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Alimento Base. Portierato di quartiere per combattere lo spreco di cibo

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Academic year: 2021

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ALIMENTO BASE

PORTIERATO DI QUARTIERE PER COMBATTERE LO SPRECO DI CIBO

POLITECNICO DI MILANO SCUOLA DEL DESIGN CORSO L.M. IN INTERIOR DESIGN RELATORE: DAVIDE FASSI CORRELATORE: MARTINA MAZZARELLO

TESI DI: ANDREA MORET MATRICOLA: 841144

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INDICE: 00_ABSTRACT 01_INTRODUZIONE 02_SHARING ECONOMY 03_ECONOMIA CIRCOLARE 04_SPRECO ALIMENTARE

05_CONSEGUENZE DELLO SPRECO ALIMENTARE

06_POLITICVHE E LEGGI PER COMBATTERE LO SPRECO ALIMENTARE

07_VISIONE DELLO SPRECO ALIMENTARE NELL’ULTIMO SSECOLO

08_CASI STUDIO

09_LE CRISI COME RISORSA ALLA PROGETTAZIONE 10_LA TRADIZIONE DELLA SOGLIA A MILANO

11_CONCEPT 12_PROGETTO 13_CONCLUSIONI 7 11 19 27 37 45 57 69 83 93 103 111 125 140

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4 14_INDICE IMMAGINI 15_BIBLIOGRAFIE 16_SITOGRAFIA 150 153 157

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Abstract

Ai giorni nostri il cibo sta trovando una considerazione che in precedenza non aveva.

La popolazione occidentale si è scoperta improvvisamente appassionata di cucina, libri di ricette ormai affollano le librerie, e nelle televisioni i programmi dedicati sono tantissimi, tutti con un alto seguito.

Nonostante sembriamo dare ai prodotti alimentari una considerevole importanza e nonostante sia la base della vita stessa, lo spreco di cibo è in continuo aumento.

Altro aspetto fondamentale nella società contemporanea è il ritorno all’empatia, alla voglia di stare insieme, di condividere del tempo o un’esperienza; la conseguenza diretta è la continua nascita di servizi per la condivisione di mezzi di trasporto, abitazioni o macchinari.

I termini “sharing economy” e “sostenibilità” sono sempre più presenti nella nostra quotidianità, ma un passato caratterizzato da individualismo, social network, inquinamento e apparente ricchezza minano alla vera diffusione di tali nuovi valori.

Per anni la società si è affidata ai “social networks”, promotori sì di reti sociali, ma a distanza, di legami virtuali e molto spesso senza fondamenta.

Non solo la creazione di legami sociali e affettivi, ma anche la salvaguardia dell’ambiente e della Terra è un tema sempre più presente ma con risultati scarsamente visibili.

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L’elaborato si propone di offrire una modesta ma differente risoluzione a queste problematiche, unendo la tematica del cibo, non quello che siamo abituati a vedere ma quello condiviso fatto di scarti alimentari, e la tematica socialità, attraverso la creazione di una portineria di quartiere, dove poter concretizzare alcune necessità quotidiane, come la ricezione di un pacco o semplicemente stare con altre persone con una visione comune.

Altro obiettivo sarà risaltare e sensibilizzare maggiormente il lettore verso un tema fondamentale quale la sostenibilità, in particolar modo quella alimentare, tramite l’organizzane di eventi che possano favorire il raggiungimento di questo risultato, con la presenza di punti nevralgici dedicati alla divulgazione.

L’elaborato si poggia su una BASE ben definita.

La parola “BASE” ha una duplice valenza: da una parte, rappresenta l’unione della parola alimento, inteso come sostanza indispensabile per lo svolgimento delle funzioni fisiche e psicologiche, e dall’altro la sede dello sviluppo del progetto che ben rappresenta i valori sopra descritti; l’obiettivo è creare una nuova consapevolezza negli abitanti di Milano tramite una nuova riorganizzazione degli spazi d’entrata all’area ex-Ansaldo dove BASE ha la sua sede.

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01_INTRODUZIONE

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Definizione di Community

Community è un termine che deriva dalla lingua inglese che ormai fa parte anche del nostro linguaggio in una società dove i social media sono sempre più presenti nella vita quotidiana e questo termine diventa di uso comune, ma la sua origine è molto più radicata. Già nella lingua latina era presente questo termine che viene da comunitas, derivato di communis “che compie il suo incarico (munus) insieme con (cum) altri”1.

Quando parliamo di community intendiamo dei gruppi di persone che, per un determinato argomento, condividono una specialità, un ruolo, una passione, un interesse, una preoccupazione o un insieme di problemi. I membri che la costituiscono approfondiscono la loro comprensione del soggetto interagendo in modo continuativo, chiedendo e rispondendo a domande, condividendo le informazioni, riutilizzando idee buone, risolvendo i problemi gli uni agli altri e sviluppando nuovi e migliori modi di fare le cose.

Gli aspetti determinati sono quindi un gruppo di individui, interessi condivisi e un mezzo di comunicazione che permetta ai soggetti di interfacciarsi in modo sincrono. A questo punto una domanda sorge spontanea, cosa spinge le persone ad unirsi in gruppi cercando di interagire con i componenti?

A questa domanda ci viene in aiuto Stan Garfield (2010), personaggio americano che dedica la sua vita cercando di creare delle connessioni tra le persone, che ha recentemente scritto un testo intitolato “Communities Manifesto” dove cerca di spiegare tutte le dinamiche intorno ad una community.

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Secondo Garfield (anno) le persone sono spinte ad entrare in una comunità per:

- Condividere nuove idee, lezioni apprese, pratiche collaudate, intuizioni e suggerimenti pratici; - Innovare attraverso discussioni di gruppo, riflettendo sulle idee degli altri, e tenendo informati

sugli sviluppi emergenti;

- Riutilizzare soluzioni già adottate da altri utenti;

- Collaborare attraverso discussioni, conversazioni e interazioni;

Imparare da altri membri della comunità. Captando le cose più inte ressanti dai racconti inerenti successi, fallimenti, e dagli studi delle nuove tendenze;

Analizzando questa lista di elementi si può evidenziare una carenza rispetto ad un aspetto molto importante, ovvero la voglia di appartenere ad un gruppo e la volontà di rafforzare la propria identità, aspetto che spinge le persone a cercare la community che più li soddisfa.

Nel Manifesto di Garfield (2010), molto interessante è la parte che tratta gli aspetti che una community deve rispettare per avere successo e quindi durare nel tempo:

- Le community devono essere indipendenti dalla struttura organizzativa, sono basate su ciò che i membri hanno intenzione di affrontare;

- Le community sono diverse dai gruppi, si fondano su argomenti e contenuti e non su qualcosa deciso in alto;

- Le community non formate da siti web o blog ma da persone che scelgono di interagire;

- Le community nascono grazie a delle persone che decidono di unirsi perché realmente interessate e non forzate a farne parte;

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organizzazioni ed alle funzioni;

- Le community dovrebbero essere poche per ogni ogni tema per non calpestarsi;

- Le community hanno bisogno di una massa critica di membri, bisogna quindi cercare di investire tempo nel creare adesione;

- Le community dovrebbero cercare di trattare temi ragionevoli; 9. Le community devono essere attivamente alimentate, i leader della comunità devono creare, costruire e sostenere ciò che rappresentano;

- Le community possono essere create in base a degli obiettivi e a delle aspettative che ci si pone durante il suo percorso;2

Aspetti sociologici pro community

Trattare il tema delle community comporta anche cercare di analizzare quale possano essere gli aspetti sociologici che caratterizzano la nostra società. Il tema delle comunità è probabilmente antico quanto l’umanità, ma il suo essere essenziale per l’uomo viene dimostrato solo quando questo entra in un periodo di crisi3.

Questo periodo storico è caratterizzato dalle connessioni facili ed istantanee, abbiamo la possibilità di essere costantemente in relazione, e questa velocità fa si che noi viviamo solo nel presente senza prestare attenzione alle esperienze passate o a quello che i nostri atteggiamenti potrebbero causare nel futuro. Questo modo di fare porta ad un’ assenza di legami con il prossimo, la nota sociologa Elzbieta Tarkowska (2005) afferma che “la cultura del presente premia la velocità e l’efficacia, e non favorisce né la pazienza né la perseveranza”4 portando a quanto teorizzato dal sociologo tedesco

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nell’800 Georg Simmel (1860) che introduce il concetto di “malinconia”, inteso come disinteresse verso qualsiasi cosa specifica, l’uomo malinconico riesce ad avvertire la moltitudine di connessioni ma non ha la capacità di farsi coinvolgere da nessuna, un rifiuto verso la conoscenza. Questo tema lo riprese Zygmut Bauman (2009) affermando che “nell’idea di malinconia si trova in ultima istanza rappresentata la specifica afflizione dell’uomo moderno, risultante dalla fatale coincidenza tra compulsiva dipendenza dalla scelta e incapacità di scegliere”. L’essere umano riflette sull’essenza di qualcosa solo quando questo viene a mancare, quando non possiamo più trovarlo nel luogo in cui è sempre stato oppure quando assume atteggiamenti diversi dai quelli a cui eravamo abituati, così ci ha spiegato Martin Heidegger (1971)5.

