nell’esame del passaggio da natura a società. I miti della statua di Glauco e di re Mida, nominati da Rousseau nel suo Discorso, offrono rispettivamente l’immagine del mutamento dell’uomo di natura e della strada errata intrapresa con la trasformazione.

Il passaggio dallo stato di natura allo stato sociale altera - sfigura - la natura dell’uomo, e tale alterazione è senza ritorno. La natura è assunta da Rousseau a ideale normativo costituito da un riferimento all’origine, ma l’origine è perduta e la sua conoscenza soltanto ipotetica.

Quella dello stato di natura non è storia, è una storia, costruita a partire da elementi

razionalmente scoperti e uniti in una narrazione.

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Assunta la prospettiva della centralità della metamorfosi come concetto antropologico fondamentale, si avanza un’interpretazione per la quale l’uomo naturale, giunto al limite finale dello stato di natura, ha le stesse caratteristiche del personaggio di Valére nella commedia: la vanità e l’amor proprio, appena scoperti, lo rendono concentrato su se stesso, poco attento a ciò che lo circonda ed esposto all’inganno, un Narciso incapace di districarsi nella rete delle apparenze. È qui che si creano le condizioni dell’incontro con il truffatore, colui che inganna i propri simili recintando un terreno e rivendicandone il possesso. Con l’introduzione della proprietà privata, una delle forme fondamentali che l’alienazione dell’uomo può assumere, si apre il vaso di Pandora dei mali sociali e politici denunciati da Rousseau.

Si introduce qui un’interpretazione della figura di Pigmalione che mette in relazione le nozioni di metamorfosi, dell’alienazione di sé nel prodotto delle proprie mani e dell’inganno. Nel breve melodramma dedicato al personaggio dello scultore, e redatto nel periodo della composizione dell’Emilio e del Contratto sociale, Rousseau non modifica in modo sostanziale la versione di Ovidio, ma gioca sugli aspetti più ambigui del mito per gettare un’ombra di dubbio sull’esito della vicenda. L’accento sulla follia di Pigmalione, che lascia incerti sulla realtà della metamorfosi cui egli assiste, punta l’indice contro l’inganno dell’alienazione di sé nel prodotto delle proprie mani. L’accostamento implicito dello scultore a Prometeo rafforza tale connessione, che rimanda poi alla critica delle scienze e delle arti condotta nel primo Discorso.

Questi elementi arricchiscono retrospettivamente la comprensione della scena

dell’inganno nel secondo Discorso e aprono la porta su di un’altra questione presente nella

filosofia di Rousseau, ovvero quella del modellamento educativo degli individui. Nelle sue

opere costruttive, infatti, l’autore propone due diversi tipi di progetto volti a superare il

vicolo cieco in cui l’uomo è finito a causa della metamorfosi non regolata tra stato di natura

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e stato sociale. Si tratta di due diverse alternative. La prima di queste, quella dell’educazione domestica dell’Emilio, è orientata alla formazione di un individuo inserito nel contesto della società moderna ma capace di mantenere un’integrità rispetto al conflitto tra le istanze naturali e quelle sociali. La seconda alternativa, analizzata nel quinto capitolo, sarà quella di una ideale (ri)fondazione della società su basi giuste e della formazione di uomini adatti a vivere in essa. In entrambi i casi si cerca di regolare la metamorfosi da uomo naturale (delle cui caratteristiche l’infante è lo specchio) a uomo sociale, correggendo la direzione sbagliata che tale trasformazione ha preso nel corso della storia umana.

Il progetto di superamento del conflitto interiore a livello individuale si fonda su un’educazione che, sulla base dell’analogia tra uomo di natura e neonato, modella tramite l’educazione la spiritualità di un essere umano a partire dalla sua nascita. Questa azione non è esente da derive pigmalioniche, che da una parte fanno dell’inganno e dell’illusione una delle componenti principali dell’educazione di Emilio e, dall’altra, sembrano inficiare la riuscita del progetto educativo stesso. Se infatti con il suo progetto educativo Rousseau si propone di formare un uomo spiritualmente libero dalle catene dell’apparire sociale, l’esito dell’opera pedagogica getta una luce ambigua sul suo successo. Con I solitari, infatti, si assiste al naufragio dell’autonomia di Emilio di fronte alla prova del reale, mostrando la dipendenza del protagonista dalla figura e dalla guida del tutore.

