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settembre 2018
Il Freud che abbiamo rimosso
IN FORMA DI PREMESSA
Pier Aldo Rovatti Freud addomesticato? 4 Mario Colucci Come se la psicoanalisi
non fosse mai esistita 10
Mauro Bertani Sull’utilità della storia
per la psicoanalisi 18
INTERVENTI
Massimo Recalcati Lo scandalo della pulsione
di morte 32
Francesco Stoppa La zuppa di sasso.
Freud inassimilabile 48
Ilaria Papandrea Ciò che disturba 63 Raoul Kirchmayr Memorie in rovina.
Su una metafora del tempo in Freud 75 Andrea Muni I “masochismi” che rimuoviamo 90 Alessandro Di Grazia Sarò Io? Gli svenimenti
di Freud 119
Antonello Sciacchitano Come si fa ricerca
in psicoanalisi 140
Élisabeth Roudinesco Freud e il regicidio:
elementi di una riflessione 155 Davide Radice Transfert e controtransfert 175 Mario Bottone La lingua (perduta) del sogno
nell’epoca delle neuroscienze 188
rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti
redazione: Sergia Adamo, Paulo Barone, Mauro Bertani, Graziella Berto, Beatrice Bonato, Deborah Borca (editing, deborah.borca@gmail.com), Damiano Cantone, Mario Colucci, Alessandro Dal Lago, Alessandro Di Grazia, Pierangelo Di Vittorio, Giovanna Gallio, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Andrea Muni, Massimiliano Nicoli, Ilaria Papandrea, Fabio Polidori, Pier Aldo Rovatti, Massimiliano Roveretto, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Stefano Tieri, Carla Troilo, Davide Zoletto
direzione: c/o il Saggiatore, via Melzo 9, 20129 Milano sito web: autaut.ilsaggiatore.com
ISSN
: 0005-0601
collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, R. Bodei, L. Boella, S. Borutti, J. Butler, M. Cacciari, A. Cavarero, R. De Biasi, M. Ferraris, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, A. Heller, F. Jullien, J.-L. Nancy, A. Prete, R. Prezzo, M. Serres, G.C. Spivak, G. Vattimo, P. Veyne, V. Vitiello, S. Žižek
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Finito di stampare nell’agosto 2018
In forma di premessa
Quando abbiamo cominciato a discutere in redazione di questo fascicolo, con Antonello Sciacchitano e Mauro Bertani, avevamo pensato come titolo “Il ritorno di Freud”. Ma poi ci siamo chiesti: che cosa ritornerebbe? E perché alcuni temi che circoscrivono il nome di Freud sono rimasti come sepolti e dimenticati?
Così il titolo del fascicolo è diventato “Il Freud che abbiamo rimosso”, un titolo più impegnativo e meno generico che vorrebbe individuare un lavoro complesso di ricerca critica e di scavo culturale che qui abbiamo cercato di avviare.
I testi che aprono il fascicolo in forma di premessa potrebbero funzionare come dei cartelli indicatori utili ad aprire questa strada e a segnalarne l’agibilità. Il lettore di “aut aut”
non farà fatica a scorgervi tonalità e motivi che
da anni emergono nell’interesse che la rivista ha
dedicato al continente “psicoanalisi” e al ruolo
che ovviamente vi giocano il pensiero e la pratica
di Freud, un capitolo tutt’altro che archiviato in
cui ha agito e oggi soprattutto pare manifestarsi
un grumo di questioni “rimosse”.
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aut aut, 379 2018, 4-9Freud addomesticato?
PIER ALDO ROVATTI
F orse non c’è bisogno di andare a cercare zone nascoste del pensiero di Freud. Ciò che di questo pensiero ci turbava, ci per- turbava, quel lato che lui stesso indicava come un gioco rischioso tra famigliare ed estraneo (l’Unheimlichkeit), dove è finito? L’ab- biamo esplorato in ogni particolare fino a rimpatriarlo e a ren- derlo docile. Per esempio, la scomoda e quasi intrattabile que- stione della “padronanza”, di cui mi occuperò nelle prossime ri- ghe, è stata via via ammansita. Su di essa, come su altre questioni che ci interpellavano da vicino e ci provocavano, è stato eserci- tato un quasi totale addomesticamento. Non la vediamo più per- ché ormai è scomparsa dalla nostra vista.
