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Un crocevia di identità - Indagine linguistica e culturale sull'African American Vernacular English

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Academic year: 2021

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1. Origini e sviluppo

“Every dialect, every language, is a way of thinking. To speak means to assume a culture”.

Franz Fanon1

Nel 1990 negli U.S.A. venne condotto un censimento dal quale risultò che la popolazione afroamericana era aumentata di circa il 10% tra il 1980 e il 1990, arrivando a costituire il 12% della popolazione totale del Paese. Molti degli individui che formavano questa significante porzione della popolazione americana oltre al GAE (General American

English) parlavano una varietà linguistica, che è stata variamente definita: Black English, Black Vernacular English, African American English, Ebonics e più recentemente AAVE

(African American Vernacular English).

Nel presente studio, che ha l’obiettivo di effettuare sia una descrizione linguistica e sociale sia un’analisi strutturale della varietà linguistica parlata dagli afroamericani e tra gli afroamericani, ma che non si occupa né di Gullah2 né di altri creoli anglofoni parlati dagli afroamericani, sarà utilizzata la denominazione AAVE. Per identificare la completezza e l’autenticità dell’intero sistema linguistico in uso presso i parlanti afroamericani e per illustrare dati e fonti di indagine che provengono da parlanti afroamericani appartenenti a diversi gruppi sociali e classi economiche, a differenti fasce di età, a varie zone geografiche degli Stati Uniti, la definizione terminologica più adatta è sembrata African

American Vernacular English sia perché la presenza del termine Vernacular ben

caratterizza la tipologia di parlato analizzata, sia perché tale denominazione è priva di riferimenti razziali.

Un’ovvia domanda da porsi potrebbe riguardare quanti tra i trenta milioni di persone afroamericane, che compongono la popolazione statunitense, si possono ritenere parlanti bilingue e quanti monolingue; alcuni linguisti afroamericani, tra i quali Geneva Smitherman3 e John Baugh4, hanno identificato i parlanti bilingue di AAVE e di GAE nell’80 – 90% della popolazione afroamericana, ma non esistono ancora stime precise e dati ufficiali sulla diffusione e la distribuzione dell’AAVE negli Stati Uniti.

1

Fanon, F., 1967.

2

Creolo anglofono parlato nelle zone costiere della South Carolina e della Georgia.

3

Smitherman, G., 1977.

4

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Definire l’AAVE da un punto di vista sociale si è dimostrato un compito arduo e ricco di implicazioni. Nonostante sia necessario cercare di fornire un’analisi socio-economica accurata al fine di discutere e valutare le politiche pubbliche che coinvolgono tale varietà linguistica e i suoi parlanti, lo studio dei fattori sociali ed economici che influenzano la diffusione e la distribuzione di tale varietà linguistica e l’analisi dei rapporti pubblici dei suoi parlanti si sono rivelati campi di difficile esplorazione a causa delle molte polemiche politiche e sociali che suscitano ancora oggi sia all’interno sia all’esterno dei confini della nazione americana.

Nel campo della ricerca linguistica, sin dalla metà del secolo scorso, si sono susseguiti molti studi con l’esplicito intento di fornire una descrizione oggettiva dell’AAVE, ma sono ancora molti i campi d’indagine linguistica inesplorati e le incertezze da chiarire. Le prime pubblicazioni di articoli e ricerche sul parlato degli afroamericani apparvero alla fine dell’Ottocento, ma fu tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento che iniziò un grande dibattito linguistico riguardo a due tematiche fondamentali: le origini storiche dell’AAVE e la sua relazione con il General American English. Come ha affermato, negli anni Ottanta, Alleyne: “that there exist certain regular patterns of linguistic behaviour

among Blacks which do not occur at all, or which occur with much less frequency among Whites, is no longer a subject of scholarly controversy. The current problem is how to interpret these patterns”5.

Intorno alle differenze tra Black e White English sono state elaborate numerose teorie, tra le quali quelle che hanno suscitato maggior clamore in campo linguistico sono state definite “ipotesi creola” e “ipotesi dialettale”. I fautori dell’ipotesi creola sostengono che l’African American Vernacular English presenti un sostrato creolo, che trarrebbe origine dalle lingue africane, e una struttura profonda distinta dal GAE. I dialettologi, invece, identificano l’AAVE come un dialetto della lingua Inglese, derivato dalle varietà di GAE parlate negli Stati meridionali degli Stati Uniti. L’ultima teoria elaborata in ambito sociolinguistico, nota come “ipotesi della divergenza”, si fonda su recenti ricerche che darebbero conferma di come l’AAVE si trovi in un’attuale situazione di divergenza dalle altre forme vernacolari presenti negli Stati Uniti e al tempo stesso ipotizza che questo stato di divergenza si sia verificato anche in passato. Le discussioni e le polemiche sulle origini e sullo sviluppo dell’AAVE continuano a susseguirsi, l’unico punto in comune tra le varie teorie sembra essere il riconoscimento delle forti motivazioni sociali oltre che linguistiche che hanno portato alla genesi e alla diffusione di questa varietà linguistica. Come ha

5

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affermato Schneider: “The subject has had a history of its own, which has been

determined to a large extent by social rather than linguistic issues”6.

