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CAPITOLO SECONDO

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Academic year: 2021

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CAPITOLO SECONDO

Orientalismo e la sua ricezione: storia di una polemica dei giorni nostri

2.1: Una provocazione non accettata: la reazione del mondo accademico alle tesi di Said

Orientalismo viene pubblicato per la prima volta nel 1978.

L’introduzione a questa prima edizione, che rimarrà invariata nelle successive, è perlopiù un’analisi da parte dell’autore di alcuni punti cardine della concezione teorica, e delle motivazioni che lo hanno spinto alla stesura. A colpire è soprattutto il fatto che ci si rivolga direttamente proprio agli studiosi dell’Oriente; l’intento dichiarato dell’opera è infatti quello di “metterli di fronte alla loro genealogia intellettuale in un modo diverso da quelli adottati in passato; e criticare- nella speranza di suscitare un dibattito- gli assunti quasi indiscussi sui quali si basa gran parte del loro lavoro”.1 Un’ urgenza di critica che viene ribadita nelle righe conclusive: “Nutro però la speranza che l’orientalismo potrà in futuro esser messo in questione (…) più di quanto sia accaduto finora”.2 Said era senza dubbio consapevole del fatto che il suo libro avrebbe suscitato reazioni ben più decise di un semplice dibattito: la tesi portante costituisce un atto di accusa, esplicito e diretto, verso tutto un campo di studi, l’orientalistica, e più generalmente verso l’attuale sistema culturale occidentale.

Ulteriore motivo di disagio per i lettori suoi contemporanei era inoltre il fatto che a formularlo fosse un docente della Columbia University, di origine palestinese ma cittadino americano, i cui studi avevano già acquisito una non trascurabile notorietà in ambiente accademico; pertanto da considerarsi pienamente inserito in quella stessa tradizione occidentale contro cui rivolgeva l’attacco. Molte delle critiche a lui rivolte faranno leva proprio su questa considerazione, non di rado unita ad una velata ma persistente accusa di ingratitudine ed opportunismo.

1

Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente. Feltrinelli 2008 2

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Per capire il perché ad una critica certamente dura, ma non irrazionale seguirono reazioni tanto scomposte, bisogna forse fare attenzione a quanto Said pone come preambolo: gli assunti quasi indiscussi su cui poggia l’orientalismo. Un elemento in apparenza casuale, in realtà significativo dello stato in cui veniva a trovarsi l’apparato delle scienze orientali.

Il libro di Said appare infatti in tutto il suo fragore all’interno di un contesto già piuttosto agitato; l’accusa di una collaborazione tra orientalismo e imperialismo era un’idea già portata avanti dai movimenti di liberazione, e serpeggiava come oggetto di discussione di autorevoli riviste europee, come Diogène, dove infatti si discuteva già si parlava di Orientalisme en crise3 e si avvertiva la necessità di rispondere con una Apologie de l’Orientalisme4.

Certamente Said conosce le tesi avanzate dal sociologo Anouar- Abdel-Malek, alle quali fa esplicito riferimento nel suo testo; non è altrettanto chiaro se conosca la risposta a questi da parte dell’orientalista italiano Francesco Gabrieli, poiché essa non viene da lui citata in alcun testo.

Si tratta tuttavia di una risposta che, lungi dallo smentirne le argomentazioni, potrebbe anzi prestarsi come ulteriore esempio per illustrare l’enorme distanza di vedute tra le due parti in causa. Proprio per questo motivo il confronto tra i due studiosi risulta di particolare interesse.

La differenza con questo genere di interventi tuttavia è data dal fatto che, mentre la discussione precedentemente rimane arginata, sia pure a fatica, su riviste culturali, e dunque in ambito accademico, con la pubblicazione del saggio del professor Said, elaborato in maniera da poterlo rivolgere anche ai non specialisti del settore (in aperta polemica con un sapere definito chiuso, tautologico: ciò che per Said è da considerarsi quasi una battaglia programmatica), il contesto diventa straordinariamente più ampio; e, altro fattore di estrema importanza, viene reso suscettibile di ulteriori interventi per così dire “esterni”.

L’opera ebbe infatti una risonanza enorme; le discussioni nate intorno alle tesi di Said furono tanto accese e persistenti da sorprendere in parte l’autore stesso, che infatti in una postfazione di

3

Anouar Abdel-Malek, L’orientalisme en crise, in Diogène n. 44 (1963) 4

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vent’anni successiva riconoscerà: “Orientalismo, in modo quasi borgesiano, è diventato molti libri diversi”.5

La provocazione di Orientalismo consiste nella sua premessa. Analizzando lo sviluppo delle scienze orientalistiche dalle prime manifestazioni alla forma moderna, Said vuole mostrare quanto altro, oltre alle nozioni scientifiche, sia stato necessario alla formazione di tali discipline; e questo altro è ciò che trova radici nello stesso sistema teorico che ha trovato una delle sue espressioni nel colonialismo.

Il punto di partenza della sua critica non era certamente una novità: le accuse di razzismo e di scienza asservita all’imperialismo erano già state formulate da altri intellettuali un po’ da tutte le parti del mondo colonizzato: basti pensare ad Aimé Césaire, A. L. Tibawi, Frantz Fanon.

Inoltre, la visione eurocentrica, spesso decisamente razzista, della maggior parte degli studiosi orientalisti quali Renan, Gibb, Massignon, per citare solo alcuni tra i più illustri, appariva ad un lettore moderno in tutta la sua evidenza.

Tuttavia il testo di Said si differenzia dal lavoro di questi autori, principalmente per due caratteristiche: la prima, come si è accennato, consiste nel fatto che questa critica provenisse non da un intellettuale “arrabbiato” appartenente a questi stessi Paesi in via di decolonizzazione, ma da un cittadino degli Stati Uniti, se pure di provenienza mediorientale, pertanto definibile come un ‘privilegiato’, secondo un certo punto di vista.

La seconda caratteristica è la metodologia di svolgimento della critica seguendo una linea di riferimento testuale; in altre parole, è una modalità critica “interna” alla letteratura. A venire analizzati sono soprattutto i testi prodotti dal colonialismo: di narrativa, ma altresì atti ufficiali, anche per evidenziarne eventuali, più o meno nascoste corrispondenze. La finalità è di operare un collegamento tra quanto prodotto in letteratura in quelle specifiche circostanze storiche e sociali, e le circostanze stesse, mettendo in luce gli elementi chiave presenti nel testo.

5

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Un’ermeneutica del testo che si è riconosciuta caratteristica di Said: “Il potere di narrare, o di impedire ad altre narrative di formarsi e di emergere, è cruciale per la cultura e per l’imperialismo, e costituisce uno dei principali legami tra l’una e l’altro”.6

Questa tendenza all’interpretazione, l’idea di far parlare il testo facendone emergere gli elementi del contesto in cui è stato elaborato, se in altri ambiti come quello critico-letterario poteva essere maggiormente apprezzato7, è proprio ciò che nel caso di Orientalismo viene visto come un grave difetto critico. Secondo alcuni ciò comporterebbe una forzatura, più o meno volontaria, con l’inserimento di pensieri e vedute estranee al testo in questione; inserire, per fornire un esempio pratico, i contributi letterari di Flaubert e Nerval accostandoli a quelli di Gibb e Massignon sarebbe sintomo di un pastiche, condotto secondo una forse troppo personale idea dell’autore. Il risultato sarebbe quindi una rielaborazione parziale dei risultati della ricerca.

Non sorprende dunque che le critiche più feroci vengano proprio dagli specialisti in discipline orientali. Tuttavia, nonostante il disprezzo dimostrato dalla maggior parte degli studiosi in questione, è innegabile che si sia stabilito un legame tra l’opera e quest’area di studi tale da renderla un riferimento impossibile da ignorare: per coloro che si accingano a trattare di studi orientali omettere di citare Said, sia pure nel modo più infastidito e denigratorio possibile, viene percepito come una volontaria, colpevole mancanza.

Comincia a profilarsi la natura ambivalente dell’opera: il tentativo di screditarla cozza in continuazione con la sua continua presenza.