Nell’ultimo capitolo si affronta il secondo versante della riflessione progettuale di

Rousseau, quello rivolto alla costruzione ideale di una società giusta e alla formazione dei

suoi cittadini. Da questo punto di vista riemerge la dialettica irrisolta tra intenti e mezzi del

progetto proposto: come quella di Emilio, anche l’educazione del cittadino si pone come

obiettivo la promozione della libertà, ma di fatto costruisce una rete di illusioni attorno

all’individuo, lavorando alla creazione di un sentimento di attaccamento patriottico alla

comunità del contratto sociale che renda impossibile infrangerne i principi di uguaglianza,

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libertà e partecipazione. Questo sentimento, tuttavia, impedisce anche di assumere una distanza critica dalla struttura della società stessa. La questione della distanza è al centro della polemica contro gli spettacoli della Lettera a d’Alembert, che viene analizzata in questo contesto per poi affiancarla al suo controaltare teorico, vale a dire l’idea della festa. Tramite essa Rousseau opera un sovvertimento dei meccanismi della rappresentazione volto ad annullare le distanze create dal teatro, metafora concreta delle società moderne. Tramite le feste si mira a creare una comunità di sentimenti di partecipazione e adesione dei singoli al tutto della comunità, che ne esce cosi rafforzata e vivificata. Ma anche in questo caso, il processo comporta una manipolazione e un’orchestrazione che stridono gli ideali di trasparenza e libertà promossi in superficie, il che conduce alla domanda conclusiva, quella relativa alla presa di posizione di Rousseau nei confronti della verità. Su di essa si eseguono riflessioni a partire dalla quarta passeggiata delle Fantasticherie del passeggiatore solitario, mettendo in luce il piano morale sul quale Rousseau si pone per giudicare della questione.

Si presentano infine in appendice le traduzioni dei testi del Narcisse e del Pygmalion

eseguite per questa trattazione.

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Capitolo 1

FICTION, MITO E FABLE NEL SETTECENTO

Il Narcisse e il Pygmalion di Rousseau sono opere accomunate da due elementi peculiari, immediatamente visibili a una prima considerazione: in primo luogo si tratta di testi destinati alla messa in scena, dunque di forme della finzione per eccellenza, il teatro. In secondo luogo, entrambi contengono un immediato rimando a figure della tradizione mitica. Queste scelte da parte dell’autore hanno un significato non solo interno, riferito all’insieme del suo lavoro, ma anche in relazione con il contesto di pensiero entro il quale egli opera, contesto che questa sezione si propone di indagare, esplorando i significati e i ruoli attribuiti al mito e alla finzione nel Secolo dei Lumi.

1.1 Ragione illuminata, verità e mito

In quali forme si attesta la presenza del mito nell’Illuminismo?

La posizione stessa della domanda serve a contrastare una certa immagine stereotipata

e semplificante dell’Illuminismo e della modernità in generale. In accordo con questo topos

della storia del pensiero, tale periodo sarebbe caratterizzato dall’affermazione del primato

assoluto della ragione e dal tentativo di adeguare la razionalità filosofica al modello fornito

dalle scienze naturali, incoraggiato dai successi esemplari della fisica e della matematica del

tempo. Questa visione porta con sé numerosi problemi, non da ultimo quello di far sparire

le distinzioni tra le varie declinazioni e differenze tradizioni dell’epoca: “i «lumi» francesi,

l’Aufklärung tedesca, l’illuminismo italiano, l’Enlightenment inglese hanno tra loro solo

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mutevoli parentele»

1

. È tuttavia possibile guardare a quest’epoca dai contorni temporali e geografici mutevoli a seconda delle classificazioni e interpretazioni storico-filosofiche come a “uno sforzo collettivo di elucidazione, che mira a liberare il pensiero occidentale dai vincoli della teologia e della metafisica”

2

.

Se dunque l’immagine della filosofia dei lumi come affermazione e trionfo della ragione sic et simpliciter mostra i propri limiti esegetici, è tuttavia indubbio che questa sia la direzione verso la quale si muovono alcune delle testimonianze più illustri e rappresentative dell’epoca. Emblematica di questo orientamento è Pensées diverses sur la comète, una delle opere più note di Pierre Bayle accanto al monumentale Dictionnaire dedicata alla critica delle credenze legate al passaggio delle comete, che venivano tradizionalmente interpretate come foriere di presagi negativi. A queste superstizioni e credenze Bayle oppone, sotto il rivestimento di un linguaggio teologico, un duro criticismo illuminato, dal momento che

“[…] un Docteur […] ne doit nourrir son esprit que de raison toute pure”

3

. Le credenze riguardanti le comete, legate all’ignoranza e allo stupore, vengono amplificate dai poeti, dalle tradizioni e dagli storici, fonti sulle quali non ci si può basare per sostenere un esame razionale: “Il n’est pas possible d’avoir un plus mechant fondement” [dell’autorità dei poeti]

4

. Bayle evidenzia con lucidità lo sfruttamento da parte del potere della superstizione e dell’ignoranza del popolo evidenziando come la questione non fosse puramente scientifica:

La Politique s’est aussi mêlée du soin de faire valoir les presages, afin d’avoir de bonnes ressources, ou pour intimider les sujets, ou pour les remplir de confiance. […] Rien n’est si puissant […] que la superstition pour tenire en bride la populace. Quelque effrenée et inconstante qu’elle soit, si elle a une fois l’esprit frappé d’une vaine image de Religion, elle obeïra mieux à des Devins, qu’à ses Chefs.