In una battuta, potremmo dire che il Freud rimosso, che ab- biamo rimosso, è Freud semplicemente, un pensiero che oggi ri- sulta perlopiù devitalizzato, inerte, perfino banale. E allora credo che il nostro compito critico sia quello di tentare di far riemer- gere – valorizzando chi si è già messo su questa strada – la “stra- nezza” di ciò che è diventato ovvio e normale, a cominciare dal- le stesse parole chiave della psicoanalisi freudiana, come la paro- la “inconscio”, o la stessa parola “rimozione”, ma anche la paro- la “desiderio”, che adoperiamo quotidianamente come se fosse- ro pienamente maneggevoli.
Potrebbe aiutarci a capire la situazione in cui adesso ci tro-
viamo il richiamo a un curioso legame che congiunge l’avvenuta
normalizzazione di Freud alla preoccupazione espressa da Ber-
tolt Brecht nei confronti dell’ovvietà. “Ciò che è ovvio trovate- lo strano”, ripeteva nelle pièces didattiche e poi in tutto il suo teatro pensante, e in definitiva sempre. Freud e Brecht possono sembrarci lontanissimi, ma qui si intravvede una sorta di chia- smo. Se il pensiero di Freud ci appare ovvio ed è diventato mo- neta corrente, una cassetta di significanti dal significato sconta- to, abbiamo solo una chance perché continui a parlarci: ritrovare nella dilagante ovvietà il filo perduto della stranezza, riscoprire in questa falsa famigliarità l’estraneità che si porta dietro.
Ho chiamato in causa il consiglio “politico” di Brecht, ma po- tremmo anche servirci del consiglio “filosofico” della fenomeno- logia che ci spingerebbe a mettere tra parentesi l’ovvietà. Non incorreremmo in uno scivolamento intellettualistico se solo pen- sassimo come quest’ultimo consiglio (a mio parere già presente nello stesso Brecht) sia servito a Franco Basaglia per fare esplo- dere l’ovvietà dell’esistenza dei manicomi, connessa all’ovvietà che la malattia mentale si cura rinchiudendo il malato.
Ma entriamo nel merito del pensiero di Freud. Il caso emble- matico della non-padronanza di sé, e conseguentemente sugli al- tri, risulta sovvertito nell’idea che oggi circola, alimentata da un consenso culturale generalizzato. Accade, infatti, che attualmen- te ci stiamo comportando come se fosse ovvio che l’Io non è pa- drone di se stesso, e soprattutto come se fosse normale che que- sto costituisca un deficit soggettivo da colmare in un’epoca nel- la quale la prestazione vincente è l’ovvio obiettivo di un Io man- chevole alla perpetua ricerca del proprio perfezionamento.
E se, al contrario, la condizione di non-padronanza, messa in luce da Freud, fosse una condizione “paradossale”, doppia e in- trinsecamente contraddittoria? Qualcosa da cui difendersi quan- do tracima, ma alla quale comunque guardare come un’apertura di orizzonte? Questa “verità” più articolata e complessa è molto difficile da masticare quando ormai abbiamo digerito – in ogni ambito culturale – che occorre essere padroni di noi stessi pena la squalifica sociale. Ciò è talmente palese che non c’è neanche bisogno di portare esempi specifici a conferma.
Con altrettanta evidenza possiamo osservare che l’imperativo
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aut aut, 379 2018, 10-17Come se la psicoanalisi non fosse mai esistita
MARIO COLUCCI
I n un dialogo del 2001 con Élisabeth Rou- dinesco, Jacques Derrida s’interroga sul- la paura che continua a esercitare nella no- stra epoca la psicoanalisi:1 in fondo, la “logica dell’inconscio” re- sta incompatibile con il “sistema” etico, giuridico e politico del- la nostra civiltà, tanto che le idee stesse di Bene, Diritto, Citta- dinanza, Stato, sembrano essersi costituite come un sistema di contenimento, una diga di protezione al fine di incanalare e con- trollare l’energia prorompente che ne deriva.
Se si prendesse sul serio la psicoanalisi – e qui Derrida ci fa ca- pire che questo in effetti non avviene –, se si cogliesse ciò che acca- de quando questa “minaccia sismica” transita all’interno delle no- stre società e di noi stessi, si verificherebbe un sovvertimento diffi- cilmente sostenibile per la nostra cultura e per la nostra soggettivi- tà. Nella quotidianità facciamo il contrario, “come se la psicoanali- si non fosse mai esistita”.