Proprio in questa situazione dove abbiamo difficoltà a relazionarci, siamo malinconici, tendiamo a tenerci in contatto solo attraverso dispositivi elettronici, la nostra società entra in crisi. In questa situazione la capacità di cui abbiamo bisogno per risollevarci è quella di interazione con gli altri, strumento che permette il dialogo, consente di risolvere i con itti causati dalla vita condivisa ottenendo comprensione reciproca.

Per molto tempo abbiamo cercato di rimuovere uno dei desideri primordiali dell’uomo, ovvero il cercare di stare insieme liberando le energie che si creano dalla conoscenza di altre persone, dando risalto solo all’io. La conseguenza è stata il risaltare l’egoismo, atteggiamento che è stato la leva principale dei nostri comportamenti.

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La crisi economica, sociale ed ecologica che sta caratterizzando il nostro periodo ci spinge alla ricerca di nuovi fondamentali, per questo cresce notevolmente il bisogno di empatia6, ce la necessità

di un’inversione di tendenza, di un mutamento del nostro rapporto con le persone e con l’ambiente. Il processo tecnologico, che per molti aspetti ha portato i singoli individui ad isolarsi, ha intrapreso un percorso che non possiamo più fermare e

che giustamente non dobbiamo fermare però abbiamo anche il dovere di rallentare un attimo e rivalutare i legami fondamentali per la convivenza, come l’amicizia, la compassione, l’ospitalità e la solidarietà.

Non usciremo da questa crisi ispirandoci ai modelli delle rivoluzioni del passato, ma bisogna cercare di cambiare il nostro stile di vita, il modo di pensare, dobbiamo fare uno sforzo verso una maturazione individuale della nostra sensibilità, e l’empatia ci porta in questa direzione, caratteristica necessaria per poter creare una community.

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Note:

1. Comunità. (n.d.). In La piccola Treccani (Vol. 3, p. 258). Roma: Istituto della enciclopedia italiana fondata da Giovanni Treccani.

2. S. G. (2010, March 25). Communities Manifesto. Consultato il 26 Dicembre, da http://www. psicopolis.com/ psicomunita/commanif.pdf

3. Bauman, Z. (2009). Vite di corsa: Come salvarsi dalla tirannia delleffimero. Bologna: Il mulino, p. 21.

4. Bauman, Z., & Đokić, R. (1984). Kultura i društvo. Beograd: Prosveta, pp. 45-65.

5. Bauman, Z. (2009). Vite di corsa: Come salvarsi dalla tirannia delleffimero. Bologna: Il mulino, pp. 42-43.

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2. Sharing economy

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Diretta conseguenza dei temi trattati in precedenza è la nascita della sharing economy, argomento che parte da un atteggiamento delle persone fondamentale, ovvero “ darsi e a darsi al prossimo per soddisfare un bisogno”7. L’attivista ed economista americano Jeremy Rifkin, diventato un punto di

riferimento per molte battaglie socioeconomiche che ha intrapreso e per le azzeccate previsioni che ha formulato in merito, recentemente ha affermato “gli indicatori della grande trasformazione che porterà a un nuovo sistema economico sono ancora contenuti e in larga misura sporadici, ma il Commons collaborativo sta già prendendo piede, ed entro il 2050 diventerà nella maggior parte del mondo il principale arbitro della vita economica”8. Secondo Rifkin (anno), quindi, nei prossimi

trent’anni la sharing economy, che lui chiama “Commons collaborativo”, in tutte le sue varianti potrebbe soppiantare il capitalismo comunemente conosciuto in anni di acquisti, vendite e scambi economici di ogni tipo. Non sappiamo se Rifkin ha azzeccato anche questa previsione o meno, non sappiamo nemmeno se lo scenario che lui propone sia verosimile però di certo, grazie alle esperienze che stiamo vivendo nella nostra quotidianità, è necessario approfondire il tema della sharing economy.

Questo termine venne introdotto per la prima volta negli anni ’90 con la nascita di Napster (https:// it.napster.com), software che dava la possibilità di condividere le musicali, lm e di conoscere gli utenti connessi. Da qui in poi sono nate molte applicazioni virtuali diventando un caposaldo di un sistema economico emergente che permette di creare “reti” sociali. Sotto il cappello della sharing economy sono nate iniziative molto diverse tra loro, tutti progetti che però vogliono scardinare i modelli tradizionali di consumo e produzione, virando sui rapporti diretti tra le persone (peer-to-peer);

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ne sono un esempio progetti quali Airbnb e Blablacar. Caratteristiche principali di queste nuove attività imprenditoriali sono il riuso, riutilizzo e condivisione. Vengono utilizzate le tecnologie per un modello di economia circolare dove le persone mettono a disposizione le loro competenze e il loro tempo con lo scopo di creare legami virtuosi basandosi solo sulla tecnologia e sulla capacità di relazionarsi. In questo modo nascono nuovi stili di vita che si basano sul risparmio, sulla socializzazione e sulla salvaguardia dell’ambiente.

Nelle realtà di sharing economy si possono distinguere tre aspetti distintivi che sono: - Condivisione, ovvero avere una risorsa in comune;

- Relazione orizzontale tra persone e organizzazioni, infatti non ci sono più barriere tra chi nanzia, chi produce e chi consuma;

- Presenza di una piattaforma tecnologica, che permette la gestione le risorse messe in campo creando anche dei sistemi di fiducia generati da sistemi di reputazione digitale; Varie sono le forme di economia condivisa, ma tutte hanno al centro della loro attività il benessere sociale, il consumo consapevole, il risparmio e la riduzione degli sprechi.

Le caratteristiche principali della sharing economy sono:

- La piattaforma: i beni sono posseduti dagli utenti e non più dalle aziende, non si utilizza più un sistema dove i servizi vengono erogati dall’alto verso il basso, adesso le persone si incontrano per scambiarsi o condividere beni, tempo, denaro ecc.

- La community: è lo strumento principale che permette la condivisione, grazie al quale si instaurano legami improntati sulla socialità, sul vantaggio economico, sull’efficienza del servizio. Strumento che da modo di creare relazioni bilaterali e continuative tra l’interlocutore privato o pubblico e il

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cittadino.

- La convenienza: la nascita di queste economie è condizionata dal voler creare un nuovo vantaggio sia economico, sia esperienziale, sia legato alla comodità e all’efficienza.

- La fiducia: la società adeguandosi a nuovi modelli di commercio dovrà anche adottare nuove tutele verso i consumatori, i fornitori e le piattaforme che usufruiscono i servizi digitali. Tutto ciò farà aumentare la fiducia dei consumatori che permetterà una ancor maggiore crescita del settore delle sharing economy9.

- La tecnologia: tramite le piattaforme online si possono raccogliere i nostri dati creando una reputazione che farà in modo che l’attività creata possa avere successo o meno.

Queste caratteristiche rendono fondamentale il dover creare un sistema di regole che regolamentino tali piattaforme, con l’obiettivo di favorire la crescita dei servizi e non di frenarli incentivando la loro crescita. Per questi motivi, gli stati stanno cercando di disciplinare questa nuova tendenza favorendo la partecipazione attiva dei cittadini e lo sviluppo di nuove gure professionali, basandosi sulla trasparenza.

All’estero, specialmente nei paesi anglosassoni, la sharing economy è riuscita a diffondersi in modo molto capillare attraverso le più svariate forme. Una delle forme più diffuse è quelle legata al settore dei trasporti privati come il car sharing, ma anche l’house sharing, il food sharing, il coworking e il crowdfunding stanno avendo un grande successo.

Analizzando le sharing economy in Italia, possiamo dire che “l’economia della condivisione” richiama delle esperienze dalla lunga tradizione nel nostro paese infatti il mutualismo, le cooperative e le imprese sociali sono situazioni molto presenti in Italia che però non sono riuscite a tenere il passo

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con i tempi.