1.1 Analisi terminologica

Nonostante il copioso numero di pubblicazioni che si sono susseguite dagli anni Sessanta ad oggi, non vi è ancora un termine usato comunemente e in pieno accordo tra i linguisti per identificare la varietà linguistica parlata dagli afroamericani. I termini utilizzati e proposti sono stati numerosi e diversi tra loro, sicuramente la maggior parte è strettamente correlata al clima sociale del periodo in cui sono stati ideati e diffusi. Inoltre, una delle cause principali di tale disaccordo terminologico è senza dubbio rintracciabile nelle motivazioni razziali, poiché la razza nera in America “is far from emotionally unloaded and

the tension between white racism and black self-confidence is conspicuous in much of the writing up to the present day. This perspective is necessary if one is to understand the variety of terms used to designate the speech of American blacks, including some expressive coinages with varying connotations”7. Frequentemente le varie definizioni terminologiche, più che per indicare e descrivere la varietà linguistica parlata dagli afroamericani, sono state utilizzate in riferimento ai parlanti afroamericani stessi e all’atteggiamento dell’opinione pubblica nei loro confronti durante i diversi periodi storici. Non è un caso che la varietà linguistica sia stata definita Negro dialect oppure Negro

English, nel periodo in cui gli afroamericani venivano etichettati come Negroes.

Di seguito è proposta una lista8 dei termini usati più comunemente in riferimento alla varietà linguistica parlata dagli afroamericani:

Negro dialect

Nonstandard Negro English Negro English

American Negro speech Black communication 6 Schneider,E. W., 1989:1. 7 Schneider, E. W., 1989:8. 8

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Black dialect Black folk speech Black street speech Black English

Black English Vernacular Black Vernacular English Afro American English African American English African American Language

African American Vernacular English Ebonics

La diversità dei termini utilizzata per fare riferimento alla varietà linguistica parlata dagli afroamericani, oltre a subire l’influenza sociale del periodo storico in cui un termine è stato usato, indubbiamente è riconducibile anche all’età e al background culturale del parlante stesso. L’uso di parole come: colored, Negro, black, Afro-American è, infatti, fortemente dipendente da fattori extralinguistici, quali lo status socio-culturale del parlante e il clima sociale del periodo storico. Il flusso terminologico in atto sin dall’inizio degli studi linguistici in questo campo, è così sintetizzato da Baugh9: “Terms that were once

considered offensive are now acceptable (e.g., black) and terms that previously had polite connotations, to white and blacks alike, are now highly offensive to a majority of ASD/VAAC [American Slave Descendants, Vernacular African American Culture, T. E.] (e. g., colored)10 … Blacks are clear on terms they believe are negative - like nigger and colored. Positive terms, however, are another matter. These changes are dynamic and usually take time because they originate within the vernacular culture ”.

Una ricerca condotta da Rudolph Troike11, nel 1968 a Dallas e nell’Est dello Stato del Texas, ha rivelato come i termini utilizzati per fare riferimento alle persone afroamericane varino in base alla fascia di età di appartenenza del parlante: le persone anziane usavano il termine Colored, quelle comprese in una fascia di età media Negro e i più giovani Black. Quest’ultimo termine attualmente si è diffuso maggiormente nella conversazione sia privata sia pubblica e in molti contesti d’uso sia formali sia informali.

9 Baugh, J., 1991: 137. 10 Sic! 11 Troike, R. C., 1973.

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Alcuni di questi termini hanno subito un notevole cambiamento semantico nel corso del tempo. Nel Diciannovesimo secolo il temine colored era un’etichetta razziale, utilizzata inizialmente dai leader abolizionisti, che poi si diffuse a tutto il lessico comune fino all’inizio del secolo successivo. Il termine colored è sempre stato contraddistinto da un significato negativo, poiché era il termine utilizzato dai bianchi per riferirsi agli afroamericani durante la segregazione razziale. All’inizio del Ventesimo secolo, colored venne sostituito da

negro, termine utilizzato durante la Guerra Civile e il periodo della Ricostruzione dagli

afroamericani che volevano affermare provocatoriamente il loro orgoglio razziale, ma che poi si diffuse rapidamente presso i moderati sia bianchi sia neri. L’associazione del termine negro a un significato negativo è radicata in tempi antichi, poiché negro fu una parola originariamente imposta dagli Anglosassoni e da sempre utilizzata in rapporto alla condizione di schiavitù. Diversamente da colored e negro, il termine black ha sempre trasmesso ed è stato associato a un significato positivo. Negli anni Sessanta, infatti, nel periodo in cui dilagava la dottrina del Black Power, teorizzata da Stokeley Carmichael a Greenwood in Mississippi, il termine black divenne una delle forme di espressione dell’orgoglio razziale dei neri. La produzione di associazioni positive, in cui era presente il termine black, quali: “Black is beautiful” e “Black is Power”, controbilanciò gli svantaggi storicamente connessi all’uso del termine stesso e che derivavano dalla sinonimia nella lingua Inglese con altri termini, come: sporco, cattivo, minaccioso. Negli anni Sessanta entrò a far parte del lessico degli americani anche il termine Afro-American, che però ebbe una diffusione più capillare negli anni Ottanta del secolo scorso. Attualmente un numero sempre maggiore di neri trova offensiva l’abbreviazione Afro-American e si registra una preferenza crescenza, soprattutto nella popolazione di età giovanile, per il termine privo di abbreviazione African American.