2Anche se siamo convinti della necessità imprescindibile della rivoluzione e delle problematiche aperte dalla psicoanalisi, nella vita, nei discorsi quotidiani, nella nostra esperien- za sociale, ci comportiamo “come se niente fosse, […] come se, in fondo, credessimo ancora all’autorità dell’io, della coscienza e così via, riconoscendo come nostro il linguaggio di questa autonomia”.
31. J. Derrida. É. Roudinesco, Quale domani? (2001), trad. di G. Brivio, Bollati Borin- ghieri, Torino 2004, p. 246.
2. Ibidem.
3. Ibidem.
In queste poche parole, Derrida ci fa cogliere come la psico- analisi, al di là del successo di notorietà che le è stato attribuito in poco più di un secolo e al di là della sua volgarizzazione nel lessico e nell’immaginario di molti, susciti ancora un’enorme “resistenza”
e non sia davvero penetrata nella percezione comune quale forza travolgente e potenzialmente rivoluzionaria per la nostra cultura e la nostra etica. Il Freud che abbiamo “rimosso” è della stessa natu- ra dell’inconscio, qualcosa che fa scandalo e sovverte la civiltà. Ed è forse per questo che la civiltà, e talvolta paradossalmente anche la stessa psicoanalisi, cercano volentieri di farne a meno.
Quale sarebbe l’idea di inconscio, di cui parla Derrida, che ri- sulta così incompatibile con il “sistema” da fare ancora paura? For- se è la classica immagine di un’istintualità selvaggia e ingovernabi- le, refrattaria a qualsiasi norma e linguaggio e inassimilabile all’i- dea stessa di Bene e Diritto? La negazione dell’autorità dell’Io e la caduta del primato della coscienza porterebbero a una perdita di controllo sulla pulsione e a un trionfo dell’irrazionalismo. Va detto che si tratta di una lettura dell’opera di Freud che appartiene alla stagione degli esordi e che, a ben pensarci, non dovrebbe più inti- morire nessuno, in questa epoca affascinata dall’effrazione alla leg- ge, dall’oltrepassamento di ogni limite e dal comportamento tra- sgressivo come vie per sottrarsi al dominio della grigia razionali- tà. Eppure, è una lettura che non è mai stata del tutto accantonata, se si pensa a quanto la psicoanalisi nella sua storia si sia spesa nel tentativo di rassicurare i suoi detrattori, costruendo la sua pratica clinica sull’immagine di un’operazione di bonifica dell’Es da parte dell’Io, come ribadito dall’Ego Psychology. Il ripristino della fun- zione di padronanza dell’Io, inteso come rappresentante della real- tà, avrebbe il compito di arginare le pulsioni dell’Es e permettere l’adattamento dell’individuo a questa stessa realtà.
Sappiamo quanto Lacan abbia avversato questa tesi, rove- sciando diametralmente la lettura postfreudiana del Wo Es war, soll Ich werden:
4non si tratta di prosciugare lo Zuiderzee o co-
4. S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni) (1932), trad. di M. To-
nin Dogana e E. Sagittario, in Opere, vol.
XI, Boringhieri, Torino 1979, p. 190.
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struire dighe per impedire l’arrivo dell’acqua dell’inconscio, l’Io non è la roccia solitaria contro i flutti, né la terra asciutta che deve bonificare la palude dell’Es. Alla nozione di Io Lacan pre- ferisce quella di soggetto, soggetto che deve accadere nel luogo dell’inconscio come soggetto di desiderio; e l’inconscio, più che avere una forma minacciosamente liquida, è strutturato come un linguaggio con proprie rigorose regole di funzionamento, a par- tire dalle quali, negli intervalli della catena dei suoi significanti, potrà dirsi qualcosa attorno al soggetto.
È evidente quanto questa intuizione lacaniana renda il quadro più complesso. Tuttavia, già per Freud l’inconscio è un linguag- gio: linguaggio che si presta a una cifratura e la cui struttura è quella del codice che va decrittato attraverso il lavoro dell’inter- pretazione. Freud non è un esploratore come Cristoforo Colom- bo alla conquista di un continente sconosciuto; è piuttosto un decifratore di simboli come Jean-François Champollion alle pre- se con i geroglifici dell’antico Egitto. “Freud non ha soltanto ra- zionalizzato quel che fino a quel momento aveva resistito alla ra- zionalizzazione”, afferma Lacan, “ha anche messo in luce una ve- ra e propria ragione ragionante, che ragionava e funzionava se- condo una logica all’insaputa del soggetto, e ciò nel campo clas- sico dell’irrazionalismo, il campo della passione, per così dire.”