Negli ultimi anni in Italia questo modello economico si sta diffondendo in modo sempre più intenso grazie a molteplici casi sia nati all’estero che nel nostro paese.

I campi di applicazione sono molteplici, dalla casa ai trasporti, dal turismo al welfare, dalla finanza alla mobilità fino alla cultura, al lavoro e alla scienza. Nel 2014 l’Università Cattolica del Sacro Cuore durante Sharitaly, evento cardine in Italia sull’economia collaborativa, ha affermato che la sharing economy nel nostro paese sta crescendo con all’attivo circa 250 piattaforme collaborative online, 160 piattaforme di scambio e condivisione, circa 40 legate all’esperienze di autoproduzione, circa 60 di crowfunding con un aumento annuale di circa il 10%10.

Il settore dei trasporti è quello che ha maggior successo, ed è anche quello più sfruttato visto che il 20% delle sharing economy presenti in italia fanno riferimento a questo tema, a seguire i servizi alle persone, i servizi alle imprese, la cultura ed in ne il turismo.

I servizi collaborativi in Italia sono nati tra il 2012 e il 2013 e si rivolgono principalmente ad un pubblico giovane. Il ritardo di questo fenomeno in Italia è dovuto alla scarsa familiarità con internet, la mancanza di regolamentazione normativa, i pochi fondi stanziati e la scarsa preparazione imprenditoriale dei giovani italiani.

Come detto in precedenza la sharing economy ha la capacità di mettere in crisi i tradizionali rapporti tra economia e società. Le piattaforme sono molte attente alle relazioni riuscendo a ra orzare il capitale sociale degli utenti.

Il mercato che si viene a creare presenta un forte potenziale di crescita, infatti la maggior parte delle piattaforme di condivisione registra un numero di utenti inferiori a 5000 e solo l’11% oltre 100000, ugualmente per le piattaforme di crowfunding. Questo dato però non deve spaventare in quanto le

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piattaforme di sharing italiane sono ancora molto giovani, moltissime hanno poco più di due anni. Gli utenti hanno accesso alle piattaforme di condivisione e di crowfunding per l’83% via internet e per il 17% attraverso le applicazioni dello smartphone11.

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Note:

7. Scancarello, G. (2015). Mi fido di te. Milano: Chiarelettere, p. 8.

8. Rifkin, J. (2014). La società a costo marginale zero: L’Internet delle cose, l’ascesa del Commons collaborativo e l’eclissi del capitalismo. Milano: Mondadori, 2014, p. 53.

9. Sharing Economy: Lo studio Mastercard rivela i fattori chiave. (n.d.). Consultato il 06 Aprile, 2018, da https://newsroom.mastercard.com/eu/it/press-releases/sharing-economy-lo-studio-mastercard-rivela-i-fattori-chiave/

10. Economia, R. (n.d.). Sharing economy: La forza della condivisione. Consultato il 06 Aprile, 2018, da http://www.economia.rai.it/articoli/sharing-economy-la-forza-della-condivisione/23560/default.aspx

11. Sharing economy. (n.d.). Consultato il 27 Dicembre, 2017, da https://it.wikipedia.org/wiki/ Sharing_economy

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3. Economia circolare

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Negli ultimi anni l’economia circolare ha guadagnato rapidamente una notevole popolarità finendo per apparire quasi scontata, come se fosse una tendenza presente nei nostri pensieri già da molto tempo.

Questa fama è stata raggiunta grazie all’inversione che è in atto, o meglio sembra essere in atto, dove si sta cercando di cambiare approccio al mondo che per troppo tempo è stato legato all’assunto fondamentale dell’economia lineare, stabilito all’alba della Rivoluzione Industriale, del “produci, consuma, dismetti”, cercando di avere un atteggiamento più sostenibile alla vita. Alla base di tutti questi ragionamenti ce l’economia circolare.

I contenuti presenti in questa “nuova” economia sono in buona parte connessi a quelli della definizione moderna di ecologia, quindi bisognerebbe risalire al 1866, quando il biologo tedesco Hernst Haeckel utilizzò per la prima volta il termine ecologia. Seguendo questa strada il concetto rimarrebbe troppo vago. I punti di riferimento a cui collegarsi per comprendere al meglio il concetto di economia circolare risalgono a cavallo tra gli anni sessanta e settanta del secolo scorso. Nel 1966 Kenneth Boulding introduce in The Economics of the Coming Spaceship Earth l’idea della Terra come una navicella spaziale che ha a disposizione una quantità limitata sia di risorse sia di possibilità di smaltimento dei rifiuti: la sopravvivenza dell’uomo sembra legata alla capacità di usare bene e custodire con cura quello che abbiamo a disposizione rigenerando i materiali che utilizziamo. Un maestro dell’ambientalismo, Barry Commoner nel 1971 scrisse nel suo celebre libro il cerchio da chiudere: “Il sistema vitale terreste si basava su una risorsa non rinnovabile, sull’accumulo geochimica di sostanza organica: la sopravvivenza divenne possibile solo grazie alla comparsa dei primi organismi che svilupparono la fotosintesi (...). Questi nuovi organismi utilizzarono la luce solare

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per trasformare l’anidride carbonica e le sostanze inorganiche in sostanza organica fresca. Fu un evento cruciale, che permise di riconvertire il primo rifiuto di una forma di vita, l’anidride carbonica, in sostanza alimentare, cioè in composti organici. Il cerchio si chiudeva: un processo che era fatalmente lineare diventa circolare, con la possibilità di auto perpetuarsi.”

Con Commoner (1972) il concetto diventa molto chiaro a livello scientifico ma presenta ancora dei punti che creano delle difficoltà per poter cogliere la valenza economica. Nel 1976 l’aspetto economico inizia ad essere esplicitato grazie all’architetto economista Walter R. Stahel che con Geneviève Reddy-Mulvey traccia, in un rapporto per la Commissione europea (“Potential for Substitution Manpower for Energy”), il profilo dell’economia circolare come lo intendiamo adesso, sottolineano le potenzialità dal punto di vista dell’occupazione e della competitività economica oltre che del ridotto impatto ambientale e della diminuzione dei rifiuti. La sua proposta era di estendere il ciclo vitale degli edifici e di altri beni, come le automobili, per ridurre gli sprechi e i rifiuti. A differenza dell’economia lineare, Stahel (1976) si ispira ai sistemi naturali, come il ciclo dell’acqua, immaginando un sistema di produzione autorigenerante dove le industrie divengono responsabili di ciò che producono anche dopo la vendita12. Carlo Pesso, giornalista per il bimestrale Materia Rinnovabile, ricorda che: “La cosa

più importante sostenuta da Stahel (1982) è che, mantenendo la proprietà dei beni che producevano, le aziende avrebbero potuto incrementare i loro guadagni e ci sarebbero riuscite vendendo servizi anziché beni: in questo modo avrebbero stabilito un “rapporto” continuativo con i consumatori in grado di assicurare introiti a lungo termine. Adottando questo modello di business, affermava, le aziende alla ne avrebbero fatto di tutto per conservare e massimizzare il valore intrinseco dei loro prodotti.” Da questo momento in poi la strada verso l’economia circolare, a livello teorico, è sembrata in discesa. Nel 2002 esce “Dalla culla alla culla”, che in breve tempo diventa una sorta di testo sacro del settore.

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I due autori, William McDonough e Michael Braungart (anno), parlano di uno scenario opposto a quello della vecchia economia lineare: introducono temi dove si parla di edifici paragonati agli alberi perché producono più energia di quella che consumano e purifica le accuse di scarico; merci che, quando smettono di essere usate, si trasformano in cibo per piante e animali o sono reinserite nel ciclo produttivo; mezzi di trasporto che migliorano la qualità della vita. Nel 2009 Ellen McArthur, prima donna a battere ogni record nella circumnavigazione del globo in solitaria con una barca a vela, dopo il ritiro dall’attività sportiva nel 2010 fondata la Ellen MacArthur Foundation, fondazione no profit con lo scopo di accelerare il passaggio verso un economia rigenerativa e circolare rendendola concreta e effettiva. In breve tempo diventa uno dei punti di riferimento più autorevoli in questo settore a livello internazionale, con il suo lavoro instancabile ha velocizzato anche il processo legislativo a livello europeo oltre a quello imprenditoriale. La fondazione elabora delle analisi ampie e metodiche che partono da numeri, come affermare nel 2014 che i prezzi delle commodities sono aumentati del 150 % tra il 2002 e il 2010 cancellando la diminuzione degli ultimi 100 anni, per arrivare ad altri numeri come il mezzo milione di posti di lavoro resi disponibili dall’Unione Europea per lavori nel settore delle attività del riciclo13. Oltre a questi aspetti di analisi viene fatta anche divulgazione nel tema

dell’economia circolare formulando quella che è la definizione più efficace per questa economia: “Un’economia industriale che è concettualmente rigenerativa e riproduce la natura nel migliorare e ottimizzare in modo attivo i sistemi mediante i quali opera.”14.

