• Non ci sono risultati.

379/2018 Il Freud che abbiamo rimosso

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "379/2018 Il Freud che abbiamo rimosso"

Copied!
41
0
0

Testo completo

(1)

379

settembre 2018

Il Freud che abbiamo rimosso

IN FORMA DI PREMESSA

Pier Aldo Rovatti Freud addomesticato? 4 Mario Colucci Come se la psicoanalisi

non fosse mai esistita 10

Mauro Bertani Sull’utilità della storia

per la psicoanalisi 18

INTERVENTI

Massimo Recalcati Lo scandalo della pulsione

di morte 32

Francesco Stoppa La zuppa di sasso.

Freud inassimilabile 48

Ilaria Papandrea Ciò che disturba 63 Raoul Kirchmayr Memorie in rovina.

Su una metafora del tempo in Freud 75 Andrea Muni I “masochismi” che rimuoviamo 90 Alessandro Di Grazia Sarò Io? Gli svenimenti

di Freud 119

Antonello Sciacchitano Come si fa ricerca

in psicoanalisi 140

Élisabeth Roudinesco Freud e il regicidio:

elementi di una riflessione 155 Davide Radice Transfert e controtransfert 175 Mario Bottone La lingua (perduta) del sogno

nell’epoca delle neuroscienze 188

(2)

rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti

redazione: Sergia Adamo, Paulo Barone, Mauro Bertani, Graziella Berto, Beatrice Bonato, Deborah Borca (editing, deborah.borca@gmail.com), Damiano Cantone, Mario Colucci, Alessandro Dal Lago, Alessandro Di Grazia, Pierangelo Di Vittorio, Giovanna Gallio, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Andrea Muni, Massimiliano Nicoli, Ilaria Papandrea, Fabio Polidori, Pier Aldo Rovatti, Massimiliano Roveretto, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Stefano Tieri, Carla Troilo, Davide Zoletto

direzione: c/o il Saggiatore, via Melzo 9, 20129 Milano sito web: autaut.ilsaggiatore.com

ISSN

: 0005-0601

collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, R. Bodei, L. Boella, S. Borutti, J. Butler, M. Cacciari, A. Cavarero, R. De Biasi, M. Ferraris, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, A. Heller, F. Jullien, J.-L. Nancy, A. Prete, R. Prezzo, M. Serres, G.C. Spivak, G. Vattimo, P. Veyne, V. Vitiello, S. Žižek

per proposte di pubblicazione: autaut@ilsaggiatore.com

Si fa presente che “aut aut” non pubblica recensioni e non accetta testi di ampiezza superiore a 40.000 battute (note e spazi compresi).

il Saggiatore S.r.l.

via Melzo 9, 20129 Milano www.ilsaggiatore.com

ufficio stampa: stampa@ilsaggiatore.com

abbonamento 2018: Italia € 64,00, estero € 80,00 servizio abbonamenti e fascicoli arretrati:

Il Saggiatore S.r.l., via Melzo 9, 20129 Milano Telefono: 02 20230213

e-mail: abbonamentiautaut@ilsaggiatore.com

Registrazione del Tribunale di Milano n. 2232 in data 13.1.1951 Proprietà: Francesca Romana Paci

Stampa: Galli Thierry, Milano

Spedizione in abbonamento postale 45% art. 1, comma 1, decreto legge 353/03 convertito in legge 46/04 – Filiale di Milano.

Finito di stampare nell’agosto 2018

(3)

In forma di premessa

Quando abbiamo cominciato a discutere in redazione di questo fascicolo, con Antonello Sciacchitano e Mauro Bertani, avevamo pensato come titolo “Il ritorno di Freud”. Ma poi ci siamo chiesti: che cosa ritornerebbe? E perché alcuni temi che circoscrivono il nome di Freud sono rimasti come sepolti e dimenticati?

Così il titolo del fascicolo è diventato “Il Freud che abbiamo rimosso”, un titolo più impegnativo e meno generico che vorrebbe individuare un lavoro complesso di ricerca critica e di scavo culturale che qui abbiamo cercato di avviare.

I testi che aprono il fascicolo in forma di premessa potrebbero funzionare come dei cartelli indicatori utili ad aprire questa strada e a segnalarne l’agibilità. Il lettore di “aut aut”

non farà fatica a scorgervi tonalità e motivi che

da anni emergono nell’interesse che la rivista ha

dedicato al continente “psicoanalisi” e al ruolo

che ovviamente vi giocano il pensiero e la pratica

di Freud, un capitolo tutt’altro che archiviato in

cui ha agito e oggi soprattutto pare manifestarsi

un grumo di questioni “rimosse”.

(4)

4

aut aut, 379 2018, 4-9

Freud addomesticato?

PIER ALDO ROVATTI

F orse non c’è bisogno di andare a cercare zone nascoste del pensiero di Freud. Ciò che di questo pensiero ci turbava, ci per- turbava, quel lato che lui stesso indicava come un gioco rischioso tra famigliare ed estraneo (l’Unheimlichkeit), dove è finito? L’ab- biamo esplorato in ogni particolare fino a rimpatriarlo e a ren- derlo docile. Per esempio, la scomoda e quasi intrattabile que- stione della “padronanza”, di cui mi occuperò nelle prossime ri- ghe, è stata via via ammansita. Su di essa, come su altre questioni che ci interpellavano da vicino e ci provocavano, è stato eserci- tato un quasi totale addomesticamento. Non la vediamo più per- ché ormai è scomparsa dalla nostra vista.

In una battuta, potremmo dire che il Freud rimosso, che ab- biamo rimosso, è Freud semplicemente, un pensiero che oggi ri- sulta perlopiù devitalizzato, inerte, perfino banale. E allora credo che il nostro compito critico sia quello di tentare di far riemer- gere – valorizzando chi si è già messo su questa strada – la “stra- nezza” di ciò che è diventato ovvio e normale, a cominciare dal- le stesse parole chiave della psicoanalisi freudiana, come la paro- la “inconscio”, o la stessa parola “rimozione”, ma anche la paro- la “desiderio”, che adoperiamo quotidianamente come se fosse- ro pienamente maneggevoli.

Potrebbe aiutarci a capire la situazione in cui adesso ci tro-

viamo il richiamo a un curioso legame che congiunge l’avvenuta

normalizzazione di Freud alla preoccupazione espressa da Ber-

(5)

tolt Brecht nei confronti dell’ovvietà. “Ciò che è ovvio trovate- lo strano”, ripeteva nelle pièces didattiche e poi in tutto il suo teatro pensante, e in definitiva sempre. Freud e Brecht possono sembrarci lontanissimi, ma qui si intravvede una sorta di chia- smo. Se il pensiero di Freud ci appare ovvio ed è diventato mo- neta corrente, una cassetta di significanti dal significato sconta- to, abbiamo solo una chance perché continui a parlarci: ritrovare nella dilagante ovvietà il filo perduto della stranezza, riscoprire in questa falsa famigliarità l’estraneità che si porta dietro.

Ho chiamato in causa il consiglio “politico” di Brecht, ma po- tremmo anche servirci del consiglio “filosofico” della fenomeno- logia che ci spingerebbe a mettere tra parentesi l’ovvietà. Non incorreremmo in uno scivolamento intellettualistico se solo pen- sassimo come quest’ultimo consiglio (a mio parere già presente nello stesso Brecht) sia servito a Franco Basaglia per fare esplo- dere l’ovvietà dell’esistenza dei manicomi, connessa all’ovvietà che la malattia mentale si cura rinchiudendo il malato.

Ma entriamo nel merito del pensiero di Freud. Il caso emble- matico della non-padronanza di sé, e conseguentemente sugli al- tri, risulta sovvertito nell’idea che oggi circola, alimentata da un consenso culturale generalizzato. Accade, infatti, che attualmen- te ci stiamo comportando come se fosse ovvio che l’Io non è pa- drone di se stesso, e soprattutto come se fosse normale che que- sto costituisca un deficit soggettivo da colmare in un’epoca nel- la quale la prestazione vincente è l’ovvio obiettivo di un Io man- chevole alla perpetua ricerca del proprio perfezionamento.

E se, al contrario, la condizione di non-padronanza, messa in luce da Freud, fosse una condizione “paradossale”, doppia e in- trinsecamente contraddittoria? Qualcosa da cui difendersi quan- do tracima, ma alla quale comunque guardare come un’apertura di orizzonte? Questa “verità” più articolata e complessa è molto difficile da masticare quando ormai abbiamo digerito – in ogni ambito culturale – che occorre essere padroni di noi stessi pena la squalifica sociale. Ciò è talmente palese che non c’è neanche bisogno di portare esempi specifici a conferma.