5Proporre una logica linguistica dell’inconscio significa soste- nere che “qualcosa parla e funziona in modo altrettanto elabo- rato che a livello del conscio, il quale perde così ciò che sembra- va essere il suo privilegio”.
6Ulteriore scandalo della psicoanali- si che così ordisce inaspettatamente l’attentato più forte al cogi- to cartesiano: se c’è una razionalità da rintracciare nell’inconscio, ossia in ciò che per il sistema appartiene al campo senza logica e senza senso delle passioni, che cosa ne sarà mai allora della logi- ca tout court?
5. J. Lacan, Intervista (1957), trad. di P. Feliciotti e R.A. Gentile, “La Psicoanalisi”, 10, 1991, p. 10.
6. Id., Il seminario. Libro
XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964)
(1973), testo stabilito da J.-A. Miller, ed. it. a cura di A. Di Ciaccia, trad. di A. Succetti, Ei-
naudi, Torino 2003, p. 25.
Sull’utilità della storia per la psicoanalisi
MAURO BERTANI
1. Se, come ha detto un giorno Jacques La- can, “il pensiero di Freud è la sua espe- rienza”, lo storico che si accosta alla creazione del fondatore della psicoanalisi dovrà allora conclu- derne che è stata sicuramente parte integrante, e nient’affat- to secondaria, di quel pensiero, l’esperienza della cultura e del- la condizione ebraica, ma che lo è stata, almeno altrettanto, an- che quella dell’antisemitismo. Senza doversi spingere a sostenere che, fino alla fine, Freud non abbia fatto che “pensare alla storia di Mosè e alla religione dei suoi padri”, è indubbio che la storia biblica, appresa attraverso la Bibbia curata dai fratelli Philippson e donatagli dal padre, abbia avuto un’importanza decisiva nel- la formazione intellettuale e “spirituale” del giovane Freud. Co- me ha inciso l’esperienza stessa della condizione ebraica: l’esilio, l’erranza, “l’assenza di terra”, come aveva detto Hegel, il noma- dismo, la Diaspora. E come ha contato quella che è stata chiama- ta la pratica della “lettura infinita” come tratto distintivo del rap- porto del popolo ebraico con la parola e il testo, i testi. Ed è al- trettanto certo che tutto ciò (e altro ancora, dalla cerchia degli amici e collaboratori più fedeli, all’appartenenza al B’nai B’rith, e così via) si sia riversato nella successiva elaborazione del pro- getto psicoanalitico.
Ma non si deve dimenticare che almeno altrettanto ha pesa-
to, appunto, l’esperienza dell’antisemitismo. È sempre fonte di
stupore, per lo storico, constatare il costante riprodursi di una
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serie di atti d’accusa nei confronti di Freud e della sua creazio- ne, e una delle più ricorrenti e insistenti, per quanto giustifica- ta con motivazioni e argomentazioni sempre diverse, è quella di non essere “una scienza” o, in termini ancor più squalificanti, nelle intenzioni di chi la formulava, di essere al più una “scien- za ebraica”. A partire dai rilievi critici nei confronti della psico- analisi mossi dai colleghi di Freud all’Università di Vienna, co- me per esempio Julius Wagner-Jauregg, che finirà la sua carriera aderendo alla Nsdap. O Alexander Pilcz, nel cui manuale Beitrag zur vergleichenden Rassen-Psychiatrie, uscito a Lipsia nel 1906 (e su cui si formeranno generazioni di psichiatri), Freud potrà leg- gere della fortissima “predisposizione della razza ebraica all’iste- ria” e della particolare diffusione tra gli ebrei della dementia pra- ecox, e insomma l’ennesimo aggiornamento, pretesamente scien- tifico, del tema antico della “malattia giudaica” che tanto impor- tante sarà per i nazisti.