Riassumendo, il termine “economia circolare” passa per una prima fase pionieristica che coincide con la fine dei Trenta Gloriosi, i tre decenni di sviluppo frenetico dei paese industrializzati al termine della Seconda Guerra Mondiale, viene subito sperimentate la connessione tra il pensiero ecologico e quello economico con la formazioni di centri di ricerca e fondazioni con l’obiettivo di dare concretezza

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a questo approccio, infine l’economia circolare entra nel dibattito politico diventando un argomento che pone l’obiettivo di superare il dominio dell’energia fossile e dei materiali usa e getta.

Il biennio 2014-2015 è un’altra data molto importante per lo sviluppo e il dibattito dell’economia circolare, infatti questo tema entra con forza al World Economic Forum di Davos. Il 2 Dicembre 2015 la Commissione Europea presenta un pacchetto sull’economia circolare denominato “L’anello mancante: un piano d’azione europeo per l’economia circolare”: data che coincide con la conferenza Onu di Parigi sul clima, un momento storico dove per la prima volta i paesi di tutto il mondo hanno sottoscritto l’impegno a fare ogni sforzo possibile per evitare che la temperatura globale superi la soglia di 1.5°C15, obiettivo che non potrà mai essere raggiunto continuando ad adoperare l’economia

lineare senza passare ad un economia che possa recuperare energia e materia.

Questa concomitanza di eventi è molto significativa perché mette l’accento su una mancanza nel modo di affrontare la questione climatica, ovvero viene data molta attenzione all’energia e molto poca alla materia. Sempre nel 2015 viene pubblicata l’enciclica “Laudato Si di Papa Francesco” dove afferma: “Stentiamo a riconoscere che il funzionamento degli ecosistemi naturali è esemplare: le piante sintetizzano sostanze nutritive che alimentano gli erbivori; questi a loro volta alimentano i carnivori, che forniscono importanti quantità di ri uti organici, i quali danno luogo a una nuova generazione di vegetali. Al contrario, il sistema industriale, alla ne del ciclo di produzione e di consumo, non ha sviluppato la capacità di assorbire e riutilizzare rifiuti e scorie. Non si è ancora riusciti ad adottare un modello circolare di produzione che assicuri risorse per tutti e per le generazioni future, e che richiede di limitare al massimo l’uso delle risorse non rinnovabili, moderare il consumo, massimizzare l’efficienza dello sfruttamento, riutilizzare e riciclare.”16. Pensiero Laico e pensiero

religioso convergono sul tema dell’economia circolare quindi adesso la palla passa ai governi politici A destra: Schema fatto dalla

Ellen MacArthur Foundation sull’economia circolare

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Ritornando all’idea di economia circolare si può affermare che il concetto di economia circolare sia strettamente legato a quello di sviluppo sostenibile. L’economia circolare possiamo dire che è un termine generico per definire un’economia pensata per potersi rigenerare da sola grazie al flusso di materiale biologico, in grado di reintegrarsi nella biosfera, e ad un flusso di materiale tecnico, destinato ad essere rivalorizzato. Lo sviluppo sostenibile è invece un processo di cambiamento grazie al quale lo sviluppo tecnologico, gli investimenti e lo sfruttamento delle risorse sono resi coerenti con i bisogni futuri oltre che con gli attuali. La conversione verso l’economia circolare, come le rinnovabili, la bioeconomia, le tecnologie pulite e green, non sarà una passeggiata, ma una vera e propria rivoluzione economica e sociale, piena di difficoltà e di rischi, con nemici veri, agguerriti privilegiati del vecchio modello fossile e la paura del nuovo, le incertezze dell’inedito. L’economia circolare non impone solo una diversa progettazione, nuove tecnologie e processi produttivi, ma cambiamenti ben più radicali a livello culturale, di civiltà e relazioni sociali. È necessario quindi attuare un cambiamento dell’economia lineare in modo tale da soddisfare tre principi che rendano il rifiuto e l’inutilizzato un vantaggio economico, sociale ed ambientale.

I tre principi sono:

- Riscoprire i giacimenti di materia scartata come fonte di materia, limitando il processamento; - Cercare di massimizzare la merce acquistata, e non acquistare per un utilizzo occasionale; - Fermare la morte prematura della materia;18

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A sinistra: Grafici sugli effetti dell’economia circolare sui prodotti primari e sul materiale da magazzino e discarica formulati dalla Ellen MacArthur Foundation

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Note:

12. Stahel, W. R., & Reday-Mulvey, G. (1981). Jobs for tomorrow: The potential for substituting manpower for energy. New York: Vantage.

13. E.M. (n.d.) Towards the circular economy. Consultato il 06 Aprile, 2018, https://www. ellenmacarthurfoundation.org/assets/downloads/publications/Towards-the-cir

14. Bompan, E., & Brambilla, I. N. (2016). Che cosa è leconomia circolare. Milano: Ed. Ambiente, pp. 19-21

15. Bompan, E., & Brambilla, I. N. (2016). Che cosa è leconomia circolare. Milano: Ed. Ambiente, p. 23.

16. J. B. (n.d.). Laudato sì. Consultato il 28 Dicembre, 2017, da http://w2.vatican.va/content/ francesco/en/encyclicals/documents/papa-francesco_20150524_enciclica-laudato-si.html 17. G.S. Oltre gli schemi lineari dell’economia, Consultato il 28 Dicembre, 2017, https://www.arpae.

it/cms3/documenti/_cerca_doc/ecoscienza/ecoscienza2017_2/servizio_economia_circolare_ ES2_2017.pdf

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4. Lo spreco alimentare

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In questi ultimi anni il tema dei problemi ambientali è diventato più che mai attuale, ogni giorno nei telegiornali sentiamo notizie relative a catastrofi naturali causate dall’eccessivo sfruttamento dell’uomo, tematiche che purtroppo sono nella nostra quotidianità a causa della grande crisi ambientale in cui si trova il mondo.

Un aspetto problematico legato all’ambiente e all’etica che spesso non viene citato, probabilmente per dinamiche legate alle grosse multinazionali, è quello dello spreco di cibo. Nel 2015 con l’Expo di Milano si è potuto dare risalto a questo tema per un breve lasso di tempo, ad oggi purtroppo se ne sente parlare ancora troppo poco nonostante a mio parere sia uno degli sprechi più gravi in quanto fonte primaria di vita. Nel 2017 il 50% delle donne incinte nei paesi in via di sviluppo soffre per la mancanza di ferro, questo vuol dire che 315.000 donne muoiono ogni anno per emorragie durante il parto a causa della loro scarsa alimentazione, questo vuol dire bloccare lo sviluppo del mondo18.

Il diritto al cibo ha avuto un primo riconoscimento nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948 ed in seguito nella Convenzione Internazionale sui Diritti Economici, Sociali e Culturali entrata in vigore nel 1976. In quest’ultima si dichiara all’articolo 11 comma 1 “il diritto di ogni individuo ad un livello di vita adeguato per sé e per la sua famiglia, che includa alimentazione, vestiario, ed alloggio adeguati, nonché al miglioramento continuo delle proprie condizioni di vita”, al comma 2 si prosegue affermando “il diritto fondamentale di ogni individuo alla libertà dalla fame”19.

Vengono quindi sottolineati due aspetti: avere accesso ad un livello adeguato di alimentazione e il diritto di essere liberi dalla fame. Sembreranno cose scontate ma se ad oggi possiamo contare 795 milioni di persone che soffrono la fame nel mondo e 2 miliardi di persone che invece sono

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in sovrappeso eguagliando a livello di oneri economici guerre e fumo con 2.000 miliardi di dollari all’anno, pari al 2,8% del PIL mondiale20.

A destra: Schema sulle cause di malnutrizione infantile secondo l’Unicef

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Allora forse dovremo fermarci un attimo a riflettere, dove non è presente il cibo non ce la possibilità di avere una vita dignitosa perdendo il diritto alla salute e alla convivenza paci ca, anche l’ONU ha deciso di dare risalto a questo tema ponendo il diritto al cibo come secondo obiettivo di Sviluppo Sostenibile del millennio della nuova agenda 2030 per 193 stati21.

