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Paul Ricoeur e l’ermeneutica delle arti. Dalla singolarità dell’opera alla singolarità della vita

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Annalisa Caputo

Paul Ricoeur e l’ermeneutica delle arti.

Dalla singolarità dell’opera alla singolarità della vita.

Abstract: Starting from Rembrandt and the Ricoeurian interpretation of the famous painting Aristotle touches the bust of Homer, this essay focuses on the text/interview with Paul Ricœur Arts, Languages and Hermeneutic Aesthetics. Trying to indicate the innovative themes of the interview, Caputo identifies (as a link-category between the philosophy of art and philosophy of life) the question of singularity, and the possibility/impossibility of communicating the naked experience that characterizes it.

Partendo da Rembrandt e dall‟interpretazione che Ricœur dà del noto quadro Aristotele tocca il busto di Omero, il saggio si sofferma sul testo/intervista di Paul Ricœur Le arti, i linguaggi e l’estetica ermeneutica.. Provando ad indicare i temi „innovativi‟ presenti in essa, Caputo arriva ad individuare, come categoria-cerniera tra la filosofia dell‟arte e la filosofia dell‟esistenza, la questione della singolarità (e della possibilità/impossibilità di comunicare la nuda esperienza che la caratterizza).

Keywords: Hermeneutics, Arts, Singularity, Rembrandt, Communicability Parole chiave: Ermeneutica, arti, singolarità, Rembrandt, comunicabilità

***

1) Aristotele ‘tocca’ il busto di Omero: la filosofia in dialogo con l’altro da sé

«Questo quadro di Rembrandt, intitolato Aristotele che guarda un busto di Omero (…) – scrive Ricoeur in L’unico e il singolare – è il simbolo dell‟impresa filosofica, quale io la percepisco»1.

Da un lato „il filosofo‟ per eccellenza, Aristotele. Dall‟altro „il poeta‟ per eccellenza, Omero. La filosofia, spiega Ricoeur «non comincia da niente; inizia a partire dalla poesia»2. Inizia, potremmo dire

allargando lo spettro3, dal

pre-filosofico, dall‟a-pre-filosofico, da ciò che è „altro‟ da se stessa. E non si limita a guardare e contemplare, ma „tocca‟ il busto di Omero. Tocca la vita. Vuol farne esperienza.

Sé come un altro è il titolo del libro

più famoso di Ricoeur4. Ma è anche,

se vogliamo, la cifra della sua filosofia ermeneutica, la radice e il senso della sua impostazione interpretativa e dialogica. Non a caso è stato definito da molti interpreti «il filosofo di tutti i dialoghi»5.

1 P. Ricoeur, L’unico e il singolare, tr. it. di E. D‟Agostini, Servitium, Sotto il monte (BG), 2000, p. 47. 2 Ibid.

3 Come fa Ricoeur in altri testi; cfr. per esempio: Id., Lectures 2. La contrée des philosophes, Seuil, Paris,

1992.

4 Id., Sé come un altro, tr. it. di D. Iannotta, Jaca Book, Milano, 1993. 5 Rimandiamo per questo al nostro Editoriale.

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La sua filosofia per principio è dialogo: con la storia della filosofia, certo. Ma anche con psicanalisi, con le scienze (scienze umane e scienze della natura), con la linguistica, lo strutturalismo, ecc. Ma tutto questo è

possibile (e doveroso) nell‟ottica ricoeuriana, perché la filosofia è, potremmo dire, sé come un‟altra. È in quanto dialogo con l‟alterità, con ciò che è diverso da lei. Così come ognuno di noi non sarebbe se stesso senza il dialogo interno con l‟alterità che ci abita (e che siamo noi stessi, siamo noi a noi stessi), così come ognuno di noi non sarebbe se stesso senza il dialogo (conscio o inconscio, verbale o non verbale) che da sempre, da quando nasciamo fino all‟ultimo istante della nostra vita „siamo‟ (dialogo con chi ci è accanto, con i „tu‟, con i ciascuno, con gli amici e con i nemici, con i libri che leggiamo

e con i segni delle storie, dalla storia che abitiamo6), così pure è per la filosofia. Che non

sarebbe se stessa se non fosse in dialogo interno con la propria storia, ma anche in dialogo con tutto ciò che filosofia non è.

Il quadro di Rembrandt, nell‟interpretazione di Ricoeur, ce lo ricorda. «La filosofia è sempre un lavoro di secondo grado, (…) un discorso di secondo livello»7. Non è mai

„filosofia prima‟, ma sempre „filosofia seconda‟.

Il lavoro dell‟interpretazione (del logos, se vogliamo) si pone sempre a partire da qualcosa che lo precede: che sia «il linguaggio ordinario, quello delle scienze, della psicanalisi, il discorso poetico». Ed è quello che Ricoeur ha fatto durante tutto l‟arco della sua vita, moltiplicando gli „altri‟, moltiplicando i discorsi, i linguaggi, le discipline con cui ha voluto entrare in dialogo. Per arricchire – in questa mediazione – la stessa filosofia. E darle vita.