Con altrettanta evidenza possiamo osservare che l’imperativo

(6)

10

aut aut, 379 2018, 10-17

Come se la psicoanalisi non fosse mai esistita

MARIO COLUCCI

I n un dialogo del 2001 con Élisabeth Rou- dinesco, Jacques Derrida s’interroga sul- la paura che continua a esercitare nella no- stra epoca la psicoanalisi:

1

in fondo, la “logica dell’inconscio” re- sta incompatibile con il “sistema” etico, giuridico e politico del- la nostra civiltà, tanto che le idee stesse di Bene, Diritto, Citta- dinanza, Stato, sembrano essersi costituite come un sistema di contenimento, una diga di protezione al fine di incanalare e con- trollare l’energia prorompente che ne deriva.

Se si prendesse sul serio la psicoanalisi – e qui Derrida ci fa ca- pire che questo in effetti non avviene –, se si cogliesse ciò che acca- de quando questa “minaccia sismica” transita all’interno delle no- stre società e di noi stessi, si verificherebbe un sovvertimento diffi- cilmente sostenibile per la nostra cultura e per la nostra soggettivi- tà. Nella quotidianità facciamo il contrario, “come se la psicoanali- si non fosse mai esistita”.

2

Anche se siamo convinti della necessità imprescindibile della rivoluzione e delle problematiche aperte dalla psicoanalisi, nella vita, nei discorsi quotidiani, nella nostra esperien- za sociale, ci comportiamo “come se niente fosse, […] come se, in fondo, credessimo ancora all’autorità dell’io, della coscienza e così via, riconoscendo come nostro il linguaggio di questa autonomia”.

3

1. J. Derrida. É. Roudinesco, Quale domani? (2001), trad. di G. Brivio, Bollati Borin- ghieri, Torino 2004, p. 246.

2. Ibidem.

3. Ibidem.

(7)

In queste poche parole, Derrida ci fa cogliere come la psico- analisi, al di là del successo di notorietà che le è stato attribuito in poco più di un secolo e al di là della sua volgarizzazione nel lessico e nell’immaginario di molti, susciti ancora un’enorme “resistenza”

e non sia davvero penetrata nella percezione comune quale forza travolgente e potenzialmente rivoluzionaria per la nostra cultura e la nostra etica. Il Freud che abbiamo “rimosso” è della stessa natu- ra dell’inconscio, qualcosa che fa scandalo e sovverte la civiltà. Ed è forse per questo che la civiltà, e talvolta paradossalmente anche la stessa psicoanalisi, cercano volentieri di farne a meno.

Quale sarebbe l’idea di inconscio, di cui parla Derrida, che ri- sulta così incompatibile con il “sistema” da fare ancora paura? For- se è la classica immagine di un’istintualità selvaggia e ingovernabi- le, refrattaria a qualsiasi norma e linguaggio e inassimilabile all’i- dea stessa di Bene e Diritto? La negazione dell’autorità dell’Io e la caduta del primato della coscienza porterebbero a una perdita di controllo sulla pulsione e a un trionfo dell’irrazionalismo. Va detto che si tratta di una lettura dell’opera di Freud che appartiene alla stagione degli esordi e che, a ben pensarci, non dovrebbe più inti- morire nessuno, in questa epoca affascinata dall’effrazione alla leg- ge, dall’oltrepassamento di ogni limite e dal comportamento tra- sgressivo come vie per sottrarsi al dominio della grigia razionali- tà. Eppure, è una lettura che non è mai stata del tutto accantonata, se si pensa a quanto la psicoanalisi nella sua storia si sia spesa nel tentativo di rassicurare i suoi detrattori, costruendo la sua pratica clinica sull’immagine di un’operazione di bonifica dell’Es da parte dell’Io, come ribadito dall’Ego Psychology. Il ripristino della fun- zione di padronanza dell’Io, inteso come rappresentante della real- tà, avrebbe il compito di arginare le pulsioni dell’Es e permettere l’adattamento dell’individuo a questa stessa realtà.

Sappiamo quanto Lacan abbia avversato questa tesi, rove- sciando diametralmente la lettura postfreudiana del Wo Es war, soll Ich werden:

4

non si tratta di prosciugare lo Zuiderzee o co-

4. S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni) (1932), trad. di M. To-

nin Dogana e E. Sagittario, in Opere, vol.

XI

, Boringhieri, Torino 1979, p. 190.

(8)

12

struire dighe per impedire l’arrivo dell’acqua dell’inconscio, l’Io non è la roccia solitaria contro i flutti, né la terra asciutta che deve bonificare la palude dell’Es. Alla nozione di Io Lacan pre- ferisce quella di soggetto, soggetto che deve accadere nel luogo dell’inconscio come soggetto di desiderio; e l’inconscio, più che avere una forma minacciosamente liquida, è strutturato come un linguaggio con proprie rigorose regole di funzionamento, a par- tire dalle quali, negli intervalli della catena dei suoi significanti, potrà dirsi qualcosa attorno al soggetto.

È evidente quanto questa intuizione lacaniana renda il quadro più complesso. Tuttavia, già per Freud l’inconscio è un linguag- gio: linguaggio che si presta a una cifratura e la cui struttura è quella del codice che va decrittato attraverso il lavoro dell’inter- pretazione. Freud non è un esploratore come Cristoforo Colom- bo alla conquista di un continente sconosciuto; è piuttosto un decifratore di simboli come Jean-François Champollion alle pre- se con i geroglifici dell’antico Egitto. “Freud non ha soltanto ra- zionalizzato quel che fino a quel momento aveva resistito alla ra- zionalizzazione”, afferma Lacan, “ha anche messo in luce una ve- ra e propria ragione ragionante, che ragionava e funzionava se- condo una logica all’insaputa del soggetto, e ciò nel campo clas- sico dell’irrazionalismo, il campo della passione, per così dire.”

5

Proporre una logica linguistica dell’inconscio significa soste- nere che “qualcosa parla e funziona in modo altrettanto elabo- rato che a livello del conscio, il quale perde così ciò che sembra- va essere il suo privilegio”.

6

Ulteriore scandalo della psicoanali- si che così ordisce inaspettatamente l’attentato più forte al cogi- to cartesiano: se c’è una razionalità da rintracciare nell’inconscio, ossia in ciò che per il sistema appartiene al campo senza logica e senza senso delle passioni, che cosa ne sarà mai allora della logi- ca tout court?

5. J. Lacan, Intervista (1957), trad. di P. Feliciotti e R.A. Gentile, “La Psicoanalisi”, 10, 1991, p. 10.

6. Id., Il seminario. Libro

XI

. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964)

(1973), testo stabilito da J.-A. Miller, ed. it. a cura di A. Di Ciaccia, trad. di A. Succetti, Ei-

naudi, Torino 2003, p. 25.

(9)

Sull’utilità della storia per la psicoanalisi

MAURO BERTANI

1. Se, come ha detto un giorno Jacques La- can, “il pensiero di Freud è la sua espe- rienza”, lo storico che si accosta alla creazione del fondatore della psicoanalisi dovrà allora conclu- derne che è stata sicuramente parte integrante, e nient’affat- to secondaria, di quel pensiero, l’esperienza della cultura e del- la condizione ebraica, ma che lo è stata, almeno altrettanto, an- che quella dell’antisemitismo. Senza doversi spingere a sostenere che, fino alla fine, Freud non abbia fatto che “pensare alla storia di Mosè e alla religione dei suoi padri”, è indubbio che la storia biblica, appresa attraverso la Bibbia curata dai fratelli Philippson e donatagli dal padre, abbia avuto un’importanza decisiva nel- la formazione intellettuale e “spirituale” del giovane Freud. Co- me ha inciso l’esperienza stessa della condizione ebraica: l’esilio, l’erranza, “l’assenza di terra”, come aveva detto Hegel, il noma- dismo, la Diaspora. E come ha contato quella che è stata chiama- ta la pratica della “lettura infinita” come tratto distintivo del rap- porto del popolo ebraico con la parola e il testo, i testi. Ed è al- trettanto certo che tutto ciò (e altro ancora, dalla cerchia degli amici e collaboratori più fedeli, all’appartenenza al B’nai B’rith, e così via) si sia riversato nella successiva elaborazione del pro- getto psicoanalitico.

Ma non si deve dimenticare che almeno altrettanto ha pesa-

to, appunto, l’esperienza dell’antisemitismo. È sempre fonte di

stupore, per lo storico, constatare il costante riprodursi di una

(10)

19

serie di atti d’accusa nei confronti di Freud e della sua creazio- ne, e una delle più ricorrenti e insistenti, per quanto giustifica- ta con motivazioni e argomentazioni sempre diverse, è quella di non essere “una scienza” o, in termini ancor più squalificanti, nelle intenzioni di chi la formulava, di essere al più una “scien- za ebraica”. A partire dai rilievi critici nei confronti della psico- analisi mossi dai colleghi di Freud all’Università di Vienna, co- me per esempio Julius Wagner-Jauregg, che finirà la sua carriera aderendo alla Nsdap. O Alexander Pilcz, nel cui manuale Beitrag zur vergleichenden Rassen-Psychiatrie, uscito a Lipsia nel 1906 (e su cui si formeranno generazioni di psichiatri), Freud potrà leg- gere della fortissima “predisposizione della razza ebraica all’iste- ria” e della particolare diffusione tra gli ebrei della dementia pra- ecox, e insomma l’ennesimo aggiornamento, pretesamente scien- tifico, del tema antico della “malattia giudaica” che tanto impor- tante sarà per i nazisti.