Circa un terzo del cibo che ogni anno viene prodotto e destinato al consumo da parte dell’uomo finisce nel cestino, una quantità di cibo che potrebbe sfamare l’intero popolazione africana22.

Si stima che più di 8 miliardi di euro di cibo ogni anno vengano buttati nella spazzatura, in Italia il pranzo di Natale genera 33 mila tonnellate di rifiuti per un ammontare di circa 600.000.000 €23.

Le perdite avvengono lungo tutta la filiera e le cause sono molteplici:

- La domanda e l’offerta non sono state previste e quantificate nel modo corretto;

- La scadenza dei prodotti alimentari riportate sulle etichette spesso confonde il consumatore; - Nel settore agricolo spesso ci sono perdite significative causate per il mancato o uso scorretto

dei pesticidi e altre pratiche igienico sanitarie;

- La distribuzione commerciale che guida le movimentazioni alimentari;

- Il consumatore che spesso, a causa della scarsa cultura ed educazione alimentare, produce sprechi dalla conservazione domestica alla preparazione gastronomica;

Il cibo è un grande mediatore sociale nella nostra vita, ci permette di creare relazioni tra abitanti di diverse zone della terra, ci da la possibilità di metterci in comunicazione con l’ambiente circostante, è uno dei veicoli principali che mette in contatto noi e il mondo. Questo valore sociale ed etico non

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dovremo mai dimenticarcelo per capire l’importanza del cibo e come a erma il priore Enzo Bianchi “il cibo è la prima realtà che va condivisa eppure resta alla base delle disuguaglianze”24.

Il problema dello spreco del cibo è molto presente e abbiamo il dovere di cercare di contrastarlo con delle soluzioni concrete.

Nel corso di questo elaborato di tesi proverò a proporre una soluzione che possa aiutare i cittadini a diminuire gli sprechi alimentari domestici cercando anche di far crescere la coscienza e la cultura alimentare di ognuno.

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Note:

18. Bambini e disabilità: Il fenomeno in cifre. (n.d.). Consultato il 29 Dicembre, 2017, da http://www. unicef.it/print/4816/bambini-e-disabilita-il-fenomeno-in-cifre.htm.

19. Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali, Consultato il 29 Dicembre, 2017, da https://www.admin.ch/opc/it/classified-compilation/19660259/201503130000/0.103. 1.pdf.

20. La malnutrizione dei bambini, Consultato il 29 Dicembre, 2017, http://www.unicef.it/Allegati/ RAPPORTO_UNICEF_MALNUTRIZIONE.pdf.

21. Bisogni, M. & Lamastra,L. (2013). Ri-cibiamo. Chi ama il cibo non lo spreca, Fidenza: Mattioli 1885, 2016, p. 31.

22. Stuart, T. (2013). Sprechi. Il cibo che buttiamo, che distruggiamo, che potremmo utilizzare, trad. it. Pier Luigi Micalizzi, Torino: Bruno Mondadori, p. 82.

23. Il pranzo di Natale? Vale tre miliardi Ma niente sprechi. (2017, Dicembre 25). Consultato il 29 Dicembre, 2017, from https://codacons.it/pranzo-natale-vale-tre-miliardi-niente-sprechi/

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5. Conseguenze dello Spreco Alimentare

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Lungo la filiera , dal campo alla tavola, l’ammontare del cibo perso è di circa 1,3 miliardi di tonnellate con un ingente impatto economico, ambientale e sociale secondo le stime della FAO esposte nel rapporto “Food Wastage Footprint: Impacts on Natural Resources” del settembre 2013. Questa cifra diventa ancora più rilevante se si considera la crisi energetica, alimentare, finanziaria ed economica che sta caratterizzando la situazione attuale, inoltre il crescente degrado del sistema ambientale e la sempre maggiore insicurezza alimentare sta portando una persona su nove a vivere in stato di denutrizione, sempre secondo la FAO24.

È molto difficile dare una definizione di “spreco alimentare” a causa del fatto che a seconda dei casi si fa riferimento esclusivamente alla parte edibile o anche a quella non edibile del cibo prodotto, in altri casi ci si riferisce solo alla porzione evitabile o anche a quella inevitabile, oltretutto non c’è neanche chiarezza su quale parte della filiera agroalimentare contribuisca al fenomeno dello spreco di cibo. Quindi piuttosto che concentrarsi a dare una definizione di spreco alimentare, probabilmente risulta più efficace analizzare quali siano i comportamenti che creano uno spreco di materie prime alimentari o di cibo che si hanno nelle diverse fasi della catena alimentare. Viene quindi fatta una distinzione tra le perdite alimentari “food losses” e lo spreco di cibo “food waste” dove ognuno di questi due fenomeno ha impatti, cause e strategie di riduzione differenti25. Le perdite alimentari sono

quelle che avvengono durante la produzione agricola, post-raccolto e prima trasformazione degli alimenti, alcuni esempi sono le colture che rimangono nei campi perché danneggiate da fenomeni meteorologici avversi, oppure perché non convenienti da raccogliere a causa delle forme che non rispecchiano gli stereotipi che sono stati inculcati ai consumatori.

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Lo spreco di cibo di cui si vuole trattare avviene nella fase finale della catena alimentare e quindi lo troviamo nelle fasi di trasformazione industriale, distribuzione, vendita e consumo finale. In questo caso i prodotti a cui si fa riferimento sono quelli destinati al consumo umano che al posto di essere consumati vengono gettati nel cestino, ad esempio i prodotti scaduti o in scadenza che rimangono invenduti, gli avanzi delle mense pubbliche e tutto il cibo gettato in ambiente domestico.

Lo spreco alimentare è sostenibile?

Secondo la definizione proposta dalle Nazioni Unite nel rapporto “Our Common Future” del 1987, quando parliamo di sviluppo sostenibile intendiamo “il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri”26 e si

ritiene sia basato su tre componenti principali: sviluppo economico, sviluppo sociale e protezione ambientale.

Nel settore agro alimentare la sostenibilità dovrebbe poter garantire cibo sicuro, sano e disponibile nel rispetto dell’ambiente. La produzione e il consumo di cibo si può dire che abbia una doppia faccia perché se da un lato sono aspetti essenziali alla vita e allo sviluppo dell’uomo, dall’altro lato è uno degli aspetti che più sta condizionando la crisi ambientale attuale, contribuendo al cambiamento d’uso del suolo, alla distruzione di determinati habitat e alla conseguente perdita di biodiversità e indirettamente all’emissione di gas serra, all’inquinamento dell’acqua e alla degradazione dei suoli. Rinunciare all’assunzione di cibo è impossibile, però si deve riuscire a rendere il sistema agro alimentare più efficiente. Lo spreco di cibo è sicuramente una delle principali cause di inefficienza del sistema agro-alimentare infatti come già detto almeno il 30% del cibo prodotto viene sprecato27.

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Se si riuscisse a ridurre questo spreco alimentare daremo sicuro una grossa mano alla Terra senza per questo rinunciare a sfamare la popolazione, infatti lo spreco deriva da una sovra produzione che non rende il cibo disponibile a tutti ma che ha un certo peso sull’ambiente. Se si analizza lo scenario attuale si capisce come lo spreco di cibo sia assolutamente insostenibile a livello ambientale, etico e sociale. Infatti secondo i dati raccolti nel 2009:

- Oggi più di una persona su 9 non ha abbastanza cibo per nutrirsi, soprattutto in Asia e Africa. La FAO in seguito ad alcune ricerche ha affermato che dal 2006 al 2008 la produzione era di circa 2720 kcal procapite al giorno, quantitativo di cibo sufficiente a sfamare tutta la popolazione ma nonostante questo non tutti hanno potuto aver accesso a queste risorse;

- Per ogni persona in stato di denutrizione ci sono circa due persone in stato di sovra nutrizione con conseguenti ripercussioni sul loro stato di salute;

- Nel mondo sono presenti circa 5 miliardi capi di allevamento tra bovini, caprini, equini, ovini e suini e oltre 25 miliardi tra anatre, faraone, polli e tacchini. Si stima che circa un terzo della produzione agricola mondiale sia destinato a sfamare gli animali da allevamento, i quali producono una quantità di carne doppia rispetto a quella e ettivamente consumata, Andrea Segre e Luca Falasconi, noti agronomi e economisti italiani, a ermano che ci sia un surplus pari al 54%; - La richiesta di biocarburanti nel 2008 ammontava a 81 miliardi di litri, si stima che nel 2020 la

richiesta si alzerà a 171 miliardi di litri. Questo vuol dire che circa 40 milioni di ettari di terreno verranno convertiti a coltivazioni per biocarburanti, spesso tramite il fenomeno del “land grab” ovvero quello che viene definito il nuovo colonialismo, visto che multinazionali o stati esteri si accaparrano terreni nei paesi in via di sviluppo a cifre irrisorie;28

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Impatti Ambientali

Lo spreco di cibo è una delle fonti maggiori di inquinamento, è fondamentale capire come affrontare questo problema cercando di individuare i punti critici e sviluppando strategie di riduzione dell’impatto efficaci.