La disputa terminologica sorta intorno alla scelta della denominazione più precisa e più appropriata per la varietà linguistica afroamericana è sicuramente strettamente correlata all’individuazione dello status dei parlanti e influenzata da forti motivazioni di natura etnica e sociale. Tra le varie definizioni, Negro dialect è considerata la più offensiva tra tutte quelle presenti nella lista proposta, poiché oltre che la parola negro, associata da sempre alla condizione di schiavitù, la presenza di dialect sminuisce la varietà linguistica allo status di dialetto. Tra gli anni Sessanta e Settanta la denominazione più diffusa fu

Black English, apparsa per la prima volta nella South Carolina Gazette nel 1734. Molti

autori che prima avevano usato le denominazioni: Negroes, Negro speech, Negro dialect iniziarono a utilizzare i termini Black folk speech, black language, black dialect. Negli anni

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Ottanta si diffusero altre definizioni inappropriate e che Schneider definì: “self-coined

labels, to which some expressive functions may be explicitly ascribed”12, tra gli esempi forniti dall’autore si ritrovano i termini: Ghettoese, Blackese, Black Idiom, Black

Amerenglish, Black street speech.

Per quanto riguarda la componente etnica, è fondamentale riconoscere che la varietà linguistica afroamericana non è parlata da tutti i neri negli Stati Uniti e il suo utilizzo non è esclusivamente confinato a questo gruppo etnico. L’uso dell’AAVE da parte dei parlanti di origine portoricana che vivono a Harlem, confermato dalle ricerche effettuate da William Labov e dai suoi collaboratori13, dimostra come la componente etnica dei parlanti di AAVE sia molto più varia di quella a cui comunemente viene associato. Una situazione fortemente omologata tra tutti i parlanti di AAVE si riscontra, invece, nell’identificazione dei fattori socioeconomici correlati alla varietà linguistica. Leslie Milroy sintetizza l’influenza etnica e socioeconomica, presente nella disputa terminologica, con queste parole: “The

final point which needs to be made about ethnicity is that as a speaker variable it cannot usually be isolated from social class. Because migrant populations are frequently recruited as low-paid workers, they tend in many countries to cluster in the poor areas of inner cities near to their workplaces, and to be concentrated in low-status occupations”14.

La varietà linguistica dei parlanti afroamericani è da sempre strettamente associata con il parlato delle classi socioeconomiche più basse della popolazione nera, senza dubbio una tale restrizione nell’identificare lo status dei parlanti ha fortemente influenzato la scelta terminologica, poiché l’associazione della lingua con un gruppo svantaggiato di parlanti ha determinato la diffusione di termini, quali: Nonstandard Negro English oppure

Nonstandard Black English, nei quali Nonstandard è riferito alle condizioni

socioeconomiche disagiate del parlante.

Tra gli ultimi termini presenti nella lista si ritrova anche la denominazione African

American Vernacular English, che molti linguisti hanno criticato a causa della presenza del

termine vernacular. Secondo Milroy, il vernacolo indica: “publicly unrecognized and

institutionally stigmatized language varieties”15 e implica due dimensioni distinte: quella stilistica e quella sociale. Molti linguisti identificano nel termine vernacular l’equivalente sia di una varietà di parlato in uso presso i parlanti appartenenti ai gradini più bassi della scala socioeconomica, sia di uno stile di parlato spontaneo, contraddistinto da un’alta informalità

12

Schneider, E. W., 1989:9.

13

Labov, W.; Cohen, P.; Robins, C.; Lewis, J.; 1968.

14

Milroy, L., 1987:14.

15

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e da una bassa attenzione al contesto e all’argomento di conversazione. La combinazione della dimensione stilistica e di quella sociale darebbe origine allo stile vernacolare del vernacolo in uso presso la popolazione nera della working-class.

William Labov, nel 1972, utilizzò la denominazione Black English Vernacular nel suo libro dal titolo “Language in the Inner City: Studies in the Black English Vernacular”. Labov scelse di ampliare la denominazione Black English tramite l’inserimento del termine

vernacular, dato che le sue ricerche avevano confermato come il vernacolo non

rappresentasse soltanto lo stile del parlato di un gruppo ristretto e ben identificato, ma costituisse una parte integrante del parlato ipoarticolato di molti adulti appartenenti a diversificati gruppi sociali e anche “found in its consistent form in the speech of black youth

from 8 to 9 years old who participate fully in the street culture of the inner cities”16.

Il vernacolo, inoltre, presentando una struttura altamente regolare e delle occasioni d’uso contraddistinte dalla grande spontaneità e naturalezza dei parlanti, rappresenterebbe, per Labov, la base più appropriata per effettuare qualsiasi tipologia di analisi linguistica. L’inserimento del termine vernacular costituirebbe, quindi, un’importante precisazione applicabile a tutte le diverse denominazioni utilizzate per indicare la varietà linguistica afroamericana.

Attualmente i termini maggiormente utilizzati per denominare la varietà linguistica parlata dagli afroamericani sono: African American English, African American Language,

African American Vernacular English ed Ebonics. Quest’ultimo termine ideato negli anni

Settanta, ma entrato a far parte del lessico comune soltanto a metà degli anni Novanta presenta una storia singolare e diversa da tutte le altre denominazioni, che sarà trattata nel dettaglio nell’ultimo paragrafo del presente capitolo.

Sicuramente la denominazione AAVE, utilizzata in questo studio, può dare luogo anch’essa a equivoci e fraintendimenti; ma al contempo, evitando controversie riguardo ai termini language e dialect, offre una visione panoramica sia dell’intera struttura linguistica sia delle diverse origini di cui si compongono la cultura afroamericana e la varietà linguistica parlata oggi dalla maggior parte della comunità nera degli Stati Uniti.

