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Il volume è diviso in quindici capitoli, di cui solo tre scritti da un singolo autore. Tutto il resto del libro è il frutto della stretta collaborazione tra gli scrittori.

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3. KANAL IMENI STALINA 3.1. Storia e letteratura

Il libro ebbe tre riedizioni e venne pubblicato sotto la collana di Gor’kij, Storia delle fabbriche e degli stabilimenti. La prima edizione era destinata ai membri del XVI Congresso del Partito tenutosi nel gennaio del 1934 e passato alla storia col nome di “congresso delle vittorie”. Questa scadenza aveva fatto sì che il libro fosse realizzato in tempi brevissimi, proprio come il canale. Il volume venne tradotto in inglese nel 1935, anche se la traduzione non rispetta l’originale né nella progressione degli eventi, né nella suddivisione in capitoli e sezioni.

Il testo, sparito dalla circolazione nel 1937, è stato infine ripubblicato nel 1998. Questa edizione si apre con un’avvertenza al lettore in cui gli editori spiegano che non è possibile per un popolo dimenticare il proprio passato, giusto o sbagliato che sia, in quanto ciò comporterebbe il rischio di non avere un futuro.

Il volume è diviso in quindici capitoli, di cui solo tre scritti da un singolo autore. Tutto il resto del libro è il frutto della stretta collaborazione tra gli scrittori.

Ma c’è un altro tipo di collaborazione oltre a quella degli autori tra di loro:

quella tra scrittori e membri dell’OGPU. Si è già fatto riferimento al fatto che

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la visita degli scrittori al canale fu manipolata e pianificata in ogni suo aspetto.

Anche gli incontri successivi alla visita tra gli scrittori e gli ingegneri, ora impegnati nel canale Mosca-Volga, avvennero sotto la stretta sorveglianza dell’OGPU. Va ricordato poi che tra i supervisori del libro c’era Semën Firin.

Si tratta di un’opera che infrange i confini tra storia e letteratura. Il titolo, contenente la parola storia, promette molto: afferma che il volume è il racconto ufficiale e veritiero della costruzione del cantiere. Le premesse da cui nasce il libro ci fanno supporre, però, che di veritiero ci sia poco. Agli occhi di un lettore moderno risulta difficile concepire come storia ufficiale un’opera nata su richiesta del partito e alla cui realizzazione contribuì in grossa parte l’OGPU. Senza contare poi che il testo ignora troppi aspetti di quell’evento per potere risultare come un racconto veritiero. Ma, date le motivazioni che portarono alla sua nascita e date le circostanze storiche in cui venne prodotto, esso sottolinea solo una verità, quella ufficiale. E non sarebbe potuto essere altrimenti, poiché rappresenta uno dei primi tentativi da parte del regime di esercitare pieno controllo sulla letteratura. Lo scopo del volume era quello di giustificare l’uso della manodopera forzata nei grandi progetti di costruzione, e di fare da apripista ad altri progetti simili.

Dietro ogni singola pagina del libro si ravvisa la mano, nonché il pensiero di Gor’kij. La collana da lui creata, Storia delle fabbriche e degli stabilimenti, aveva come scopo quello di narrare fatti reali, il ché vale a dire scrivere la storia recente della Russia come storia dello sviluppo collettivo industriale.

L’idea che siano gli scrittori e non gli storici a scrivere la storia era un’idea che

Gor’kij portava avanti da tempo. Per assicurare il successo della costruzione

del nuovo stato socialista, lo scrittore deve assumersi il dovere di scrivere la

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storia. Compito dello scrittore socialista è quello di descrivere la costruzione e lo sviluppo della classe proletaria e dei suoi luoghi di lavoro. Uno storico di professione non sarebbe in grado di farlo perché non possiede il corredo di strategie e tecniche letterarie e narrative che la storia sovietica merita. È per questo motivo che Gor’kij invita gli scrittori sovietici a prendere parte alla costruzione della nuova società, raccontando come essa viene realizzata e da chi. Anche la storia precedente la rivoluzione deve essere riscritta in modo da riflettere lo sviluppo del proletariato fino alla sua vittoria nel 1917. Uno stato nuovo come l’Unione Sovietica necessita di una storia nuova, anche se ciò significa riscrivere il passato. Questo è lo scopo della collana Storia delle fabbriche e degli stabilimenti: riscrivere la storia attraverso la letteratura.

Scrivere la storia è compito dello scrittore, il quale sceglie quali eventi privilegiare, perché li considera episodi chiave per evidenziare il concetto che vuole veicolare (Cfr. Ruder 1998: pp. 94-98).