Ora, da qui parte la nostra riflessione: da quello che effettivamente pare un paradosso all‟interno del percorso ricoeuriano. Perché, se è vero quello che abbiamo detto, se questo quadro è il simbolo per Ricoeur della stessa filosofia, allora la filosofia ricoeuriana dovrebbe avere come partner privilegiato il linguaggio poetico o comunque il linguaggio dell‟arte, in generale. Infatti, dice Ricoeur sempre in L’unico e il singolare, quando usiamo il termine „poetico‟ dobbiamo intenderlo in senso ampio, come linguaggio che «produce senso», come «energia creatrice, «primitiva, originale e originaria»8. Heidegger direbbe

„poiesis‟, creazione in senso lato.

Ma Ricoeur non è Heidegger e, per lasciare „ampio‟ lo spettro dialogico della propria filosofia, non la chiude nel dialogo con le scienze umane, o con la poesia o la letteratura o l‟arte. E, anzi, verrebbe da dire, questo dialogo originario e intimo, quasi lo nasconde. Non lo esplicita, non lo pubblicizza, non lo esteriorizza. Tanto che non esiste un libro che Ricoeur dedichi in maniera monografica alla poesia e tanto meno all‟arte.

Ecco il paradosso. Del suo rapporto con il poetico e l‟artistico Ricoeur non ci parla in maniera sistematica e chiara.

Per comprenderlo, per comprendere quella che di fatto è comunque una chiave di autointerpretazione decisiva (come mostra appunto la scelta di questo quadro di

6 Il riferimento è ovviamente alla triplice costituzione della persona, in Ricoeur: relazione/cura rispetto a sé,

ai „tu‟ e ai „ciascuno‟ tramite le istituzioni. Rimandiamo per questo al nostro Io e tu. Una dialettica fragile e spezzata. Percorsi con Paul Ricoeur, Stilo, Bari, 2009, pp. 114 sgg.

7 P. Ricoeur, L’unico e il singolare, cit., p. 51. 8 Ibid.

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Rembrandt) dobbiamo scavare tra le pieghe dei non detti ricoeuriani. Dobbiamo rincorrere, insomma, il tema del rapporto tra filosofia e arte tra citazioni sparse, interviste rilasciate in occasioni diverse, articoli d‟occasione.

È questo anche il motivo per cui, tutt‟oggi, non esiste una riflessione sistematica su Ricoeur e l‟ermeneutica dell‟arte (e questo numero di “Logoi” vuole appunto iniziare a colmare questa lacuna). Cosa strana se è vero che, come stiamo cercando di dire, l‟arte e la poetica in generale sono e restano una chiave di lettura fondamentale (nascosta, sottotraccia, eppur decisiva) nel pensiero ricoeuriano.

Le questioni in gioco, capiamo, sarebbero tante.

Personalmente più che il rapporto di Ricoeur con questo o con quell‟artista o musicista o regista o poeta, e più che le questioni strettamente estetiche, ci interessano le questioni teoriche in gioco.

2) Nodi teorici in gioco

Per capire la posizione di Ricoeur rispetto al tema dell‟arte, delle arti, ci sono (oltre al già citato L’unico e il singolare) un paio di interviste in particolare a cui dobbiamo rivolgerci: La critica e la convinzione (l‟ultimo capitolo di questa lunga intervista è dedicato proprio a L’esperienza estetica9); e poi Le arti, i linguaggi e

l’estetica-ermeneutica estetica (di cui presentiamo la traduzione italiana in questo numero di “Logoi”).

Sono delle letture interessanti (anche se frammentarie ed occasionali; o forse proprio per questo). Sono interessanti perché leggendo queste pagine capiamo quali siano le domande a partire dalle quali Ricoeur affronta la questione dell‟opera d‟arte. E anche i pensatori da cui le „prende‟ (o comunque con cui entra in dialogo). Ci limitiamo ad indicare queste questioni in maniera schematica (perché poi affronteremo solo un aspetto di questi temi):

- il rapporto tra universale e singolare nell‟opera d‟arte (con riferimento a Kant e alla Critica del giudizio); e, da Kant, come sotto-questione:

- la possibilità di definire il bello e il brutto;

- poi: la questione della comunicabilità di un‟opera e della sua ricezione, che si collega alla

- questione della temporalità dell‟opera d‟arte (e qui i riferimenti sono ovviamente Heidegger e Gadamer); ma anche, in maniera diversa e complementare, Hegel e Marx;

- il rapporto tra copia e mimesis nell‟opera d‟arte (e qui di nuovo Gadamer, ma prima ancora Platone e Aristotele);

- l‟opera come linguaggio e dunque come rifigurazione di un mondo (tema centrale in Ricoeur, in particolare in relazione alla letteratura). Strettamente legato a questo tema, quello della

- funzione „metaforica‟ dell‟arte (Nietzsche, ma non solo; pensiamo al dialogo a distanza con Derrida, sul tema della metafora);

- la verità dell‟opera d‟arte, e quindi l‟arte come luogo chiaro, evidente di contestazione dell‟idea della verità come adeguazione (e qui i riferimenti sono di nuovo Heidegger e Gadamer);

- il rapporto tra rappresentazione ed espressione in un‟opera;

- il mutamento del valore rappresentativo dell‟opera nelle arti del Novecento; - il legame tra opera d‟arte ed emozioni;

- la relazione di unità e differenza tra le diverse forme artistiche;

- la necessità di leggere „insieme‟ le arti per comprendere la loro radice comune e le loro differenze; - il rapporto delle arti con il silenzio e l‟ineffabile e la posizione limite della musica (e qui il dialogo con Jankélévitch);

- il dono reciproco dei linguaggi (quello che le arti donano alla filosofia e la filosofia alle arti); - il rapporto tra estetica, etica e religione10.