5

1

Cfr. E. Franzini, Estetica del Settecento, Il Mulino, Bologna 1995, p. 34.

2

Cfr. J. Chouillet, L’esthétique des Lumières, PUF, Paris 1974, p. 6, citato in E. Franzini, L’estetica del Settecento, cit., p. 36.

3

P. Bayle, Pensées diverses sur la comète, Édition critique a cura di A. Prat, Société Nouvelle de Librairie et d’Édition – Édouard Cornély et C

ie

Éditeurs, Paris 1911, t. 1, p. 27.

4

P. Bayle, Pensées diverses sur la comète, cit., p. 27.

5

P. Bayle, Pensées diverses sur la comète, cit., pp. 205-206, corsivo nel testo.

(19)

Se gli esempi portati avanti da Bayle si rifanno alla storia del mondo antico, costellata di presagi e divinazioni, “[…] le genie des Peuples d’aujourd’huy est tout semblable à celui des Anciens, qui se repaissoient de fables et de vaines conjectures”

6

.

A queste immaginazioni, composte di miti e vane congetture, si contrappongono les lumières de la philosophie

7

, capaci di illuminare le reali cause naturali su cui le comete riposano, dissipando così ogni credenza nelle storie sul loro essere portatrici di sfortuna. La realtà chiamata in causa da Bayle e contrapposta alle credenze è una realtà verificabile in base alla ragione e all’esperienza. La modalità principe di verifica, garante della realtà delle proprie affermazioni, è la riduzione del mondo esterno a materia e movimento, rendendolo in tal modo suscettibile di espressione matematica.

È questo il discorso portato avanti dalla scienza e dal rinnovamento di un sapere che si vuole emancipare dalla tradizione e trovare in se stesso e nei propri procedimenti la garanzia della sua verità. Contro al ricorso alla tradizione e all’autorità, quasi che “la filosofia sia un libro e una fantasia d’un uomo, come l’Iliade e l’Orlando furioso, libri ne’

quali la meno importante cosa è che quello che vi è scritto sia vero”

8

, Galileo Galilei opponeva fieramente la posizione del nuovo sapere in via di costituzione:

La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola;

senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto.

9

La verifica tramite esperienze costruite rigorosamente si fa perno imprescindibile della convalida razionale del sapere, ed è così che le uniche qualità dotate di realtà nelle cose a

6

P. Bayle, Pensées diverses sur la comète, cit., p. 247, corsivo mio.

7

P. Bayle, Pensées diverses sur la comète, cit., p. 4.

8

G. Galilei, Il Saggiatore, in Opere, vol. II, a cura di S. Timpanaro, Rizzoli, Milano-Roma, 1938, p.600.

9

G. Galilei, Il Saggiatore, cit., p.600.

(20)

prescindere dal sensorio umano saranno per Locke, le qualità primarie, ovvero le quantità misurabili:

Le qualità così intese nei corpi sono: In primo luogo, quelle che sono del tutto inseparabili dal corpo, in qualunque stato esso sia; e tali che in tutte le alterazioni e cambiamenti che subisce, con tutte le forze che si esercitano sopra di esse, il corpo le conserva costantemente […] Io chiamo, queste, qualità originarie o primarie di un corpo, e credo che possiamo osservare che producono in noi idee semplici, e cioè la solidità, l’estensione, la figura, il movimento o il riposo e il numero

10

.

Ciò che sembra emergere conseguentemente da questo quadro appena accennato è l’esclusione netta dei prodotti della fantasia, delle finzioni e del mito dal campo della realtà misurabile della scienza e quindi della dignità filosofica. Questa concezione, cui certamente ha contribuito in una certa misura la stessa autorappresentazione dell’epoca, non rende tuttavia giustizia della presenza di elementi estranei a questo quadro nel discorso filosofico dell’Illuminismo stesso. La filosofia dei Lumi intrattiene un rapporto talvolta problematico, talvolta analitico, talvolta strumentale, ma comunque aperto, con la finzione, l’immaginazione e il mito, ovvero con modalità di relazione tra la ragione e il mondo non riconducibili all’immagine della pura razionalità indagante e calcolante della scienza moderna.

Esemplare di questo rapporto sfaccettato è il Discorso sul metodo di Cartesio, opera fondativa ed emblematica del pensiero moderno. Nonostante la sua metafisica venga messa in discussione a più riprese dagli autori successivi, è innegabile che nell’opera di Cartesio vengano stabiliti i parametri guida della moderna ricerca della verità. La ricerca di una verità posta sotto il segno della chiarezza e della distinzione, il privilegio della matematica e delle scienze della natura, il sospetto verso la tradizione, la critica degli studi letterari, la posizione di un soggetto che si fa responsabile, con la sua capacità razionale, delle indagini attorno a un mondo inteso come oggetto, sono tutti elementi che segneranno profondamente il

10

J. Locke, Saggio sull’intelletto umano, a cura di M. e N. Abbagnano, UTET, Torino, 1971,

pp.168-169.