Gli autori del volume collettivo hanno riportato ciò che hanno visto. Poco

importa se ciò che hanno visto fosse falsificato e manipolato. D’altronde, la

nuova letteratura chiede allo scrittore di dire la verità, solo che è il partito a

stabilire qual è la verità. Non c’era motivo di oscurare il successo del progetto,

raccontando di quanti erano morti, di quanti avevano sofferto il freddo, le

insostenibili norme di lavoro e le scarse razioni di cibo. Gli scrittori erano lì

per documentare il successo dell’opera, non quanto ci fosse stato di sbagliato e

disumano. L’atto di creare la storia è più importante della verità in sé. Infine, lo

scopo della letteratura non è più quello di divertire e intrattenere ma quello di

educare e informare. Anche per questo era necessario che gli scrittori

documentassero la crescita della potenza sovietica in tutte le sue svariate

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manifestazioni. Così come il lavoro collettivo aveva rieducato i detenuti, la scrittura della storia avrebbe educato la popolazione. La storia dei grandi progetti costruttivi e delle altre imprese sovietiche sarebbe servita non solo a documentare tali progetti, ma anche a informare ed educare il lettore sui loro risultati positivi. Dal momento che l’industrializzazione era in quegli anni uno degli obiettivi primari del regime, raccontare la storia dei grandi progetti costruttivi, delle fabbriche e dei loro successi era un modo per legittimare la rapidità del processo di industrializzazione stessa e i mezzi che venivano utilizzati per raggiungerla. Scopo ultimo della collana di Gor’kij e del volume collettivo nello specifico era quello di creare un’esperienza collettiva che unisse scrittori, lettori, membri dell’OGPU e soldati del cantiere, tutti accumunati dallo stesso dovere: costruire una società nuova.

3.2. Un lavoro collettivo

Per gli scrittori, il Belomorkanal rappresentò l’evento che permise loro di formulare una reazione ai grandi progetti tecnici, alla strategia della scrittura collettiva, al nuovo ruolo della letteratura sovietica all’interno della nuova società. Nei primi anni ’30, l’attenzione era focalizzata su progetti collettivi, su lavori collettivi, tanto nella letteratura come nell’industria e nell’agricoltura, sulla costruzione collettiva di uno stato nuovo.

Se il lavoro collettivo funzionava in tutti gli altri ambiti, non c’erano motivazioni per cui non dovesse avere successo anche nell’ambito letterario.

Effettivamente, gli autori del volume si aiutarono a vicenda, sottoponendo

l’uno all’altra ciò che avevano scritto, accettando qualsiasi correzione e

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facendo sì che 36 scrittori agissero come uno solo, di modo che fosse impossibile stabilire cosa era stato scritto da uno e cosa dal collettivo intero.

La nota introduttiva al libro, che precede la lista dei nomi dei 36 scrittori, recita:

Tutti gli autori si assumono la piena responsabilità del testo. Si sono aiutati a vicenda, completati a vicenda, corretti a vicenda. Per questo stabilire la paternità individuale è stato spesso difficoltoso. Riportiamo qui gli autori delle sezioni principali di questo o quel capitolo, ricordando ancora una volta che il vero autore di tutto il libro è l’intero collettivo di coloro che hanno lavorato sulla storia del canale Mar Bianco-Mar Baltico intitolato a Stalin [Gor’kij 1934 (pod red.) p.

1].

Accanto alla nota possiamo leggere i nomi degli autori che hanno contribuito alla stesura del libro. Alla fine del volume, dopo la bibliografia, sono elencati i singoli capitoli e gli autori che hanno contribuito a ciascuno di essi.

Lo scopo di tale collaborazione era quello di incoraggiare gli scrittori a

lavorare non come singoli individui, ma come un’unica entità per produrre una

letteratura che fosse degna dei risultati raggiunti dallo stato. L’entusiasmo per

la scrittura collettiva sembra essere stato davvero genuino per molti scrittori. In

una lettera a Stalin il già citato Sergej Budancev scrive che l’esperienza al

Belomorkanal aveva permesso agli scrittori di scoprire per la prima volta la

gioia del lavoro collettivo e che tale scoperta li aveva arricchiti immensamente

(Ruder 1998: p. 110). Al I Congresso degli scrittori, Kuz’ma Gorbunov, uno

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dei partecipanti alla spedizione e alla stesura del volume, affermò che lavorare su quel libro aveva dimostrato che scrivere collettivamente non solo era possibile, ma in certe circostanze addirittura indispensabile (Ivi, p. 110).

Nonostante l’entusiasmo per il nuovo esperimento, questo volume è l’unico esempio veramente riuscito di scrittura collettiva nell’Unione Sovietica.

Quando l’attenzione della letteratura si focalizzerà sugli eroi individuali, anche l’entusiasmo per la scrittura collettiva tenderà a scemare. A partire dalla metà degli anni ’30, infatti, il modello per i cittadini sovietici non sarà più il collettivo, ma il singolo che realizza imprese straordinarie.

Al lavoro collettivo si affianca una tecnica propria dell’avanguardia, quella del montaggio, sulle cui basi è costruita tutta l’opera.