Se, come sostiene lo studioso contemporaneo Robert Irwin nella sua opera Lumi dall’Oriente, “Il fatto che la tesi di Said sull’orientalismo sia stata presa sul serio è tragicamente indicativo della qualità della vita intellettuale in Gran Bretagna negli ultimi decenni”8, come spiegare il fatto che egli stesso dedichi interi saggi al tentativo di smontare quella tesi?

6

E. Said, Cultura e imperialismo, Gamberetti editrice 1998, p. 9 7

Per un esempio di quanto feconda possa essere questa metodologia per una storia della letteratura, cfr. Breve storia della letteratura inglese, a cura di P. Bertinetti, Einaudi 2004

8

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Lo stesso Irwin solo poche righe dopo ammette: “allora come mai [Orientalismo] ha attratto tanto interesse e ammirazione in alcuni ambienti? Non saprei cosa rispondere”.

Irwin è un buon esempio di critica feroce nei confronti di Said, operata con parzialità e spesso non in buona fede, come dimostra la dichiarata ignoranza di concetti chiave per chi voglia capire il pensiero dell’autore palestinese, primo tra tutti quello di genealogia, ripreso e rielaborato direttamente da Foucault; il testo qui citato, dove l’autore omette spesso di riportare le fonti delle proprie citazioni e lascia ampio spazio alle opinioni personali, costituisce comunque un utile riferimento per due ragioni: si tratta di un’edizione relativamente recente, dove si può trovare un’efficace sintesi di tutte quelle che sono le maggiori posizioni contrarie allo studioso palestinese; inoltre, rende ben chiaro come il lavoro di Said sia stato percepito prestando soprattutto attenzione all’elemento storico e saggistico più che a quello critico, e pochissimo a livello filosofico.

Il fatto che a pubblicare questo tipo di opera non fosse un orientalista non è dunque un dettaglio di poco conto per un’attenta comprensione delle reazioni suscitate da Orientalismo.

Come si è detto, portare una tale questione metodologica al di fuori dagli ambiti specialistici venne percepita da molti di coloro che vi lavoravano come una sorta di strumentalizzazione, tenendo anche conto del delicato momento storico, con la decolonizzazione ancora in corso in molti paesi, e le battaglie culturali da parte dei “nuovi” intellettuali; inoltre, l’autore aveva già senza dubbio una certa notorietà professionale, ma non in qualità di storico, bensì come critico letterario.

È da notarsi infatti come gli attacchi al libro e all’autore sembrano concentrarsi soprattutto sull’aspetto storico e filologico, dove il discorso di Said si apre a considerazioni di carattere generico, seguendo una linea di eventi temporali che differisce di molto da quella che avrebbe potuto adoperare un esperto di orientalistica.

L’attacco di Said viene interpretato come un’intromissione poco competente e dettata quasi esclusivamente da motivi personali e biografici: la sua nazionalità arabo-palestinese, il tentativo di denunciare uno squilibrio, da parte della politica statunitense, tutto a favore di Israele nel conflitto contro la Palestina.

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In quest’ottica, si è tentato di leggere Orientalismo come collegato ai suoi scritti più strettamente biografici: l’orientalismo verrebbe ad identificarsi con il sionismo, fino a rendere i due concetti interscambiabili; il che spiegherebbe la natura di una critica così aspra. Il discorso sull’orientalismo sarebbe quindi in realtà un’ulteriore presa di posizione in favore dei diritti del popolo palestinese, identificato a sua volta come il popolo colonizzato e oppresso. Sostenere che in quest’opera “è quasi immediato per Said (…) passare dalla definizione di orientalismo a quella di sionismo”9 è però, io credo, un’eccessiva semplificazione, poiché il sionismo possiede solo in parte la complessità strutturale di quello che viene ad essere identificato come discorso orientalista- ciò che verrà discusso tra breve. Innegabilmente tra le due opere vi è un forte legame, che consiste precisamente in questo: riconoscere nell’occupazione arbitraria del territorio palestinese la medesima concezione di una terra disabitata e disponibile, come uno spazio vergine su una mappa geografica, per citare Conrad. Soprattutto, nel teorizzare il proprio diritto a quest’occupazione, si può ritrovare un retaggio di una visione colonialista, l’esercizio di un potere indiscusso ed unilaterale, che costituisce una delle forme del rapporto tra quei due poli, immaginari ma allo stesso tempo reali, oggetto di Orientalismo.

Una semplice trasposizione non rende giustizia, peraltro, alla sottigliezza delle analisi presentate. Certo in esse è molto lo spazio dato all’esperienza e alle opinioni sue personali: i lavori vengono incentrati secondo il suo proprio punto di vista, la sua propria interpretazione e così via. Orientalismo e La questione palestinese vengono pubblicati a distanza di un solo anno, pertanto è presumibile che vengano elaborati nel medesimo periodo e che in qualche misura si intersechino. È del resto apertamente manifesto come egli si senta direttamente coinvolto nelle questioni affrontate, sia come uomo sia come studioso; il suo interessamento verso gli sviluppi storici del medio oriente

9

Cfr. p.e. l’interessante lavoro di F. Petruzzelli, Ernest Renan e la questione dell’ “orientalismo”. Una rilettura di Averroès et l’averroisme (1861) dopo Edward Said, tesi di laurea (p. 5), 2006

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sono del resto cosa nota, fino a valergli, in un contesto accademico solo in teoria politically correct, il soprannome di “professore del terrorismo”, come lui stesso ricorda sovente.10

Tutto questo è lungi dall’essere in alcun modo camuffato: si tratta di una specifica scelta, che viene esplicitata più volte anche all’interno di Orientalismo stesso: “Nessuno ha ancora inventato un sistema per separare lo studioso dalle circostanze della vita, dalla classe sociale cui appartiene (ne sia consapevole o no), dalle opinioni che pur deve formarsi sui tanti argomento dei quali non è uno specialista, dal fatto insomma di essere membro di una società (..). Esiste, senza dubbio, un sapere che è più, e non meno, obiettivo dell’individuo che l’ ha prodotto (…); non necessariamente, tuttavia, tale sapere avrà una natura non politica”.11

Vedere in queste parole una resa alla parzialità, l’affermazione che il lavoro di un autore debba essere condizionata dalle di lui scelte e motivazioni al punto di perdere l’obiettività, significherebbe non tanto una banalizzazione, quanto un vero e proprio fraintendimento.

È un discorso che invece si ricollega a quella problematica che ricorre come centrale in tutto Said: la funzione della critica, compito imprescindibile dell’intellettuale.

Procedere all’analisi del testo, sezionandone il linguaggio, le espressioni, e mettendo in luce tutti gli elementi che siano ad esso correlati, o sottintesi, tenendo sempre ben presente il contesto in cui si sviluppano e a cui sono inevitabilmente collegate, è dunque espressione di quest’esercizio; conditio sine qua non di tale tipo di indagine è la piena libertà di mettere in dubbio anche quelli che paiono i fondamenti stessi di tutto un sistema teorico.

Dire la verità. Gli intellettuali e il potere, piccolo saggio nato da un ciclo di conferenze tenute per le Reith Lectures nel 1993, sintetizza in maniera semplice e lineare le riflessioni disseminate per tutta l’opera saidiana a proposito dell’intellettuale come ruolo sociale, i compiti e le conseguenze implicatevi.

10

Cfr. p.e.Tra mondi, in Nel segno dell’esilio, Feltrinelli 2008 (originariamente pubblicato in London Review of Books, 7 maggio 1998).

11

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Vi si legge infatti: “L’ intellettuale agisce sulla base dell’idea o della rappresentazione che si fa di se stesso nell’atto di compiere quella determinata azione (…). Ciascuno di noi vive in una società determinata, e appartiene a una nazione caratterizzata da una lingua, da una tradizione e da una situazione storica specifica. In che misura gli intellettuali sono al servizio di queste realtà e in che misura si oppongono ad esse? (…) Quindi per me il principale dovere degli intellettuali è quello di tentare di raggiungere una relativa indipendenza da simili pressioni, ed è per questo che ho descritto l’intellettuale come un esiliato e un emarginato, un dilettante, oltre che l’autore di un linguaggio che si propone di dire la verità al potere”.12

Said si esprime qui a proposito dei nazionalismi e della tendenza a difendere e proteggere la cultura del proprio Paese, ed è abbastanza evidente come prenda le distanze da una critica per così dire passiva, prodotto delle singole caratteristiche dell’autore, siano esse geografiche, culturali o politiche; il riferimento è ad un certo tipo di letteratura nativista, volta ad amplificare ciò che in Fanon è definito come una fase, inevitabile ma transitoria, del costituirsi e sedimentarsi della cultura in quei popoli alle prese con la confusione d’identità che segue la fine di un lungo dominio straniero13.