(21)

pensiero della nuova epoca. Nonostante ciò, proprio nella roccaforte della dicotomia moderna tra vero e falso, tra certo e meramente possibile, probabile o verosimile, è possibile trovare traccia di un discorso più sfumato e ambiguo concernente il mito. Nella prima parte del suo lavoro, Cartesio scrive, presentando il proprio Discorso:

[…] sarò ben lieto di far vedere, in questo discorso, quali sono i percorsi che ho seguito e di rappresentarvi la mia vita come in un quadro [representer ma vie comme en vn tableau] […] proponendo questo scritto semplicemente come una storia [comme vne histoire], o, se preferite, come un mito [comme vne fable], nella quale, insieme ad alcuni esempi che si possono imitare, se ne troveranno forse anche molti altri che si avrà ragione di non seguire, spero che esso sarà utile a qualcuno, senza esser nocivo a nessuno, e che tutti mi siano grati della mia franchezza.

11

Che cosa Cartesio intenda per fable e quale giudizio esprima in merito è deducibile dal seguito della sezione, la quale non manca tuttavia di lasciare aperti ampli margini di ambiguità. Nel ricapitolare le tappe della propria formazione umanistica, Cartesio torna a considerarne due volte gli stessi elementi costitutivi: la prima volta egli enumera i pregi tradizionalmente associati alle materie che compongono il canone degli studi letterari; la seconda si sofferma nuovamente su queste materie, mettendone impietosamente a nudo i limiti e i difetti e preparando così le basi per l’accettazione, da parte del lettore, del loro rifiuto. Se dunque egli in prima istanza afferma rispetto alla fable e alla storia che “la finezza dei miti risveglia lo spirito” e che “le azioni memorabili della storia lo elevano e che, lette con discernimento, aiutano a formarsi la capacità di giudizio”

12

, la valutazione rispetto a esse suonerà diversamente nel ripercorrimento di questi stessi elementi:

[…] i miti fanno immaginare come possibili tanti avvenimenti che non lo sono affatto, e anche le storie più fedeli, se pure non cambiano né aumentano il valore delle cose per renderle più degne di essere lette, quanto meno ne omettono quasi sempre le circostanze più basse e meno illustri: da ciò consegue che il resto non compare così com’è, e che coloro che regolano i loro

11

Cartesio, Discorso sul metodo, a cura di L. Urbani Ulivi, Bompiani, Milano 2002 e 2008, pp.

91-93, corsivo mio, traduzione modificata.

12

Cartesio, Discorso sul metodo, cit., p. 95.

(22)

costumi sugli esempi che ne traggono sono soggetti a cadere nelle stravaganze […] e a concepire progetti che oltrepassano le loro forze

13

.

La filosofia, infine, che “dà modo di parlare con verosimiglianza di tutto e di farsi ammirare dai meno sapienti”

14

è un campo in cui si sono esercitati i “più eccellenti ingegni che siano vissuti da molti secoli in qua” e ciononostante non ha mai raggiunto alcuna conclusione certa. Pertanto, conclude Cartesio, “considerai pressocché falso tutto ciò che non fosse nulla di più che verosimile”

15

. Si tratta di una risoluzione estrema e categorica:

ciò che infatti muove Cartesio nella sua ricerca è “un estremo desiderio d’imparare a distinguere il vero dal falso”

16

: ed è per questo motivo che egli abbandona lo studio delle lettere per “non cercare più altra scienza che quella che potessi trovare in me stesso o nel gran libro del mondo [dans le grand liure du monde]”

17

.

L’accento posto sulla questione del verosimile richiama una distinzione tradizionale, nota tanto a Cartesio quanto al suo pubblico, rintracciabile nella Retorica ad Erennio, testo di attribuzione ciceroniana spuria, fondamentale riferimento dell’antichità per il sapere relativo alle forme di espressione retorica. In essa si stabilisce che “Fabula est quae neque veras neque veri similes continet res […] Historia est gesta res, sed ab aetatis nostrae memoria remota”

18

: il mito è la narrazione di cose né vere né verosimili, mentre la storia contiene fatti reali di un’epoca lontana. A questi due elementi si aggiunge l’Argomentum come

“ficta res quae tamen fieri potuit, velut argumenta comoediarum”: fatti immaginari che tuttavia sarebbero potuti accadere, come nell’esempio delle commedie. Una narrazione verosimile, inoltre, sarà tale “si ut mos, ut opinio, ut natura postulat dicemus”, se verrà

13

Cartesio, Discorso sul metodo, cit., pp. 97-99, corsivo mio, traduzione modificata.