3.3. Il montaggio

La tecnica del montaggio ha qui lo scopo di collegare tra loro segmenti narrativi diversi, in modo da creare un tutto unico. I singoli segmenti perdono la loro individualità per veicolare un singolo messaggio: quello della rieducazione tramite il lavoro fisico e collettivo. La tecnica del montaggio applicata alla letteratura rende il volume l’incarnazione fisica del lavoro collettivo. Dunque gli scrittori lavorarono davvero come degli ingegneri, aggiungendo, sottraendo, smontando e assemblando le parti in modo da ottenere un effetto di unità.

Il montaggio era una tecnica propria dell’avanguardia, teorizzata ed usata

soprattutto nei film e nella fotografia. Se in questi due ambiti artistici poteva

essere utilizzata per veicolare dei messaggi positivi su particolari eventi e

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renderli accessibili alle masse, lo stesso poteva accadere una volta che il montaggio fosse stato applicato alla letteratura. La letteratura era in una fase ancora instabile della propria evoluzione, per cui non risulta strano che una tecnica propria dell’avanguardia come il montaggio diventasse il meccanismo su cui costruire un’opera voluta dal regime. Inoltre, il realismo socialista non si era posto in totale discontinuità con l’arte che lo aveva preceduto, ma si era appropriato di quegli elementi dell’avanguardia che potevano risultare utili.

In Lo stalinismo, ovvero l’opera d’arte totale, Boris Groys sostiene che lo stalinismo sia stato la realizzazione massima dell’avanguardia, poiché con Stalin nasce l’idea della cultura di massa e di un’arte che deve essere compresa da tutti (Cfr. Groys 1992: p.113). Per quanto riguarda il nostro volume, il montaggio era probabilmente il metodo più appropriato per smussare le differenze tra i singoli autori e portare avanti un unico messaggio.

Gran parte del montaggio presente nel libro è opera di Viktor Šklovskij. Da

formalista, Šklovskij sosteneva l’indipendenza dell’arte, e la superiorità della

forma sul contenuto: per raggiungere la forma, lo scrittore utilizza una serie di

tecniche che creano il testo e determinano lo sviluppo della trama e dei

personaggi. Nelle sue opere Šklovskij preferisce i paragrafi brevi, segmenti

disuniti, salti verbali da un argomento ad un altro. Come sceneggiatore, si

ispira alla tecnica del montaggio di Ejženstein. Ciò che lo attira è la capacità

del regista di cambiare in modo rapido scena e atmosfera, di rompere e

rimettere assieme le parti di un’opera, sfidando le attese del pubblico, e

creando un tutto nuovo e un nuovo effetto. Šklovskij era del parere che la

metodologia del cinema poteva essere applicata perfettamente alla letteratura.

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Non si può certo dire che la tecnica del montaggio sia stata applicata sempre con successo all’interno del Belomorkanal: i segmenti spesso sembrano sconnessi e anche i singoli capitoli sembrano mancare di unità. Secondo Cynthia Ruder, il montaggio doveva servire a mettere insieme gli stili e le tecniche di autori profondamente diversi tra loro, ma era impossibile che annullasse tutte le differenze. Nonostante ciò, anche se spesso i singoli frammenti possono apparire scollegati tra loro, il tema di fondo, quello della perekovka, non viene mai perso di vista (Cfr Ruder 1998: pp 113-114).

Prendiamo come esempio il capitolo 5 , intitolato «Čekisti». Dal titolo ci aspetteremmo un capitolo tutto dedicato a queste figure, ma alle due sezioni dedicate a Lazar Kogan e Jakov Rapoport, si alternano parti dedicate al lavoro e alla rieducazione dei detenuti. Eppure proprio questa distribuzione sottolinea il metodo del montaggio. Sebbene ciascun segmento non sia necessariamente legato a quello che lo precede, il messaggio che il capitolo vuole veicolare rimane chiaro: grazie all’operato e alle doti dei čekisti il canale è stato completato e il processo di rieducazione ha avuto successo.

3.4. La reificazione dei topoi

Nell’articolo Genre in Socialist Realism, Greg Carleton sottolinea il

carattere ibrido di quest’opera, definendola un’anomalia stilistica (Carleton

1994: p.996). Alle storie vere o presunte dei detenuti e dei čekisti si alternano

documenti ufficiali, decreti, riproduzioni di cartine e di mappe, citazioni,

lettere, telegrammi, manifesti, fotografie. Gli autori del libro includono anche

una vasta gamma di versi all’interno del testo: si va da quelli più sofisticati del

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poeta futurista Igor Terent’ev, detenuto del Belomor, ai tentativi meno riusciti di altri detenuti che non erano poeti di professione. Nel suo articolo Carleton sostiene l’impossibilità di inserire il Belomor all’interno di un genere definito, poiché l’opera non si limita solo ad infrangere le barriere tra storia e letteratura, ma si serve anche di tecniche narrative proprie di generi come il giornalismo, il romanzo storico e quello di azione. La narrazione si svolge quasi sempre al presente, si fa ampio uso della prima persona plurale insieme a interiezioni colloquiali come vot e nu. Il lettore viene spesso chiamato in causa così da diventare sia un testimone che un partecipante attivo agli eventi.