Si dirà che anche quella di Wagner-Jauregg, Pilcz (o Buschan, o Hoppe, o Kraepelin, o mille altri, che riprenderanno le stesse tesi) era una pseudoscienza. Ma non così era considerata all’epo- ca, e in ogni caso essa produrrà effetti, discorsivi e non discorsi- vi, ben reali, ed è questo ciò che per lo storico conta. Se Freud, nonostante la decisione precoce di rompere con le credenze e i riti della tradizione rabbinica, potrà ripetutamente dichiarare di essere rimasto, lui e i suoi figli, di confessione ebraica (“abbia- mo tutti conservato la confessione ebraica”: “wir sind alle in der jüdischen Konfession verblieben”), e addirittura, come dirà nel- la Selbstdarstellung, di essere “rimasto ebreo”, è perché gli ebrei
“hanno sempre tenuto nella massima stima le opere e i valori spi-
rituali” (“sie haben geistige Leistung und Interessen immer hoch
eingeschätzt”), e si battono per assicurare – come ha inteso fa-
re, sia pure in altre forme, la psicoanalisi – “der Fortschriftt in
der Geistigkeit”, “il progresso della spiritualità”. Così intitole-
rà il paragrafo C del secondo capitolo del terzo saggio del Mosè,
letto da Anna al Congresso internazionale di Parigi nell’agosto
del 1938, allorché stava per entrare a pieno regime la lotta mor-
tale ingaggiata dal nazionalsocialismo contro l’ebraismo.
E se infine, al momento di risolversi a partire per Londra, po- trà rivendicare una qualche identificazione con Ahasverus, figura matriciale dell’“ebreo errante” – “è tempo che Ahasverus trovi da qualche parte riposo”, scriverà al figlio Ernst –, non dobbia- mo dimenticare che nella cerchia di Charcot, tanti anni prima, vi era stato chi, a partire dalle sue lezioni del martedì alla Salpêtri- ère, come il suo allievo Henri Meige nel 1893, aveva provveduto a trascrivere tale figura nel catalogo della nosografia psichiatrica, sotto le specie dell’Ostjuden “nevropatico viaggiatore”.
2. Per lo storico che si consacra a Freud e alla sua creazione, dunque, è essenziale occuparsi delle vicende e vicissitudini del fondatore della psicoanalisi, della ricostruzione dell’elaborazione di un sistema di pensiero, se sistema si dà, ma sempre sullo sfondo costituito dai grandi e piccoli eventi della storia del mondo, dall’a- pogeo e poi dal lento declino dell’impero austro-ungarico, alle tragedie della guerra, dall’ascesa dell’antisemitismo, all’avvento del nazismo, all’esilio finale a Londra. È infatti solo alla luce di tale quadro generale che diventano intelligibili le grandi instaurazioni discorsive avviate da Freud, dalla nuova logica dell’inconscio scoperta attraverso la decifrazione dei sogni, alle varie topiche, all’assegnazione di una posizione strutturale alla sessualità, al ten- tativo di elaborare una vera e propria “politica della psicoanalisi”, al tentativo finale di fornire una nuova modalità di comprensione della storia e del legame sociale tra gli uomini come genealogia indiretta del nazismo e dell’orrore che si preparava.
Il personaggio che ne emergerebbe sarebbe sicuramente una
figura paradossale, irriducibile comunque a quella dello scienzia-
to “di professione”. E lo stesso sforzo di costituire la psicoanalisi
come scienza, proprio perché costantemente ripreso e ricomin-
ciato a partire da sempre nuove ipotesi e nuove idee, risponde di
certo alla lucida consapevolezza di Freud, da un lato, della com-
plessità dell’oggetto – la struttura dello psichismo umano – tale
da poter rendere possibili solo delle approssimazioni asintotiche,
per quanto sempre guidate dallo sforzo del rigore concettuale e
della fedeltà ai dati dell’esperienza clinica. Dall’altro, dell’insepa-
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aut aut, 379 2018, 32-47Lo scandalo della pulsione di morte
MASSIMO RECALCATI
Una buona parte della nostra vita passa a turare i buchi, a riempire i vuoti, a realizzare e a fondare simbolicamente il pieno.