Si dirà che anche quella di Wagner-Jauregg, Pilcz (o Buschan, o Hoppe, o Kraepelin, o mille altri, che riprenderanno le stesse tesi) era una pseudoscienza. Ma non così era considerata all’epo- ca, e in ogni caso essa produrrà effetti, discorsivi e non discorsi- vi, ben reali, ed è questo ciò che per lo storico conta. Se Freud, nonostante la decisione precoce di rompere con le credenze e i riti della tradizione rabbinica, potrà ripetutamente dichiarare di essere rimasto, lui e i suoi figli, di confessione ebraica (“abbia- mo tutti conservato la confessione ebraica”: “wir sind alle in der jüdischen Konfession verblieben”), e addirittura, come dirà nel- la Selbstdarstellung, di essere “rimasto ebreo”, è perché gli ebrei

“hanno sempre tenuto nella massima stima le opere e i valori spi-

rituali” (“sie haben geistige Leistung und Interessen immer hoch

eingeschätzt”), e si battono per assicurare – come ha inteso fa-

re, sia pure in altre forme, la psicoanalisi – “der Fortschriftt in

der Geistigkeit”, “il progresso della spiritualità”. Così intitole-

rà il paragrafo C del secondo capitolo del terzo saggio del Mosè,

letto da Anna al Congresso internazionale di Parigi nell’agosto

del 1938, allorché stava per entrare a pieno regime la lotta mor-

tale ingaggiata dal nazionalsocialismo contro l’ebraismo.

(11)

E se infine, al momento di risolversi a partire per Londra, po- trà rivendicare una qualche identificazione con Ahasverus, figura matriciale dell’“ebreo errante” – “è tempo che Ahasverus trovi da qualche parte riposo”, scriverà al figlio Ernst –, non dobbia- mo dimenticare che nella cerchia di Charcot, tanti anni prima, vi era stato chi, a partire dalle sue lezioni del martedì alla Salpêtri- ère, come il suo allievo Henri Meige nel 1893, aveva provveduto a trascrivere tale figura nel catalogo della nosografia psichiatrica, sotto le specie dell’Ostjuden “nevropatico viaggiatore”.

2. Per lo storico che si consacra a Freud e alla sua creazione, dunque, è essenziale occuparsi delle vicende e vicissitudini del fondatore della psicoanalisi, della ricostruzione dell’elaborazione di un sistema di pensiero, se sistema si dà, ma sempre sullo sfondo costituito dai grandi e piccoli eventi della storia del mondo, dall’a- pogeo e poi dal lento declino dell’impero austro-ungarico, alle tragedie della guerra, dall’ascesa dell’antisemitismo, all’avvento del nazismo, all’esilio finale a Londra. È infatti solo alla luce di tale quadro generale che diventano intelligibili le grandi instaurazioni discorsive avviate da Freud, dalla nuova logica dell’inconscio scoperta attraverso la decifrazione dei sogni, alle varie topiche, all’assegnazione di una posizione strutturale alla sessualità, al ten- tativo di elaborare una vera e propria “politica della psicoanalisi”, al tentativo finale di fornire una nuova modalità di comprensione della storia e del legame sociale tra gli uomini come genealogia indiretta del nazismo e dell’orrore che si preparava.

Il personaggio che ne emergerebbe sarebbe sicuramente una

figura paradossale, irriducibile comunque a quella dello scienzia-

to “di professione”. E lo stesso sforzo di costituire la psicoanalisi

come scienza, proprio perché costantemente ripreso e ricomin-

ciato a partire da sempre nuove ipotesi e nuove idee, risponde di

certo alla lucida consapevolezza di Freud, da un lato, della com-

plessità dell’oggetto – la struttura dello psichismo umano – tale

da poter rendere possibili solo delle approssimazioni asintotiche,

per quanto sempre guidate dallo sforzo del rigore concettuale e

della fedeltà ai dati dell’esperienza clinica. Dall’altro, dell’insepa-

(12)

32

aut aut, 379 2018, 32-47

Lo scandalo della pulsione di morte

MASSIMO RECALCATI

Una buona parte della nostra vita passa a turare i buchi, a riempire i vuoti, a realizzare e a fondare simbolicamente il pieno.

J.-P. Sartre, L’essere e il nulla

Atopia

L’identificazione della psicoanalisi alla peste con la quale Freud spiegava a Jung il carattere sovversivo della sua invenzione ruo- tava attorno al grande tema della sessualità. I corpi, sembra dire Freud, seguono senza compromessi la legge del loro godimento. Il carattere autenticamente inaudito della sua ricerca sulla sessualità umana non consiste nell’aver semplicemente rivelato l’esistenza di una sessualità infantile di tipo pregenitale, eccentrica a quella normata dal primato genitale, ma nell’aver ricondotto a quella sessualità e ai suoi più tenaci e preistorici fantasmi la sessualità della cosiddetta vita adulta.

Il punto non era tanto quello di aver rivelato l’esistenza di una sessualità infantile, ma di aver ricondotto a essa la sessuali- tà umana tout court; nell’aver pensato al carattere strutturalmen- te infantile, perverso-polimorfo, della sessualità in quanto ta- le. In questo senso Freud, come Socrate, secondo Lacan, por- ta nel cuore della città qualcosa che risulta radicalmente “ato- pico”, anarchico, inintegrabile nell’ordine canonico della polis, senza confine, letteralmente “senza posto”.

1

Aver mostrato l’ir- ruenza costitutiva della pulsione sessuale nella costituzione del- la vita umana non poteva essere accettato dalla cultura borghe- se ed essa sarebbe fatalmente stata oggetto di discriminazione e di ripulsa, alimentando politiche securitarie di immunizzazione.

1. J. Lacan, Il seminario. Libro

VIII

. Il transfert (1960-1961) (1991), a cura di A. Di

Ciaccia, Einaudi, Torino 2008, pp. 12-13.

(13)

In realtà il carattere eversivo della natura perverso-polimorfa della sessualità si è rivelato più facilmente integrabile di quello che si poteva immaginare. Il programma della civiltà ipermoder- na anziché fustigare, espellere, segregare il morbo sessuale sem- bra, infatti, averlo eletto a meta ideale di una vita che non cono- sce più inibizioni e limiti. In un modo impensato da Freud stes- so, il cosiddetto “sistema dei consumi” – nella diagnosi storica già presente nella Scuola di Francoforte e nel Pasolini corsaro – sembra aver perfettamente integrato il passo sovversivo del padre della psicoanalisi assumendo il carattere perverso-polimorfo del- la sessualità come luogo di una libertà del godimento finalmente affrancata dal peso oppressivo della Legge. La peste non si è ri- velata tale, ma ha dato vita all’ideologia della liberazione sessuale che ha ispirato non solo i movimenti giovanili degli anni sessanta- settanta e la giusta emancipazione della sessualità dall’oscuranti- smo delle ideologie religiose, ma è divenuta anche parte integran- te dell’attuale programma della civiltà ipermoderna capovolgen- dosi semmai in una nuova forma di oscurantismo dove il discor- so amoroso sembra totalmente surclassato dalla macchinizzazio- ne sospinta del godimento sessuale offerto senza più alcun tabù.

Lo sconcertante

La mia tesi è che ciò che è stato rimosso di Freud non concerne affatto il suo pensiero circa il carattere originariamente pregenitale della pulsione sessuale. Quello che oggi più che mai appare come radicalmente sconcertante del pensiero di Freud è piuttosto la figura del Todestrieb (pulsione di morte). Si tratta, com’è noto, dell’ultimo vertiginoso passo metapsicologico e clinico che egli porta a compimento in Al di là del principio di piacere.

In questo passo il programma ipermoderno della Civiltà è ob-

bligato a confrontarsi con qualcosa il cui carattere scabroso non

si lascia affatto integrare nella sua ideologia del benessere fonda-

ta sulla diffusione capillare dell’ideale edonistico del piacere. Se,

infatti, la vita umana – come ritiene questa ideologia – persegue

il proprio Bene e se il Bene nella sua versione più ordinaria vie-

ne ridotto al criterio elementare del più utile, se, in altre paro-

(14)

34

le, il Bene è identificato all’utilitarismo del piacere, se, insomma, questa è la nuova bussola che ordina i comportamenti dell’esse- re umano nell’epoca ipermoderna, allora l’idea freudiana dell’e- sistenza di una vera e propria pulsione di morte non può che ri- sultare sconcertante.

Non a caso, quando Freud la introdusse negli schemi della sua metapsicologia suscitò grandi perplessità anche all’interno del movimento psicoanalitico che, salvo rare anche se significa- tive eccezioni – come quelle di Melanie Klein e Jacques Lacan –, respinse seccamente questa innovazione. Il ricorso alle vicissitu- dini biografiche del padre della psicoanalisi – la guerra, la per- dita dei figli, la vecchiaia, la malattia – ha decisamente prevalso con l’intento di sfilare questo concetto dal corpus della dottrina, considerandolo alla stregua di una vera e propria bizzarria teore- tica di un anziano provato dalla vita.