9 P. Ricoeur, La critica e la convizione. Intervista a cura di François Azouvi e Marc de Launay, tr. it. di D.

Iannotta, Jaca Book, Milano, 1997; ultimo cap.: L’esperienza estetica, pp. 239-257.

10 Rimandiamo per tutto questo alla lettura dell‟intervista a Ricoeur: Le arti, i linguaggi e

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Anche solo da questo indice (banale), possiamo renderci conto non solo di quante siano le problematiche in gioco, ma di come, di fatto, siamo davanti a questioni teoretico-ermeneutiche più che strettamente estetiche. Infatti, le rare volte in cui Ricoeur adopera il termine „estetica‟, lo fa usandolo come aggettivo più che come sostantivo. La sua filosofia è „ermeneutica‟. Dal dialogo con gli altri linguaggi, saperi, esperienze, la filosofia emerge arricchita delle specifiche sfumature di questi „altri‟ linguaggi. La sfumatura estetica è una di queste possibilità. Ma non la radice dell‟interrogazione.

Insomma, vogliamo dirla in maniera ancora più forte. Ricoeur non fa filosofia dell‟arte. E non gli interessa farlo. Si interessa anche all‟arte (come agli altri linguaggi) perché nell‟esperienza artistica e nella sua alterità rispetto alla filosofia (alterità radicale) trova delle domande. Domande che solo l‟esperienza artistica sa porre e può porre. E che non pone nella stessa maniera la psicanalisi, o la scienza, o la storia della filosofia.

A Ricoeur interessano le domande che provengono dall‟opera. Dalle opere. Quindi, se vogliamo usare l‟espressione ermeneutica delle arti, è necessario farlo mettendo l‟accento sul primo termine: non si tratta di interpretare le opere d‟arte, ma di capire che cosa le arti possano dare e dire all‟ermeneutica, alla questione dell‟interpretazione e più in generale alla domanda sull‟esistenza e sul suo senso.

Poste queste necessarie premesse/cornice, possiamo passare al cuore del nostro intervento. È chiaro che per dare un‟idea compiuta dell‟ermeneutica delle arti in Ricoeur dovremmo affrontare tutti questi punti. Ed in questa sede è impossibile.

Scegliamo, allora, solo un tema/chiave, una parola/chiave su cui lavorare. Lasciando tutte le altre questioni sullo sfondo. Scegliamo di presentare la questione, la domanda relativa alla „singolarità‟ in relazione all‟opera d‟arte. Perché ci sembra il nervo scoperto (da cui si possono intravvedere quasi tutti gli altri nodi su indicati); ma soprattutto mi sembra la questione, la domanda più „nuova‟, più particolarmente „ricoeuriana‟ rispetto a tutte le altre.

3) L’universalità della comunicabilità dell’opera

Abbiamo già anticipato che qui il riferimento originario è a Kant e alla Critica della

giudizio. Ricoeur si definisce spesso un kantiano post-hegeliano. Non perché gli

interessino le risposte di Kant, ma perché trova interessante la tensione universalizzante del pensatore di Königsberg, il suo tentativo di tener

fermo l‟universale insieme al singolare. Questa è l‟eredità ermeneutica di Kant, secondo Ricoeur; questo è il recupero che l‟ermeneutica fa della tensione kantiana, dopo Hegel, dopo lo storicismo, dopo i rischi del relativismo storico. Ricoeur lo chiama: «il guadagno post-kantiano di un ritorno all'estetica kantiana»: «la riconquista del trans-storico sul momento storico»11, potremmo dire, anche, la

riconquista di un momento

universale/universalizzante dentro il momento singolare/individualizzante.

Certo oggi non lo possiamo più fare nei termini kantiani, n on possiamo più pensare che esista un „bello‟ universale. Oggi meno che mai. Chi potrebbe dire che un Munch o un Picasso siano universalmente belli?

E, d‟altra parte, noi oggi non ci illudiamo nemmeno

11P. Ricoeur, Le arti, i linguaggi e l’estetica-ermeneutica, cit., p. 43.

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più che l‟arte classica fosse universalmente bella.

Basterebbe pensare all‟Afrodite di Cnido di Prassitele, che fu rifiutata dai suoi committenti, perché non rispondeva ai criteri di bellezza della sua epoca. Non esiste la bellezza classica. È un mito.