J.-P. Sartre, L’essere e il nulla
Atopia
L’identificazione della psicoanalisi alla peste con la quale Freud spiegava a Jung il carattere sovversivo della sua invenzione ruo- tava attorno al grande tema della sessualità. I corpi, sembra dire Freud, seguono senza compromessi la legge del loro godimento. Il carattere autenticamente inaudito della sua ricerca sulla sessualità umana non consiste nell’aver semplicemente rivelato l’esistenza di una sessualità infantile di tipo pregenitale, eccentrica a quella normata dal primato genitale, ma nell’aver ricondotto a quella sessualità e ai suoi più tenaci e preistorici fantasmi la sessualità della cosiddetta vita adulta.
Il punto non era tanto quello di aver rivelato l’esistenza di una sessualità infantile, ma di aver ricondotto a essa la sessuali- tà umana tout court; nell’aver pensato al carattere strutturalmen- te infantile, perverso-polimorfo, della sessualità in quanto ta- le. In questo senso Freud, come Socrate, secondo Lacan, por- ta nel cuore della città qualcosa che risulta radicalmente “ato- pico”, anarchico, inintegrabile nell’ordine canonico della polis, senza confine, letteralmente “senza posto”.
1Aver mostrato l’ir- ruenza costitutiva della pulsione sessuale nella costituzione del- la vita umana non poteva essere accettato dalla cultura borghe- se ed essa sarebbe fatalmente stata oggetto di discriminazione e di ripulsa, alimentando politiche securitarie di immunizzazione.
1. J. Lacan, Il seminario. Libro
VIII. Il transfert (1960-1961) (1991), a cura di A. Di
Ciaccia, Einaudi, Torino 2008, pp. 12-13.
In realtà il carattere eversivo della natura perverso-polimorfa della sessualità si è rivelato più facilmente integrabile di quello che si poteva immaginare. Il programma della civiltà ipermoder- na anziché fustigare, espellere, segregare il morbo sessuale sem- bra, infatti, averlo eletto a meta ideale di una vita che non cono- sce più inibizioni e limiti. In un modo impensato da Freud stes- so, il cosiddetto “sistema dei consumi” – nella diagnosi storica già presente nella Scuola di Francoforte e nel Pasolini corsaro – sembra aver perfettamente integrato il passo sovversivo del padre della psicoanalisi assumendo il carattere perverso-polimorfo del- la sessualità come luogo di una libertà del godimento finalmente affrancata dal peso oppressivo della Legge. La peste non si è ri- velata tale, ma ha dato vita all’ideologia della liberazione sessuale che ha ispirato non solo i movimenti giovanili degli anni sessanta- settanta e la giusta emancipazione della sessualità dall’oscuranti- smo delle ideologie religiose, ma è divenuta anche parte integran- te dell’attuale programma della civiltà ipermoderna capovolgen- dosi semmai in una nuova forma di oscurantismo dove il discor- so amoroso sembra totalmente surclassato dalla macchinizzazio- ne sospinta del godimento sessuale offerto senza più alcun tabù.
Lo sconcertante
La mia tesi è che ciò che è stato rimosso di Freud non concerne affatto il suo pensiero circa il carattere originariamente pregenitale della pulsione sessuale. Quello che oggi più che mai appare come radicalmente sconcertante del pensiero di Freud è piuttosto la figura del Todestrieb (pulsione di morte). Si tratta, com’è noto, dell’ultimo vertiginoso passo metapsicologico e clinico che egli porta a compimento in Al di là del principio di piacere.
In questo passo il programma ipermoderno della Civiltà è ob-
bligato a confrontarsi con qualcosa il cui carattere scabroso non
si lascia affatto integrare nella sua ideologia del benessere fonda-
ta sulla diffusione capillare dell’ideale edonistico del piacere. Se,
infatti, la vita umana – come ritiene questa ideologia – persegue
il proprio Bene e se il Bene nella sua versione più ordinaria vie-
ne ridotto al criterio elementare del più utile, se, in altre paro-
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le, il Bene è identificato all’utilitarismo del piacere, se, insomma, questa è la nuova bussola che ordina i comportamenti dell’esse- re umano nell’epoca ipermoderna, allora l’idea freudiana dell’e- sistenza di una vera e propria pulsione di morte non può che ri- sultare sconcertante.
Non a caso, quando Freud la introdusse negli schemi della sua metapsicologia suscitò grandi perplessità anche all’interno del movimento psicoanalitico che, salvo rare anche se significa- tive eccezioni – come quelle di Melanie Klein e Jacques Lacan –, respinse seccamente questa innovazione. Il ricorso alle vicissitu- dini biografiche del padre della psicoanalisi – la guerra, la per- dita dei figli, la vecchiaia, la malattia – ha decisamente prevalso con l’intento di sfilare questo concetto dal corpus della dottrina, considerandolo alla stregua di una vera e propria bizzarria teore- tica di un anziano provato dalla vita.