Quando il lettore viene chiamato in causa, naturalmente, l’effetto drammatico proprio della fiction aumenta. Il Belomorkanal, dunque, non rispetta i canoni di un singolo genere, ma mescola le caratteristiche di molti (Ivi, p 996).

Carleton nota che, sebbene il testo si presenti come il resoconto ufficiale e

storico della costruzione del canale Mar Bianco-mar Baltico, mostra delle

caratteristiche che risultano inaspettate in un’opera di storia, in particolar modo

nella concatenazione degli eventi, nella descrizione dei personaggi e nei

dialoghi. Non sempre i ritratti dei personaggi sono accompagnati da descrizioni

più o meno accurate, spesso ci viene detto solo il loro nome, la nazionalità o la

professione, o un aspetto che li rende tipici. Ma quando manca un riferimento

preciso, quando l’identità di una persona non viene specificata, essa

rappresenta un gruppo nella sua interezza. I personaggi sono importanti non

per la loro identità personale, ma per ciò che rappresentano nella semantica del

testo. Čekisti, kulaki, ingegneri hanno tutti delle identità fisse, per cui, sebbene

i loro nomi possono cambiare nel corso del testo, la loro funzione rimane

sempre la stessa e non è necessario che il lettore sia in grado di distinguerli

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(Ivi, p. 998). Non a caso gli autori ci dicono, ad esempio, che «La fisionomia di un čekista è ovunque la stessa» [Gor’kij (pod red.) 1934: p.336]. I personaggi acquistano il valore di topoi, il cui scopo è quello di dimostrare la validità ultima dei postulati del libro: il successo della perekovka, l’abilità dei čekisti, l’ignoranza dei kulaki, la supponenza degli ingegneri, la dicotomia tra mondo occidentale e mondo sovietico, tra mondo prerivoluzionario e postrivoluzionario, tra industria e natura. La reificazione dei topoi diventa più importante del genere in sé. Per questo motivo un personaggio ipotetico o inventato e uno realmente esistito hanno esattamente lo stesso valore all’interno del testo, purché consentano la reificazione dei topoi dell’opera.

Generi e metodi diversi come la lirica, la biografia, il resoconto storico, la fotografia, la caricatura vengono utilizzati purché si adattino allo scopo del testo. Per questo motivo il concetto di genere perde di importanza nell’analisi di quest’opera.

Dobrenko, invece, sostiene che il libro contenga tutte gli elementi propri del romanzo industriale, sebbene si trovi al confine tra l’abbozzo del romanzo industriale e quello vero e proprio. Si trova anche al limite tra testo canonico del realismo socialista e opera d’avanguardia: il suo contenuto è tipicamente realista, mentre la sua struttura è avanguardistica (Cfr. Dobrenko 2007: p. 160).

3.5. Largo alla mistificazione

La base ideologica che sta dietro la mistificazione presente nel volume si

deve ancora una volta a Gor’kij. Dopo il suo ritorno in Russia, lo scrittore

aveva deciso di viaggiare per il paese e descrivere la nuova realtà che gli si

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parava di fronte. Nel 1929 aveva visitato le Solovkí. Da questa esperienza era nato un reportage, che può essere considerato come l’antecedente del Belomorkanal.

In See no Evil: Literary Cover-ups & Discoveries of the Soviet Camp

Experience, Dariusz Tolczyk spiega che quest’opera rappresenta la creazione

di un modello ideologico piuttosto che la rappresentazione più o meno accurata

della vita in quel campo. Mostrando il contrasto tra il vecchio mondo del caos

e il nuovo ordine bolscevico, Gor’kij crea un modello di razionalizzazione e

giustificazione del totalitarismo sovietico (Cfr. Tolczyc 1999: p. 131-132). La

linea di demarcazione tra il vecchio e il nuovo mondo è naturalmente la

rivoluzione del 1917. All’opposizione tra vecchio e nuovo mondo si affianca

quella tra mondo occidentale e borghese, che rappresenta il caos del passato, e

mondo comunista sovietico, che rappresenta l’armonia e l’ordine del futuro. Il

mondo sovietico si sta allontanando dall’oscuro passato prerivoluzionario e dal

malato mondo occidentale verso un futuro radioso. Questa transizione, tuttavia,

non è ancora del tutto completa, e uno dei luoghi in cui essa avviene è proprio

il campo di lavoro. Questo passaggio è fondamentale per giustificare

l’esistenza stessa dei campi di lavoro. D’altronde, i bolscevichi credevano

fermamente che la criminalità non fosse nient’altro che una conseguenza del

capitalismo, basato su interessi egoistici e sull’individualismo, e che i criminali

fossero le vittime di questo sistema. E così diventa dovere dei bolscevichi

salvarli, cambiare la loro mentalità, anche se ciò può implicare l’uso della

coercizione. Il campo di lavoro diventa così una medicina sociale (Ivi, pp. 134-

144).