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1.2 Analisi diacronica dell’African American Vernacular

English

La pubblicazione del primo studio sull’AAVE risale al 1884, quando sulla rivista di studi linguistici Anglia apparve un articolo di James A. Harrison dal titolo “Negro English”. Harrison sosteneva che le strategie di comunicazione afroamericana derivassero completamente dalle lingue africane e che l’AAVE fosse una varietà linguistica imperfetta e dalla struttura lacunosa, poiché mancavano molti elementi sintattici e fonetici, come per esempio la consonante fricativa interdentale sorda /th/. Una spiegazione dei fenomeni individuati da Harrison venne fornita nel 1949 quando, dopo venti anni di ricerche, Lorenzo Dow Turner, che è considerato il primo linguista afroamericano, pubblicò Africanisms in

the Gullah Dialect. In questo testo, Turner presenta una descrizione dell’intera struttura

linguistica del Gullah (creolo parlato nelle isole e nelle zone costiere della South Carolina e della Georgia) e dimostra come alcune strutture sintattiche e fonologiche del Gullah avrebbero subito la diretta influenza delle lingue parlate nell’Africa Occidentale. Nello stesso testo Turner, oltre a occuparsi dell’analisi linguistica del Gullah, effettua uno studio lessicale dell’AAVE, poiché esamina circa 6.000 parole importate dalle lingue africane al lessico dell’AAVE (e.g. gorilla, jazz, cola). Riguardo alla mancanza della realizzazione nel parlato afroamericano della consonante fricativa interdentale sorda /th/, Turner osservò che: “Whenever the native West African today first encounters the English th sounds,

whether in the United States, the Caribbean, West Africa, or elsewhere, he at first substitutes for them [t] and [d], with which he is thoroughly familiar and which he considers closer to the English th than any of the sounds of his language. This is true whether he is literate or illiterate. All of my African informants who have recently learned to speak English use these substitutes, and it is reasonable to suppose that their ancestors who came to South Carolina and Georgia direct from Africa as slaves reacted similarly to the English th sounds when encountering them for the first time”17.

Tutte le teorie e le discussioni storiche sull’AAVE hanno come punto di partenza la segregazione razziale degli afroamericani e la duplice condizione linguistica di cui furono vittime. Infatti, se l’abolizione della schiavitù li aveva tacitamente obbligati a parlare in Inglese, la politica segregazionista del Diciannovesimo secolo ha avuto l’effetto di isolare linguisticamente gli afroamericani e favorire la sviluppo di strutture linguistiche autonome.

17

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Variabili esterne, quali: la situazione si schiavitù, l’origine europea dei colonizzatori, le condizioni di lavoro e di vita nelle piantagioni, i contatti tra neri e bianchi, la successiva politica segregazionista, sicuramente necessitano molta attenzione nell’analisi delle origini e dello sviluppo dell’AAVE, ma un uguale importanza rivestono le variabili interne alla lingua stessa.

Gli anni Sessanta e Settanta del Novecento videro l’inizio di una grande diatriba linguistica sulle origini dell’AAVE che continua ancora oggi. La comunità linguistica internazionale e in particolar modo quella americana si divise tra due schieramenti opposti: sostenitori dell’ipotesi dialettale e sostenitori dell’ipotesi creola.

Le ricerche riguardo alle origini dell’AAVE si sono basate su dati comparativi provenienti da altre varietà linguistiche, quali: l’Inglese non standard, le varietà di lingua Inglese strettamente correlate alla diaspora africana e i creoli caraibici. Un importante fonte di dati è costituita dalla recente accessibilità alle ex-slave narratives e agli Hoodoo

text. Le ex-slave narrative provengono da una collezione letteraria del Federal Writer’s Project, che comprende duemila interviste effettuate dal 1936 al 1940 in diciassette Stati

del Nord America. Gli Hoodoo text, invece, si compongono di una collezione di registrazioni, raccolte poi in cinque volumi, contenenti: incantesimi, stregonerie e riti magici dal titolo Hoodoo. Le registrazioni vennero condotte dal sacerdote Harry Middleton Hyatt in numerosi Stati del Nord e del Sud degli U.S.A. e vennero ripetute con le medesime modalità in due periodi storici differenti. Le prime registrazioni avvennero tra il 1930 e il 1940, durante questi anni vennero intervistati 1605 afroamericani e un solo caucasico; le altre registrazioni vennero effettuate nel 1970, ma il range degli intervistati venne ridotto a tredici afroamericani e un solo caucasico. Lo scopo delle interviste, condotte in anni diversi ma utilizzando la medesima metodologia, era di trovare una soluzione alla controversa questione dell’origine dell’AAVE e soluzioni in favore dell’ipotesi creola o dialettale. Da un’analisi, svolta negli anni Ottanta, delle registrazioni degli Hoodoo Text il primo stadio di AAVE non sembrerebbe presentare forme e strutture così diverse dal GAE post-coloniale, come affermano i sostenitori dell’ipotesi creola.

L’ipotesi dialettale, definita anche anglista, origina e spiega tutte le caratteristiche strutturali dell’AAVE nei dialetti con alla base la lingua Inglese. I sostenitori di questa ipotesi non riconoscono un’individualità dell’AAVE, ma identificano il nucleo grammaticale della varietà linguistica afroamericana nella grammatica inglese e la presenza di modelli strutturali molto più vicini alla lingua Inglese, che non ai vari creoli anglofoni. A quaranta anni di distanza dall’apparizione delle prime teorizzazioni in favore dell’ipotesi dialettale,