Ecco: Ricoeur ricorda (raccogliendo il guadagno degli autori che citati prima: Hegel, Marx, Heidegger, Gadamer) che l‟opera d‟arte ha una sua trans-storicità (permanenza, perduranza). Eccede il proprio tempo («il momento storico della sua costituzione»), pur nascendo nel suo tempo. «È in eccesso rispetto alla propria produzione» e perciò può parlare ad ogni epoca, al di là della propria epoca12. Questa è la sua prima forma di

universalità, universalizzabilità.

Un‟opera d‟arte è universale (o comunque può essere universale) perché „parla‟. Perché „comunica‟, dice Ricoeur. È comunicabile13.

Ecco che quindi Ricoeur sposta la problematica dell‟universalità dell‟opera d‟arte sul versante che gli è più

congeniale. Abbiamo qualcuno/qualcosa che parla (l‟artista, l‟opera) e qualcuno che vede, ascolta, legge, interpreta, fruisce, riceve (il „ricettore‟ dell‟opera d‟arte).

Così come un libro si rivolge potenzialmente ad «un pubblico temporalmente aperto e indefinito»14, così pure ogni opera d‟arte.

Ma che cosa fa sì che un‟opera sia, possa essere comunicabile? Ricoeur risponde con un termine potremmo dire tipico di una certa filosofia francese: è la „mostrazione‟ (monstration). «Il fatto che l'opera d'arte voglia – al di là della intenzionalità dell'autore, nella misura in cui è un‟opera d‟arte – essere condivisa, e quindi prima ancora essere mostrata»15.

Un‟opera è per mostrarsi, cioè per comunicarsi, cioè per «creare condivisione tra il creatore e il suo pubblico»16. Questo è evidente in quelle che Ricoeur con Henri Gouhier

chiama «le arti a due tempi»: quelle in cui l'esistenza dell‟opera richiede un secondo tempo che è quello della sua ri-creazione: rappresentazioni teatrali, esecuzioni musicali, realizzazioni coreografiche che partono da un libretto, da una partitura, uno scritto»17.

Qui è evidente che un‟opera è per mostrarsi. Non c‟è teatro se non davanti ad uno spettatore. Non c‟è concerto se non davanti ad un ascoltatore. Ma, secondo Ricoeur (e qui Gadamer docet), tutto questo vale anche per quelle che Gouhier chiama «le arti ad un tempo» («quelle in cui l‟esistenza dell‟opera coincide con la sua creazione, la pittura e la scultura per esempio»18), perché anche in questo caso ciò che fa sì che un‟opera sia tale (e

continui a parlare al di là dei tempi) è la sua capacità di ri-crearsi in chi la incontra.

È «in questa capacità indefinita di essere reincarnato – e in un modo ogni volta storicamente differente, ma sostanzialmente ed essenzialmente fondatore – ma

12 Ibid.

13 Ibid.: «Si potrebbe dire che l'opera d‟arte sfugga al momento storico della sua costituzione ed è questa

temporalità di secondo grado che costituisce la temporalità della comunicabilità. Questa comunicabilità trans-storica è l‟equivalente razionale dell‟oggettività, sia del bello che del sublime»

14 Ibid.

15 Ivi, pp. 43-44. 16 Ivi, p. 44.

17 Ibid. Il riferimento di Ricoeur è a H. Gouhier, Le théâtre et les arts à deux temps, Flammarion, Paris, 1989. 18 Ibid.

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sostanzialmente ed essenzialmente fondatore – che il significato profondo che il significato profondo (…)»19 di un‟opera d‟arte emerge.

È la mostrazione, il mostrarsi in un tempo (ma l‟essere potenzialmente aperta ad una ricezione infinita in ogni tempo) che fonda la possibilità di comunicazione di un‟opera. E la comunicazione altro non è che ricreazione, reincarnazione, «re-iscrizione multipla e indefinita»20: in una parola, „interpretazione‟.

Questo è chiaro, immediato, nel caso della lettura di un libro. Dice Ricoeur: «ogni trama è singolare e ha esattamente lo statuto dell'opera d‟arte indicato da Kant: quello di una singolarità che ha la possibilità di essere condivisa»21. Ogni libro, potremmo dire, è uno e

centomila. Perché è l‟insieme di tutte le interpretazioni (la storia degli effetti) che di quel

libro sono state date. E ogni volta è il „mio‟ libro. Perché quella storia parla a me. E dice a me cose che non dice agli altri.

È il nucleo dell‟ermeneutica ricoeuriana: l‟obiettivo dell‟interpretazione non è tanto o solo comprendere l‟opera (cercare di capire che cosa voleva dire l‟autore, il suo linguaggio, il suo contesto storico o psicologico), ma comprendersi davanti all‟opera, comprendere se stessi. Ricoeur qui riprende una metafora di Proust. I romanzi sono come delle lenti d‟ingrandimento che gli autori donano ai lettori, perché possano guardare dentro se stessi. E provare a scoprire parti di sé che, prima della lettura di quel romanzo, erano del tutto sconosciute22.

Ma questo vale per ogni opera d‟arte, se

veramente ci incontra. Se veramente accade l‟incontro. Così come, se mi lascio incontrare da una persona, se mi faccio mettere in discussione dalla persona che ho di fronte, dopo averla incontrata non sono più la stessa (posso uscirne arricchita o ferita, ma comunque ne sarò segnata, cambiata), alla stessa maniera, se l‟opera mi parla e se io la lascio parlare, da questo incontro uscirò modificata.