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Il Belomorkanal segue le strategie usate da Gor’kij nel reportage sulle Solovki. Anche qui viene tracciata l’opposizione diacronica e sincronica tra mondo prerivoluzionario e post-rivoluzionario da una parte, e la Russia sovietica e l’Occidente borghese dall’altra. Il mondo russo antecedente la rivoluzione è un mondo caotico, in cui ogni tentativo di portare ordine è destinato a fallire già in partenza, perché mancano le giuste basi ideologiche.

Nelle prime pagine del libro gli autori ci dicono che in cinquant’anni i missionari ortodossi non erano riusciti ad impiantare i concetti di Dio e di moralità nella mentalità dei siberiani. Un vescovo lamentava il fatto che i Čiukči, una popolazione stanziata nella Siberia nord orientale, fossero dei veri selvaggi. Nella loro lingua esistevano 23 parole per indicare i diversi tipi di tricheco, 40 per descrivere i banchi di ghiaccio e gli iceberg, 16 diverse espressioni per descrivere le punte dell’arpione, ma le parole come ruota, macchina o scuola erano intraducibili nella loro lingua. È naturale che i missionari non fossero in grado di trasformare questo caos in qualcosa di strutturato. Le loro basi concettuali erano sbagliate tanto quanto quelle dei siberiani. Ma, non appena il comunismo introduce il giusto ordine di pensiero, ciò che per i missionari era stato impossibile diventa un risultato immediato.

Le parole come collettivo, rivoluzione e proletario entrano senza problemi nelle lingue delle tribù siberiane, anzi danno una spinta al loro sviluppo [Cfr.

Gor’kij (pod red.), 1934: p. 34].

Una parte del primo capitolo del libro, «Il paese e i suoi nemici», è

dedicata alla descrizione degli aspetti negativi delle carceri occidentali. Tutto il

resto è un’esibizione dei successi del sistema sovietico. Ecco come gli scrittori

ci descrivono i campi di concentramento della vicina Finlandia borghese:

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Nella prigione di Ekanas ci sono 500 prigionieri politici. La maggior parte di loro ha ricevuto sentenze a vita. Essi muoiono lentamente. Le umide celle di Ekanas sono focolai della tubercolosi. Il cibo è raramente commestibile. Il 17 giugno del 1932 la maggior parte dei prigionieri è stata avvelenata da cibo avariato.

La falegnameria è il lavoro dei prigionieri. Qui, al confine con la Carelia, non conoscono le specializzazioni. Che tu sia un avvocato, un fabbro, un cocchiere o un calzolaio, poco importa: devi piallare e segare! Ti viene assegnata una norma.

Che tu sia forte o debole non importa: devi segare. Se non esegui la norma nel tempo prefissato, finisci nella cella di punizione. Quattro giorni a pane e acqua.

Se non la esegui per la seconda volta: due settimane. E se, nonostante questo, non la esegui per la quarta volta, cella di punizione. A tempo indeterminato. Le celle di punizione sono stracolme. Le norme sono così alte che nessuno riesce ad eseguirle nel tempo stabilito. Pochi sono quelli che escono dal carcere finlandese.

Semmai per finire al cimitero [Cfr. Gor’kij (pod red.) 1934: p. 58].

Ciò che stupisce il lettore è che questa descrizione potrebbe adattarsi perfettamente a un qualsiasi campo sovietico degli anni ’30, eppure qui è usata per sottolineare il contrasto tra l’orrore occidentale e la giusta realtà dei campi sovietici.

Quando gli scrittori parlano dei campi di concentramento tedeschi criticano

il fatto che il loro orrore abbia una base filosofica e che al loro interno si

pretenda di educare i detenuti al patriottismo. Va da sé che anche i campi

sovietici si fondavano su una base filosofica, che fungeva da giustificazione,

appunto la perekovka, e che il loro ruolo dichiarato era quello di rieducare i

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detenuti. Gli scrittori non si esimono dal descriverci le crudeli torture che vengono praticate nelle prigioni occidentali e soprattutto nei campi fascisti. In questo modo dimostrano che, mentre il sistema punitivo occidentale era basato sulla crudeltà e sull’assenza di legge, quello sovietico si basava su leggi coerenti e morali, in quanto il loro obiettivo era quello di costruire una società in cui non ci sarebbe più stato spazio per il crimine.