I maggiori impatti ambientali, derivanti dalla produzione di cibo e quindi dai conseguenti rifiuti alimentari, sono l’emissione di gas ad e etto serra che hanno un e etto diretto sulle variazioni climatiche, il grande utilizzo e inquinamento delle risorse idriche, la capacità del territorio di fornire risorse necessarie a sostenere la produzione agricola e la pressione che le attività di produzione del cibo esercitano sulla biodiversità.

Emissione gas a e etto serra

Nel 2013 la FAO ha divulgato un nuovo studio dal titolo “Food Wastage Footprint” dove si dice che lo spreco di cibo si stima si sia attestato a circa 1,6 miliardi di chilogrammi. Le emissioni di gas a effetto serra relative a questi sprechi ammontano a circa 3,3 miliardi di chilogrammi di CO2. Se si considerasse lo spreco di cibo come un ipotetico paese con un suo quantitativo di CO2, sarebbe il terzo emettitore al mondo dopo Stati Uniti e Cina. Nel 2005 infatti gli Stati Uniti hanno emesso 7,5 miliardi di chilogrammi di CO2 mentre la Cina 8 miliardi di chilogrammi di CO229.

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come questo grosso quantitativo energetico, che ha un prezzo elevato per chi l’acquista e per l’ambiente che deve assorbire queste emissioni, venga impiegato per la produzione di cibo non destinato alla tavola ma al cestino. È come se ognuno di noi consumasse 500 chilogrammi di CO2, l’equivalente di una macchina che percorre oltre 2500 chilometri30.

Consumo idrico dello spreco di cibo

Come per lo le emissioni di gas a e etto serra, se considerassimo lo spreco di cibo come una nazione, sarebbe il primo consumatore al mondo di acqua blu, davanti a India e Cina. Il volume di acqua sprecato è di circa 250 km3, cinque volte l’acqua contenuta nel Lago di Garda. L’OMS ha stimato che nel 2025 non ci sarà acqua a sufficienza per tutti, quindi risulta importante riflettere sul fatto che lo spreco idrico legato al cibo, considerando un fabbisogno pro capite giornaliero di 50 litri (quantitativo minimo stabilito dalla Commissione mondiale dell’acqua e dal World Health Organization), sarebbe sufficiente per il fabbisogno di circa 5 mila miliardi di persone31.

Consumo del suolo

L’ipotetico paese costituito dallo spreco di cibo occuperebbe un’area pari al 28% della superficie agricola mondiale, 1,4 miliardi di ettari di terreno utilizzati per produrre cibo che non verrà mai mangiato che garantirà degli altissimi livelli si inquinamento.

L’estensione di terreno di questa “nuova nazione” sarebbe inferiore solo alla Russia e maggiore di Canada e Stati Uniti, sarebbe destinato solo all’agricoltura senza ospitare case, città strade e

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infrastrutture. È come se ognuno di noi dovesse prendersi cura di un orto da 2000 metri2, circa un terzo di un campo da calcio.

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Biodiversità

Lo spreco di cibo oltre alle emissioni di gas a e etto serra, ai consumi idrici elevati e all’occupazione di suolo comporta anche un rischio per la biodiversità. La veloce espansione dell’agricoltura a scapito di aree naturali comporta una notevole pressione sugli habitat naturali. La FAO stima sul rapporto “Rapporto sullo Stato delle Risorse Genetiche Animali per l’Alimentazione e l’Agricoltura” che il 66% delle specie a rischio è minacciata dall’espansione dell’agricoltura, queste specie in via d’estinzione si trovano per un 34% nei paesi industrializzati e per un 72% nei paesi in via di sviluppo. Questa discrepanza è data al tasso di deforestazione per fare spazio a terreni agricoli molto più elevato nelle regioni come l’America Latina e l’Asia32.

I dati fino ad ora illustrati non possono che mettere timore e preoccupazione verso il nostro modo di approcciare al mondo, alla sostenibilità, alla società e al cibo. Probabilmente sono dati che inconsciamente conosciamo tutti ma abbiamo deciso di far finta di nulla. Sono dati che presi singolarmente non ti permettono di poter agire ma solo di fare mea culpa, è una visione del problema non a 360° per questo ce la necessità di tornare con i piedi per terra e capire cosa si sta già facendo a livello politico, cosa si potrebbe fare e quali sono gli spazi di movimento all’interno delle legislazioni nazionali. Per questo bisogna analizzare i dati precedenti con attenzione per rendersi conto del problema e fare in modo che si possa concretizzare una soluzione tramite le politiche attuali.

A sinistra: Schema che riassume cause, impatti, perdita e spreco relativi al cibo rifacendosi ai dati che comunica la FAO

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Note:

24. Key facts on food loss and waste you should know! (n.d.). Consultato il 02 Gennaio, 2018, da http://www.fao.org/save-food/resources/keyfindings/en/

25. Bisogni, M. & Lamastra,L. (2013). Ri-cibiamo. Chi ama il cibo non lo spreca, Fidenza: Mattioli 1885, 2016, pp. 9-10

26. Sviluppo. (n.d.). In La Piccola Treccani (Vol. XI, pp. 873-876). Roma: Istituto della enciclopedia italiana fondata da Giovanni Treccani.

27. Magarini, A., & Calori, A. (2015). Food and the cities: Food policies for sustainable cities. Milano: Ambiente, p. 21

28. Stuart, T. (2013). Sprechi: Il cibo che buttiamo, che distruggiamo, che potremmo utilizzare. Milano: ESBMO, p. 97

29. Food wastage footprint: Impacts on natural resources: Summary report. (2013). Rome: FAO. 30. Segrè, A., & Falasconi, L. (2011). Il libro nero dello spreco in Italia: Il cibo. Milano: Edizioni

Ambiente, p.15

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1885, 2016, p.20

32. La diversità genetica del patrimonio zootecnico può aiutare a nutrire un mondo più caldo e in condizioni ambientali meno favorevoli. (n.d.). Retrieved April 07, 2018, from http://www.fao.org/ news/story/it/item/381412/icode/

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6. Politiche e leggi per combattere lo spreco alimentare

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A livello Internazionale

A livello internazionale sono molte le parti che si stanno interessando al tema dello spreco di cibo, purtroppo spesso gli stati fanno fatica ad esporsi e quindi sono le organizzazioni che si occupano della salvaguardia dell’ambiente, provano a formulare delle strategie e fanno da cassa di risonanza per sollevare l’attenzione sull’urgenza di politiche e caci per ridurre le perdite e gli sprechi lungo la filiera. Le Nazioni Unite già dall’inizio degli anni 2000 hanno iniziato ad adoperarsi con gli 8 obiettivi di Sviluppo del Millennio (MDS) - Agenda entro il 2015 definiti dai 193 Stati membri ONU, in questi viene sottolineata l’importanza di assicurare sostenibilità ambientale attraverso la costituzione di una partnership globale per lo sviluppo, ma non si parla ancora di spreco alimentare in modo diretto. Nel 2015 sempre le Nazioni Unite stilano i 17 obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs) più 169 obiettivi target, Agenda entro il 2030, condivisi con i paesi ONU e con un’ampia partecipazione della società civile. L’obiettivo numero 12 dice di garantire modelli di consumo e produzione sostenibili e con i target 12.3-12.5 di dimezzare il tasso di rifiuti pro-capite, di evitare le perdite e gli sprechi di filiera e di mettere in atto una riduzione della produzione dei rifiuti mettendo in pratica delle strategie lungimiranti per ridurre-riciclare-riutilizzare in modo che nulla venga sprecato.