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nel 2000 Shana Poplack sosteneva che: “the grammatical core of contemporary AAVE

developed from an English base, many of whose features have since disappeared from all but a select few varieties (African American and British origin), whose particular sociohistorical environments have enabled them to retain reflexes of features no longer attested in Standard English18”. L’ipotesi dialettale è stata rafforzata da numerose ricerche che, attraverso un’analisi quantitativa dell’uso di alcune strutture linguistiche, hanno confermato come l’AAVE in uno stadio iniziale fosse molto più simile all’Inglese di quanto lo sia attualmente. Altri studi comparativi hanno dimostrato una forte somiglianza tra il parlato degli abitanti della Nova Scotia e quelli della Repubblica Domenicana, aree abitate dagli afroamericani durante il Diciottesimo e il Diciannovesimo secolo, con il parlato dei primi afroamericani giunti in America. All’inizio del 1800, una significante porzione della comunità afroamericana migrò dagli U.S.A. al Canada e molti si stabilirono in Nova Scotia, vivendo in una situazione di relativo isolamento come gli afroamericani che negli stessi anni erano migrati nella penisola di Samanà, area isolata della Repubblica Domenicana. Le varietà di Inglese parlate dai neri in Nova Scotia e nella penisola di Samanà dimostrano una grande presenza di punti di contatto con il GAE post-coloniale e non con un creolo, che si sarebbe potuto formare facilmente in una tale situazione di isolamento geografico e linguistico. L’ipotesi dialettale origina le attuali differenze tra il sistema linguistico degli euroamericani e degli afroamericani nella presenza di strutture dialettali che nell’AAVE si sono mantenute con più forza e resistenza rispetto al GAE, a causa della politica segregazionista e del divieto all’istruzione scolastica imposti per lungo tempo alla comunità afroamericana.

Negli anni Settanta e Ottanta del Novecento venne formulata una nuova ipotesi, definita “ipotesi creola”, la quale riscosse molto successo nel panorama linguistico internazionale e ritrovò nei linguisti afroamericani la maggior parte dei suoi sostenitori. Tra i primi sostenitori vi furono: Joey L. Dillard, Guy Bailey e William A. Stewart, il quale espresse la sua opinione, riguardo l’ipotesi creola, con le seguenti parole:

“Of those Africans who fell victim to the Atlantic slave trade and were brought to the

New World, many found it necessary to learn some kind of English. With very few exceptions, the form of English which they acquired was a pidginized one, and this kind of English became so well established as the principal medium of communication between

18

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Negro slaves in the British colonies that it was passed on as a creole language to succeeding generations of the New World Negroes, for whom it was their native tongue”19.

Stewart ipotizzava quindi che questa tipologia di pidgin inglese si fosse originata presso gli schiavi afroamericani che, provenendo da zone diverse dell’Africa Occidentale, necessitavano di una lingua comune per poter comunicare nelle piantagioni americane; in seguito all’abolizione della schiavitù, sancita dalla Guerra Civile, sarebbe invece iniziato un processo di decreolizzazione dell’AAVE. La maggior parte dei sostenitori dell’ipotesi creola affermano che l’AAVE condividerebbe molti punti in comune con i creoli caraibici, con il Creolo Giamaicano e con il Gullah. I pidgin e i creoli emergono soltanto se vi è una combinazione di fattori specifici e nel caso dell’AAVE, secondo Schneider, una di queste condizioni è che “blacks should have greatly outnumbered whites, thus having little contact

with English speech models and being forced to use English almost exclusively for communication among themselves”20.

Inoltre i sostenitori dell’ipotesi creola individuano nel Gullah una congiunzione tra l’AAVE non creolizzato, parlato negli Stati Uniti, e i creoli caraibici; perciò il Gullah sarebbe simile al “Plantation Creole”, parlato in tutti gli Stati Uniti dalla Nova Scotia alla Giamaica alla fine del Diciottesimo secolo, e l’AAVE nella sua forma attuale sarebbe a sua volta derivato da questa varietà attraverso un graduale processo di decreolizzazione.

Di parere completamente opposto sono, invece, i sostenitori dell’ipotesi dialettale che giustificano la formazione creola del Gullah, tra le varietà linguistiche afroamericane degli Stati Uniti, come un’anomalia dovuta all’isolamento sia geografico sia sociale dei parlanti.

Riguardo al periodo storico in cui sarebbe iniziato il processo di decreolizzazione dell’AAVE, le ipotesi formulate da Steward non hanno trovato soltanto pareri favorevoli, poiché molti linguisti hanno individuato altri momenti storici che potrebbero aver favorito lo sviluppo indipendente dell’AAVE, mentre altri linguisti sostengono che l’AAVE non abbia ancora terminato il processo di decreolizzazione, ma “still reflects fundamental linguistic

differences from White English”21.

Una spiegazione differente sia dall’ipotesi dialettale sia dall’ipotesi creola viene proposta dai linguisti che rivendicano l’identità di modelli strutturali tra l’AAVE e le lingue Niger-Kordofaniane, come: Kikongo, Mande e Kwa. L’AAVE presenterebbe quindi una struttura linguistica direttamente rintracciabile in quella delle lingue parlate nell’Africa

19 Stewart, W. A., 1967 [1971]: 448. 20 Schneider, E. W., 1982:18. 21 Smitherman, G., 1984: 103.

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Occidentale e soltanto una realizzazione superficiale simile all’Inglese. Queste teorie, spesso denominate “ipotesi del sostrato”, individuano nelle lingue Niger-Kordofaniane il sostrato linguistico che avrebbe influenzato la struttura sintattica e fonetica dell’AAVE. Goodman affermò che una caratteristica del sostrato “is the subordinate social or cultural

status of its speakers vis-à-vis those of the reference language”22, in questo caso la lingua di riferimento è l’Inglese.