Lo studioso palestinese, nell’approccio ad un autore, è particolarmente attento ad evidenziare o ricostruire proprio quelle vicende biografiche che possano aver ispirato una determinata posizione, nella convinzione che solo ricostruendo il contesto si possa avere comprensione dell’opera: un continuo rimando dal pensiero all’azione, e viceversa.

Da qui anche la particolare affinità, di cui si è già parlato nel capitolo precedente, che egli riconosce da sempre verso quegli autori la cui complessità deriva dal disagio di una condizione scomoda, sia essa dovuta all’esilio, alla sessualità o alle idee politiche, o come nel suo caso, a una condizione di perenne divisione tra mondi spesso opposti.

12

E. Said, Dire la verità. Gli intellettuali e il potere, Feltrinelli 2005 13

Vedere p.e. in Fanon, I Dannati della terra, ed. Einaudi 2007, particolarmente nei capitoli III e IV, Disavventure della coscienza nazionale e Sulla coscienza nazionale.

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Riconoscere il fatto che la personalità, e pertanto le idee di un autore filtrino attraverso le sue opere non significa insomma negare l’obiettività come prioritaria per chi svolge un’attività intellettuale; tuttavia, essendo l’intellettuale stesso inserito all’interno di un contesto da cui è inevitabilmente condizionato, la possibilità di un’obiettività pura, senza filtri, si trova ad essere negata.

Il riconoscimento dei limiti cui si è sottoposti come intellettuali, anche e soprattutto da un punto di vista sociale; o, in altri termini, il prendere coscienza, foucaultianamente, di spaziare nella libertà di discorsi predeterminati, diviene una consapevolezza necessaria per evitare di cadere nel miraggio di una scientificità, la cui infallibilità è spesso retaggio di un positivismo ingenuo, di stampo ottocentesco.

Questa affermazione dell’impossibilità di un sapere privo di influenze ha, nella sua semplicità, delle conseguenze più profonde di quanto non sembri, poiché si tratta di riconoscere la letteratura in tutto il suo valore politico e sociale; significa una riconsiderazione della storia letteraria ponendola al di fuori del limbo astorico e apolitico in cui troppo spesso viene messo questo tipo di studi.

Anche se quest’approccio per così dire rivalutativo è oggi tra i più accreditati, si fatica ancora ad accettare l’idea che gli studi letterari incidano nella sfera sociale esattamente come i fattori economici o politici, un fatto del resto dimostrato dall’abbondante utilizzo della censura come prima precauzione dei regimi dittatoriali.

L’ovvietà delle constatazioni di cui sopra scompare, nel sottolineare come non pochi tra gli studiosi che hanno attaccato gli scritti di Said definendoli faziosi posseggano l’anacronistica convinzione di riuscire a produrre, nelle loro opere, un tipo di sapere “puro”, inteso nel senso di rigorosamente scientifico, accademico, dove questo aggettivo perde la sua accezione negativa per significare invece un tipo di ricerca ai più alti livelli; una ricerca volta a dimostrare appunto il “vero”, o quantomeno il verosimile, il reale, inteso sempre come a-politico, per riprendere quanto già specificato.

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È evidente come questa convinzione sia per la sua stessa essenza in profondo contrasto con quanto sostenuto da Said.

Sostenere che in qualche modo l’ideologia possa penetrare in questi studi, e, nel caso dell’imperialismo, diventarne una colonna portante, non può che essere un’idea rifiutata dalla maggior parte di coloro che si occupano di questa scienza: in primo luogo perché, semplicemente, uno studio che presenti tracce di ideologia è considerato falsato, un non-sapere, una scienza che condizioni i propri risultati in maniera tale da renderli non fondati; ma soprattutto per via del rifiuto dell’idea di una scienza come strumento del potere politico.

Perciò, se questa accusa poteva anche essere fondata per qualcuno dei grandi orientalisti del passato, ciò che del resto sembra essere ammesso all’unanimità dagli stessi studiosi (in Irwin, per esempio, si parla dettagliatamente delle connessioni tra alcune correnti dell’imperialismo e i propri stati14), per quanto riguarda gli studi più recenti si nega decisamente qualsiasi intromissione di fattori non di ricerca.

In maniera esattamente parallela è ciò che viene sostenuto per l’accusa di razzismo, tra le più incombenti per quanto riguarda gli sviluppi di questa disciplina: se in molti degli autori più influenti che si sono occupati dell’Oriente è innegabile riscontrare una certa tendenza al pregiudizio razziale, ciò viene generalmente attribuito al fatto che si tratti di testi dell’epoca scorsa, fortemente influenzati proprio da una concezione eurocentrica, la quale era però pressoché unanimemente condivisa.

Affermare questo ha però un valore duplice ed opposto: se da un lato si risolve in un’accettazione del pregiudizio come parte integrante del pensiero dell’autore, allo stesso tempo nel volerlo annullare ne accetta e conferma la presenza.

Due sono gli argomenti principali con cui generalmente si ribatte a questa accusa, in una sorta di apologia.

14

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Il primo è che non si tratti in realtà di razzismo nel significato che il termine ha assunto in epoca moderna, poiché si riferisce a parametri e contesti assolutamente differenti; in secondo luogo, l’importanza di questi studi e l’apporto culturale che hanno saputo fornire fanno sì che non possano essere considerati unicamente nell’ambito di un periodo storico limitato, con tutte le conseguenze cui questa visione parziale può portare15; grande importanza viene data inoltre a come tale tipo di atteggiamento risulti superato.

La questione, tuttavia, verte esattamente su questo: è possibile che questo accantonamento dei pregiudizi e luoghi comuni di cui questa disciplina è stata spesso portatrice sia, ad uno sguardo più approfondito, più apparente che reale?

La critica mossa da Said come da altri studiosi, è che nello studio dell’orientalistica, o più in generale nello studio di altre culture, si continuino a reiterare, spesso in maniera quasi inconscia, i medesimi assiomi, le medesime conclusioni cui era arrivato Renan, per citare un illustre esempio, in tutta la limitatezza della sua visione fortemente eurocentrica; e, spingendosi ancora più in là, che queste stesse conclusioni, rivedute solo superficialmente, siano in fondo un pilastro su cui poggiano non solo i nuovi studi, ma in misura ancor più vasta, tutta la concezione moderna degli “Arabi” e dell’ “Oriente”: questa critica merita forse un esame meno sbrigativo, e qualche analisi in più. Analizzando il lavoro di uno dei massimi e più illustri orientalisti contemporanei, Bernard Lewis, da sempre in aperto e feroce contrasto con Edward Said, si può avanzare qualche dubbio in merito. Senz’altro Lewis nel corso della sua carriera ha subito un inasprimento delle proprie posizioni, diventando apertamente un sostenitore del sionismo e, viceversa, manifestando una sempre più marcata ostilità proprio verso il mondo arabo, oggetto dei suoi studi; visioni estremamente critiche che lo portarono a diversi processi e ad una multa.16

15

Cfr. a proposito F. Petruzzelli, op. cit. 16

Dall’Armenian National Committee of France, in un processo seguito dall’ International League Against Racism and Anti-Semitism in seguito ad un intervista a Le Monde nel novembre 1993 a proposito del genocidio armeno.

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Tuttavia, senza il bisogno di scomodare alcune delle sue vere e proprie esternazioni razziste, prendendo in esame uno dei suoi testi più divulgativi, Gli Arabi nella storia17, si può avere un’idea più chiara dell’ambito in cui avviene lo scontro con Said.

È una dissertazione sulla storia araba, di cui tratta in maniera estremamente sintetica a partire dall’Arabia pre-islamica, circa dall’VIII sec. a.C., per arrivare alla contemporaneità con la fine della prima Guerra del Golfo: tutto concentrato in soli dieci capitoli18, il che lo rende, più che un saggio, un compendio utile per chi già conosce almeno in parte la materia.