È – di nuovo – il processo di riconfigurazione; o, se vogliamo, la dialettica sé/altro, di cui parlavamo all‟inizio.

Ricoeur dice: «come lettore non mi trovo che perdendomi»23. È il primo momento, la

distanza da sé, dal mondo, il perdersi nella lettura, il perdersi nell‟opera, il perdersi nell‟altro: perché lo voglio ascoltare, voglio cercare di capire che cosa ha da dirmi, voglio farmi arricchire dalla sua alterità.

Poi c‟è il ritorno a sé, la riconfigurazione. Chiudo il libro, finisce il concerto. Esco dal museo. Finisce il dialogo con quella persona. Che cosa mi ha detto, dato questo incontro? In che cosa sono stato modificata? Come è cambiata la mia identità, grazie a quell‟alterità?

È quella che Ricoeur chiama la «rifigurazione mimetica». Nel caso dell‟opera si tratta della «creatività dell‟arte che penetra nel mondo dell‟esperienza quotidiana per rielaborarla dall‟interno»24.

19 Ibid.

20 Ibid. 21 Ivi, p. 46.

22 Marcel Proust, alla fine de Il tempo ritrovato, in un passaggio amato da Ricoeur e più volte citato, scriveva:

«Invero questi, come ho dimostrato, non sarebbero stati „miei lettori‟, ma i lettori di se stessi, essendo il mio libro qualcosa di simile a quelle lenti di ingrandimento che l‟ottico (…) porge al cliente; il mio libro, grazie al quale avrei fornito loro il mezzo di leggere in loro stessi».

23 P. Ricoeur, Dal testo all’azione, tr. it. di G. Grampa, Jaca Book, Milano 1989, p. 112. 24 Id., La critica e la convinzione, cit., p. 242.

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Ma questo è chiaro, e in ogni caso a nostro avviso non consiste tanto o solo in questo l‟originalità del discorso di Ricoeur: su questo ha parlato forse in maniera più chiara e originale Gadamer.

Torniamo allora al problema della singolarità, perché è qui, come dicevamo, che si gioca un livello paradossale e particolare discorso di Ricoeur25. Magari discutibile. Ma che,

proprio per questo dà a pensare.

Infatti a questo punto Ricoeur torna a Kant, e cerca di recuperare un‟altra sua domanda. Potremmo dire: quella sul genio. Perché non ogni scarabocchio è opera d‟arte? In che cosa consiste il segreto di un‟opera? Perché un‟opera mi parla, mi comunica, mi dice qualcosa e un‟altra no?

4) Perché «un»’opera «mi» parla?

E, certo, potremmo spostare di nuovo il discorso sul livello storico (e anche Ricoeur lo fa e lo ricorda; solo al passato possiamo dire con certezza che un‟opera era opera d‟arte; se ha superato la propria storicità e ha continuato a parlare nei tempi successivi).

Ma questa è una questione di storia dell‟arte, o di storia della critica d‟arte. Non è una questione ermeneutico-esistenziale. La questione ermeneutico-esistenziale è invece: perché quest‟opera parla a me? E la domanda non è banale. E non è solo una sfida alla teoria estetizzante-relativistica del gusto. È ovvio e sin troppo facile (oggi più che ai tempi di Kant) dire che non esiste un bello o un piacere oggettivo, che è bello c iò che piace, e quindi mi parla ciò che piace. E dunque a me piace Magritte e parla Magritte. Ad un altro piace Bach e parla Bach. Ad un terzo piace Godard e parla Godard. Certo. Ovvio. Ma la domanda è: che cosa fa sì che un‟opera (nella sua singolarità, nella sua differenza da tutte le altre opere, parli a me, nella mia singolarità, nella mia differenza da tutte le altre persone: una differenza che non è

solo di gusto, ma anche di storia, cultura, mondo, provenienza).

E la domanda è decisiva, a nostro avviso, proprio perché tocca (forse al di là di quanto Ricoeur stesso si sia reso conto) il cuore della teoria ermeneutica. Perché è la stessa domanda che io mi pongo quando sono con un‟altra persona. E la scelgo. Per dialogare, per intrecciare le nostre storie, d‟amicizia, d‟amore, di condivisione, di lavoro, o anche solo per decidere di fare un tratto di strada insieme: perché la sua singolarità incontra la mia singolarità? È possibile realmente un „noi‟? Da dove parte questa

condivisione (comunicazione, comunione) e dove conduce?

Anche in questo, a nostro avviso, l‟opera d‟arte può diventare modello ermeneutico. E quindi torniamo alla nostra domanda, solo apparentemente banale. Perché quest‟opera parla a me? Domanda che evidentemente ne suppone per lo meno altre due: perché e come un‟opera parla? E: perché e come io l‟ascolto, posso ascoltarla?

25 Sarebbe interessante (in altro luogo) confrontare l‟idea di „singolarità‟ di Ricoeur con quella del collega

parigino Deleuze…

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Dobbiamo ripartire dal discorso della comunicazione/comunicabilità dell‟opera. In che cosa consiste?