L’ipotesi del sostrato identificherebbe nell’AAVE una varietà linguistica creata dagli schiavi giunti negli U.S.A. nel Diciassettesimo secolo, che poi si sarebbe sviluppata autonomamente attraverso un processo lento e graduale. L’AAVE avrebbe quindi subito l’influenza di lingue profondamente diverse tra loro: quelle africane, che costituivano la prima lingua degli schiavi, i dialetti inglesi, parlati dai colonizzatori, e le varietà creole, come il Gullah o i creoli giamaicani. Nonostante tutte queste varietà linguistiche ne costituiscano un sostrato imprescindibile, l’AAVE avrebbe continuato a svilupparsi in modo indipendente e attraverso processi di continuo adattamento alle varietà linguistiche con le quali sarebbe entrata in contatto. Donald Winford23 trova conferma di una tale ipotesi nell’attuale struttura dell’AAVE, che presenterebbe: caratteristiche riconducibili ai dialetti inglesi parlati negli Stati Uniti, modelli di produzione linguistica orale dovuti all’acquisizione lacunosa di una seconda lingua (per esempio la perdita o la semplificazione della parte finale di alcune parole), tratti derivanti dal mantenimento di strutture e significati derivanti da varietà creole. Tale ipotesi appare chiaramente come un compromesso teorico tra l’ipotesi creola e quella dialettale.

Un’altra ipotesi che si colloca in una situazione intermedia tra l’ipotesi creola e quella dialettale è stata denominata “ipotesi della divergenza”. Questa teoria, elaborata in seguito alle ricerche condotte da William Labov e dai suoi collaboratori a Philadelphia negli anni Ottanta e da Guy Bailey negli stessi anni negli Stati del Sud degli U.S.A., darebbe spiegazione dello stato attuale e dello sviluppo dell’AAVE, più che delle sue origini. Gli studi effettuati dimostrerebbero come attualmente l’AAVE avrebbe sviluppato dei modelli linguistici propri e indipendenti che lo allontanerebbero dal GAE parlato nelle stesse zone geografiche in cui è stata condotta l’analisi. Nonostante siano stati riscontrati alcuni casi di forte convergenza tra l’AAVE e le forme attuali di GAE (e.g. l’uso del presente storico nei contesti narrativi), l’ipotesi della divergenza trova forti conferme nell’utilizzo di numerosi tratti sintattici presenti soltanto nell’AAVE, quali: il risultativo be

done, il be abituale, l’assenza della terminazione –s nella coniugazione della terza

22

Goodman, M., 1993:65.

23

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persona singolare24. Le ricerche condotte da Bailey negli Stati del Sud rivelano una forte presenza di questi tratti sia nel parlato delle fasce più anziane di popolazione sia in quello dei più giovani, in modo del tutto indipendente da un contesto abitativo rurale o urbano. Inoltre un’analisi comparativa, condotta da John Rickford su un’identica tipologia di dati reperiti negli anni Sessanta e successivamente negli anni Novanta, dimostra come l’utilizzo dei suddetti tratti sintattici abbia subito un forte incremento nei tempi più recenti presso tutta la comunità di parlanti analizzata. In generale, le ricerche condotte in ambito sintattico, negli ultimi decenni del Novecento, confermerebbero un attuale stato di divergenza dell’AAVE dalle altre varietà linguistiche presenti nella nazione e dimostrerebbero come l’incremento dell’uso di peculiarità linguistiche afroamericane avrebbe il fine di irrobustire la stessa identità e individualità linguistica dell’AAVE.

In passato, affermare che l’AAVE differisse dal GAE significava automaticamente attribuire origini creole a tale varietà linguistica, allo stesso modo identificare tratti comuni al GAE e all’AAVE significava identificare quest’ultimo con un dialetto della lingua Inglese. Attualmente la maggior parte dei linguisti tendono ad assumere una prospettiva meno rigida e più generalizzante in riferimento alle analisi diacroniche delle origini e del successivo sviluppo dell’AAVE, che ben si esplicita nelle seguenti parole di Walter Wolfram:

“it is possible to maintain that Black speech was originally derived from British

dialect but the social and geographical segregation patterns in the United States have resulted in speech differences between Whites and Blacks. On the other hand, one may hold that Black speech was originally derived from a Creole but has since merged with a southern variety of American speech so as to be nearly indistinguishable from it.”25

24

Questi tratti sintattici verranno approfonditi in seguito nel capitolo 4. dedicato all’analisi sintattica.

25

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1.3 Analisi sincronica dell’African American Vernacular

English

L’African American Vernacular English può essere definito un sistema linguistico,

parlato dalla maggior parte degli afroamericani che vivono negli Stati Uniti d’America, formato da modelli fonologici, morfologici, sintattici, semantici e lessicali propri. L’AAVE non è equiparabile né allo slang né al gergo, ma è una varietà linguistica che presenta significanti variazioni sociali e regionali. L’AAVE parlato dagli afroamericani che vivono negli Stati del Sud degli U.S.A. è differente da quello parlata dagli euroamericani o dai latino-americani che vivono nelle stesse zone ed è al contempo diverso anche dall’AAVE parlato dagli afroamericani che vivono nel Nord, nella East coast o nella West coast. Un esempio di tale variabilità è riscontrabile in una delle attestazioni più recenti e creative dell’AAVE: la cultura Rap e Hip-Hop, che attraverso la scelta di varianti grammaticali, lessicali e fonologiche, pur sempre riconducibili alla stessa varietà linguistica, si identifica come appartenente alla cultura afroamericana della East coast oppure della West coast.

