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SEMINARIO DI SCUOLA PRATICA DI PSICOPATOLOGIA VITA PSICHICA COME VITA GIURIDICA, 2 «MA FATTI LA BARBA...RA!» [1] PIETRO R.

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Nome file data Contesto Relatore Liv. revisione Lemmi

960510SP_PRC3.pdf 10/05/1996 SPP PR Cavalleri Pubblicazione Casi clinici di nevrosi Guarigione

Fissazione Padre Jung, C.G.

S

EMINARIO DI

S

CUOLA

P

RATICA DI

P

SICOPATOLOGIA

1995-1996 VITA PSICHICA COME VITA GIURIDICA, 2

10 maggio 1996

12° Seduta

Presentiamo qui di seguito il testo dell’intervento di Pietro R. Cavalleri alla seduta del 19 aprile 1996 del Seminario della Scuola Pratica di Psicopatologia di Studium Cartello.

«MA FATTI LA BARBA...RA!»

[1]

PIETRO R. CAVALLERI

Presento due spunti: il primo un po’ più articolato; il secondo è semplicemente un’osservazione che mi è sembrata molto ricca, la definirei «la scoperta di un paziente». Come tale la propongo.

«Ma fatti la Barba...ra!»

Per rendere più comprensibile il punto ancora in elaborazione che propongo come ipotesi di lavoro, ho sintetizzato la storia di questa paziente in cura da tre o quattro anni. Si tratta di una donna giovane, meno di venticinque anni al momento, figlia unica, i cui genitori si separarono quando aveva circa due anni. Fu la madre ad abbandonare il tetto coniugale per legarsi a un altro uomo, che era anche amico di famiglia, con il quale tuttora convive. Al padre invece restò la figlia, la quale conserva fra i suoi primi ricordi di infanzia la scena di lui sdraiato sul letto mentre piange, dopo l’abbandono da parte della moglie. Dice che in quel momento si sentì improvvisamente grande e investita di una grande responsabilità: pensò che avrebbe sostituito la madre. Fin qui un pensiero normale. Il padre, da parte sua, rinforzò questo proposito reinterpretando egli stesso il rapporto e riproponendolo alla figlia in chiave di rapporto complementare. Così facendo egli operò una prima perversione del rapporto padre-figlia, tolto dal suo essere un rapporto amoroso e collocato nella fattispecie di un rapporto che sostituiva la complementarietà alla scelta, operazione che può essere espressa con le seguenti parole: «Tu sei mia figlia e per questo non mi deluderai come mi ha deluso tua madre».

La seconda perversione del rapporto che possiamo ravvisare, in uno con la prima, consiste nell’istituzione della figlia contro la donna: questa operazione mette la bambina nell’impossibilità di pensarsi come donna, proprio nel momento in cui, secondo una lettura distratta, si potrebbe dire che la mette al posto della donna:

ma in questo «metterla», la mette in quanto figlia contro la donna.

In seguito, sulla falsa riga di quanto accaduto, la paziente ricorda il senso di tragedia che per lei avevano gli incontri periodici con la madre. Avevano il carattere del sacrificio, nel senso letterale per cui era lei stessa che veniva sacrificata in olocausto sull’altare del diritto materno. Il padre, tutte le volte che l’accompagnava a questi incontri, le diceva  sia apertamente sia, più frequentemente, in modo implicito  che, se fosse stato per lui e per il loro benessere, certamente non l’avrebbe sottoposta a questo sacrificio dovuto per legge. La paziente veniva sacrificata, dunque, sull’altare del diritto materno che la strappava dalle mani del padre, da cui non avrebbe voluto allontanarsi. Da parte sua, suo padre rinforzava in lei l’idea del loro legame senza mediazioni e sostitutivo per lui di ogni altra donna, svilendo ogni legame successivo che avrebbe avuto  e ve ne furono un certo numero da parte sua  come «non importante» per lui. Entravano pertanto nella vita di suo padre, e quindi indirettamente anche nella sua, delle donne che cambiavano abbastanza rapidamente, ma che

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erano introdotte dal padre con questa clausola: che non si trattava di nulla di importante, o di nulla di comparabile; anzi, forse proprio questa è la definizione più corretta: il rapporto sentimentale che il padre allacciava con le compagne non era in nessun modo comparabile con quello padre-figlia.