Pulsione vs istinto
Quello che viene rifiutato attraverso il quasi unanime rigetto della nozione di pulsione di morte è l’idea di Freud che esista nella vita una spinta a evitare la vita, un’aspirazione inconscia alla morte, a rifiutare se stessa, a chiudere l’apertura in cui la vita consiste.
Non è forse a questa tendenza alla chiusura che si può ricondurre il carattere regressivo e conservativo della pulsione di morte, la sua volontà “demoniaca”, come scrive Freud stesso, a ripristinare uno stato di vita precedente?
2Si tratta di una spinta enigmatica che in realtà attraversa tut- to il corpus teorico freudiano. Può davvero esistere qualcosa nell’ordine di una pulsione di morte? La vita che si protegge dal- la vita, che tende a conservare la vita sino al punto di perdere la vita, di rinunciare a se stessa, di rifiutare il suo stesso spasmo vitale, la sua esposizione alla vita, disgrega ogni rappresentazio- ne naturalistica dell’esistenza positiva di un “istinto di vita”. In realtà, in quella forma di vita che definiamo umana, non esiste né
2. S. Freud, Al di là del principio di piacere (1920), trad. di A.M. Marietti e R. Colorni,
in Opere, a cura di C.L. Musatti, vol.
IX, Boringhieri, Torino 1980, p. 222.
La zuppa di sasso.
Freud inassimilabile
FRANCESCO STOPPA
È quando non sono più niente che divengo un uomo?
Sofocle, Edipo a Colono
H o sempre pensato che la resistenza alla psicoanalisi non potesse avere a che fa- re con la (presunta) sessuofobia dei vien- nesi di fine Ottocento o con una più generale difficoltà a concepire l’esistenza di un inconscio. Credo invece che a metterci sulla stra- da e a mostrarci il punto realmente inassimilabile del pensiero freu- diano sia proprio una certa narrazione dell’umano tipica del nostro tempo. Mi riferisco alla moderna retorica delle differenze, che sul- la carta sembrerebbe sposare l’etica psicoanalitica ma che in real- tà non tiene affatto conto del punto da cui, in particolare in alcuni passaggi della sua opera, Freud interroga l’alterità di fondo, l’etero- topia della condizione umana.1 Questo genere di misconoscimen- to rientra nel vigente programma di edulcorazione dell’umano, pri- ma ancora che della psicoanalisi, e ha degli effetti sedativi a propo- sito di questioni non prive invece di una loro drammaticità. Sono le stesse che muovono il pensiero di Freud: il tema dell’origine, lo sta- tuto del bambino, del soggetto e dell’altro, la paternità.
In un’epoca desacralizzata come la nostra, dove i fatti e i sen- timenti vengono radiografati, immessi e diluiti nei circuiti comu- nicativi, la vita ha smesso di coglierci di sorpresa e spiazzarci, e un instancabile e zelante esercito di esperti del tempo, del mer-
1. “Le eterotopie inquietano, senz’altro perché minano segretamente il linguaggio, per-
ché vietano di nominare questo e quello, perché spezzano e aggrovigliano i luoghi comuni,
perché devastano anzi tempo la ‘sintassi’”. Cfr. M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeolo-
gia delle scienze umane (1966), trad. di E. Panaitescu, Rizzoli, Milano 1967, pp. 7-8.
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cato, delle relazioni, della politica, intercetta l’inatteso. Grazie al- la profilassi dei suoi tratti più intrattabili e spigolosi, la differen- za ha smarrito il suo smalto, l’aroma di selvatichezza, l’asperità e ruvidità che appartiene a tutto ciò che resiste alla pianificazio- ne del reale. La differenza è così diventata una più garbata “di- versità” dove le difformità si rimpallano l’un l’altra conferman- dosi reciprocamente.
2E se da un lato ogni forma di eterogenei- tà deve rientrare nel quadro di una generale armonizzazione del- le relazioni, dall’altro l’enfatizzazione delle diversità dà il via a una serie di querelle legate al riconoscimento di benefit e dirit- ti a vantaggio di questa o quella minoranza. Una simile bonifica del campo umano ci consente di bypassare il punto cieco della nostra identità, quello che alla psicoanalisi, come vedremo, non sfugge affatto e che le permette un approccio al tema dell’origine – da dove vengono i bambini? – per certi versi paradossale.