Da un punto di vista linguistico, l’AAVE oltre a essere costituito da strutture fonetiche e fonologiche, morfologiche, sintattiche, semantiche e lessicali ben identificabili, si contraddistingue per la significativa presenza di una forte componente culturale e stilistica. Le componenti stilistiche, retoriche e culturali indubbiamente assumono la stessa importanza delle componenti grammaticali nella struttura complessiva dell’AAVE, come sostiene Geneva Smitherman:

“think of black speech as having two dimensions: language and style. Though we

will separate the two for purposes of analysis, they are often overlapping. This is an important point, frequently overlooked in discussion of Black English … Reverend Jesse Jackson preach26: “Africa would if Africa could. American could if America would. But Africa cain’t and America ain’t”. Now here Reverend Jesse is using the language of Black Dialect when he says “ain’t” and when he pronounced can’t as “cain’t”. But the total expression, using black rhythmic speech, is the more powerful because the Reb has plugged into the style of Black Dialect. The statement thus depends for full communication on what black poet Eugene Redmond calls “songified” patterns and on an Afro-American cultural belief set”27.

26

Sic!

27

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La prospettiva d’analisi presentata da Smitherman rende difficile pensare che l’AAVE sia una varietà linguistica parlata soltanto presso i parlanti meno alfabetizzati, più poveri o dagli adolescenti. Una grande diffusione dell’AAVE presso tutta la comunità afroamericana è confermata anche da recenti ricerche, condotte da numerosi linguisti nei vari Stati degli U.S.A., che dimostrano sia come i parlanti di AAVE costituiscano il 95% della popolazione afroamericana degli Stati Uniti, sia come le variabili inerenti all’uso di tale varietà linguistica siano dovute maggiormente alle diverse zone di provenienza geografica dei parlanti e in misura molto minore alla differente stratificazione sociale.

Un altro fattore fondamentale nell’analisi dell’AAVE è costituito dalla situazione di bilinguismo in cui si trovano i parlanti afroamericani, indipendentemente dalla classe sociale di appartenenza o dalla situazione economica. All’interno della stessa comunità afroamericana l’atteggiamento nei confronti dell’assimilazione linguistica e culturale esercitata dal GAE sull’AAVE è ambivalente: da una parte si registrano le reazioni di coloro che nutrono una sorta di rassegnazione alla lingua di grande comunicazione, rappresentata dall’Inglese, e cercano di integrarsi nella comunità americana accettando silenziosamente la prevaricazione linguistica; dall’altra vi sono coloro i quali, difendendo apertamente la loro varietà linguistica, cercano di affermare il loro status di afroamericani e la loro cultura linguistica all’interno della nazione americana. Le reazioni dei parlanti di AAVE sono varie, molteplici e sono riscontrabili in campi molto diversi tra loro: dal controverso caso della School board di Oackland, alle strategie retoriche utilizzate sia dai parlanti comuni sia dai musicisti Rap e Hip-Hop, all’articolo della scrittrice afroamericana Rachel Jones, pubblicato nel 1990 dal Newsweek, in cui sostiene che: “Malcom X, Martin

Luther King Jr., Toni Morrison, Alice Walker, James Baldwin don’t talk black or not black – they talk right”28. Con queste parole, la scrittrice afroamericana identifica nell’uso dell’African American Vernacular English non soltanto una valenza strettamente linguistica, ma anche un mezzo sia di resistenza all’assimilazione linguistica e culturale americana, sia di affermazione della cultura nera. L’AAVE stesso, infatti, può essere indubbiamente considerato anche un fattore di costruzione nazionale, poichè è una varietà linguistica che ha avuto delle origini e uno suo sviluppo in perfetta sincronia con la nazione americana.

L’African American Vernacular English rappresenta, però, anche molto altro: è un

sistema di comunicazione, è lo strumento privilegiato di espressione del pensiero afroamericano, è un veicolo per l’espressione letteraria, è un motivo di controversia

28

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politica e soprattutto è attraverso le sue forme di espressione e la sua struttura linguistica che la comunità afroamericana mantiene un’unità culturale. L’AAVE, quindi, si configura come un ricco contenitore di fattori linguistici attraverso il quale la comunità afroamericana esprime la sua stessa identità culturale. Questi fattori sono evidenti sia nello sviluppo delle componenti interne della varietà linguistica, quali: i suoni, le parole, il ritmo, la struttura sintattica; sia nell’espressione esterna e nelle strategie interazionali durante gli atti comunicativi.

Nonostante l’AAVE sia un sistema linguistico complesso, strutturato e governato da regole rigide e precise, rimane una fonte di controversia sia nel rapporto tra la comunità afroamericana e l’intera nazione americana sia all’interno della comunità afroamericana stessa. Identificare e definire le strutture linguistiche dell’AAVE costituisce un compito arduo sia in rapporto alle strutture linguistiche stesse della varietà linguistica, sia in rapporto alla molteplicità di lingue con cui l’AAVE è entrato in contatto e da cui ha subito influenze, ma soprattutto in rapporto ai suoi stessi parlanti. Descrivere e analizzare i comportamenti linguistici, le strategie interazionali e la generale condizione linguistica e culturale dei parlanti afroamericani rappresenta un percorso controverso e ricco di variabili imprescindibili, quali: la storia della comunità afroamericana, l’attuale condizione socio-economica, la situazione di bilinguismo, l’assimilazione operata da parte di una cultura sentita ancora distante da quella di reale appartenenza e il crescente aumento, registrato in tempi recenti, del senso di identità etnica associato all’AAVE.

“We’re not wrong” disse un parlante afroamericano esasperato, in risposta a un attacco durante un programma televisivo “I’m tired of living in a country where we’re

always wrong”29.