14

Cartesio, Discorso sul metodo, cit., p. 97, corsivo mio.

15

Cartesio, Discorso sul metodo, cit., p. 101.

16

Cartesio, Discorso sul metodo, cit., p. 105.

17

Cartesio, Discorso sul metodo, cit., p. 103.

18

Cfr. Retorica ad Erennio, I, 13, in Cicerone, Opere retoriche, Mondadori, Milano 2007, pp.

564-565.

(23)

esposta “come richiede il costume, come l’opinione corrente, come la natura”

19

. Questi criteri, secondo l’estensore del manuale, vanno rispettati anche nella narrazione di fatti reali, dal momento che spesso essi non possono appellarsi ad altre garanzie di verità. Vale la pena di richiamare in questo contesto la posizione aristotelica:

[…] compito del poeta non è dire le cose avvenute, ma quali possono avvenire, cioè, quelle possibili secondo verisimiglianza o necessità. Lo storico e il poeta non si distinguono nel dire in versi o senza versi […] l’uno dice le cose avvenute, l’altro quali possono avvenire. Perciò la poesia è cosa di maggior fondamento teorico e più importante della storia perché la poesia dice piuttosto gli universali, la storia i particolari.

20

Nell’esclusione cartesiana del verosimile dal campo del sapere vi è un rifiuto di riconoscere quella dimensione conoscitiva che Aristotele attribuiva ad esso in base alla sua capacità di slegarsi dalla contingenza delle vicende individuali per sollevarsi all’universalità di quelle possibili. Ma la posizione cartesiana è ambigua, poiché nel presentare il proprio lavoro, egli fa appello a delle forme tradizionali, quelle della storia o della fable, che poi immediatamente rigetta in quanto parte di quel sapere letterario e classico incapace di garantire un accesso alla verità, implicitamente ammettendo (o forse ironicamente suggerendo) i limiti dell’opera stessa. D’altro canto, per quanto entrambe le forme di narrazione si rivelino inaffidabili e capaci di trarre in in inganno coloro che cercano in esse una direzione di comportamento, nondimeno sono capaci di risvegliare l’attenzione e l’ingegno, offrendo un vantaggio educativo e pedagogico. Non solo. Se la fable da un lato non pretende in alcun modo di trasmettere un contenuto vero (neque veras neque veri similes continet res), e la storia, per quanto basata su fatti reali, segue il verosimile nella sua esposizione, esse sono allora portatrici, in una certa misura, di falso. Ma nel discorso cartesiano questo elemento è manifesto e dichiarato, quindi capace di risvegliare ulteriormente e mettere alla prova il giudizio critico del lettore.

19

Cfr. Retorica ad Erennio, I, 16, cit., pp. 568-569.

20

Aristotele, Poetica 51 a36 ss., a cura di D. Lanza, BUR, Milano 1987, p.147.

(24)

Se l’affermazione categorica per la quale il verosimile va respinto come falso sembra escludere qualunque ruolo per questi elementi in un’opera consacrata alla ricerca del vero indubitabile, il fatto stesso che il lavoro attraverso il quale viene espressa tale condanna sia redatto e presentato nella forma di una narrazione, storica o addirittura mitica, apre dunque un orizzonte di legittimità filosofica per tali forme: è questa stessa oscillazione tra condanna e utilizzo, tra indagine razionale e sfruttamento retorico o strategico, a caratterizzare il rapporto dell’Illuminismo con il mito e, in generale, le forme della finzione. Una tassonomia di questo rapporto multiforme è dunque necessaria a complicare il quadro di un’epoca procedendo oltre il suo stereotipo e a caratterizzare la posizione del pensiero di Rousseau in essa.

1.2 Mito come fable: definizione preliminare

Per studiare il ruolo e la posizione del mito nel Secolo dei Lumi è necessario assumere preliminarmente la sua caratterizzazione generale, per poi scendere ad analizzare in dettaglio gli elementi che la compongono. In ambito francese il mito viene generalmente denominato fable. L’etimologia della parola rimanda al latino fabula, a sua volta derivato di fāri, parlare, dire, narrare, cantare, celebrare; in accordo con questa derivazione, fabula indica in primo luogo la conversazione, i discorsi, poi le chiacchere o dicerie e racconto, favola, mito leggenda; infine una sciocchezza, una fandonia o un soggetto teatrale

21

. Nell’uso comune del termine attestato dal Dictionnaire de l’Académie Françoise

22

la prima

21

La connessione etimologica tra fabula e fari, parlare, accomuna il latino al greco, in cui la parola mythos viene fatta da alcuni derivare dalla radice µυ-, legata all’ambito semantico della fonazione. Nei poemi omerici, inoltre, la parola compare in numerose occorrenze in locuzioni che significano “prendere parola”, assumendo correntemente il senso di

“discorso, parola, discorso pubblico”; solo in seguito il senso del termine viene ristretto a quello di mito. Cfr. in merito C. Bottici, A Philosophy of Political Myth, Cambridge University Press, Cambridge, 2010, cap. 1, in particolare pp. 20-21.