Ricoeur collega il termine „comunicabilità‟ con il termine „contagiosità‟. «La comunicabilità è la modalità dell‟Universale senza concetto; si tratta di una sorta di incendio, di contagio (de traînée de poudre, de

contagion) tra un caso e l‟altro26.

Si tratta di una comunicabilità, universalità, linguisticità (se vogliamo) che è universale pur non essendo concettuale. Si muove, potremmo dire (seguendo la metafora suggestiva dell‟incendio e del contagio) a livello emotivo. E, però, certo, Ricoeur non

crede nell‟isteria delle masse. E il contagio di cui parla non è pathos sfrenato.

Fermiamo, però, per il momento, questo: si tratta di una comunicabilità in cui è in gioco non tanto e non solo il livello verbale della comunicazione, ma il livello immaginativo-affettivo. In cui è in gioco non tanto il livello concettuale, quanto il livello iconico-emotivo.

Accogliendo e rilanciando un‟intuizione di Heidegger, Ricoeur fa notare che la nostra esistenza sia „affettiva‟ (prima e più che riflessiva) e l‟infinito delle nostre emozioni sia variegato di sfumature spesso a noi sconosciute, non ancora esplorate.

Il nostro animo è come uno strumento musicale (da qui la musica come caso-limite tra

le arti27): uno strumento che vibra in maniera diversa a seconda di come viene „toccato‟ e a

seconda dei tasti (o delle corde) che vengono sfiorati. A „suonarlo‟ può essere la melodia del mondo, di un particolare evento (felice o doloroso). A farlo vibrare può essere la sinfonia di un amore o lo stridore di una rabbia, di una lotta, di una disperazione. Ma a modulare le corde del nostro animo può essere anche la lettura di un libro, l‟ascolto di una poesia, la visione di un quadro, l‟ascolto di un brano musicale. « al limite, non potremmo dire che ogni pezzo d‟arte corrisponda ad un „mood‟ [in inglese nell‟originale]? L‟opera d'arte si riferisce in effetti ad un‟emozione che è scomparsa come emozione, ma è stata preservata come opera»28.

5) Il coglimento ‘singolare’ dell’artista e del fruitore

Ecco la chiave del discorso. L‟essenza dell‟opera d‟arte consiste in questo: conserva, condensa – in un‟opera – un‟emozione. La iconizza. Come un simbolo condensa in sé diversi possibili significati, così un‟opera d‟arte condensa in sé un universo possibile di emozioni.

E, certo, questo vale per ogni parola, per ogni esperienza, ma, nel caso dell‟arte, proprio perché c‟è meno parola, c‟è meno concetto, c‟è più silenzio, meno rappresentazione concettuale, più spazio del „mood‟, proprio per questo c‟è maggiore condensato di significato immaginativo-emozionale.

E, allora, siamo pronti per rispondere alla nostra domanda: perché un‟opera parla, come comunica? «L‟opera dice il mondo altrimenti che rappresentandolo; essa lo dice iconizzando il rapporto emozionale singolare dell‟artista al mondo, ciò che ho chiamato il

26P. Ricoeur, Le arti, i linguaggi e l’estetica-ermeneutica, cit., p. 42.

27 Ivi, p. 52. Rimandiamo, su questo, al nostro saggio, in questo stesso numero di “Logoi”: Paul Ricoeur e la

musica come caso-limite nella sinfonia delle arti.

28 Ivi, p. 47.

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suo mood»29. C‟è, dunque, all‟origine, un rapporto emozionale singolare dell‟artista,

rispetto al mondo. C‟è, dice ancora Ricoeur, un «coglimento singolare» della realtà. Che non è dato dal fatto che un‟opera sia più o meno somigliante alla realtà.

«Se un‟opera merita oggi di figurare nel

nostro museo

immaginario è perché (…) il suo vero oggetto non era la fruttiera o il volto della giovinetta con turbante, ma il coglimento singolare da parte di Cézanne o Vermeer della questione singolare che era stata loro posta»30.

Un‟opera d‟arte è un coglimento singolare (un rapporto emozionale singolare) dell‟artista, coglimento della questione singolare che viene posta all‟artista nella manifestazione del mondo.

Che cosa significa? Un esempio evidente in questa direzione è Monet, con le sue ninfee, a cui non a caso abbiamo dedicato copertina ed Editoriale.

Un0 altro esempio è Cézanne. Perché Cézanne sente il bisogno di fare più di cinquanta copie della Montagne Sainte-Victoire? Non è sempre la stessa montagna? No. Non è mai la stessa.

È come se Cézanne dovesse render giustizia a qualcosa che non è l‟idea della montagna, che non è quanto ne viene detto in un discorso generale, ma che è la singolarità di „questa‟ montagna, qui e ora, (…) che chiede di ricevere quell‟aumento iconico, che solo il pittore le può conferire31.

Non esiste la montagna come idea, come universale. Esiste questa montagna qui e ora, che mi chiama, che chiede di essere dipinta, che chiede di ricevere quella condensazione emotiva, quell‟aumento iconico che le può dare solo il pittore.