Il libro infatti, più che svilupparsi secondo una linea temporale degli eventi storici, segue un’esposizione per tematiche, sviluppando ogni capitolo un determinato argomento e periodo. I toni della trattazione sono volutamente controllati: la volontà dell’autore è di ridurre al minimo la propria presenza per rendere l’esposizione il più possibile oggettiva; la brevità stessa pare essere una scelta in questo senso.

Se questo tentativo può dirsi riuscito soprattutto nei capitoli a proposito della storia antica e soprattutto medievale araba, periodo che viene comunque giudicato come il momento di massimo splendore di questa civiltà, tale controllo non riesce nella parte conclusiva del saggio, in particolare nel capitolo X, dove ad essere analizzato è il rapporto tra Occidente e mondo arabo.

Nel cercare le cause di un’eclissi araba descritta precedentemente, e riflessa secondo l’autore nell’estrema frammentazione e debolezza del mondo arabo contemporaneo (parlando del contesto immediatamente successivo alla prima Guerra del Golfo), Lewis arriva ad una prima conclusione: “La questione importante per gli storici non è perché gli europei abbiano cercato di dominare i musulmani -per secoli questo è stato il comportamento normale da ambedue le parti- ma perché ci

17

B. Lewis, Gli Arabi nella storia, ed. Laterza 2006 18

Come si legge nella Prefazione all’ edizione del 1992: “Il libro ha incontrato un grande successo (…) presumibilmente grazie allo scarseggiare di altre opere che trattassero la storia araba con la medesima stringatezza e allo stesso livello di analisi e generalizzazione”.

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siano riusciti. E la risposta a questo interrogativo può essere cercata tanto nella forza europea quanto nella debolezza musulmana19”.

Questa osservazione che potrebbe sembrare un’ovvietà, l’incipit per un’analisi socio-politica della dominazione di un impero da parte di un altro, riflette in realtà una tesi ben precisa.

Viene qui sotteso, infatti, il presupposto di una gerarchia che non ha a che fare solamente con forze politiche, ma pone a confronto due diversi modelli culturali, in cui il dominante è, a tutti gli effetti, il modello vincente.

Più esplicativa in questo senso la continuazione di Lewis: “L’atteggiamento verso i non credenti (…) impedì agli arabi di imparare qualcosa da loro, e addirittura di comprenderli, in un momento in cui era l’Occidente, e non, come in passato il mondo islamico, ad avere qualcosa da insegnare. La famiglia tradizionale basata su poligamia, concubinato e schiavitù domestica si adattava male ai processi di modernizzazione sociale e culturale, e quindi anche politica ed economica. Tutti questi fattori contribuirono ad accelerare ed accentuare la disparità tra il mondo islamico e quello occidentale, non solo nel benessere e nella potenza, ma anche, e forse soprattutto, per quanto riguarda la capacità di creare ricchezza e di ottenere il potere e usarlo costruttivamente”.

Assumendo come valore il potere della società occidentale, viene fornito uno studio incentrato sulle cause della “debolezza musulmana”, identificato nella mancanza di determinate caratteristiche proprie della società occidentale: la differenza tra i due termini di paragone è dunque percepita in negativo, come mancanza appunto, in un’ottica che assume parametri ben precisi, molto lontana dall’imparzialità di giudizio. Quest’imparzialità non si verifica tanto nella griglia valutativa con cui le due società vengono messe a confronto, quanto nel presupporre che il modello di crescita occidentale sia rigorosamente corretto, mai problematizzato; la terminologia per mezzo della quale vengono frapposti due modelli di società, barbaro ed arretrato l’uno, in piena modernizzazione l’altro, in un quadro generale decisamente privo di sfumature, tradisce un’antipatia di fondo che trascende da uno studio oggettivo, nel senso inteso dallo stesso autore.

19 Ibidem

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Se per quanto riguarda i primi secoli di storia araba ciò non è così evidente, più la trattazione si avvicina all’attualità più spazio viene concesso alle opinioni personali, inglobate nel corpus stesso del libro: la conclusione stessa a proposito del futuro dei paesi musulmani non può essere considerata nulla di più che un’opinione puramente personale.20

Lo stesso approccio nominalista può essere significativo di questo atteggiamento: come si osserva ancora in Lewis, la particolare cura nel fissare le definizioni di “arabo” e nel determinare “il concetto di arabismo” non sono solo funzionali a circoscrivere il proprio campo di ricerche, ma sono sintomatiche di un metodo di analisi che richiama molto da vicino quello dell’entomologo, come rilevato da Said in Orientalismo stesso, con un paragone polemico, ma estremamente efficace. Sulla feroce polemica tra Said e Lewis è stato osservato che “in realtà, Lewis non subì gli attacchi di Said in quanto studioso mediocre (attributo che non si merita), ma in quanto sostenitore del sionismo (il che corrisponde a verità)”.21

Il problema che si pone di fronte a questa considerazione è se si possa veramente operare una distinzione tra le due sfere di pensiero, o se non sia invece più probabile, data la materia in questione, riconoscere una reciproca influenza tra l’idea personale e politica dell’autore e il risultato del suo lavoro.

Riconoscere questo legame non significa entrare nel merito della competenza dei lavori di Lewis; la riflessione cui si vuole spingere è più ampia.

Ci si interroga infatti su quanto conti il fattore condizionamento, non solamente a riguardo delle opinioni personali, ma anche l’eredità fornita da tanti secoli di studi e letteratura sul mondo arabo (per rimanere in questi confini). Inevitabilmente, l’approccio sviluppato da un determinato tipo di

20

Sostiene infatti Lewis: “I popoli arabi possono infatti scegliere tra più alternative: sottomettersi ad una o ad un’altra delle versioni rivali della civiltà moderna che si vedono offrire, fondendo la propria cultura e identità in un insieme più grande e dominante; oppure seguire coloro che li esortano a girare le spalle all’Occidente e a tutte le sue opere, per seguire il miraggio di un ritorno al perduto ideale teocratico e arrivare invece ad un dispotismo rinnovato che ha mutuato dall’Occidente il suo macchinario di sfruttamento e repressione e il suo lessico dell’intolleranza; o infine possono riuscire a rinnovare la loro società dall’interno, incontrando l’Occidente su un piano di cooperazione paritetica, assorbendo qualcosa della sua scienza e del suo umanesimo, qualcosa che non ne sia soltanto l’ombra ma anche la sostanza, in un armonioso equilibrio con l’eredità della tradizione araba.” .Gli Arabi nella storia, op. cit., pg. 199-200 21

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relazione reciproca pone determinati spazi di pensiero, dove l’esperienza è portata a cercare e trovare comodi appigli teorici, i quali non possono che riconfermarla, in un continuo rimando. L’Orientalismo di Said si concentra sul campo di quelle discipline appartenenti all’ambito antropologico ed etnografico, in quanto in esse più che altrove si trovano evidenti tracce di questo circolo chiuso; successivamente, in Covering Islam: How the Media see the Rest of the World, egli porterà la sua analisi oltre i confini della specializzazione accademica, per dimostrare come luoghi comuni, fraintendimenti e così via siano l’abituale sostrato su cui poggia una visione riprodotta e amplificata dai mezzi di comunicazione, supportati da un richiamo ad una “tradizione” che si ritrova spesso ad esistere solo nell’immaginario collettivo22.

L’idea di tracciare una storia di quest’immagine, seguirla nel suo sviluppo, osservare come spesso coincida con le varie fasi del dominio colonialista: Orientalismo parte da questa riflessione, per arrivare molto lontano.

2.2 Il contesto: l’ « Orientalisme en crise »

Prima di procedere nel dettaglio ad una analisi di Orientalismo potrebbe quindi essere opportuno gettare uno sguardo al contesto entro il quale può avvenire l’attacco saidiano, capire l’entità di una crisi avvertita primariamente al proprio interno: oltre alle recenti polemiche e accuse da parte degli intellettuali dei paesi in via di decolonizzazione, a destare una preoccupazione forse ancora maggiore era la sensazione di frammentarietà avvertita da alcuni degli studiosi stessi, dovuta in parte allo sviluppo di scuole di pensiero molto differenti fra loro, in parte alla continua specializzazione di alcuni ambiti di questo sapere e alla loro conseguente separazione, il che faceva sì che la stessa denominazione di “orientalismo” fosse ormai un termine desueto;ciò che del resto viene accennato anche da Francesco Gabrieli nel suo intervento.