Pulsione vs istinto

Quello che viene rifiutato attraverso il quasi unanime rigetto della nozione di pulsione di morte è l’idea di Freud che esista nella vita una spinta a evitare la vita, un’aspirazione inconscia alla morte, a rifiutare se stessa, a chiudere l’apertura in cui la vita consiste.

Non è forse a questa tendenza alla chiusura che si può ricondurre il carattere regressivo e conservativo della pulsione di morte, la sua volontà “demoniaca”, come scrive Freud stesso, a ripristinare uno stato di vita precedente?

2

Si tratta di una spinta enigmatica che in realtà attraversa tut- to il corpus teorico freudiano. Può davvero esistere qualcosa nell’ordine di una pulsione di morte? La vita che si protegge dal- la vita, che tende a conservare la vita sino al punto di perdere la vita, di rinunciare a se stessa, di rifiutare il suo stesso spasmo vitale, la sua esposizione alla vita, disgrega ogni rappresentazio- ne naturalistica dell’esistenza positiva di un “istinto di vita”. In realtà, in quella forma di vita che definiamo umana, non esiste né

2. S. Freud, Al di là del principio di piacere (1920), trad. di A.M. Marietti e R. Colorni,

in Opere, a cura di C.L. Musatti, vol.

IX

, Boringhieri, Torino 1980, p. 222.

(15)

La zuppa di sasso.

Freud inassimilabile

FRANCESCO STOPPA

È quando non sono più niente che divengo un uomo?

Sofocle, Edipo a Colono

H o sempre pensato che la resistenza alla psicoanalisi non potesse avere a che fa- re con la (presunta) sessuofobia dei vien- nesi di fine Ottocento o con una più generale difficoltà a concepire l’esistenza di un inconscio. Credo invece che a metterci sulla stra- da e a mostrarci il punto realmente inassimilabile del pensiero freu- diano sia proprio una certa narrazione dell’umano tipica del nostro tempo. Mi riferisco alla moderna retorica delle differenze, che sul- la carta sembrerebbe sposare l’etica psicoanalitica ma che in real- tà non tiene affatto conto del punto da cui, in particolare in alcuni passaggi della sua opera, Freud interroga l’alterità di fondo, l’etero- topia della condizione umana.

1

Questo genere di misconoscimen- to rientra nel vigente programma di edulcorazione dell’umano, pri- ma ancora che della psicoanalisi, e ha degli effetti sedativi a propo- sito di questioni non prive invece di una loro drammaticità. Sono le stesse che muovono il pensiero di Freud: il tema dell’origine, lo sta- tuto del bambino, del soggetto e dell’altro, la paternità.

In un’epoca desacralizzata come la nostra, dove i fatti e i sen- timenti vengono radiografati, immessi e diluiti nei circuiti comu- nicativi, la vita ha smesso di coglierci di sorpresa e spiazzarci, e un instancabile e zelante esercito di esperti del tempo, del mer-

1. “Le eterotopie inquietano, senz’altro perché minano segretamente il linguaggio, per-

ché vietano di nominare questo e quello, perché spezzano e aggrovigliano i luoghi comuni,

perché devastano anzi tempo la ‘sintassi’”. Cfr. M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeolo-

gia delle scienze umane (1966), trad. di E. Panaitescu, Rizzoli, Milano 1967, pp. 7-8.

(16)

49

cato, delle relazioni, della politica, intercetta l’inatteso. Grazie al- la profilassi dei suoi tratti più intrattabili e spigolosi, la differen- za ha smarrito il suo smalto, l’aroma di selvatichezza, l’asperità e ruvidità che appartiene a tutto ciò che resiste alla pianificazio- ne del reale. La differenza è così diventata una più garbata “di- versità” dove le difformità si rimpallano l’un l’altra conferman- dosi reciprocamente.

2

E se da un lato ogni forma di eterogenei- tà deve rientrare nel quadro di una generale armonizzazione del- le relazioni, dall’altro l’enfatizzazione delle diversità dà il via a una serie di querelle legate al riconoscimento di benefit e dirit- ti a vantaggio di questa o quella minoranza. Una simile bonifica del campo umano ci consente di bypassare il punto cieco della nostra identità, quello che alla psicoanalisi, come vedremo, non sfugge affatto e che le permette un approccio al tema dell’origine – da dove vengono i bambini? – per certi versi paradossale.

Non dissimile in questo dal migrante, il soggetto della psico- analisi è l’esito di una lacerazione realizzatasi all’interno dei suoi confini. Se il trauma della nascita mantiene qualcosa di prototipi- co dell’incontro mancato del vivente con se stesso, è in quanto, in un tempo antecedente all’entrata in scena dell’altro, vi si consuma l’esilio del bambino dal suo habitat naturale. Da allora ogni evento traumatico celebra il fuori luogo della comparsa del soggetto che, esposto allo smarrimento più totale, ha modo di cogliere la cadu- ta vertiginosa da cui è sorto e la differenza assoluta in cui si produ- ce. E come se non bastasse, in ogni incontro traumatico con la vi- ta, c’è un buco che si spalanca nell’Altro, in quello che per lui un attimo prima era il luogo della garanzia e dal quale ora non giunge più, invece, alcuna risposta. Veniamo in altre parole “buttati fuori dalla giostra del senso, dove tutto è scritto e funziona a dovere”.

3

È evidente il misconoscimento operato da una società come la nostra nei confronti di una dimensione dell’umano così lontana

2. Per fare un esempio, la diversità dell’inglese o del francese non comportava alcun problema per un tedesco del periodo nazista, mentre ben altro era il confronto con la pro- blematica identità dell’ebreo, allora errante per definizione e privo di Stato o nazione.

3. P. Gomarasca, Con l’inchiostro e il pennello. Lacan e Shitao, Mimesis, Milano-Udi-

ne 2017, p. 58.

(17)

dall’ossessione della buona forma e inaccessibile a ogni visione del mondo. L’umano, infatti, cessa qui di avere attributi specifici, un volto e un nome. Si assenta, sembra non aver bisogno di pa- rametri di riferimento, interpreti o indovini. Ho usato “miscono- scimento” (Verleugnung

4

) e non “rimozione” perché in verità l’i- nammissibile – la morte, la perdita, il dolore, l’abbandono – oggi è tutt’altro che celato o bandito, è invece ammesso tra noi di di- ritto, reso oggetto di infiniti dibattiti e analisi; non c’è giorno in cui non entri nei nostri salotti per essere vivisezionato, sondato, indagato. Tutt’altro che escluso alla vista, viene posto sotto i ri- flettori e spettacolarizzato, tiene banco e raccoglie un gran con- senso mediatico, come tutto ciò che, sterilizzato e omogeneizza- to, non può più contagiarci, ferirci, esporci alla notte (impossi- bile non rievocare qui la domanda che Freud, in vista di New York, rivolge a Jung a proposito della natura della psicoanalisi:

“Non sanno che portiamo loro la peste?”).

Va detto che il soggetto freudiano si muove all’interno di un’etica tragica che gli riserva un destino di derelizione rispetto a ogni ideale di felice coabitazione non solo con i suoi simili ma anche con sé, col proprio nome, immagine, ruolo o destino. Ora, nel diritto romano “derelizione” fa riferimento a una precisa in- tenzione del proprietario di un determinato bene di abbandonar- ne definitivamente il possesso. È una sfumatura interessante che ci confronta con un paradosso: perché l’essere parlante cerche- rebbe la sua realizzazione umana a discapito del proprio bisogno di agio, certezze e garanzie, nel superamento di ogni miraggio di adattamento, di naturale coesione con sé e col mondo?

C’è a questo proposito una scena che Lacan evoca in uno dei suoi scritti, il momento in cui il bambino, in un’età prossima al- la conquista dell’identità speculare, gioca a fare a pezzi la sua

4. Questo termine freudiano designa il meccanismo di difesa, peculiare della perver-

sione, che consiste nell’operare una scissione dell’io tale da far coesistere, in parallelo, un

certo tipo di giudizio e il suo contrario. Del tipo: “Certo, so che le cose stanno così, lo con-

stato e ne faccio anche argomento di dibattito (si pensi alla spettacolarizzazione mediatica

di eventi catastrofici), ma questo non mi tocca nel profondo e non mi impedisce di funzio-

nare a prescindere da tutto ciò”.

(18)

63

aut aut, 379, 2018, 63-74

Ciò che disturba

ILARIA PAPANDREA

“M i sembra che noi diamo troppa im- portanza ai sintomi e ci preoccupia- mo troppo poco della loro provenien- za. Nell’educazione dei bambini noi badiamo soprattutto a es- sere lasciati in pace, a non avere difficoltà, insomma a fare di ognuno di essi un ‘bimbo bene educato’, curandoci assai poco di sapere se la disciplina a cui l’assoggettiamo giovi anche a lui op- pure no.”