22

Cfr. Dictionnaire de l’Académie française, I edizione, Paris 1694 e IV edizione, Paris 1762.

(25)

accezione di fable è “chose feinte & inventée pour instruire & pour divertir”. Oltre a ciò, esso ha anche un senso collettivo, che indica più nello specifico “toutes les Fables de l’Antiquité Païenne”. Questi significati coesistono con l’uso della parola per indicare le favole intese come apologhi o racconti

23

. Da ultimo, il sostantivo significa “fausseté, chose controuvée”: falsità, menzogna

24

.

Fable, dunque, indica in generale una narrazione fittizia, falsa o menzognera, che può essere sia del genere dell’apologo o della favola morale che un mito in senso stretto e, intesa collettivamente, indica l’insieme delle narrazioni mitiche del paganesimo. L’ultima accezione tra quelle elencate nel vocabolario del termine mette in luce quel rapporto problematico con la verità e con il reale che, come vedremo, il mito porta con sé nel senso comune dell’epoca. Facendo un paragone con l’inglese, questo ultimo aspetto emerge ancora più spiccatamente. Secondo il New World of English Words, fable indica “a Story made on purpose for Instruction, being an Image fit to represent the Truth; also a feigned Tale, or meer Falsehood”

25

. La connessione del termine con le storie del mito non viene esplicitata, ma è rintracciabile consultando le voci relative al lemma mythology, con il quale si indica “an Account of the fabulous Deities and Heroes of Antiquity; or an Exposition of Poetical Fictions and Fables”, mentre si chiama mythologist “one skill’d in that Science, an Expounder of Fables”. È interessante la sfumatura introdotta in relazione a fable, secondo la quale in essa ci troviamo di fronte a una narrazione intenzionalmente non fedele alla realtà ma, a un livello non letterale, capace di dare una rappresentazione efficace della verità. In tal modo, per quanto a rigor di senso falsa, la fable risulta legittima e veritiera se portata sul piano dell’allegoria. Secondo il Dictionary di Samuel Johnson, fable indica “1. A

23

Un esempio di tale accezione del termine è dato dalla raccolta Fables choisies, mises en vers par M. de La Fontaine, di J. de La Fontaine, Barbin, Paris 1668, 1678 e 1694; per quanto riguarda l’area inglese, la medesima accezione è riscontrabile nella Fables of the Bees: or Private Vices, Public Benefits di B. Mandeville, London 1705, 1714.

24

Controuvée è il participio passato del verbo controuver, che letteralmente significa calunniare.

25

Cfr. E. Phillips, The New World of English Words, or, a General Dictionary, Londra 1658.

(26)

feigned story intended to enforce some moral precept; 2. A fiction in general; 3. A vitious or foolish fiction; 4. The series or contexture of events which constitute a poem epick or dramatick; 5. A lye; a vicious falsehood”. Anche in questo caso, la connessione con il mito in senso stretto è da ricercare nelle voci mythology definita come “System of fables”, e mythologist, che significa “A relator or expositor of ancient fables of the heathens”

26

.

Mettendo da parte l’accezione di fable come apologo o favola morale, è possibile dunque caratterizzare provvisoriamente la comprensione generale del mito nel Settecento come

“narrazione fittizia tipica del paganesimo”. Prima di approfondire l’analisi della fable, e di determinare se tale definizione preliminare sia soddisfacente o meno, è opportuno concentrare l’attenzione sulla questione, più generale, della finzione, nella cui categoria il mito viene incluso.

1.3 Finzioni

L’esposizione seguente ha per oggetto l’analisi e la scomposizione della nozione di finzione. Il termine “finzione” deriva dal latino fictio, a sua volta riconducibile a fictus, participio passato di fingere. Già in latino il verbo fingere presenta una varietà di significati che si sono sviluppati a partire dal senso di base. Il significato originario e proprio del verbo è legato al campo semantico della produzione di figure tramite modellazione di materiali:

ars fingendi è la scultura, imago ficta la statua. Passando dal significato concreto all’accezione astratta, fingere denota in prima istanza l’atto dell’immaginarsi, del raffigurarsi mentalmente, attestato in italiano dal celebre “io nel pensier mi fingo” leopardiano. Il termine si estende poi a indicare la pratica della menzogna e della dissimulazione, in particolare tramite le

26

Cfr. S. Johnson, A Dictionary of the English Language: in which the Words are deduced from their

originals, and illustrated in their different significations by examples from the best writers: to which are

prefixed, a history of the language, and an English grammar, Londra 1755.