Sempre le Nazioni Unite hanno creato negli ani ’50 un’ agenzia specializzata nell’alimentazione e nella agricoltura, la FAO. Quest’ultima stila un rapporto denominato “Global Food Losses and Food Waste” dove si descrive il fenomeno delle perdite e degli sprechi di cibo a livello mondiale e di come sia fondamentale educare la popolazione per cambiare le sue abitudini da un consumismo ad

Sotto: Copertina del libro “Global food losses and food waste”

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un modo di consumare mirato a quello che veramente è necessario. L’UNEP, organizzazione delle Nazioni Unite per l’Ambiente, insieme alla FAO, nel 2014 ha pubblicato “Prevention and reduction of food and drink waste in business and households - Guidance for governments, local authorities, business and other organizations”, testo che pone le linee guida per la prevenzione e riduzione degli sprechi alimentari a livello domestico e aziendale rivolto a governi statali e regionali, enti locali, imprese e altre organizzazioni, in modo da creare consapevolezza e incoraggiare allo sviluppo di politiche contro gli sprechi alimentari.

Questa guida è la prima nel suo genere, ha l’intento di fornire le competenze tecniche e l’impulso necessario ai governi nazionali, agli enti locali, alle imprese e a chiunque sia interessato per individuare gli interventi, programmarli, attuarli, capirne l’efficacia e condividere l’esperienze in modo da poter sviluppare politiche coordinate a livello nazionale che siano in sintonia con le pratiche virtuose sviluppatesi globalmente inerenti i prodotti alimentari.

A livello europeo

L’Unione Europea, nonostante abbia messo la sfida alla riduzione dello spreco alimentare in cima ai alle priorità già da alcuni anni, non ha ancora intrapreso delle politiche di riferimento per tutti gli stati membri sulla prevenzione degli sprechi di cibo mettendo nero su bianco una definizione univoca, fissando dei target di riduzione e monitorando nel tempo l’efficacia delle politiche intraprese. Attualmente l’UE ha cercato di promuovere molte iniziative per sensibilizzare i cittadini europei a non sprecare cibo. Le misure più significative sono state prese a livello nazionale da Francia e Italia in seguito all’Expo di Milano.

Sopra: Copertina della guida per le nazioni “Prevention and reduction of food and drink waste in business and households”

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Il 20 settembre 2011 a Bruxelles è stata redatta dalla commissione europea la “Tabella di marcia verso un’Europa effciente nell’impiego delle risorse” dove si invitano gli Stati membri ad affrontare il problema dello spreco alimentare all’interno dei singoli piani nazionali con l’obiettivo di dimezzare lo smaltimento della parte edibile dei rifiuti alimentari nell’unione europea entro il 2020.

Il 19 gennaio 2012 “Come evitare lo spreco di alimenti: strategie per migliorare l’efficienza della catena alimentare nell’UE” è una risoluzione Europea dove si vuole considerare lo spreco alimentare non solo come fonte di conseguenze etiche, economiche, sociali e nutrizionali ma anche fonte di problemi sanitari e ambientali visto che il cibo non consumato aiuta al riscaldamento globale producendo con i suoi rifiuti metano e gas a effetto serra 21 volte più potente del biossido di carbonio. Il Parlamento Europeo richiede quindi di intraprendere un’ azione collettiva entro il 2025, come richiesto dalla FAO, per dimezzare lo spreco avviando delle azioni concrete per prevenire la produzione di rifiuti tramite il cambiamento del comportamento della popolazione, istruzione, campagne informative e migliorando la logistica.

A livello nazionale

Nel 2015 l’esposizione universale si è svolta a Milano, l’Expo 2015, con titolo “Nutrire il pianeta, energia per la vita”. Il tema scelto è stato quindi quello dell’alimentazione toccando l’aspetto degli OGM, della mancanza di cibo per molte popolazioni mondiali e dell’educazione alimentare.

Questa manifestazione è stata l’occasione per portare alla luce molte tematiche che spesso sono state tenute nascoste con la conseguente mobilitazione da parte di alcuni stati per cercare di affrontare il problema. Durante i sei mesi di expo è stata promossa un’iniziativa dal Barilla Center for

Sotto: Logo Expo Milano 2015 ad opera di Andrea Puppa

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Food and Nutrition intitolata la Carta di Milano.

“Sottoscrivendo questa Carta di Milano affermiamo la responsabilità della generazione presente nel mettere in atto azioni, condotte e scelte che garantiscano la tutela del diritto al cibo anche per le generazioni future; ci impegniamo a sollecitare decisioni politiche che consentano il raggiungimento dell’obiettivo fondamentale di garantire un equo accesso al cibo per tutti.” Questo è uno dei passi fondamentali della Carta di Milano, un documento che è un impegno collettivo sul diritto al cibo, rivolta a cittadini, governi, istituzioni, associazioni e imprese. Tutti potevano firmare questo appello per responsabilizzare ognuno di noi su questioni come lo spreco alimentare, la sicurezza di prodotti, il diritto al cibo e l’agricoltura sostenibile. La Carta di Milano la si può considerare come la data zero per le politiche alimentari nazionali, un nuovo inizio verso una nuova consapevolezza alimentare. Nonostante la Carta di Milano si possa considerare nient’altro che una promessa affascinante, non esprime impegni concreti e non è una vera e propria agenda di lavoro, è stata presentata alla conferenza sul clima di Parigi nel dicembre 2015 diventando un’iniziativa riconosciuta ufficialmente. Le nazioni che dopo l’Expo hanno fatto i passi più significativi sono stati Francia e Italia. Il 3 febbraio 2016 il senato francese, dopo circa un anno di studi, ha approvato la “Loi relative à la lutte contre le gaspillage alimentaire” ovvero la legge contro lo spreco alimentare presentata dal deputato Bruno Le Roux, diventando la prima nazione a legiferare su questo tema.

La legge è costituita da quattro articoli che trattano la prevenzione, il recupero degli invenduti per il cibo destinato all’uomo e agli animali, l’utilizzo dei rifiuti a fini energetici. Inoltre viene introdotto un aspetto di “obbligo” verso i negozi che vendono cibo e sulle organizzazioni che si occupano di cibo. I primi non potranno più gettare o rendere non più consumabili gli alimenti invenduti, le seconde riceveranno il cibo a titolo gratuito e dovranno quindi dotarsi di sistemi per mantenere le condizioni

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igieniche del cibo che poi doneranno. In ne verranno promosse delle attività di informazione ed educazione nelle scuole contro lo spreco alimentare.

L’altra nazione che si è impegnata a livello politico è l’Italia, la quale il 16 settembre 2016 ha approvato la legge Gadda in onore della persona che ha portato avanti la proposta di legge, Maria Chiara Gadda. La legge per cercare di combattere gli 8 miliardi euro di sprechi alimentari annui, si basa sul principio che chi non butta il cibo verrà premiato. Si definiscono quindi per la prima volta in italia i termini di “eccedenza” e “spreco” alimentari, viene fatta chiarezza sul termine minimo di conservazione la data di scadenza, si semplificano le procedure di donazione rispettando le norme igienico sanitarie. Viene ampliato il raggio di enti che possono essere considerati “soggetti donatori”, non solo le onlus ma anche attività pubbliche. È stato calcolato che se tutti gli esercizi pubblici italiani donassero le loro eccedenze, con una media di 20 pasti al giorno, ci sarebbe la possibilità di distribuire 7 milioni di pasti in più33.

La legge italiana rispetto alla norma approvata in Francia, che punta a penalizzare chi non dona piuttosto che premiare chi lo fa, cerca di creare incentivi e semplificare la burocrazia per chi dona34.

Aspetto legislativo in Italia

In Italia il tema dello spreco di cibo è stato affrontato in molteplici modi, moltissima gente si impegna moltissimo e la maggior parte delle persone con cui ho discusso, dalle associazioni che lavorano nel mondo al cibo alle persone semplicemente interessare alla sostenibilità, è sembrata più che favorevole a questo “nuovo” modo di approcciarsi al cibo. Nonostante ciò, questa battaglia non si riesce a decollare nel nostro stato a differenza del nord Europa dove riescono ad ottenere risultati

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molto più concreti. Spesso la colpa di questo mancato risultato viene attribuita alla grossa mole di burocrazia che implicherebbe una “ri-commercializzazione” del cibo che andrebbe sprecato. L’associazione CENTRI-TIRES, Circolo Europeo per la Terza Rivoluzione Industriale, ha voluto approfondire il tema tramite un’intervista ad un noto studio legale. Quello che si evince da questa intervista è che il sistema potrebbe funzionare senza dubbio nel momento in cui si limiti ad uno scambio tra privati, dove è necessario semplicemente agire a livello comunicativo per promuovere un acquisto più responsabile e un consumo più etico del cibo. I problemi potrebbero sorgere nel momento in cui si volesse declinare questo fenomeno virtuoso alle attività commerciali come ristoranti, grande distribuzione. I problemi da affrontare per poter aprire un’attività che si occupi di foodsharing possono essere di natura scale e di conservazione degli alimenti.