Non esiste una domanda universale, ma una domanda singolare che chiede una risposta singolare: dalla singolarità dell‟artista, nella singolarità di questa particolare situazione dello spazio, del tempo, dell‟atmosfera, del sentimento.

L‟artista è colui il quale avverte, dice Ricoeur, questa domanda, questo appello, questa «esigenza», questo «obbligo», questa «urgenza di un debito impagato rispetto a qualcosa di singolare che singolarmente esigeva di essere detto»32. E l‟artista lo dice. Lo „dice‟.

29 Id., La critica e la convinzione, cit., p. 251. 30 Ibid. 31 Ivi, p. 248. 32 Ivi, pp. 248-49. P. Cézanne J. Vermeer P. Cézanne

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E la cosa sorprendente è che questo singolare comunica qualcosa di universale.

La sua nuda esperienza, essa, era incomunicabile; ma, dal momento in cui può essere problematizzata nella forma di una questione singolare alla quale viene adeguatamente risposto nella forma di una risposta anch‟essa singolare, proprio allora acquisisce una comunicabilità, diventa universalizzabile33.

Ecco la meravigliosa stranezza, la stupefacente possibilità dell‟arte. L‟esperienza (dell‟artista, ma di ogni uomo, di ognuno di noi) è sempre nuda esperienza. Incomunicabile. Come ogni esperienza singolare (solo mia), come ogni emozione individuale (solo mia). Come dirla, come comunicarla? L‟altro la percepirà a partire da sé, come sua. E non come la vivo io, come mia. Ma in ogni nuda esperienza c‟è una domanda, c‟è un appello, un urgenza, un bisogno: che sia detta; di essere detta, comunicata. Che non sia solo mia, che possa essere condivisa, condivisibile.

Come è possibile questo? Il mistero dell‟arte ci mostra una strada. Il pittore (il musicista, il regista, il poeta, lo scrittore) tramite i colori, le linee, i pieni i vuoti, i silenzi e le note, l‟immagine in movimento, le metafore e le narrazioni prova a condensare la sua singolare esperienza, in un particolare momento della sua vita e della sua storia. Iconizza il suo rapporto emozionale con il mondo: qui e ora. Rende i diversi aspetti di questo qui e ora «più densi» e li «intensifica nell‟atto di condensarli»: proprio come fa un simbolo, una metafora. «Raccoglie una polisemia»34, che la polisemia infinita dell‟esperienza, della vita.

L‟opera d‟arte – spiega Ricoeur - può avere un effetto paragonabile a quello della metafora: integrare livelli di senso accavallati, frenati e contenuti insieme. L‟opera d‟arte costituisce, così, l‟occasione per scoprire quegli aspetti del linguaggio che la sua pratica usuale, la sua funzione strumentalizzata di comunicazione ordinariamente dissimulano35.

Il linguaggio ordinario, nella sua pratica, nel logorio dell‟uso, nel diventare mero strumento di comunicazione, spesso fallisce nella comunicazione. Fallisce proprio là dove ciò che vorrebbe comunicare è più profondo e intenso. Perché lì non arriva. Resta nella superficialità della comunicazione generale, del generale, del generico.

Ma questa generalità, concettualità ordinaria del linguaggio, per cui ad ogni parola corrisponde una cosa, fallisce nell‟espressione. Perché non

33 Ivi, p. 249. 34 Ivi, p. 240. 35 Ivi, p. 241. R. Magritte R. Magritte

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riesce a dire come fa l‟arte questa è una pipa; questo è l‟amore; questo è il dolore.

Non è così con l‟universalità dell‟arte. Che invece sa che l‟esperienza è singolare. E si preoccupa di comunicare solo la propria singolarità.

Nessuno può morire al posto mio. Nessuno può vivere al posto mio. Nessuno può vedere questa cattedrale al posto mio e diping erla al posto mio.

Io so già che la mia risposta all‟appello di questa cattedrale è singolare, come la mia esperienza davanti a questo sacro. E, infatti, scrive Ricoeur: «la cattedrale di Auvers di van Gogh (…) non rappresenta quella chiesa, (…) ma

materializza in un‟opera visibile ciò che resta invisibile e cioè l‟esperienza unica e probabilmente sbigottita che van Gogh ne aveva quando l‟ha dipinta»36.

E perciò può parlare, può comunicare in profondità. Perché non comunica un concetto astratto e generale (come rischia di fare il linguaggio ordinario, corrente). Ma parla da singolo a singolo, come direbbe Kierkegaard. «Impegna, dice Ricoeur, uno spettatore, un ascoltatore… - in rapporto di singolarità con la singolarità dell‟opera»37.

Ogni opera d‟arte è l‟esperienza di un singolo, che parla ad un singolo. E per questo, ad ognuno di noi dice cose diverse. Ma, proprio per questo, per questo stesso motivo «è il primo atto di una comunicazione ad altri e virtualmente a tutti»38. Proprio perché parla al singolo

nella sua singolarità, può in linea di principio parlare a tutti i singoli.