Ciò non avvenne neppure quando il padre si legò in maniera più stabile a una donna divorziata e con figlio pressappoco coetaneo della paziente: proprio mentre ricostituiva con lei un nucleo familiare ed era evidente che si trattava di un rapporto non occasionale, di fatto egli aveva semplicemente ricostituito un nucleo familiare. Un «nucleo familiare», appunto, non un rapporto amoroso, essendo palese e addirittura dichiarato a parole che la scelta, in fondo, era caduta su quella donna non perché amata, ma perché ritenuta la più idonea a svolgere il ruolo di madre per la figlia. Essendo inoltre altrettanto palese che egli, il padre, non desiderava alcuna altra donna all’infuori della figlia stessa. Questa verità veniva confermata anche dall’atteggiamento, che la paziente ricorda ora molto chiaramente, di perfetta estraneità mantenuta dal padre nei confronti del figlio della convivente. Mentre questa donna era divenuta veramente madre per la paziente, lei  in seguito, durante l’analisi  osserva che il proprio padre non aveva mostrato alcun interesse ad essere padre di questo possibile figlio. Con il che, la stessa idea di paternità ne risultava ridotta e distorta.

Il legame tra il padre e la convivente si ruppe quando, avendo la paziente raggiunto l’adolescenza, il padre giudicò non essere più necessaria la tutela di una figura materna che si occupasse di organizzare la vita di casa: la paziente era divenuta autonoma e nessun intruso era più necessario. In realtà era entrata un’altra donna nella vita del padre, ma in ogni caso si era anche compiuto il ciclo che aveva resa necessaria la presenza di una madre per garantire la sussistenza e l’organizzazione della vita familiare: oramai era la paziente stessa in grado di badare a se stessa e alla casa. Il padre interrompe quindi il rapporto con la donna che ha fatto da madre alla paziente ed è quest’ultima che mantiene con lei un legame di gratitudine e solidarietà.

Finalmente, quando la paziente fu fra i diciannove e i venti anni, il padre iniziò una nuova relazione con una donna di nome Barbara, che introdusse alla figlia recalcitrante giustificandosene con la frase seguente:

«Ma veramente non avrai creduto davvero che io, per tutti questi anni, non abbia avuto bisogno di una donna?». L’esordio della sintomatologia clinica della figlia, quasi immediato, fu una nevrosi con sintomi di conversione, malattie tanto immaginarie quanto gravissime, accompagnate da sintomi fobici, in particolare un senso di angoscia imponente al pensiero delle malattie improvvise e sempre incombenti, e in un secondo momento idee intrusive e disturbanti, profondamente angoscianti per lei, di attrazione e repulsione nei confronti di figure femminili sconosciute e sfuggenti, magari viste una sola volta sul treno o sul tram, di cui con grande turbamento temeva di scoprirsi innamorata. Il timore accusato, che per qualche aspetto è abbastanza tipico, era proprio quello di «scoprirsi innamorata»: non quello di potersi innamorare o di poter decidere per una relazione, ma quello di essere legata, in una maniera che va al di là della propria volontà, ad un rapporto ritenuto insoddisfacente e non conveniente. [2] I pensieri di attrazione e repulsione nei confronti delle donne costringevano la paziente a spiare con grande apprensione la comparsa delle manifestazioni del proprio turbamento, che interpretava invariabilmente come segni di una attrazione perversa. Ritengo che, nel timore di innamorarsi di una donna, sia assolutamente palese il legame con una delle operazioni compiute dal padre molti anni prima, quella grazie alla quale egli aveva istituito la figlia contro la donna.

Soltanto dopo un certo tempo dall’inizio del lavoro analitico la paziente giunse ad ammettere e dichiarare apertamente il proprio rifiuto nei confronti della rivale, mascherato e giustificato precedentemente dai sintomi di una malattia così polimorfa e preoccupante. Arrivò dunque ad ammettere che era il pensiero di dover accettare la presenza di questa donna che le risultava insopportabile, così come fu in grado di manifestare il profondo disagio che provava quando immaginava il padre mentre stava in intimità con lei. Il medesimo disagio contagiava stabilmente, al pari, il pensiero di qualsiasi intimità fra uomo e donna, compreso il pensiero del proprio essere stata concepita da suo padre e da sua madre. A ciò si accompagnava un senso di disagio crescente nei confronti del padre, di schifo per il suo corpo e per gli oggetti che erano venuti in contatto con lui, da cui nasceva tutta una serie di fobie che si appuntavano particolarmente sugli oggetti deputati all’igiene personale, di cui lei doveva comunque occuparsi nelle faccende domestiche. A questo disagio importante fino allo schifo, si contrapponeva un sentimento struggente del legame padre- figlia: spirituale, idealizzato e sovrastimato con un’intensità proporzionata e pari alla sensazione, che la tormentava, di essere stata ingannata da lui. Il senso di inganno, a propria volta, rinforzava paradossalmente l’idealizzazione del legame che lo aveva intessuto.