Non dissimile in questo dal migrante, il soggetto della psico- analisi è l’esito di una lacerazione realizzatasi all’interno dei suoi confini. Se il trauma della nascita mantiene qualcosa di prototipi- co dell’incontro mancato del vivente con se stesso, è in quanto, in un tempo antecedente all’entrata in scena dell’altro, vi si consuma l’esilio del bambino dal suo habitat naturale. Da allora ogni evento traumatico celebra il fuori luogo della comparsa del soggetto che, esposto allo smarrimento più totale, ha modo di cogliere la cadu- ta vertiginosa da cui è sorto e la differenza assoluta in cui si produ- ce. E come se non bastasse, in ogni incontro traumatico con la vi- ta, c’è un buco che si spalanca nell’Altro, in quello che per lui un attimo prima era il luogo della garanzia e dal quale ora non giunge più, invece, alcuna risposta. Veniamo in altre parole “buttati fuori dalla giostra del senso, dove tutto è scritto e funziona a dovere”.
3È evidente il misconoscimento operato da una società come la nostra nei confronti di una dimensione dell’umano così lontana
2. Per fare un esempio, la diversità dell’inglese o del francese non comportava alcun problema per un tedesco del periodo nazista, mentre ben altro era il confronto con la pro- blematica identità dell’ebreo, allora errante per definizione e privo di Stato o nazione.
3. P. Gomarasca, Con l’inchiostro e il pennello. Lacan e Shitao, Mimesis, Milano-Udi-
ne 2017, p. 58.
dall’ossessione della buona forma e inaccessibile a ogni visione del mondo. L’umano, infatti, cessa qui di avere attributi specifici, un volto e un nome. Si assenta, sembra non aver bisogno di pa- rametri di riferimento, interpreti o indovini. Ho usato “miscono- scimento” (Verleugnung
4) e non “rimozione” perché in verità l’i- nammissibile – la morte, la perdita, il dolore, l’abbandono – oggi è tutt’altro che celato o bandito, è invece ammesso tra noi di di- ritto, reso oggetto di infiniti dibattiti e analisi; non c’è giorno in cui non entri nei nostri salotti per essere vivisezionato, sondato, indagato. Tutt’altro che escluso alla vista, viene posto sotto i ri- flettori e spettacolarizzato, tiene banco e raccoglie un gran con- senso mediatico, come tutto ciò che, sterilizzato e omogeneizza- to, non può più contagiarci, ferirci, esporci alla notte (impossi- bile non rievocare qui la domanda che Freud, in vista di New York, rivolge a Jung a proposito della natura della psicoanalisi:
“Non sanno che portiamo loro la peste?”).
Va detto che il soggetto freudiano si muove all’interno di un’etica tragica che gli riserva un destino di derelizione rispetto a ogni ideale di felice coabitazione non solo con i suoi simili ma anche con sé, col proprio nome, immagine, ruolo o destino. Ora, nel diritto romano “derelizione” fa riferimento a una precisa in- tenzione del proprietario di un determinato bene di abbandonar- ne definitivamente il possesso. È una sfumatura interessante che ci confronta con un paradosso: perché l’essere parlante cerche- rebbe la sua realizzazione umana a discapito del proprio bisogno di agio, certezze e garanzie, nel superamento di ogni miraggio di adattamento, di naturale coesione con sé e col mondo?
C’è a questo proposito una scena che Lacan evoca in uno dei suoi scritti, il momento in cui il bambino, in un’età prossima al- la conquista dell’identità speculare, gioca a fare a pezzi la sua
4. Questo termine freudiano designa il meccanismo di difesa, peculiare della perver-
sione, che consiste nell’operare una scissione dell’io tale da far coesistere, in parallelo, un
certo tipo di giudizio e il suo contrario. Del tipo: “Certo, so che le cose stanno così, lo con-
stato e ne faccio anche argomento di dibattito (si pensi alla spettacolarizzazione mediatica
di eventi catastrofici), ma questo non mi tocca nel profondo e non mi impedisce di funzio-
nare a prescindere da tutto ciò”.
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aut aut, 379, 2018, 63-74