1

“Essere lasciati in pace” potrebbe essere lo slogan del discor- so sociale contemporaneo, il cui risvolto imperativo suona come ingiunzione a “eliminare tutto ciò che disturba”.

Il sintomo è solo un disturbo, l’irrequietezza di un bambino è un disturbo, la malattia, la vecchiaia e tutto quanto ci rende po- co performanti sono disturbi, e disturbo, disorder, è anche tutto ciò che minaccia il sempre più invocato ordine sociale: i migran- ti, i matti, i poveri, le donne (se queste potessero mai costituire un insieme).

Quando Freud ha dato vita a quel nuovo discorso che porta il nome di psicoanalisi la sua preoccupazione era di poter accoglie- re i resti del discorso medico, di far parlare le isteriche, di inte- ressarsi alla provenienza di certi sintomi bizzarri che perturbava-

1. S. Freud, Analisi della fobia di un bambino di cinque anni (caso clinico del piccolo

Hans) (1908), trad. di M. Lucentini, in Opere, a cura di C.L. Musatti, vol.

V

, Boringhieri,

Torino 1972, p. 585.

(19)

no l’ordine del corpo anatomico. Supporre l’esistenza di un sog- getto che potesse rispondere di quel che gli accade e della soffe- renza di cui si lamenta è stata la mossa di apertura di una partita in cui a essere soggetto non era più il medico, ma colei che fino a un attimo prima era stata l’oggetto refrattario e intrattabile del- la psichiatria.

Fin dall’inizio ho esercitato l’ipnosi per uno scopo che nulla aveva a che fare con la suggestione ipnotica. Mi sono avvalso dell’ipnosi per interrogare il malato sulla genesi dei suoi sinto- mi, genesi sulla quale nello stato di veglia egli non era spesso in grado di dire alcunché. Questo procedimento non solo si rivelò più efficace del mero comando o divieto, ma aveva inoltre il vantaggio di offrire soddisfazione alla brama di sapere del medi- co, che dopo tutto aveva il diritto di apprendere qualcosa circa l’origine di quel fenomeno che cercava di eliminare mediante il monotono procedimento della suggestione.

2

Freud pesca dalla cassetta degli attrezzi del suo tempo, la suggestio- ne con i suoi comandi e i suoi effetti di potere, ma il procedimento è monotono, mono tono, potremmo dire, perché la sola voce che si ascolta è quella di colui che ordina al paziente in stato ipnoide di che cosa si deve sbarazzare se vuole tornare a essere conforme. C’è da perdere un più di godimento, qualcosa di dissonante rispetto alla norma stabilita, una sorta di escrescenza che fa la difformità dall’ideale.

Girava, a quel tempo, in un certo modo “il disco(rso)cor- rente”,

3

quel disque-ourcourant, come lo chiama Jacques Lacan, che è fatto per impartirci il ritornello che dovremmo cantare per far un buon uso del nostro corpo. E il disco gira, e gira ancora, perché non c’è verso di scriverlo, questo buon uso, niente che ne tracci i solchi sulla base di un qualche istinto preformato. Ma se

2. Id., Autobiografia (1924), trad. di R. Colorni, in Opere, vol.

X

, Boringhieri, Torino 1978, p. 87.

3. J. Lacan, Il seminario. Libro

XX

. Ancora (1972-1973) (1975), a cura di A. Di Ciaccia,

Einaudi, Torino 2011, p. 33.

(20)

65

non smette di girare, non si può dire che giri sempre allo stesso modo.

C’era una volta… – come iniziano tutte le favole che si rispet- tano – un mondo in cui la canzone da cantare era quella in cui il ragazzo e la ragazza erano fatti l’uno per l’altra come il filo per l’ago,

4

in cui il bambino imparava dal padre ad aspettare che fosse il proprio turno per godersi, con un’altra donna, i piaceri che lui si godeva con la madre, e in cui la bambina, con qualche complicazione in più, doveva solo aspettare di trovare nel figlio che avrebbe avuto il sostituto di quel che le mancava.

Gira che ti rigira la si cantava tutti la canzone, al punto di fi- nire per prendere per “naturale” quello che era “normativo”.

5

Lo stesso Freud era incappato nel pregiudizio della “naturalez- za”, faticando a riconoscere che la “prevalenza del personaggio paterno”

6

nella scenetta dell’Edipo era una norma e nient’altro, qualcosa che di lì a poco avrebbe perso il suo smalto e il suo vi- gore, non senza la spallata che una certa psicoanalisi – più fe- dele all’enunciazione di Freud che ai suoi enunciati – gli avreb- be dato.

C’era una volta un certo prevalere dell’ideale, un dover esse- re così come norma-natura vuole, che indicava la strada maestra in modo chiaro e netto. Si poteva imboccarla oppure no. Non si poteva, sarebbe meglio dire, che imboccarla ciascuno a pro- prio modo, perché quando si canta un ritornello occorre metter- ci la propria voce e la propria carne, o forse, per essere più esat- ti, si è chiamati, nell’accordarsi con la norma che dà il la, a per- dere almeno “una libbra di carne”,

7

a pagare il biglietto d’entra- ta in quell’ordine, chiamiamolo simbolico, che ripartisce i posti e organizza i godimenti. In un mondo sorretto dall’ideale, il bi- glietto d’entrata è il costo che si paga per avere un modello da

4. Cfr. Id., “Intervento sul transfert” (1951), in Scritti, a cura di G.B. Contri, Einaudi, Torino 1974, vol.

I

, p. 216.

5. Ibidem.

6. Ibidem.

7. Id., Il seminario. Libro

X

. L’angoscia (1962-1963) (2004), a cura di A. Di Ciaccia, Ei-

naudi, Torino 2007, p. 238. Si veda anche Id., “La direzione della cura” (1958), in Scritti,

cit., vol.

II

, p. 625.

(21)

Memorie in rovina. Su una metafora del tempo in Freud

RAOUL KIRCHMAYR

1. Disturbi della memoria

In una piccola antologia di testi usciti quindici anni fa e inti- tolata Rovine e macerie, l’antropologo Marc Augé inanellava una serie di riflessioni sul senso del tempo, frutto di esperienze sul campo e orientate verso un’esperienza di ciò che egli aveva deciso di chiamare “tempo puro”. Per Augé il paesaggio della contemporaneità è costellato di rovine, antiche e recenti, e uno dei compiti che l’antropologia si è assegnata è di rendere con- to di tale spettacolo, compiendo un’operazione memoriale di inventariazione delle forme della cultura. La vista delle rovine fornisce dunque all’osservatore l’accesso, indiretto e problema- tico, a questo tempo.

1

Le descrizioni di Augé, alcune indubbiamente suggestive, si indirizzano verso la ricerca di un’esperienza fugace, scaturi- ta dalla contemplazione della rovina come segno sensibile del trascorrere del tempo. È un’esperienza estetica in senso stretto:

proprio perché questo “tempo puro” si dà sensibilmente, l’arte – in quanto “prossima alle rovine”

2

– è in grado di poterlo ritrova- re. Inoltre, il tratto distintivo del “tempo puro” è di essere “sen- za storia”.

3

Augé conduce infatti le sue descrizioni tenendo fer- ma la barra di un dualismo strutturale tra il tempo storico da una

1. Cfr. M. Augé, Rovine e macerie. Il senso del tempo (2003), trad. di A. Serafini, Bolla- ti Boringhieri, Torino 2004, p. 8.

2. Ivi, p. 23.

3. Ivi, pp. 38 e 94-95.

(22)

76

parte e il tempo puro ed extra-storico dall’altra,

4

postulando che quest’ultimo possa essere colto partendo dal tempo storico ma anche, necessariamente, uscendo da esso. La rovina sarebbe una sorta di guida verso questa dimensione pura del tempo.

In alternativa a una ricerca che, quanto a ispirazione, pare ri- mandare quanto meno retoricamente a Proust, ci collocheremo in una prospettiva speculare e opposta, secondo la quale la meta- fora della rovina, ben lungi dal condurci su un piano extra-stori- co al quale il “tempo puro” apparterrebbe, ci permette invece di cogliere l’esistenza di un tempo impuro, sedimentato, stratificato, ritmico e non lineare. Avendo Freud fatto ricorso in più luoghi della sua opera alla metafora delle rovine – che per lui si unisce metodologicamente a un’analogia, quella tra archeologia e psico- analisi – ritornare su questo tema significa per ciò stesso consi- derare come ancora problematico e fecondo l’intreccio tra la me- moria, l’oblio e il tempo che la psicoanalisi pone e mette in que- stione. È a partire da questo intreccio che interrogheremo alcuni luoghi circoscritti del testo di Freud per orientarci verso un con- cetto di temporalità che sia in grado di descrivere non più sol- tanto la sfera della memoria e dell’inconscio individuali, ma che possa aprirsi anche alla dimensione della storia.