29

Oprah Winfrey Show, “Standard and Black English”, Produced by D. Di Maio, directed by J. McPharlin, 19 Novembre 1987.

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1.4 Che cos’è l’Ebonics?

Prima del 18 Dicembre 1996 il termine Ebonics era conosciuto soltanto da pochi linguisti americani, da quel giorno divenne popolare sia negli Stati Uniti che nel resto del mondo in seguito al clamore suscitato dall’approvazione di una risoluzione che dichiarava come l’Ebonics fosse la lingua ufficiale degli studenti afroamericani che frequentavano il distretto scolastico di Oackland in California30. Nel decennio appena trascorso molto è stato scritto e detto sull’Ebonics spesso equiparandolo al Black English, all’African

American Vernacular English e a tanti altri termini utilizzati per indicare la varietà

linguistica parlata dagli americani discendenti dagli schiavi africani.

Il termine Ebonics venne utilizzato per la prima volta nel mese di Gennaio del 1973 dallo psicologo Robert L. Williams durante una conferenza, avvenuta a St. Louis in Missouri, dal titolo “Cognitive and Language Development of the Black Child” e alla quale parteciparono esclusivamente studiosi afroamericani.

Nella prefazione del libro intitolato Ebonics: The True Language of Black Folks, in cui vennero riuniti gli atti della conferenza, pubblicato nel 1975 dall’Institute of Black

Studies, Williams scrisse: “A significant incident occurred at the conference. The black conferees were so critical of the work on the subject done by white researchers, many of whom also happened to be present, that they decided to caucus among themselves and define black language from a black perspective. It was in this caucus that the term Ebonics was created”31. Nell’introduzione dello medesimo libro, Williams ampliò la spiegazione del termine, definendo l’Ebonics come: “The linguistic and paralinguistic features which on a

concentric continuum represents the communicative competence of the West African, Caribbean, and United States slave descendants of African Origin. It includes the various idioms, patois, argots, idiolects, and social dialects of black people, especially those who have been forced to adapt to colonial circumstances. “Ebonics” derives its form from ebony (black) and phonics (sound, the study of sound) and refers to the study of the language of black people in all its cultural uniqueness”.

L’intenzione di Williams e degli altri studiosi afroamericani presenti alla conferenza di St. Louis era di indicare con il termine Ebonics tutte quelle varietà linguistiche afro-europee derivanti dalle varie situazioni di contatto linguistico, come: il creolo haitiano, il creolo giamaicano, il creolo tedesco parlato in Suriname, il creolo inglese parlato

30

La controversia della school board di Oackland sarà trattata in modo più esaustivo nel capitolo sette.

31

(18)

nell’Africa Occidentale, in generale la maggior parte di creoli e pidgin derivanti dalla commistione di lingue europee e africane. Questo concetto superordinato, nell’intenzione dei suoi ideatori, doveva simbolizzare l’unità linguistica del “mondo nero” e collocare il

Black American English o lo U.S. Ebonics (l’Ebonics parlato negli U.S.A.) all’interno di un

contesto linguistico e culturale africano. Sin dal suo esordio, però, il termine Ebonics non riscosse successo, poiché si ritrova soltanto in tre dei dodici capitoli che compongono il volume contenente gli atti della conferenza ed è interessante notare come i suoi stessi ideatori continuassero a preferire e a utilizzare il termine Black English per indicare la varietà linguistica afroamericana parlata negli Stati Uniti d’America.

Sebbene sin dal 1973 Williams abbia fornito numerose spiegazioni del valore internazionale e comprensivo del termine, nel corso degli anni l’Ebonics è stato definito e caratterizzato in modo così vario e diversificato al punto che attualmente attribuire un valore ed effettuare un’analisi da un punto di vista esclusivamente linguistico costituisce un compito estremamente complesso, poichè opinioni controverse riguardo l’Ebonics si ritrovano sia tra i sostenitori che rivendicano il valore e le molteplici manifestazioni della cultura africana identificate dal termine, sia tra i detrattori che lo equiparano a una forma di slang, al “bad English”, al “broken inner-city English”.

Fornire, quindi, una precisa definizione del termine Ebonics è divenuta una questione che va ben oltre i meri cavilli semantici e senza dubbio gli educatori della

Oackland school board nell’identificare l’Ebonics come lingua ufficiale degli studenti

afroamericani non intendevano asserire che i loro studenti parlavano la stessa lingua dei discendenti degli schiavi africani che vivono in Brasile, a Haiti o in Giamaica. Nonostante siano state avanzate valide giustificazioni per identificare con questo termine i diversi risultati linguistici della tratta degli schiavi africani verso il continente americano non vi è alcuna prova scientifica che tutte le varietà linguistiche derivanti dalle lingue africane, compreso l’African American Vernacular English, rispecchino il continuum linguistico individuato originariamente da Williams.

Indubbiamente la proposta di un termine afrocentrico come Ebonics è affascinante ed estremamente interessante da un punto di vista etnico, ma l’utilizzo di un termine così totalizzante non si è rivelato proficuo per gli studi di linguistica. In campo linguistico, infatti,sono sempre state utilizzate altre definizioni terminologiche per identificare la varietà linguistica parlata dagli afroamericani, quali: Black English, African American English,

African American Language e African American Vernacular English. Tuttavia Ebonics

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afroamericani dalla tratta degli schiavi in America ai tempi più attuali, sia per indicare l’intero sistema di pratiche comunicative che, coniugando elementi provenienti dalla cultura euroamericana e africana, caratterizzano e contribuiscono ad affermare l’individualità della cultura afroamericana all’interno della nazione americana.

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