L’aspetto scale, per quanto le normative possano essere sempre perfezionabili, lo studio legale interpellato a erma che i margini per avviare il progetto ci sarebbero. “ [...] posto che sia conveniente che il gestore della piattaforma si costituisca come una ONLUS, bisogna analizzare il problema dell’imposizione IVA e delle imposte dirette per i soggetti IRES (grande distribuzione e ristoranti) che vogliano partecipare al progetto come donatori. Secondo quanto stabilito dall’art. 6, comma 15 della legge 133/1999, gli alimenti non più commercializzabili per diversi motivi, tra cui la prossimità della data di scadenza, che sono ceduti alle ONLUS e agli enti di beneficenza si considerano distrutti ai fini dell’IVA. La legge di stabilità 2016 ha innalzato il tetto al di sotto del quale non è necessario inviare all’Agenzia delle Entrate la comunicazione per usufruire dell’esenzione da 5.000 a 15.000 euro; inoltre, tale comunicazione è resa facoltativa senza limiti di valore laddove si tratti della distribuzione di beni facilmente deperibili, nella speranza di incrementare le donazioni di cibo attraverso la riduzione degli oneri burocratici. Sul versante delle imposte dirette, è consentito alle imprese di

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cedere alle ONLUS gratuitamente e senza alcun limite le derrate alimentari e i prodotti farmaceutici che sarebbero destinati alla eliminazione dal circuito commerciale, ai sensi dell’art. 13, comma 2 del decreto legislativo 460/1997 (c.d. Legge del Buon Samaritano). Il valore di tali beni non viene considerato tra i ricavi dell’impresa, salvo il rispetto di adempimenti formali gravanti sia sul cedente che sulla ONLUS, a eccezione delle ipotesi di cessione di beni deperibili e di modico valore”. In merito agli aspetti di conservazione del cibo, è necessario chiarire subito la differenza tra data di scadenza e termine minimo di conservazione (TMC). La data di scadenza, secondo l’articolo 10 bis del decreto legislativo 109/1992, si collega a tutti i prodotti con la dicitura “da consumarsi entro ...” che non possono essere venduti dal giorno successivo a quello indicato nella data impressa nella confezione. I prodotti in questione sono quelli caseari, freschi, esclusi i prodotti ortofrutticoli non lavorati. Invece i prodotti TMC, che riportano l dicitura “da consumarsi preferibilmente entro il ...”, secondo lo studio legale interpellato “la norma tace riguardo alla possibilità che tali alimenti siano venduti, anche se una pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione ha negato la corrispondenza tra alimento scaduto e in cattivo stato di conservazione, precisando che gli alimenti con TMC non si deteriorano per il solo fatto che sia passata la data indicata sulla confezione, lasciando un grande spiraglio sulla possibilità di distribuire gli alimenti oltre il TMC che siano in buono stato di conservazione (Cass. Pen. n. 9276/2011). L’art. 1, comma 236 della legge di stabilità 2014 prevede che le ONLUS e i ristoratori che effettuano a ni di beneficenza la distribuzione gratuita di cibo debbano garantire un corretto stato di conservazione degli alimenti sulla base di quanto previsto dal Reg. 852/2004 del Parlamento Europeo, salvo che la distribuzione avvenga direttamente a opera degli operatori del settore alimentare ai destinatari finali (beneficiari). In questo ultimo caso, il buono stato di conservazione si considera presunto.” Quindi quello che si evince è che il cibo oltre il termine

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minimo di conservazione, se conservato correttamente e se la distribuzione avvenisse per mano degli operatori del settore alimentare, potrebbe essere tranquillamente ridistribuito.

Oltre al cibo presente nella grande distribuzione, anche l cibo pronto e non consumato ad opera di mense e ristoranti ha la possibilità di essere distribuito grazie alla legge 155 del 2003 dove le ONLUS vengono equiparate al consumatore finale, evitando così lo spreco di molte porzioni di cibo pronte sgravando le ONLUS di molti problemi burocratici che bloccavano la realizzazione finale del progetto35.

In definitiva, quello che traspare dalle dichiarazione dello studio legale, prontamente argomentate con riferimenti giuridici, è che anche in Italia ci sarebbe la possibilità di creare un progetto di foodsharing dove vengano coinvolti i privati e i professionisti. Il lavoro più grosso andrà fatto quindi in quella che è la coscienza dei singoli cittadini tramite un concreto lavoro di comunicazione ed educazione. La popolazione italiana probabilmente non è ancora pronta e formata ad accettare il cibo acquistato da qualcun altro, come ha affermato una componente del gruppo Foodsharing Italia, una delle comunità più attive in Italia su questo tema, “[...] tutti pensano che sia una cosa per poveracci che non hanno soldi per mangiare.”.

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Note:

33. Fogliani (Qui foundation): “Legge anti-sprechi grande risultato per Italia”. (n.d.). Consultato il 07 Aprile, 2018, da http://www.adnkronos.com/lavoro/norme/2016/08/03/fogliani-qui-foundation-legge-anti-sprechi-grande-risultato-per-italia_KBbbEGBFNMaRqOjQGcNdFK.html?refresh_ce 34. Bisogni, M. & Lamastra,L. (2013). Ri-cibiamo. Chi ama il cibo non lo spreca, Fidenza: Mattioli

1885, 2016, pp. 43-58

35. Avv. Carmelo Giurdanella e Dott.ssa Giulia Campo, “Food sharing in Italia contro gli sprechi di cibo”. Consultato il 03 Gennaio, 2018, da http://www.giurdanella.it/wp-content/uploads/2016/11/ AMB_Food-Sharing-in-Italia.pdf

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7. Visione dello spreco alimentare nell’ultimo ssecolo

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Per quanto ci possa sembrare un’abitudine che l’uomo ha sempre avuto, il consumismo legato al cibo è una tendenza abbastanza recente. Negli anni ’30 venne fatta un’indagine in Gran Bretagna dove veniva calcolato lo spreco di cibo delle famiglie, e solo il 2-3% del valore calorico del cibo presente nelle abitazioni veniva gettato.

Nel 1976 una nuova indagine attestava lo spreco intorno al 4-6 per cento, in America negli anni sessanta e settanta un’analoga indagine affermava che lo spreco alimentare si aggirava intorno al 7 per cento. In questi anni c’era un differente approccio al cibo, gli avanzi si usavano e non venivano buttati; il surplus veniva imbottigliato o messo in vasetti pieni d’aceto per i mesi invernali; il cibo avanzato veniva riscaldato o utilizzato per il pasto successivo e le frattaglie erano uno dei pasti principali.

Negli Stati Uniti durante la Grande Depressione, 1929, il motto delle famiglie americane era “Prendi tutto quello che vuoi ma mangia tutto quello che prendi” e durante le due guerre mondiali sia in Europa che in America causa delle carestie di cibo, la riduzione dello spreco di cibo divenne una questione non solo etica e di necessità interna ma anche di sicurezza nazionale. I governi americano, francese, tedesco e britannico approvarono degli emendamenti dove si proibiva alla gente di gettare via il cibo. In Gran Bretagna durante la Prima Guerra mondiale, sprecare grano, segale o riso era considerato era una violazione e ci furono delle proposte per far diventare lo spreco di cibo un reato. Trovare del cibo nei bidoni faceva si che individui, negozianti e istituzioni potessero finire in tribunale. In Francia venne prodotto un documentario dove si invitava a dare ai conigli le spuntature degli ortaggi e in Gran Bretagna il cibo trattato a casa in questo modo veniva considerato “fuori dalla razione”.

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Durante le due guerre si produssero molti poster propagandistici con slogan come “Inscatolate quel che potete” o “Un piatto pulito significa una coscienza pulita: non prendere più di quello che riuscite a mangiare”. Di seguito sono riportati molti poster dell’epoca inerenti lo spreco di cibo, oltre al grande valore storico e in alcuni casi estetico, è molto interessante notare come i messaggi che si volevano comunicare hanno estrema attualità. La cosa paradossale è riflettere sul perché questi messaggi sono estremamente contemporanei, quando vennero pubblicati si voleva combattere la scarsità di cibo e per questo veniva esaltata la parsimonia, il risparmio e anche il patriottismo. Oggi lo stesso messaggio è utilizzato per giusti care il troppo cibo che ha la necessità di essere equamente distribuito. Lo stesso messaggio in due epoche diverse riesce a trovare un aspetto comune, l’invito ad essere meno individualisti cercando di sviluppare degli atteggiamenti tipici delle comunità36.

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A sinistra: Manifesto contro lo spreco di cibo in Italia del 1941

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