E, allora, ad ogni opera, si potrà applicare il motto di Zarathustra: un’opera per tutti e

per nessuno. Per nessuno che non sia disposto a farsi raggiungere, nella propria singolarità

dalla singolarità di quell‟opera. Per tutti quelli che vorranno lasciarsi toccare e trasformare dalla sua alterità. «L‟opera è come una fiammata, che esce da se stessa, toccandomi e toccando, al di là di me stesso, l‟universalità degli uomini»39. È la fiammata/contagio della

comunicabilità dell‟opera di cui parlavamo prima.

Ecco allora che cosa fa l‟opera: andando «fino in fondo alla esigenza di singolarità (…) offre la sua massima possibilità alla più alta universalità (…): tale è il paradosso che bisogna probabilmente sostenere»40.

Quanto più l‟artista, dunque, sarà quel singolo, quanto più l‟artista non si farà condizionare dall‟utile, dal commercio, da quanto è di moda, quanto più l‟artista sarà magari anche inattuale, controcorrente, ma singolare, pronto a dire, come solo lui sa e può fare, l‟urgenza di ciò che in lui chiede di essere detto… tanto più la sua opera parlerà; comunicherà la sua singolarità. E tanto più lo farà ai singoli, a noi nella nostra singolarità, in maniera universale. Perché l‟esperienza, l‟emozione, la vita è singolare. E anche l‟arte. Viceversa non è arte ma ripetizione di ciò che è già stato detto, pensato, comunicato.

E su questo sfumiamo, lasciando il percorso sospeso su due domande. Che meriterebbero un altro spazio e un altro tempo.

36 Ivi, p. 250.

37 Ibid. 38 Ibid.

39 Ibid. «Fintanto che l‟opera non si è aperta un varco fino all‟emozione analoga, essa resta incompresa, ed è

npoto che ciò capita frequentemente» (ivi, p. 248).

40 Ivi, p. 250.

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107 6) Concludendo: e la vita? E la filosofia?

Innanzitutto: e la vita? Non è, forse, questo processo che abbiamo descritto nell‟arte, il processo fondamentale di

ogni forma di

comunicazione? Non è forse vero che quando vogliamo comunicare agli altri noi stessi – quando voglio comunicare la mia vita singolare, ad un altro singolo – lo posso fare solo andando fino in fondo alla m ia singolarità? Non è forse vero che, quanto più siamo noi stessi, nella nostra verità (anche contraddittoria e lacerata, non mascherata da

ciò che genericamente si dice e si pensa di noi), quanto più ci denudiamo delle maschere e ci mostriamo nella nostra fragilità, la fragilità della nostra nuda esistenza, povera di parole, povera di certezze, povera di generalità, quanto più non ci facciamo condizionare dall‟utile, dal commercio, da quanto è di moda, quanto più siamo magari anche inattuali, controcorrente, ma singolari, pronto a dire, come solo come noi possiamo dire, l‟urgenza di ciò che in noi (in me, qui e ora, nella mia storia singolare di vita) chiede di essere detto, … tanto più realmente parliamo, realmente comunichiamo, perché allora è la „mia‟ vita che parla: prima e più delle mie le parole?

E la filosofia? Permettetemi di concludere su questa questione. Bruciante. Ma che credo sia la sfida che pensatori come Ricoeur (ma anche come tanti altri francesi, Derrida, Deleuze, Nancy; e, consentiteci, pensatori come Heidegger e Nietzsche, pensatori singolari, della singolarità) ci hanno consegnato, con la loro decostruzione della filosofia metafisico-concettuale, astrattiva, universale nel senso generale e generico del termine ci consegna. E la filosofia? Se la filosofia è lavoro del concetto e solo lavoro del concetto, potrà mai essere singolare? Potrà mai comunicare qualcosa?

Che rapporto c‟è tra singolarità e filosofia? Tra emozione e concetto? Può la filosofia essere comunicazione da singolo a singolo? E, se sì, come?

O forse lo è sempre stata malgrado „lei‟ (se dai tempi di Platone come fiamma si accende da fuoco che balza, solo per una vita vissuta insieme, dialogata insieme, pensata insieme)…

E forse lo è ancora oggi, malgrado noi, docenti di filosofia, e scrittori del concetto… Forse ancora oggi la filosofia continua a „parlare‟ – dentro il concetto, oltre il concetto – dalla singolarità di chi ha pensato (i grandi filosofi del passato) e di chi prova ancora a pensare nel presente (noi piccoli professori di filosofia), alla singolarità di chi legge (un libro di filosofia), di chi ascolta (una lezione di filosofia)…

Può, ancora, oggi, la filosofia comunicare qualcosa? E, come, se nella vita di chi fa filosofia, insegna filosofia, studia filosofia, scrive di filosofia, prima non parla la vita?

Non è forse vero, anche nella filosofia, come hanno mostrato i filosofi più radicali, nella loro radicale tragicità, che non si può comunicare che nel singolare? Forse, anche una

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filosofia, quando parla, è perché è la vita che parla in quella filosofia (l‟urgenza della vita, le domande radicali della vita, le lacerazioni e gli abissi della vita… parlano in quella filosofia): prima e più che le parole, che quella filosofia è riuscita o riuscirà mai a dire.

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