È importante notare che questa strategia basata sul contrasto impone una forte semplificazione: tutto ciò che è positivo appartiene alla realtà sovietica in costruzione, tutto ciò che è negativo è il frutto del caotico passato e del mondo occidentale. Essere un nemico del popolo non vuol dire solo essere un antibolscevico, ma significa anche essere un trasgressore dei più comuni valori morali. Eppure questi spregevoli personaggi diventano eroi, grazie al processo di rieducazione del canale. Solo questo può aiutarli. Non sorge mai il dubbio che una condanna possa essere sbagliata, tutti i colpevoli meritano di trovarsi al canale. Gli autori ci riportano come vere tutte le voci di quegli anni: che nelle mense delle fabbriche si avvelenavano le operaie con l’arsenico; che il latte munto in un’azienda dello stato inacidiva per calcolo del nemico; che il kulak buttava un dado negli ingranaggi della fabbrica in cui si era fatto assumere. I crimini contro il popolo sono tantissimi e hanno tutti lo stesso scopo: affamare la popolazione.

Il Belomor ci racconta la trasformazione della folla incosciente e indisciplinata in massa consapevole di sé. Il singolo, che fa parte della folla indisciplinata, è pericoloso per la costruzione socialista. Il lavoro, così, diventa disciplina ed è al contempo il mezzo e l’obiettivo del processo educativo.

Coloro che giungono al campo sono vittime confuse del loro passato. Vivono

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ancora nel passato, ma nel campo gli viene insegnato il presente, in cui però nessuno vive, perché tutti vivono già nel futuro (Cfr. Drobrenko 2007: p 164).

Il processo di trasformazione a cui vengono sottoposte fa sì che acquistino piena consapevolezza di sé. Non sempre il processo è facile e rapido. Ci sono anche quelli che, nonostante tutto, si rifiutano di cambiare. È il caso del kulak Foma Ladërkin, che sfoga la sua rabbia azzoppando un cavallo. Niente è in grado di farlo lavorare e alla fine viene mandato in isolamento. Le parole degli autori forniscono la giusta cornice ideologica per interpretare il grande rifiuto di Ladërkin:

Non tutti lavoravano coscienziosamente. Tra i detenuti c’erano dannosi fannulloni, renitenti che si sottraevano al lavoro per mesi. C’erano i falsi invalidi, quelli che si inventavano una malattia, quelli che avrebbero fatto di tutto pur di non recarsi agli scavi. C’erano gli oppositori, persone che facevano propaganda contro il lavoro. C’erano i sabotatori [Gor’kij (pod red.) 1934: pp. 250-251).

Alla storia di Ladërkin fa da contraltare quella di un altro kulak Balabucha, che rinuncia a prendersi cura del suo bue per lavorare.

Quello di Ladërkin è un caso isolato. Praticamente tutti arrivano a comprendere, presto o tardi, la necessità di cambiare e quindi di lavorare.

Inizialmente possono opporre resistenza, incapaci di accettare i cambiamenti in

corso nella loro coscienza. Il processo potrà dirsi concluso nel momento in cui

la loro coscienza e i loro atteggiamenti esteriori non saranno più in lotta con i

čekisti, nel momento in cui capiranno l’importanza di ciò che stanno facendo e

di ciò che lo stato ha fatto per loro, quando saranno non più soggetti da

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educare, ma educatori loro stessi. Da delinquenti di ieri vengono trasformati in eroi. Sia Dobrenko che Tolczyk notano che la trasformazione in eroe è anche la trasformazione in čekista. L’eroe del Realismo Socialista deve avere tutte quelle caratteristiche proprie dei čekisti: coraggio, buon senso, straordinarie doti organizzative, sicurezza. L’apoteosi della perekovka, dunque, è la trasformazione da detenuto in čekista. La storia del compagno Rottenberg, scritta da Michail Zoščenko, rappresenta un caso esemplare. Da ladro e faccendiere di fama mondiale Rottenberg approda al canale e, dopo un iniziale periodo di resistenza alla disciplina impostagli dall’OGPU, diventa educatore e poi capo del reparto di isolamento.

Un processo tipico è quello che osserviamo, ad esempio, tramite

l’evoluzione dell’ingegner Maslov. Egli inizialmente non crede nella

possibilità di realizzare il canale utilizzando materiali come il legno, e ,come

tutti gli ingegneri presenti nel canale, ha un eccessiva fiducia nelle proprie

capacità. Ma nel momento in cui si mette a lavoro, la sua coscienza viene

toccata in modo profondo dalla straordinaria importanza della sfida che gli è

stata affidata. Se all’inizio sottovaluta ciò che sta accadendo alla sua coscienza,