(27)

forme di fictus e del suo derivato fictio: produzione di inganni tramite il proprio atteggiamento e le proprie parole. Dall’altro lato, l’atto del fingere si riferisce all’attività artistica in generale nella sua variegata produzione figurativa e letteraria.

Il termine finzione è dunque per sua natura polisemico e ambiguo: per la filosofia esso costituisce una questione feconda, in virtù della relazione problematica con il reale cui esso rimanda. La questione di tale relazione e del rapporto ambivalente della finzione con il sapere è all’origine della riflessione filosofica su di essa, che si inaugura con il pensiero di Platone. La nota e spesso semplificata condanna platonica dell’arte si colloca in un contesto di riflessione sulla produzione di immagini in senso lato intesa come mimesi e dei problemi che questa pone. Come noto, per Platone la produzione artistica rappresenta un problema da un lato in quanto ingannevole e dall’altro in quanto porta avanti l’allontanamento per gradi dall’originale ideale, di cui la rappresentazione artistica è copia di secondo ordine. Ma a tale critica si affianca ambiguamente l’utilizzo platonico di finzioni dialogiche e mitologiche come strumento di ricerca, comunicazione e illustrazione del sapere filosofico, aprendo così fin dall’origine il campo di tensione in cui si colloca il concetto di finzione, tensione non ancora esaurita nell’età moderna e illuministica.

1.4 Filosofia e fiction: analisi concettuale e utilizzo strumentale

L’opera di Rousseau è inserita in un contesto, quello del XVIII secolo, nel quale i rapporti tra filosofia e finzione si delineano secondo due modalità principali: da un lato quella dell’analisi filosofica del concetto e dall’altro una pratica della filosofia che si avvale della finzione, secondo diverse declinazioni, come strumento nel suo procedere

27

. Questa

27

Cfr. B. Binoche e D. Dumouchel, Esquisse de typologie in B. Binoche e D. Dumouchel,

Passages par la fiction. Expériences de pensée et autres dispositifs fictionnels de Descartes à Madame de

Staël, Hermann, Paris 2013, pp. 5-12.

(28)

polarità tra analisi e utilizzo colpisce se si pensa al significato attribuito correntemente al termine e alle riflessioni filosofiche in posizione generalmente sfavorevole nei confronti della nozione di finzione.

Nei vocabolari dell’epoca fiction figura in primo luogo nelle accezioni di menzogna e simulazione, poi come finzione artistico-letteraria. Per quanto riguarda l’ambito francese, nel Dictionnaire de l’Académie françoise

28

il termine fiction viene definito in primo luogo come

“Invention fabuleuse”,“Fiction poëtique” e in secondo luogo come “Mensonge, Dissimulation, Deguisement de la verité”; nell’edizione del 1762 si fa riferimento anche alla fiction de droit, dispositivo giuridico utilizzato per applicare una norma in favore di qualcuno fingendo, senza verificarlo, che le condizioni di applicabilità siano soddisfatte.

Analogamente il Dictionnaire de Trévoux

29

, riporta i seguenti significati di fiction: “Mensonge;

imposture”; “inventions poëtiques, des productions de l’imagination. Fabula” e “Fictions de droit”. Non diversamente in area inglese, per cui si vedano il New World of Words e il Dictionary of the English Language, dove fiction indica rispettivamente: “an Invention or Device, a lie or feigned story, a Cog or Cheat”; “The act of feigning or inventing; the thing feigned or invented”. Il derivato fictitious viene a sua volta così definito: “feigned, fabulous, counterfeit”; “1. counterfeit, false, not genuine; 2. feigned, imaginary; 3. not real; not true;

allegorical; made by prosopopœia”

30

.

Per quanto riguarda la riflessione filosofica sulla finzione un esempio autorevole è dato dal Trattato sulla natura umana di Hume, che fa riferimento a essa in questi termini:

Un’opinione o una credenza non è altro che una idea, diversa dalla finzione non per natura o per l’ordine delle sue parti, ma per la maniera in cui è concepita. [...] Come mettere in dubbio che le idee a cui assentiamo sono più forti, più ferme, più vive di quelle dei castelli in aria? Se uno si mette a leggere un libro come fosse un romanzo, e un altro come fosse una storia vera, manifestamente essi ricevono le medesime idee e nello stesso ordine […]

28

Cfr. Dictionnaire de l’Académie françoise, I edizione, Paris1694 e IV edizione, Paris1762.

29

Cfr. Dictionnaire de Trévoux, Édition Lorraine, Nancy 1738-42

30

Cfr. E. Phillips, New World of English Words, cit. e S. Johnson, A Dictionary of the English

Language, cit.

(29)

benché quanto affermano non abbia la stessa influenza su di loro. Il secondo ha una concezione più viva di tutti i particolari […] il primo, che non dà nessun credito alla testimonianza dell’autore, ha una concezione più debole, più languida, di tutti questi particolari […].