Uno dei punti più densi di Rovine e macerie è quello in cui Augé si sofferma su una celebre lettera di Freud, datata 1936 e indirizzata all’amico Romain Rolland.

5

Nella lettera Freud, an- dando a ritroso nel tempo, presenta delle considerazioni sul percorso da lui compiuto nel cammino della vita, in senso lato sull’impresa della psicoanalisi e, infine e più specificamente, sul rapporto con il padre e la famiglia.

6

Nella lettera Freud, ormai settantenne, racconta un episodio occorsogli molti anni prima, nel 1904, quando si era trovato a Trieste in compagnia del fratel-

4. Cfr. ivi, p. 43, dove Augé afferma inoltre che oggi siamo posti dinnanzi alla necessità di “reimparare a sentire il tempo per riprendere coscienza della storia”.

5. S. Freud, Un disturbo della memoria sull’Acropoli: lettera aperta a Romain Rolland (1936), trad. di P.L. Lay, in Opere, vol.

XI

, Bollati Boringhieri, Torino 1981, pp. 469-481.

6. All’episodio oggetto della lettera Freud aveva fatto cenno pure in L’avvenire di un’il-

lusione, una decina d’anni prima; cfr. Opere, vol.

X

, Bollati Boringhieri, Torino 1981, p. 455.

(23)

lo e, su suggerimento di un collega d’affari di questi, avevano de- ciso di prolungare il viaggio, alla volta non più di Corfù, com’e- ra nei loro piani, ma di Atene. Freud racconta che il suggerimen- to procurò a lui e al fratello una sensazione sgradevole, che li la- sciò di cattivo umore fino all’acquisto del biglietto per l’imbarco.

Invece, in quel preciso momento il fatto di partire apparve loro come una cosa del tutto naturale. Entrambi scoprirono in segui- to che ciascuno aveva già aderito con entusiasmo all’idea di de- viare il viaggio in direzione di Atene. “Quando poi il pomeriggio dopo l’arrivo mi trovai sull’Acropoli e abbracciai con lo sguar- do il paesaggio, mi venne improvvisamente il pensiero singolare:

‘Dunque tutto questo esiste veramente, proprio come l’abbiamo imparato a scuola?!’”, scrive Freud, restituendo tutto lo stupo- re per l’emergere improvviso di una simile idea. L’ipotesi che lo guidò nell’interpretazione dello “strano pensiero”

7

sorto alla vi- sta dell’Acropoli è che esso fosse legato intimamente al malumo- re provato a Trieste.

“Incredulità” è la parola-guida dell’analisi che Freud conduce di questo ricordo. Infatti, l’incredulità provata ad Atene di fron- te allo spettacolo delle antichità viene interpretata come il segno di un destino felice che l’istanza superegoica nega: “too good to be true”, la visione dell’Acropoli è troppo bella per essere ve- ra, questo pensa Freud. La posta in gioco è la comprensione del perché la “gioiosa sorpresa”

8

che lo colse ad Atene fosse stata espressa, nello “strano pensiero”, in una forma così alterata. La spiegazione che egli offre dell’evento si incentra sul “sentimento di estraneazione”

9

(Entfremdungsgefühl) da cui si era generato il dubbio circa l’esistenza reale del Partenone.

È un complesso processo psichico che, come in questo caso, intacca la memoria, causandone l’alterazione dei contenuti. Es- so può presentarsi – precisa Freud – in due forme: quella dell’e- straneità di “un frammento di realtà” e quella di “una parte del

7. S. Freud, Un disturbo della memoria sull’Acropoli, cit., p. 475.

8. Ivi, p. 477.

9. Ivi, p. 478.

(24)

90

aut aut, 379 2018, 90-118

I “masochismi” che rimuoviamo

ANDREA MUNI

Ha ragione chi afferma che l’esistenza di una tendenza ma- sochistica nella vita pulsionale umana rappresenta un enigma dal punto di vista economico. Infatti, se il principio di piacere domina i processi psichici in maniera tale che il loro primo scopo è quello di evitare dispiacere e ottenere piacere, [allora]

il masochismo è incomprensibile. Se invece il dolore e il dispia- cere non sono meri avvertimenti, ma possono rappresentare essi stessi dei fini, [allora] il principio di piacere ne risulta pa- ralizzato e, con esso, risulta paralizzato il custode della nostra vita psichica.

1

Vorrei avanzare subito l’idea che “il Freud che rimuoviamo” sia quello che ci obbliga a fare i conti non soltanto con lo sgradevole fatto che l’uomo non è un essere benevolo verso i propri simili (cosa che in fondo è stata sostenuta da un’infinità di moralisti e scuole filosofiche di ogni tempo), ma soprattutto con l’evidenza che quest’uomo – cioè proprio tu che leggi, proprio io che scrivo – non è nemmeno benevolo nei confronti di “se stesso”. Il Freud che rimuoviamo è “il Freud” che ci chiama a confrontarci con la paradossale idea (che rappresenta un vero e proprio ostacolo logico) che farmi del male può – in certe occasioni – essere il mio bene.

1. S. Freud, Il problema economico del masochismo (1924), trad. di R. Colorni, in Ope-

re, Boringhieri, Torino 1978, vol.

X

, p. 5.

(25)

Un’idea tragicomica, che chiama in causa anche lo stesso Freud (e tutti coloro che in ogni tempo, per lavoro, curano e si prendono cura degli altri). Come potrebbe infatti un medico (ma anche un insegnante, o un uomo delle istituzioni) accettare di es- sere fondamentalmente malevolo nei confronti di coloro di cui si prende cura? E ancora, quali ragioni sadomasochistiche posso- no orientare un soggetto a scegliere “liberamente” un lavoro che lo costringe a confrontarsi giorno dopo giorno con la sofferenza psichica (o con i bisogni) altrui?

La risposta umanitaria del tipo “lo faccio per fare del bene”

rischia di essere al contempo troppo facile e troppo sospetta.

L’obiezione alle buone intenzioni che presiedono al desiderio di curare, e a quello di prendersi cura, ci introduce infatti alla sgra- devole domanda: “Perché darmi tanta pena per fare il bene di qualcun altro (me incluso)?”. Freud non ha mancato di metter- ci in guardia, nel Disagio della civiltà, da quell’amore del prossi- mo che gli pareva quanto di più delirante e “malvagio” la cultura occidentale avesse mai inventato nella propria storia. Così come Lacan non ha mai mancato di indicarci le trappole di quell’amo- re di sé (di cui spesso l’amore del prossimo non è che l’ombra), ferocemente criticato dai moralisti di ogni tempo (da Seneca ad Agostino, da La Rochefoucauld a Kant).

Freud è stato il primo a mettere in questione la radicale con- traddizione logica del godimento umano. Il suo unico errore è stato quello di considerare tale contraddizione, e tale godimento, come degli universali, mentre essi sono in tutto e per tutto dei fe- nomeni storici e politici che interessano l’esperienza occidentale, nevrotica e capitalista della soggettività. La storia dell’esperien- za più ovvia e immediata che abbiamo del nostro essere sogget- ti rimane infatti un vero e proprio tabù, una censura che silen- ziosamente ricopre e inibisce ogni tentativo critico di indagare le ragioni che ci inducono a ritenere automaticamente pericolosa, malata o masochista una persona che si comporta in maniera de- viante rispetto ai desideri veri, giusti (e quindi piacevoli da perse- guire) che dovrebbero abitarla.

Perché spesso un individuo (cioè un soggetto etico norma-

(26)

92

lizzato e borghesizzato secondo la logica del discorso dominan- te, incarnata nelle “dolci” discipline neoliberali) riesce a essere oscuramente felice solo nei momenti in cui aggredisce o contrad- dice questo principio etico fondamentale che mi obbliga “natu- ralmente” a fare il mio bene/utile/interesse? Questa è a mio avvi- so la posta in gioco politica dell’etica della psicoanalisi (che non è, e non può limitarsi a essere, l’etica dello psicoanalista). Una questione talmente scottante che sia i professionisti sia i detrat- tori di questa disciplina sembrano – almeno al livello del dibat- tito pubblico – non volerne sapere nulla (ovviamente per ragio- ni opposte).

Vorrei volentieri ammettere che c’è in me come in altri qualcosa di buono […]. Ma sembra che si tratti, ancora una volta, di un caso di conflitto tra illusione (appagamento di un desiderio) e conoscenza. Non si tratta affatto di ciò che è più gradevole ammettere, […] ma di ciò che può essere più vicino alla realtà misteriosa che pure esiste fuori di noi. Il mio pessimismo mi sembra dunque un risultato, l’ottimismo dei miei avversari una premessa.

2

Nel rapporto tra psicoanalisi e politica ne va dell’etica e dello stile di vita borghesi. Non c’è nulla di a priori squalificante in questa affermazione, come invece mi pare di capire vorrebbe una certa critica politica della psicoanalisi di provenienza basagliana.

Una critica che sembra curiosamente ignorare lo strano assist che proprio Franco Basaglia offre a Freud a un certo punto delle Conferenze brasiliane.