pian piano si rende conto che non può più ignorare gli incredibili cambiamenti

che stanno avvenendo in lui. E così, da sabotatore pronto a ironizzare su tutto,

viene rieducato e non può che approdare al pieno sostegno del regime. Un altro

esempio di conversione è quello dell’ex ladra di professione di nome Anna,

giunta al canale nel 1932. Anche lei inizialmente si rifiuta di lavorare, poiché

trova la fatica fisica assolutamente intollerabile. Ma dopo una conversazione di

quattro ore con un’ex detenuta, ora diventata un’educatrice, sugli errori delle

loro vite passate scoppia in lacrime perché per la prima volta sente di contare

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qualcosa come individuo. Inizia a lavorare e da quel momento comincia la sua nuova vita. Di storie simili è costellato tutto il libro. Si tratta di un processo dal sapore quasi magico. È sufficiente innestare il seme del socialismo in questi individui, che senza il canale sarebbero stati irrecuperabili, per farne dei perfetti paladini sovietici.

Gli autori stessi ci spiegano qual è il ruolo della perekovka e dei campi di lavoro e perché questi sono necessari:

Nei campi noi costringiamo le persone incapaci di rieducarsi indipendentemente a vivere la vita Sovietica, li spingiamo fino al momento in cui non cominciano a farlo di propria volontà. Sì, li costringiamo di certo a fare ciò che milioni di persone nel nostro paese fanno di buon grado, sperimentando la gioia e la felicità [Gor’kij (pod red.) 1934: p. 77].

Il lavoro diventa un piacere, nonché «una questione di onore, valore ed eroismo».

Il libro ci racconta la storia di due vittorie dell’uomo: sulla natura, attraverso la costruzione di un canale artificiale in una regione geograficamente ostile, e su se stesso, con la sconfitta dei propri elementi anarchici e individualistici. Il risultato finale di questa trasformazione dell’uomo e della natura è il canale. Il cambiamento che avviene nella coscienza degli uomini e il procedere della industrializzazione socialista sono inseparabili e complementari nell’universo che ci viene presentato nel libro.

Entrambi avvengono grazie al lavoro forzato (Tolzcyk 1999: p. 175).

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Per Gor’kij la trasformazione della natura e la rieducazione del materiale umano sono sinonimi, poiché la natura è metafora del mondo borghese. In un discorso ai lavoratori d’assalto del canale, Gor’kij sottolinea questo concetto, affermando che:

Una vita in cui non sarà necessario afferrarsi per la gola, in cui non sarà necessario considerare un uomo un nemico di classe, è possibile. Dobbiamo distruggere quei nemici che si parano sulla nostra strada e affrontare il nostro principale e antico nemico: dobbiamo combattere la natura, padroneggiare le sue forze arbitrarie. Quando padroneggeremo queste forze, cosa potrà sopraffarci?

Allora saremo davvero dei re sulla terra, signori di tutte le sue forze (Cit. in Dobrenko, 2007: p. 157).

Il libro rappresenta per i 36 scrittori ciò che il campo di lavoro è per i criminali. Se, grazie ad esso, i detenuti hanno potuto compiere il passaggio dal vecchio al nuovo, grazie al libro e alla collaborazione reciproca, gli scrittori hanno superato le reciproche differenze e raggiunto un punto di vista sovraindividuale e universale. La storia narrata nel libro racconta la trasformazione di punti di vista e voci individuali in un’unica voce universale, ma anche la storia della creazione del libro è quella della trasformazione di stili e talenti diversi in un unico stile universale. Ciò che rende questo risultato ancora più impressionante è l’eterogeneità della brigata di scrittori. Ci sono

«compagni di strada» come Zoščenko, ex emigrati come Tolstoj e Mirskij, il

comunista polacco Bruno Jasieński-Zysman, sperimentatori come Šklovskij,

giovani poco noti come Avdeenko, e scrittori allineati come Gor’kij e Vera

Ibner. Scrittori così diversi tra loro per stile, orientamento ed esperienze, con

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quest’opera, diventano immediatamente capaci di parlare il nuovo linguaggio del regime e di vedere la realtà attraverso le categorie che quel linguaggio impone. Esperienze simili erano in grado di dimostrare che il passaggio dal vecchio al nuovo era sul punto di compiersi, nella vita come nella letteratura.

Il libro è stato in grado di creare due nuovi prototipi letterari che saranno presenti anche nella letteratura successiva: il lavoratore rieducato e riformato, quintessenza del nuovo uomo sovietico e il mentore, rappresentato da figure come Kogan e Rapoport, che incarnano tutto ciò che c’è di degno e positivo in un uomo, esempi viventi da imitare.