22

Un’idea sostenuta anche a proposito di altri studi. Per ricordarne due cui Said non manca di far riferimento, cfr. E. Hobsbawm, T. Ranger, L’invenzione della tradizione Einaudi 2002, e M. Bernal, Atena nera. Le radici afroasiatiche della civiltà classica, EST 2007

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La già citata querelle che si svolge sulle pagine della rivista culturale francese Diogène tra il sociologo egiziano Anouar Abdel Malek e l’orientalista italiano Francesco Gabrieli può venire vista come paradigmatica di questo stato di cose.

In questi due brevi interventi, editi una quindicina d’anni prima del lavoro di Said, si possono ravvisare alcuni punti fondamentali di due concezioni pressoché opposte, in un confronto la cui importanza va ben oltre l’ambito accademico, per renderlo sintomatico di un cambio epocale.

A spingere Abdel Malek, afferma lui stesso, è la necessità di “une révision, une réévalutation critiques de la conception générale, des méthodes et des instruments qui ont été ceux de la connaissance de l’Orient par l’Occident”.

Con il grande cambiamento dello scenario politico mondiale dopo il 1945, diviene necessario che anche quello che fino a quel momento era l’unico strumento conoscitivo tra due diverse culture, punto di incontro tra esse ma espressione di un modo di relazionarsi l’una all’altra fortemente a senso unico, debba essere ripensato nelle sue fondamenta.

Il discorso si incentra quindi immediatamente sulla crisi di questo movimento, avvertita come sintomatica di una crisi di ben maggiori dimensioni: quella della supremazia colonialista.

La connessione tra imperialismo ed orientalismo è dunque posta come assunto fondamentale; infatti, spiega l’autore, se è senz’altro vero che la nascita dell’orientalismo come corpus di studi viene sancita nel 1245 dal Concilio di Vienna, è innegabile che esso conosca il suo momento di maggior espansione in epoca coloniale: : “On relèvera (…) que l’essor véritable des études orientales dans les deux secteurs-clés du monde arabe et estreme-oriental date, pour l’essentiel, de l’époque de l’implantation coloniale, mais, surtout, de la domination des “continents oubliés” par les impérialismes d’Europe.”

Uomini e terreni vengono identificati indiscriminatamente come estensioni del possesso coloniale europeo, e in quanto tali passibili di uno sfruttamento non soltanto economico, ma che si esprime anche nell’ambito di una scienza che li vede come meri oggetti: “depuis 1945, ce n’est pas

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seulement le terrain qui lui échappe, mais aussi les hommes, hier encore “objet” d’étude et, désormais, “sujets” suverains.”

La rivendicazione, dunque, è duplice: liberazione dei terreni implica soggettivizzazione dei loro abitanti, in un’equazione sottesa, che è già sufficiente, per se stessa, a spiegare le motivazioni della crisi di tutto un sistema scientifico.

Si delinea già qui la possibilità di porre la questione fenomenologicamente, come rapporto tra l’Ego dominatore e l’Altro dominato, che troverà successivo ed ulteriore sviluppo: in Abdel Malek questo rapporto non viene però ancora esplicitato, rimanendo perlopiù un’idea sullo sfondo. Lo studioso egiziano è più interessato ad approfondire un altro aspetto dell’apparato teorico orientalista, mostrando nello specifico come la problematica dell’altro posto come oggetto si riconduca, sul piano della tematica, ad una concezione essenzialista di popoli e paesi, il che li pone allo stesso tempo in una dimensione storica e a-storica, fissandoli cioè in un momento storico determinato, ma considerandoli tipologicamente secondo categorie delimitate con precisione e proprio per questo astratte: “Nous aurons un homo Sinicus, un homo Arabicus (et, pourquoi pas, un homo Aegipticus, etc.), un homo Africanus, l’homme-l’homme normal, s’entend-lui, étant l’homme européen de l’époque historique, c’-est à-dire depuis l’antiquité grecque”.

Ciò che senza dubbio comporta una qualche affinità con concezioni di tipo razziale; non sembra però essere molto distante dal nominalismo di Lewis e dalla caparbietà nell’estrapolare il concetto di “arabo”.

Per Abdel-Malek tuttavia, a differenza di Said, si pone per l’orientalismo la possibilità di un’uscita dalla crisi in cui è venuto a trovarsi: una soluzione che viene individuata nell’adozione di una metodologia marxista.

Il marxismo è qui visto come fattore di enorme importanza: la trasformazione da “oggetto” a “soggetto” da parte dei non-occidentali è stata resa possibile proprio dalla diffusione delle idee marxiste, già foriere di cambiamenti in campo economico e politico; le nuove metodologie, più

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rigorose, hanno infatti dimostrato quanto l’orientalismo sia una scienza ormai inadeguata, legata a sistemi in via di sparizione.

Non si tratta tanto, quindi, dell’orientalismo in sé, concepito come studio dei popoli, quanto della sua metodologia: “repenser l’ensemble” è dunque possibile, in due differenti maniere che sono la proiezione, nell’analisi di Abdel-Malek, di due differenti Europe.

Nel confronto tra queste due differenti visioni, sinteticamente esposte in tre parti fondamentali (concezione generale, metodi di ricerca e strumenti), non è difficile rilevare, nonostante il rigore dell’esposizione, come fuoriescano due strategie diametralmente opposte: il proponimento marxista di “dis-orientalizzare” l’Oriente nel senso di adottare il più possibile un punto di vista proprio dei Paesi in questione pare essere molto più vicina al pensiero dell’autore; al contrario le inevitabili mediazioni strutturaliste proprie del neo-orientalismo centro-europeo lo rendono difficilmente diversa da una continuazione dei vecchi sistemi.

Al di là delle motivazioni tecniche e politiche dell’autore, è evidente come alla denuncia di uno studio orientalista incentrato in un’ottica di superiorità occidentale pressoché scontata si affianchi una polemica sotterranea, e allo stesso tempo riguardante un ambito molto più vasto: l’applicazione di una metodologia marxista.

Antiorientalismo e scienza marxista si ritrovano in questo modo sempre più spesso appaiate sotto un’unica posizione, in particolar modo nelle critiche degli oppositori.

Così è per esempio nel caso dell’orientalista italiano Francesco Gabrieli, la cui replica all’articolo di Abdel Malek viene pubblicata sempre su Diogène qualche numero più tardi, nel 1965: il titolo dell’articolo è “Apologie dell’Orientalisme”, e di un’apologia a tutti gli effetti si tratta.

Lo scritto di Gabrieli è caratterizzato da una forte passione per il suo campo di studi, come rimarca più volte. Lo scopo del suo intervento è quello di liberare tale campo dai pregiudizi e le esagerazioni che vi stanno gravando addosso.

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Vi si esprime infatti un’indefinibile nostalgia per i tempi in cui l’orientalismo “ètait considerée comme une des branches les plus pacifiques et inoffensive de la science”; molto forte è anche la preoccupazione per una suddivisione forse eccessiva in diversi indirizzi specialistici, che comporta inevitabilmente il fatto che “ l’ancienne dénomination générique d’orientalisme semblait appellée à disparaitre”.

Se si apre inizialmente ad un’ammissione, sostenendo una collaborazione casuale e sporadica con alcuni aspetti del colonialismo, essa non è certamente ritenuta sufficiente per poterlo invalidare come sistema, se non per intenti faziosi: “S’il n’est pas tout à fait immotivé, a été injustement exagéré, géneralisé, envenimé”.

Gabrieli pare quasi non accorgersi di cadere in una serie di considerazioni tipiche di quell’orientalismo “west-centered” che non viene minimamente confutato.

Alla proposta di ‘disorientalizzazione’ di Anouar Abdel Malek, risponde che adottare un’ottica differente, non occidentale, sarebbe in primo luogo impossibile, e secondariamente inutile e inadeguato: “Depuis au moins quatre siècles, les concepts fondamentaux de la recherche scientifique ont été élaborés en Occident: histoire, expérimentation, dévelopement, progrès, tout ce qui constitue le patrimoine intellectuel de l’homme moderne, auquel l’Orient, durant cette meme périod, n’a contribué en aucune manière”. Perfino il grande elemento innovativo di questo Oriente, sottolinea Gabrieli, proviene dall’Occidente di Hegel, Marx e Lenin.