3

Si tratta della fine considerazione per cui, proprio perché è un’istituzione borghese (e su questo mi sembra ci sia poco da discutere), la psicoanalisi avrebbe il delicato compito politico – quasi come se si trattasse di un agente doppiogiochista – di mettere pubblicamente in luce, e di far giungere alla coscien-

2. Id., Psicoanalisi e fede: carteggio col pastore Pfister (1909-1939) (1963), trad. di S.

Daniele, Boringhieri, Torino 1970, lettera del 7 febbraio 1930.

3. F. Basaglia, Conferenze brasiliane, Raffaello Cortina, Milano 2000, pp. 200-201.

(27)

Sarò Io? Gli svenimenti di Freud

ALESSANDRO DI GRAZIA

S ono rimasto molto colpito da un evento, anzi due, che occorsero a Freud nei pri- mi anni del Novecento: in due occasioni Freud svenne; i due episodi ci vengono raccontati sia da Freud che da Jung che era sempre presente e che, a dir suo, si ritenne più o meno direttamente responsabile di quegli episodi. Episodi che potrebbero apparire poco più che aneddoti, ma che, a uno sguardo più attento, credo, sottendano a qualcosa di significati- vo, tanto dal punto di vista della produzione teorica quanto dal punto di vista storico-biografico di Freud.

Il primo svenimento

1

avvenne nel 1909 mentre Freud e Jung si trovavano a Brema in attesa di partire per il Massachusetts do- ve dovevano tenere, indipendentemente l’uno dall’altro, delle conferenze alla Clark University. Durante l’attesa, il discorso si concentra sulle mummie delle torbiere, a partire da un’associa- zione indebita di Jung che pensava vi fossero anche nella città che li ospitava. Il discorso sulle mummie irrita parecchio Freud, anzi lo irrita in maniera persino esagerata, a detta di Jung, e du- rante la conversazione a tavola sviene.

Il secondo episodio risale al 1912 a Monaco, quando i due di- scutono della figura di Echnaton, il faraone ribelle che diede ini- zio a una forma di parziale monoteismo. I toni tra i due si alzano

1. In realtà prima del 1909 Freud era svenuto nello stesso albergo e sembra pure nel-

la stessa camera.

(28)

120

discutendo della decisione di Echnaton di cancellare il nome del padre dalla stele regale. Freud assume una posizione critica nei confronti del faraone, mentre Jung avverte Freud che questa era una prassi consolidata già in precedenza, in quanto il faraone, assumendo il suo ruolo divino, era privo di debiti nei confron- ti degli ascendenti terreni. Su questo contrasto, ricco di tensio- ni transferali, Freud cade nuovamente svenuto. È singolare che anche in questo caso abbiamo a che fare, sebbene in forma indi- retta, con la presenza della mummia. Il ritrovamento della mum- mia del faraone monoteista

2

risaliva infatti a cinque anni prima, al 1907, e il suo nome comincia a circolare solo dopo il 1891 con gli scavi che portano alla luce i resti della capitale Akhetaton, fondata dal faraone. Sappiamo inoltre che Freud era appassiona- to dell’antico Egitto, tanto da portare con sé nel 1938, nell’esilio londinese, parecchio materiale in suo possesso e in particolare al- cune statuette a cui era particolarmente legato.

Jung attribuisce gli svenimenti all’incapacità da parte di Freud di reggere l’impatto con le fantasie di morte nei confronti del pa- dre (Freud stesso), cui Jung avrebbe dato corpo con questa sua

“mania” dei cadaveri. Si sarebbe trattato, perciò, secondo l’inter- pretazione di Freud, di fantasie di morte nei suoi propri confron- ti. Cosa che Jung nega recisamente. Freud avrebbe dunque temu- to che Jung lo “facesse fuori”, che gli togliesse la paternità del- la psicoanalisi. La retorica paternalistica di Freud di fatto è mol- to forte nelle lettere di quel periodo, in cui Jung viene investito del titolo di principe ereditario o di figlio prediletto. In fondo so- no queste fantasie di paternità spirituale che generano e alimen- tano una conflittualità sempre più esplicita tra i due. Jung riporta una conversazione del 1910, che sancisce, prima del secondo sve- nimento, il suo distacco interiore nei confronti del maestro:

Ho ancora vivo il ricordo di ciò che Freud mi disse: “Mio caro Jung, promettetemi di non abbandonare mai la teoria della

2. Più precisamente si tratta di un enoteismo monolatrico, posizione che in ogni caso

rappresenta il gesto inaugurale del monoteismo.

(29)

sessualità. Questa è la cosa più importante. Vedete, dobbiamo farne un dogma, un incrollabile baluardo”. Me lo disse con passione, col tono di un padre che dica: “E promettimi solo questo, figlio mio, che andrai in chiesa tutte le domeniche!”.

Con una certa sorpresa gli chiesi: “Un baluardo contro cosa?”.

Al che replicò: “Contro la marea nera di fango” e qui esitò un momento, poi aggiunse: “dell’occultismo”.

3

Al di là di un contrasto di fondo che si era già manifestato fin dai loro primi incontri, relativo all’occultismo e ai fenomeni “inspie- gabili”, Jung rileva in queste pagine che la richiesta di accogliere il principio della sessualità come un dogma religioso aveva inferto un colpo mortale alla stima verso il maestro.

La questione di una filiazione spirituale mancata, con tutti i problemi che essa trascina, è senz’altro da tener conto negli epi- sodi degli svenimenti. Credo però che ciò sia insufficiente a spie- gare un fenomeno come quello della perdita di coscienza: evi- dentemente la questione della mummia e del cartiglio doveva at- tivare altre questioni più profonde. È lecito quindi allargare la prospettiva su questi episodi che dobbiamo considerare estremi, rispetto al contesto in cui si sono verificati.

Il primo fatto che mette in relazione, anche se oppositiva, le due scene è la questione della provenienza, dell’accertamento della continuità storica. Freud è indispettito dal fatto che, per le- gittimare la propria rivoluzione religioso-statuale, Echnaton can- celli il nome del padre. Per contro, nel caso delle mummie delle torbiere, questo cartiglio, questa attestazione e iscrizione di pro- venienza è del tutto impossibile: le mummie che vengono perio- dicamente alla luce dalle torbiere del nord della Germania so- no spaventosamente anonime. Figure cadaveriche appiattite con tanto di capelli e pelle che non possono in nessun modo testimo- niare la loro provenienza e di cui nessuno può sapere più nul- la. L’essere-Uno è possibile solo in riferimento al nome del pa-

3. C.G. Jung, Ricordi, sogni, riflessioni (1961), trad. di G. Russo, Rizzoli, Milano 1990,

p. 191.

(30)

140

aut aut, 379 2018, 140-154

Come si fa ricerca in psicoanalisi

ANTONELLO SCIACCHITANO

Non cerco. Trovo.

Picasso

Come è possibile una scienza dopo quel che si può dire dell’inconscio?

J. Lacan, Encore

Una premessa peregrina

Non sappiamo ancora bene come si faccia ricerca scientifica in psicoanalisi. Il creatore della “nuova scienza” non ce l’ha insegnato.

Si dimostrò impacciato con la propria creatura. Alla junge Wissen- schaft – così la chiamava – non insegnò a muovere i primi passi in campo scientifico. Ancora oggi va tenuta a balia da qualcuno che la indottrini. Freud la concepì all’interno della scienza cartesiana, senza peraltro conoscere a fondo il pensiero di Cartesio – ma la mandò a scuola dal vecchio Aristotele, forse perché, avendo educa- to Alessandro il Grande, che conquistò tutto il mondo conosciuto, lo Stagirita offriva maggiori credenziali di affidabilità, fondate sul principio di ragion sufficiente. Ma è sufficiente la ragione per avere certezze in psicoanalisi? Oggi, l’unica nostra certezza è che la psicoanalisi è psicoterapia, come tale accettata dal coro conformistico delle nazioni. È tuttavia una certezza patologica, che inibisce la ricerca e l’avanzamento. Il risultato è che gli stessi psicoanalisti non sanno come procedere per innovare la psicoana- lisi al di là dei codici terapeutici, cioè – per dirla con Freud – Al di là del principio di piacere. Da dove in psicoanalisi comincia la ricerca, die Forschung?

Mi fermo subito. Forse sto imprudentemente adottando l’op-

zione unilaterale che esista solo la ricerca scientifica. Forse di-

mentico che esiste anche la ricerca filosofica. Opportunamen-

te me lo ricorda il ponderoso ottantanovesimo volume delle Ge-

samtausgabe di Martin Heidegger sui Zollikoner Seminare, ap-

pena arrivato sulla mia scrivania (un testo che ogni freudiano

(31)

dovrebbe almeno sfogliare, per la serietà con cui Heidegger af- fronta il pensiero di Freud).