Nel 1936 l’ex rappista Leopol’d Averbach pubblicò un saggio dal titolo

«Dal crimine al lavoro collettivo» (Ot prestuplenija k trudu), che sintetizza la

teoria del ruolo del GULag e delle rieducazione tramite il lavoro. L’autore

sostiene che bisogna continuare a concentrare gli sforzi su grandi progetti

tecnici, come il canale mar Bianco e il canale Mosca-Volga. Tali progetti

hanno il merito di colpire l’immaginazione del popolo con la loro grandiosità e

di far comprendere ai detenuti il significato politico del loro contributo al

progetto e allo sviluppo dell’URSS. Trasformare elementi ostili al socialismo

in suoi perfetti paladini è possibile, tramite un lavoro razionale, produttivo e

che abbia uno scopo elevato. Questo però non basta, bisogna che i criminali

capiscano che un ritorno al capitalismo è impossibile e che la loro

sopravvivenza dipende dalla loro volontà di contribuire allo sviluppo del

socialismo. E per aiutarli a capire è necessario stabilire un rigido sistema di

premi e punizioni. Chi lavora bene riceverà cibo e abiti migliori, chi si rifiuta

di lavorare verrà punito. Averbach insiste sul fatto che questo sistema sarà

temporaneo, perché tutti riconosceranno immediatamente la necessità di

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LV

lavorare bene e di comportarsi nel giusto modo (Cfr. Jakobson 1993: pp. 133- 134).

Nel cantiere del canale dal mar Bianco al mar Baltico la radio risuonava incessantemente, ricordando ai detenuti che il canale veniva costruito su iniziativa e per ordine del compagno Stalin. Il giornale del campo ricordava ogni giorno ai detenuti che per eseguire il lavoro richiesto dalla norma erano necessari entusiasmo e volontà di vincere. Nelle sezioni educativo-culturali si istruivano i detenuti, si combatteva l’analfabetismo, si educavano i criminali alla dottrina marxista-leninista. I prigionieri si esibivano insieme in squadre chiamate agitbrigady, presentando spettacoli si propaganda lungo il canale, le orchestre suonavano per tenere alto il morale e l’impegno dei lavoratori, che avevano la possibilità di partecipare a gare di poesia, di lavorare come giornalisti nel giornale del campo e di assistere a spettacoli teatrali realizzati a loro volta da detenuti.

Se la tuftá, il cui scopo era sabotare il lavoro correzionale dell’OGPU, impediva di raggiungere gli obiettivi preposti, si organizzavano notti d’assalto e giornate di assalto. Brigate di lavoratori, suddivise in falangi di 250-300 uomini ciascuna, lavoravano senza sosta, finché l’obiettivo non era stato raggiunto. Si organizzavano le gare socialiste tra le squadre di lavoratori e le cerimonie in cui la bandiera rossa veniva consegnata ai lavoratori migliori. Il Dipartimento culturale e dell’educazione selezionava i detenuti per celebrare durante riunioni pubbliche la trasformazione che era avvenuta nelle loro coscienze grazie al lavoro intenso in favore del socialismo.

Dietro tutto questo si nascondevano gli orrori del canale e le sue

ingiustizie. Cinthya Ruder riporta un dialogo, di cui il diario di Avdeenko ha

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LVI

lasciato memoria, tra lo scrittore Valentin Kataev e Semën Firin. Kataev chiede al capo del campo se, durante i lavori, dei detenuti fossero morti. La risposta di Firin è lapidaria: «È successo. Siamo tutti mortali». Quando Kataev chiede perché non ci fosse alcun cimitero lungo il canale, Firin risponde semplicemente: «Perché qui non c’è posto per loro» (Cit. in Ruder: 1998: p.

62). I defunti venivano seppelliti in tombe senza nome nel profondo della foresta e non è detto neanche che venissero seppelliti.

Abbandoniamo ora il racconto ufficiale per lasciare spazio alle parole del capomastro del canale Vitkovskij, autore di un libro di memorie sulla sua esperienza nel GULag dal titolo Una mezza vita:

Alla fine della giornata lavorativa sul cantiere rimangono dei cadaveri. La

neve ricopre le loro facce. Qualcuno si è rannicchiato sotto una carriola

capovolta, ha nascosto le mani in tasca ed è morto così. Là sono congelati in due,

appoggiati uno alla schiena dell’altro. Sono giovani contadini, i migliori

lavoratori che si possano immaginare. Li spediscono sul canale a decine di

migliaia alla volta, e cercano di far sì che nessuno capiti nel medesimo lager con

il padre: vengono separati. Viene loro subito assegnato un quantitativo di ghiaia e

massi che non si potrebbe estrarre neppure d’estate. Nessuno può insegnar loro,

avvertirli, essi spendono per intero le loro forze da gente di campagna, si

indeboliscono rapidamente e così muoiono assiderati, abbracciati a due a due. Di

notte parte una slitta per raccattarli. I carrettieri buttano i corpi sulle slitte con un

tonfo, legno contro legno. D’estate si trovano le ossa dei cadaveri non raccolti per

tempo, capitano insieme alla ghiaia nella betoniera. Così sono finiti nel

calcestruzzo dell’ultima chiusa presso la città di Belomorsk e là si conserveranno

per sempre (Cit. in Solženicyn 1974: p.103).

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