Tutto ciò a cui possono aspirare gli studiosi orientali è una collaborazione di pari livello con i loro colleghi occidentali, livello il cui raggiungimento è di per sé un buon risultato, e un eventuale, possibile rimedio alla mancanza di stimoli in cui si ritrova questo movimento.

Gabrieli esprime il punto di vista dello studioso umanista in senso classico, dedito ad un approccio teorico alla propria materia; egli è maggiormente concentrato sulla difesa del proprio campo di studi dalle influenze marxiste, che a confutare le accuse di unilateralità della sua scienza, problema che non viene percepito come essenziale. Al contrario: “C’est pour cela qu’il ne faut pas que nos amis orientaux nous demandent d’étudier leur passé et leur présent à la lumière d’une

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historiographie moderne, d’une philosophie, d’une esthétique, d’une économie orientales, qui (...) sont aujourd’hui inexistantes”.

Del resto, il colonialismo stesso non appare allo studioso italiano in tutta la sua gravità: Le colonialisme est à present périmé (…). Peut-etre tout en lui n’était pas uniquement néfaste, amis d’Orient, avec et sans votre permission ; mais enfin (...) il est mort et interré”.

Come può stupire dunque il fatto che lo studioso italiano rimanga deluso, per non dire addolorato, da quest’Oriente che ostinatamente rifiuta di rivedersi nello specchio che gli esperti d’Occidente hanno così amorevolmente preparato per lui; questo stesso Oriente cui non era necessario chiedere il permesso non solo per studiarlo, ma altresì per dominarlo?

Gabrieli riconduce quindi la questione su un terreno a lui più comprensibile: quello politico.

Quest’antiorientalismo montante è infatti visto come una conseguenza del diffondersi delle dottrine sovietiche che, egli non manca di sottolineare, si vedono emergere in quantità “sinon toujours en qualité”; il proposito dell’orientalismo sovietico di guardare all’Oriente con occhi e mentalità orientali, come rimarcava Abdel-Malek, è tuttavia fuorviante a giudizio di Gabrieli, poiché non attuabile. Egli lo esplicita, ancora una volta, nella maniera più chiara possibile: “mais il serait pour le moins étrange que l’Occident puisse renoncer à se servir de ses conceptions à lui, (...) par fair play pour l’objet de son étude, pour adopter les conceptions de ce dernier qui ont eu (...)une grande, parfois meme une très grande valeur historique, mais qui sont désormais intégrées et meme dépassées par un développement ultérieur de la pensée humaine”.

Ecco dunque inchiodato il mondo orientale al suo passato di grandiosità e fasti, ma irreparabilmente decaduto, oramai sterile, immutabile nel suo degrado; dove per “mondo orientale” si vuole intendere genericamente tutti i popoli non-europei, se nel menzionare l’unico pensiero degno di nota elaborato fuor d’Europa viene citato Gandhi.

La crisi dell’orientalismo è certamente da ricondursi alla fine del colonialismo; ma da una prospettiva rovesciata, che vede riversarsi nelle accuse contro questo tipo di studi una crisi esistenziale, dovuta alla nuova situazione.

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Il consiglio per un atteggiamento non polemico, l’augurio per una collaborazione produttiva, in qualche modo sembrano celare malamente il pensiero che la più saggia decisione per “l’Est” sia quella di rimanere nel proprio comodo status di oggetto.

C’è da chiedersi tuttavia se la riflessione di Gabrieli non possa corrispondere a verità. Una scienza creata per valere in un unico senso, secondo un’unica ottica, sarebbe forse snaturata da un’ipotetica inversione dei poli. Può l’oggetto diventare soggetto nell’ambito di una stessa struttura di studi, semplicemente cambiandone la metodologia?

Sorprendentemente, vedremo la conclusione di Said avvicinarsi molto più al pensiero di Gabrieli rispetto all’idea di un neo-orientalismo promulgata da Abdel Malek; pure, si tratta di pervenire ad una soluzione diametralmente opposta.

Un'altra osservazione interessante è che, nonostante lo scambio di opinioni, il punto centrale della questione pare differire di molto tra i due studiosi.

Dove Anouar Abdel-Malek rivendica il diritto dei popoli asiatici e africani a prendere la parola a proposito di se stessi, pur attraverso il tramite di un neo-orientalismo a modello sovietico, Gabrieli giudica questo diritto semplicemente inattuabile; egli non ne avverte la necessità, o non vuole farlo, focalizzando il discorso sulla questione metodologica.

Un segnale che quest’approccio sia oramai da considerarsi anacronistico e che un cambiamento sia già avvenuto lo dimostra pochi anni dopo Nikki R. Keddie, studiosa iraniana, con il suo lavoro sulla figura del filosofo islamico Sayyd Jamal ad-Din “al-Afghani”, lavoro significativamente titolato come An Islamic Response to Imperialism.23

Tra gli scritti di Afghani che vengono riproposti vi è anche la Réponse, scritta a Ernest Renan per ribattere ad alcuni argomenti che il filologo francese aveva avanzato nel suo L’Islamisme et la Science.

Lo scambio avviene sulle pagine della rivista culturale parigina Journal des Débats tra il marzo e l’aprile 1883.

23

N.R. Keddie, An Islamic Response to Imperialism. Political and Religious Writings of Sayyd Jamal ad-Din “al Afghani”, University of California Press 1968. Tutte le citazioni qui di seguito sono prese da questo testo.

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Secondo il filosofo arabo, vi sono due punti, fondamentali nell’esposizione di Rénan, che meritano di essere controbattuti: la prima questione riguarda il fatto che gli Arabi siano per natura e temperamento ostili a scienza e filosofia; la seconda che l’Islam come religione sia essenzialmente nemica della scienza.

Punto di forza della contestazione di Afghani è sottolineare come oscurantismo e intolleranza non siano una prerogativa della religione islamica, ma appartengano in eguale misura a tutte le religioni; innumerevoli esempi di fatti accaduti sotto tutte le religioni costituiscono la prova che “no agreement and no reconciliation are possibile between these religions and philosophy. Religion imposes on man its faith and its belief, whereas philosophy frees him of it totally or in part.”.

Per quanto riguarda l’innata ostilità degli Arabi per le scienze, per il filosofo arabo è sufficiente ricordare come essi stessi abbiano assorbito le scoperte di Greci e Persiani, sviluppandole e fungendo da tramite per la Cristianità.

Le due argomentazioni si trovano così ad essere interdipendenti, e pare che Afghani voglia spingere verso la seguente conclusione: se la civiltà araba rimane confinata in un periodo di oscurità, la responsabilità della religione musulmana, appaiata al dispotismo, risulta in tutta la sua evidenza. A questo proposito, Nikki R. Keddie nota giustamente che ritenere la risposta di Afghani come una difesa dell’Islam, come spesso viene intesa nel mondo arabo, è un fraintendimento, dovuto alla mancata lettura del testo per intero.

Il filosofo islamico infatti è duro nei confronti della propria religione almeno quanto il filologo francese; ciò che del resto viene rilevato da Rénan stesso: “Sheikh Jemmal-Eddin seems to me to have brought considerable arguments for my two fondumental theses: During the first half of its existence Islam did not stop the scientific movement from existing in Muslim lands; in the second half it stiffled in its breast the scientific movement, and that to its grief”.

L’ostilità di Rénan, del resto, non è diretta esclusivamente alla religione islamica, ma verso tutti i dogmi: per questo trova nell’obiezione di Afghani un’osservazione acuta e, al contempo, una parziale ammissione della sua tesi, sia nell’asserire l’arretratezza dell’Islam, sia nel vedere

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implicitamente confermato il divario tra le due società, di cui Afghani dà una spiegazione evoluzionistica: la società islamica sarebbe ancora in attesa di liberarsi delle rigidità della propria religione, diversamente dalla società cristiana.

È difficile valutare quanto il fatto di essere stata pensata e scritta per un pubblico d’élite occidentale influenzi l’autore nell’impostazione data alla sua lettera, per esempio esagerando il suo scetticismo, e insieme la sua visione utilitaristica dell’Islam; diversamente, vi si potrebbe ritrovare una libertà di espressione maggiore rispetto ad altre opere, come per esempio le Refutations.