31

Come si vede, la finzione viene qui definita secondo un procedimento comparativo che la pone accanto alla credenza in quanto modalità di rapportarsi a un determinato contenuto mentale. In tal modo Hume tiene fermo l’aspetto di distacco dal reale implicato dalla finzione, qualificandola come modalità non impegnativa e superficiale di considerazione, ovvero un enunciato che non comporta una credenza ferma. È da sottolineare come la sussunzione sotto la categoria di finzione non sia qui condotta in base al contenuto dell’enunciato, ma alla modalità della sua ricezione: si tratta dunque di una caratterizzazione relazionale e non sostanziale, ovvero determinata da criteri esterni e non interni all’enunciato stesso.

Nella voce dell’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert dedicata a Fiction, redatta da Marmontel e contenuta nel volume apparso nel 1756

32

, l’analisi risulta circoscritta al senso estetico del concetto, fornendo una classificazione dei tipi di finzione impiegabili in arte.

Dopo aver definito la fiction come “production des Arts qui n’a point de modele complet dans la nature”, Marmontel specifica che l’immaginazione, impegnata nella produzione di fiction, non crea niente, ma si limita a comporre gli elementi presenti in natura. In accordo con una concezione debitrice delle riflessioni di Batteux e al fondo ancora mimetica dell’arte, la sua attività non è mai una creatio ex nihilo, ma opera sui dati della sensazione e dell’esperienza, componendoli in modo originale. Questo tributo verso la classicità non esclude tuttavia una concezione rinnovata di cosa significhi imitare la natura: se essa rimane

31

D. Hume, Trattato sulla natura umana, in Opere, vol. I, a cura di E. Lecaldano e E. Mistretta, Laterza, Bari 1971, pp. 111-112.

32

Cfr. D. Diderot e J. R. d’Alembert, Encyclopédie, ou dictionnaire raisonné des sciences, des arts et

des métiers, par une société de gens de lettres, 17 tomes, Paris, Briasson et. al. 1751-1765; 11 tomes,

Planches 1762-1772; Supplément, 4 tomes, 1776-1777, vol. VI, 1756, pp. 679 ss.

(30)

il punto di partenza dell’operato della artista, questi non è tuttavia tenuto a seguirne pedissequamente i modelli, ma dimostra il proprio talento tramite la capacità di trovare nella natura ciò che non vi appare direttamente in superficie. Da ciò segue, nell’articolo di Marmontel, la distinzione tra quattro tipi di fiction, in base al grado di vicinanza alla natura e all’armonizzazione tra loro degli elementi composti dall’immaginazione.

In primo luogo, la fiction en beau consiste ne “l’assemblage régulier des plus belles parties dont un composé naturel est susceptible”

33

. In tal modo, tramite la formazione di un modello intellettuale, “l’imitation doit corriger la nature”, dando luogo a rappresentazioni del mondo “tel qu’il devoit être, s’il n’étoit fait que pour nos plaisirs”

34

. Marmontel si colloca qui nel solco dell’estetica settecentesca inaugurato da Charles Batteux, che nel suo Les beaux-arts réduits à un même principe scriveva:

Sur ce principe, il faut conclure que si les Arts sont imitateurs de la Nature ; ce doit être une imitation sage & éclairée , qui ne la copie pas servilement ; mais qui choisissant les objets & les traits , les présente avec toute la perfection dont ils sont susceptibles. En un mot , une imitation , où on voye la Nature , non telle qu’elle peut être , & qu’on peut la concevoir par l’esprit.

Que fit Zeuxis quand il voulut peindre une beauté parfaite? […] il rassembla les traits séparés de plusieurs beautés existantes. Il se forma dans l’esprit une idée factice qui résulta se tous ces traits réunis : & cette idée fut le prototype, ou le modéle de son tableau, qui fut vraisemblable & poëtique dans sa totalité,

& ne fut vrai & historique que dans le parties prises séparément. Voilà l’exemple donné à tous les Artistes […].

35

Emerge chiaramente da queste indicazioni un ideale estetico per cui l’immaginazione ha una libertà compositiva, ma deve pagare il suo tributo al reale in termini di verosimiglianza:

e questo tratto, come si vedrà, non ha a che fare unicamente con la rappresentazione del bello, ma anche con una ricerca di una verità di tipo diverso da quella filosofica, ma con una sua dignità e un suo statuto riconosciuto nella misura in cui mantiene un rapporto equilibrato con il modello naturale.

33

D. Diderot e J. R. d’Alembert, Encyclopédie , cit., vol. VI, p. 679.

34

D. Diderot e J. R. d’Alembert, Encyclopédie , cit., vol. VI, p. 679.

35

C. Batteux, Les beaux-arts réduits à un même principe, Chez Durand, Paris 1746, pp. 24-25.

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