1

Che differenza c’è tra ricerca scientifica e filosofica? So di un paio di differenze parziali, viste dalla parte delle scienze: il di- scorso scientifico è meccanicistico, il filosofico trascendentale; il primo è plurale, tratta il molteplice; il secondo è singolare;

2

va al- la ricerca della singolarità nascosta nel generale;

3

uno è congettu- rale, l’altro concettuale. Lo scienziato meccanicista presuppone particelle elementari, tra loro interagenti, nel rispetto delle sim- metrie iniziali, per esempio gli assiomi della meccanica di New- ton; il filosofo trascendentale, invece, cerca le condizioni teori- che necessarie a priori per giustificare la possibilità dell’esperien- za, cioè tali da salvare i fenomeni, creando senso.

4

La differenza ha una base epistemica. La scienza si muove su un piano di incertezza; formula supposizioni; è congettura- le, dicevo. La filosofia, invece, si muove sul piano delle catego- rie che danno certezza; il risultato è concettuale. Alla frontie- ra delle due pratiche sta una singolare figura di pensatore, di- rei anfibia, metà filosofo, metà scienziato, che all’alba dell’e- ra scientifica promosse la certezza dell’incertezza: la certezza dell’essere (io sono) sull’incertezza del pensiero (io dubito).

5

1. M. Heidegger, Zollikoner Seminare (1959-1965), in Gesamtausgabe, vol. 89, a cura di P. Trawny, Klostermann, Frankfurt a.M. 2018, p. 880.

2. Ma Deleuze incalza: “La filosofia è la teoria della molteplicità”. Subito dopo ricade nell’aristotelismo: “Ogni molteplicità implica elementi attuali ed elementi virtuali” (G. De- leuze, L’attuale e il virtuale [1995], “aut aut”, 276, 1996, p. 26).

3. “Posto come essere immediato, sensibile e psichico, l’individuo è l’Individuo che ha il suo télos nel Generale. E questo è il suo compito etico: Esprimere sé stesso in quel- lo e dissolvere la propria individualità nel Generale”, S. Kierkegaard, Timore e tremo- re (1843), trad. di F. Fortini e K. Montanari Gulbrandsen, Edizioni di Comunità, Mila- no 1952, p. 61.

4. Dal punto di vista topologico creare senso significa introdurre eventi locali in con- testo globale. L’operazione rischia di essere vuota perché il globale può non esistere; per esempio, l’insieme di tutti gli insiemi, che darebbe senso al singolo insieme, non esiste.

Tuttavia “essere” e “senso” restano i significanti principali del discorso filosofico; uno si- gnifica il soggetto, l’altro l’oggetto.

5. Gilles Deleuze fa giustamente notare che “tutta la critica kantiana si riduce a obiet-

tare nei confronti di Descartes che non è possibile fondare direttamente la determinazione

sull’indeterminazione” (G. Deleuze, Differenza e ripetizione [1968], trad. di G. Guglielmi,

Raffaello Cortina, Milano 1997, p. 115). “Nella coscienza di me stesso nel semplice pen-

siero io sono l’essere stesso; ma così di certo niente di esso mi è dato ancora al pensiero”,

(32)

142

Si chiamava Cartesio; supponeva che tutto il verosimile fos- se falso, come oggi si fa in statistica supponendo che campio- ni diversi provengano dalla stessa popolazione (ipotesi nulla

6

).

Inaugurava così un nuovo genere di ricerca filosofica non ca- tegorica ma neppure scettica, basato su uno statuto debole di verità, che non presuppone il trascendentale, cioè il principio primo del sapere.

7

Alla fine le differenze tra i due tipi di ricer- ca si riassumono in una sola: la ricerca scientifica opera con il falso per falsificarlo, la ricerca filosofica con il vero per ve- rificarlo. In pratica il filosofo tende a imporsi come maestro, mentre l’uomo di scienza è indifferente a ogni magistero.

8

In altri termini, l’impresa scientifica non è cognitivista; lascia il cognitivismo ai medici.

Questa premessa, a livello accademico peregrina, mi serve so- lo per localizzare i contributi di due grandi del pensiero psico- analitico: Freud e Lacan, due autori che – riconosciamolo – non furono certamente accademici.

9

Un progetto scientifico

Nel Progetto di una psicologia (1895) Freud tratta le interazioni di tre tipi di particelle elementari; sono gli elementi del sistema nervoso centrale: i neuroni phi, psi e omega. I neuroni phi sono localizzati nel midollo spinale, al livello più basso del sistema ner- voso, all’interfaccia tra mondo esterno e interno, che connettono con l’arco riflesso; i neuroni psi e omega occupano i centri nervosi

I. Kant, Critica della ragion pura (1787), trad. di G. Gentile e G. Lombardo-Radice, Later- za, Roma-Bari 1979, p. 338 (trad. modificata). Eppure Cartesio fece proprio un’operazio- ne scientifica, il cui senso sfuggì a Kant: poggiò il certo sull’incerto.

6. Il metodo cartesiano ha avuto un attimo di popolarità per la scoperta del bosone di Higgs al Cern di Ginevra. Si è sentito parlare di 5 sigma. Il termine corrisponde a un valo- re di probabilità pari a 3×10 elevato alla -7, pari circa a una su 3,5 milioni. Questa, però, non è la probabilità che il bosone di Higgs non esista, ma è la probabilità di ottenere dati come quelli del Cern di Ginevra nel caso che la particella non esista. L’incertezza di tale re- lativismo è ineliminabile dall’empirismo scientifico.

7. Osserva Lacan: “Avant Descartes, la question du savoir n’ait jamais été posée”, J.

Lacan, Le Séminaire. Livre

XX

(1972-1973), Seuil, Paris 1975, p. 88.

8. “In quanto tale la tecnica è indifferente”, M. Heidegger, Zollikoner Seminare, cit., p. 465.

9. Freud non riteneva necessario che si insegnasse la psicoanalisi nelle università.

(33)

Freud e il regicidio: elementi di una riflessione

ÉLISABETH ROUDINESCO

F reud ha dedicato almeno due libri alla questione dell’uccisione del padre: Totem e tabù e il Mosè.

1

Non c’è invece nemmeno un’opera su Edipo, nonostante la tragedia di Sofocle costituisca un elemento centrale della sua teoria, così centrale che potrem- mo arrivare ad affermare che, se fosse rimasto legato a un modello neurofisiologico, Freud non avrebbe mai potuto creare una nuova disciplina, né attualizzare i grandi miti fondatori della storia uma- na. In altri termini, senza la reinterpretazione freudiana dei miti greci, Edipo sarebbe restato un personaggio di finzione invece di diventare un modello universale del funzionamento psichico.

Attraverso Edipo, Freud ha delineato una visione tragica dell’umanità. Colpevole dei due crimini peggiori, l’incesto, che stravolge la successione genealogica, e il parricidio, che introdu- ce la barbarie al posto del diritto, l’uomo edipico inventato da Freud è determinato dal suo destino, cioè dal suo inconscio. È il luogo di formazione della coscienza moderna. Assumendo la propria colpevolezza si autopunisce, senza proiettare il proprio errore su una qualsiasi alterità. E tuttavia, come scrivevo, non c’è nessun’opera dedicata al personaggio di Edipo, che pure è onni- presente a partire dalla famosa lettera a Wilhelm Fliess (del 15

1. S. Freud, Totem e tabù (1913), trad. di S. Daniele, in Opere, a cura di C.L. Musatti,

vol.

VII

, Bollati Boringhieri, Torino 1989, pp. 7-164 e Id., L’uomo Mosè e la religione mono-

teistica (1939), trad. di C. Bori, G. Contri, G. Sagittario, in Opere, vol.

XI

, cit., pp. 329-453.

Riferimenti

Documenti correlati

“testimonianza interiore” che consente al soggetto di divenir consapevole di sé e della propria attività creativa: si tratta di un’interiore dinamica riflessiva che definisce

Seconda topica (1920): 1) Es = inconscio: “tutto ciò che è presente fin dalla nascita”, innanzitutto “pulsioni che traggono origine dalla organizzazione

ammettiamo che nella vita psichica si produca una certa tendenza alla quale altre tendenze più forti si oppongano: stando alle nostre aspettative il conflitto psichico che in

La scoperta degli opposti tipi di atteggiamento (e più tardi la scoperta dei tipi opposti di funzione) doveva essere una pietra miliare della psicologia di Jung che lo avrebbe

La distinzione si precisa se si fa riferimento alla fase freudiana alla quale abbiamo creduto di poter situare, poco fa, l'apparizione della persona: quella fase « esibizionista »

Quando, invece, egli passa ad esprimere la sua visione della società a lui contemporanea, prevalgono sia la svalutazione dell'assetto sociale, sia la condanna aspra per i

Come dirà Freud nel 1909: « Quella parte della sua vita emotiva che egli non riesce più a richiamare alla memoria viene da lui rivissuta nel rapporto col medico ed è solo

In // disagio della civiltà (1929) sono « le attività scientifiche, artistiche, ideologiche » (13) nel loro complesso a venir dedotte dalla sublimazione delle pulsioni; mentre in