Nel complesso dell’intervento è comunque possibile intravedere l’articolarsi di un moto di orgoglio nazionalista: lo si può notare nell’insistenza morbida ma caparbia con cui vengono rivendicati i segni di quella “superiorità intellettuale” così poco spesso riconosciuta, nel definire un’identità araba che, seppure a contatto con le più svariate terre, è rimasta compatta nell’esercitare la propria influenza.

A giudizio di Keddie, è presente in Afghani un conflitto irrisolto tra il voler combattere il senso di inferiorità nei confronti dell’Occidente strutturando una cultura di autosufficienza, volta all’esaltazione dei propri meriti e contributi, e il desiderio e la necessità di adoperare le tecniche proprie dell’Occidente.

A prescindere dalle contraddizioni generate da questo conflitto, questa figura di studioso risulta emblematica per un primo concreto tentativo di risposta ad un’egemonia imperialista in campo accademico; per usare le parole della Keddie: “His position as a precursor and early teacher of anti-imperialism, nationalism, solidarity against the West, and self-strengthening reform-all of which causes have grown and flourished since his lifetime-seems sicure”.

Lo studio della Keddie ha lo scopo ben preciso di porre in evidenza la possibilità di replica ad una visione occidentale da parte di quel mondo “altro”, in questo specifico caso il mondo islamico, che così poco ruolo attivo aveva avuto nella costruzione della scienza di cui era oggetto.

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In questo modo, contrariamente alla visione di Gabrieli, questo stesso oggetto si ritrova ad avere la parola. Tuttavia, il suo timore circa l’impossibilità di un cambio strutturale sembra non essere infondato.

Il contesto entro cui può avvenire lo scambio di osservazioni tra i due studiosi è sempre, inevitabilmente, un contesto imperialista; dove la risposta di Afghani rappresenta comunque un atto di resistenza, pur nella sua pacatezza.

Nel suo lavoro, Said evidenzia il più possibile proprio questa appartenenza, arrivando ad affermare la necessità che l’orientalismo, come branca del sapere, non possa esistere al di fuori della forma in cui è stata concepita, una creazione di sapere a scopi politici ed economici; o, in forma letteraria, come si è detto, una rappresentazione di entità immaginarie.

Ecco la tesi in tutta la sua durezza, senza compromessi: l’orientalismo è sempre inevitabilmente inerente ad un ambito di dominazione, presupponendo sempre, per la sua stessa forma, un’oggettivizzazione, dunque una sottomissione, per quanto possa assumere altri nomi, voglia prendere altre forme. La medesima tesi che si è visto venire esposta in Gabrieli, pur partendo da ottiche diametralmente opposte, così come opposte sono le conclusioni.

“Non dico mai che l’orientalismo è malvagio, o sciatto, o che nell’opera di tutti gli orientalisti si ritrovino caratteristiche uniformi. Dico però che la corporazione degli orientalisti ha una storia ben precisa di complicità con il potere imperiale (…). Non credo proprio che la nozione di orientalismo “rettamente intesa” possa essere del tutto separata dal suo intricato e non sempre lusinghiero rapporto con la realtà.”24

2.3 Le critiche.

Le critiche più gravi in cui incorre Orientalismo sono essenzialmente due: antistoricità e arbitrarietà.

24

(25)

La prima riguarda un’eccessiva approssimazione nella ricostruzione del contesto storico e geografico, nonché alcune confusioni sui nomi citati; tuttavia, poiché il lasso di tempo che sceglie di prendere in considerazione è relativamente limitato, ancora più insistente è la seconda critica che lo vede rimaneggiare la materia per adattarla forzosamente alle proprie finalità.

La decisione stessa di porre come data di inizio il 1798 con l’invasione dell’Egitto da parte di Napoleone viene giudicata da alcuni una scelta faziosa di per sé; così come finalizzata ai propri scopi sembra essere quella di focalizzare il discorso esclusivamente sulle correnti francese e anglosassone, senza prendere in considerazione gli apporti da parte dell’orientalismo russo e soprattutto tedesco.

Di tutte queste inesattezze e mancanze l’autore è consapevole fin da subito: nell’Introduzione di Orientalismo è presente una sorta di piccola apologia, dove prevede buona parte delle critiche e motiva le proprie scelte in merito.

Orientalismo non è scritto con l’intenzione di essere un saggio documentaristico, ma, come si è accennato, di ricostruire l’immagine orientale nella relazione tra Oriente e Occidente, studiandone l’evoluzione.

Porre come punto di partenza della propria trattazione l’invasione d’Egitto ha una valenza puramente simbolica, in quanto in quest’ottica diviene evento doppiamente carico di significato; allo stesso modo questa relazione tra immagine e potere è espressa al suo meglio negli studi francesi e inglesi, di pari passo con l’espansione coloniale, anche se ciò comporta un taglio piuttosto radicale, come ammette lo stesso Said: "Temo vi possa essere nel mio studio un aspetto fuorviante, laddove, a parte un accenno occasionale, ometto di discutere gli sviluppi di questo ambito culturale in Germania.”

Se già nell’Introduzione Said è abbastanza chiaro in proposito, più esplicativa ancora può essere la lettura di Rileggere Orientalismo.25

25

Rileggere Orientalismo, in Nel segno dell’esilio, op. cit. (originariamente pubblicato in Race and Class, vol. XVII, n. 2, autunno 1985, Institute of Race Relations).

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Si tratta di una sorta di appendice scritta quasi dieci anni dopo. Dopo la pubblicazione di Orientalismo, e in seguito alle critiche, l’autore ha tentato più volte di tornare sulla sua opera più celebre per chiarimenti, soprattutto sulle motivazioni che lo spinsero alla sua stesura.

Così avviene anche nel caso di Rileggere Orientalismo: se il titolo originale (Orientalism Reconsidered) potrebbe far pensare ad una parziale revisione dell’opera, risulta fin da subito evidente che quest’idea, con buona pace dei lettori delusi, non è neppure presa in considerazione.

Said parte proprio dalle critiche formulate contro di lui: “Alcune osservazioni, come per esempio quella relativa all’esclusione dell’orientalismo tedesco (di cui però non mi è stata fornita alcuna ragione per giustificarne una possibile inclusione), mi hanno francamente colpito per superficialità, ragion per cui mi sembra superfluo ribattere alcunché. Per lo stesso motivo, credo che l’obiezione sollevata da qualcuno sul fatto che il mio lavoro sarebbe sostanzialmente astorico e inconsistente diverrebbe più interessante se le virtù della consistenza, qualunque significato si associ a questo termine, fossero sottoposte ad un’analisi rigorosa; per quanto riguarda poi la mia astoricità, anche questa mi sembra un’accusa che ha più consistenza come petizione di principio che come argomento verificabile”.26

Questa dichiarazione, particolarmente dura anche riguardo ambiti in cui altrove Said era stato più accomodante, per esempio per ciò che riguarda l’orientalismo tedesco, può essere letta come una sorta di sfogo per la mancata ricezione della sua opera, nel suo ambito teoretico.

Chiarisce l’autore: la sua analisi del rapporto tra Europa e Asia si svolge nei termini di un’indagine ermeneutica, “eppure esiste ancora una forte riluttanza a discutere i problemi sollevati dall’orientalismo nei contesti politici, etici ed epistemologici che gli sono propri. (...), si è costretti a indagare in termini sia intellettuali sia politici la resistenza alle politiche orientaliste, una resistenza che è sintomo precisamente di ciò che viene negato”.27

Ad essere indagato è insomma un rapporto di potere tra due culture, che si esplicita sottoforma di rappresentazioni; si tratta di ricostruire la storia di un luogo dell’immaginario collettivo, dalle

26 Ibidem 27

(27)

origini molto antiche, ma i cui sviluppi si ritrovano nell’approccio contemporaneo, non solo in scienza e letteratura ma altresì nelle quotidiane rappresentazioni mediatiche (tema principale del citato Covering Islam).

Il fattore che lega tutte queste rappresentazioni è la linea immaginaria che separa l’Oriente dall’Occidente; questi due termini passano dallo stato di “fatti umani”-il riferimento è a Vico-, ovvero da semplificazioni mentali, ad entità vere e proprie, fissati in uno status ontologico pressoché immutabile, oggetti di un sapere i cui fondamenti sono stati scarsamente problematizzati, e che si ritrova a racchiudere al suo interno una vastissima quantità di nozioni autofondanti, in un continuo e reciproco rimando.

In questa prospettiva, di cui già si intuisce il grosso debito nei confronti di Foucault, si può già notare come ci si muova in un livello del tutto differente da quello della trattazione storica.

A venire messa in questione è la possibilità stessa che un tale studio possa essere nulla di più che l’oggetto di un’interpretazione, dove finora l’atto di interpretare è stato condotto nei termini di un rapporto bipolare, ma sempre e comunque diseguale, dove vi è un Ego attivo e un Altro passivo. È un rapporto che si può leggere in vari modi, analizzando le metafore con cui l’Oriente viene identificato; per esempio come bipolarismo di genere, maschile dominante- femminile dominato, una lettura cui Said presta particolare attenzione, ritenendola particolarmente eloquente per via dei suoi richiami alla sfera della sessualità.

È innegabile infatti che la connessione tra sessualità e Oriente sia una delle più forti, per divenire tòpos letterario nella narrativa d’Occidente.

Ciò può manifestarsi nella forma di una donna, spesso concubina, che diventa un simulacro della propria terra- gli esempi sono numerosi, a cominciare dalla Kuchuk Hanem di Flaubert- fonte di estremo piacere, ma destinata ad essere dominata o allontanata, pena stordimento o morte; altre volte si tratta di rapporti omosessuali, simbolo supremo del piacere proibito, ma talvolta è proprio la terra stessa a scatenare una comunione erotica con la sensibilità del protagonista (come accade, per

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esempio, in Gide); fino ad arrivare a poter metaforizzare l’Oriente sottomesso in una frustrata casalinga, come nell’esempio dello stesso Said in Rileggere Orientalismo.

Questa ottica prettamente maschile con cui viene analizzato l’Oriente viene fatta rientrare per Said nelle conseguenze di un certo tipo di orientalismo latente, definizione direttamente riferita ad una concezione di orientalismo come discorso, su cui si tornerà in seguito per una chiarificazione.

Una seconda motivazione per questa piccola appendice, è quella di ribadire ancora una volta le proprie distanze dalle varie correnti di pensiero che gli sono state attribuite: da coloro che definisce come “nativisti”, per i quali l’esistenza e la valorizzazione di un determinato elemento “nativo” è fondamentale per la comprensione e lo sviluppo di ogni cultura; dai nazionalisti, in particolar modo quelli riconducibili al fondamentalismo religioso; infine, di combattere in particolare l’atteggiamento definito di “illimitato intellettualismo” di cui vede il massimo riscontro in Bernard Lewis e Daniel Pipes28 (e di cui legge un sintomo, per esempio, nel porre antiarabismo ed antisemitismo come termini contrapposti, rifiutandosi ostinatamente di vedervi una matrice comune, un atteggiamento di pensiero condiviso).

Procedere ad una problematizzazione del fenomeno “orientalismo” significa, per Said, innanzitutto comprendere quanto forte sia l’eredità in esso dello storicismo, di cui condivide la tendenza alla sintesi e riunificazione sotto un unico principio catalogatore.

Il fatto di non aver avvertito la stretta connessione tra i due movimenti, o meglio la subalternità dell’uno rispetto all’altro ha comportato, nel successivo impulso verso uno studio orientato ad un “sistema-mondo”, una mancanza, laddove i rapporti dell’orientalismo con gli altri fenomeni storici e intellettuali, imperialismo e storicismo compresi, non solo non vengono approfonditi, ma semplicemente espunti: un doppio e opposto impulso, questo, che conduce inevitabilmente alla creazione di un sistema di sapere solo apparentemente differente, al contrario impostato sulle stesse premesse epistemologiche del precedente, o nel migliore dei casi, tautologico: “né ci si può semplicemente limitare a riciclare la vecchia retorica marxista o del sistema-mondo, il cui dubbio

28

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esito finale consisterebbe essenzialmente nel ripristinare l’influenza intellettuale e teorica di modelli intellettuali vecchi, inadeguati e genealogicamente discreditati”29.

Di contro, esplicitamente come non era avvenuto nel saggio in questione, il discorso si apre ad indicare una nuova possibile via.

L’intento è quello di creare uno studio per nuovi oggetti di sapere, superando l’eterno bipolarismo che si ripropone nelle sue varie opposizioni: pensiero marxista e storicista, volontarismo e determinismo, società occidentale ed orientale, dando vita ad un campo di sapere articolato in maniera complessa, non isolato, operante un decentramento, una dissoluzione del compatto sistema critico in percorsi di studio differenti30.

Nel fare ciò è tuttavia necessario ripristinare una dimensione essenzialmente politica, tenendo presente l’interconnessione tra essa e la letteratura; in questo specifico caso, il problema critico parte innanzitutto da quello della dominazione e divisione del lavoro, così come è stato elaborato in particolar modo dalla scuola di Francoforte (con riferimento soprattutto ad Adorno). Non potrebbe essere altrimenti, poiché l’oggetto dei campi di sapere in questione è creato proprio dalle condizioni economiche e sociali dei paesi non privilegiati.

L’interesse è volto a valorizzare quegli studi di “interferenza”, nelle loro molteplici forme, ma volti tutti a contribuire a quest’opera di smantellamento dei residui storicismi nella formazione di sapere: dagli studi sulla politica araba di Hanna Batatu, alla narrativa di Rushdie e Goytisolo, senza dimenticare le geografie immaginarie dei testi, tema del resto a Said particolarmente caro, tracciate da Raymond Williams. Nella loro diversità di temi ed ambiti, questi studi condividono la caratteristica di essere impostati su una ricerca di pluralità.

Pluralità la cui difficoltà è di essere mantenuta senza rifugiarsi, come si è detto, nella creazione di un sistema unificatore e livellatore, né tantomeno in particolarismi di genere, volti all’esclusivismo, per il cui principio solo i portatori di una determinata caratteristica (le donne, gli omosessuali, i neri

29

Rileggere Orientalismo, op.cit. 30

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e così via) sono autorizzati alla parola in materia; ciò che si è visto essere l’ennesima ingiusta critica nei confronti di Said.

A queste due possibilità lo studioso palestinese si oppone, proponendo una più auspicabile soluzione, dal suo punto di vista, articolata in tre parti fondamentali: il mantenimento di un sistema di interferenze ed interconnessioni; una maggiore consapevolezza del legame tra politica e funzione critica; infine, come sottolinea ancora una volta nelle righe conclusive, “un più acuto senso del ruolo degli intellettuali, sia nella definizione di un contesto sia nella volontà di cambiare quel contesto: perché senza quest’ultimo sforzo credo che la critica dell’orientalismo si riveli solo un effimero passatempo.31”.

Rileggere Orientalismo ha dunque lo scopo non di rimettere mano a quanto argomentato nel libro, ma di suggerire la possibilità di accostarsi all’opera nella maniera in cui essa è stata pensata dal proprio autore: un’opera di critica polivalente, che coinvolge perciò molteplici campi e discipline, nel tentativo di ricostruire tutto l’universo teorico di ciò che viene indicato sotto la dicitura ‘orientalismo’, comprendendo le sue implicazioni nel “mondo fattuale”, senza porlo come un discorso monolitico, ma, esattamente al contrario, seguirlo nelle sue forme più variegate.

Le critiche appaiono all’autore non particolarmente rilevanti proprio perché si posizionano su un livello formale che non coincide con quello cui ci si vuole richiamare. Il refuso storico, l’espunzione di alcune correnti dell’orientalistica, non intaccano insomma quella che è la tesi proposta come punto di partenza. Ancora più precisamente, la questione non verte in realtà sulla dimostrazione di una tesi, ma su un’ipotesi formulata in relazione all’esercizio critico di lettura del testo. Sostenere che in questo esercizio vi sia una visione strettamente personale è senz’altro corretto; ma da quanto rimarcato sopra apparirà chiaro come questa sia una caratteristica fortemente ricercata da Said all’interno della propria linea teorica.

Se a questa chiave di lettura complessivamente è stata prestata scarsa attenzione, tenendo conto dell’abbondanza di critica in merito, può essere stimolante rilevarne altre quasi del tutto ignorate.

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