In un passaggio dell’ultima seduta, la paziente si rimprovera il proprio egoismo, esito  dice  della vita solitaria che ha sempre condotto e che l’ha indotta a «star bene da sola». Da più di un anno il padre vive in Toscana con la sua compagna, mentre lei vive da sola nella casa in cui hanno abitato insieme per tanti anni.

Avendo deciso di non chiedere nulla a suo padre per il proprio sostentamento, si mantiene da sola, sebbene

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spesso sia in difficoltà economiche. Benché manifesti al riguardo un ingannevole sentimento di liberazione, la paziente ha preso questa decisione in maniera coatta non potendo sopportare la presenza del padre: infatti, tutte le volte che lo incontra, si riaffaccia il legame idealizzato, insieme al disagio dello stare con lui. É questo il motivo per cui l’autoinganno del «rapporto perfetto e ormai irrimediabilmente passato» si svela parzialmente attraverso il giudizio morale di «egoismo» che di buon grado la paziente è disposta ad accettare a proprio riguardo: l’egoismo consisterebbe nel suo rivolgersi agli altri solo nel momento del bisogno, ma nel non essere disposta ad accettare normalmente la loro presenza. Anzi, dagli altri non vuole proprio accettare nulla e qualora riceva qualcosa non può sopportare di sentirsi in debito. Il discorso passa ad osservare che lei, da suo padre, ha ricevuto tanto e non può più tollerare di sentirsi in debito verso di lui, cosa per cui ha deciso, ormai da qualche mese, di evitare di incontrarlo, di chiedergli aiuto, e anche di offrirgliene quando ad esempio lui viene nella città in cui la figlia risiede e non sa dove andare ad alloggiare durante il tempo in cui si tratterrà per sbrigare i suoi affari.

Oggi, abbandonati ormai completamente i sintomi isterici e in gran parte le idee ossessive di fantasie perverse, la nevrosi residua permane nel suo nucleo sorgivo consistente nella deformazione del rapporto con il padre: non riesce appunto a sopportarne la presenza, ma nel contempo non riesce a staccarsi da lui. Il pensiero di lui è sempre presente e incombente con senso di rimpianto e nostalgia. Questo è quanto dice, anche se una soluzione differente emerge in un suo lapsus, neppure tanto recente, la cui intenzionalità soltanto ora incomincia a comprendere. Il lapsus le era scappato una sera in macchina con amici. Mentre i ragazzi parlavano del proprio aspetto, esortò uno che si era fatto crescere una barba che a lei non pareva donasse molto, dicendogli: «Ma va là...: fatti la barba...ra!». La soluzione, elaborata dal suo pensiero, era che effettivamente suo padre decidesse di «farsi un’altra donna», e non solo per rimpiazzare il legame in cui l’aveva istituita e mantenuta.

Se questa è una soluzione a cui l’inconscio è arrivato, che cosa tiene la paziente ancora legata al padre obbligandola a rifiutare la soluzione già pensata? Il fatto che la paziente non sopporti di essere in debito mi ha indotto a una ipotesi che mi sembra abbastanza illuminante: la denuncia della propria incapacità a sentirsi in debito con chiunque apre a una considerazione circa l’economia della malattia. Essa è un’economia in cui il beneficio è ridotto a fattore calcolabile di crediti e di debiti con l’altro. La paziente ha ricevuto tanto dal padre, così tanto che non potrà mai sdebitarsi. Ora, in questo «tanto» che indubbiamente ha ricevuto, essa può distinguere tra atti benefici e atti non benefici, benché non possa ammettere di potere esercitare un giudizio su questi ultimi.

L’idea che vi sia una pulsione originale a sdebitarsi, cioè che l’economia soggettiva sia tale per cui le relazioni vengono contabilizzate attraverso una partita doppia di crediti e debiti allo scopo di permettere al soggetto pareggiare i conti, non è vera. Questa, la contrario, è una teoria funzionale a mantenere il conflitto e le esigenze della vendetta. Infatti, in questa teoria, i propri crediti nei confronti dell’altro possono essere costituiti da ciò che si è fatto per lui, per un verso, ma, per il verso opposto, anche da ciò che si è ricevuto di non benefico, che invece di andare conteggiato come debito può cambiare di segno diventando un credito, ovvero: se tu mi dai un bacio io sono in debito con te, ma se tu mi dai uno schiaffo, questo schiaffo non è per me un debito, ma diventa un credito. In questo caso, per la teoria nevrotica della paziente, l’avere ricevuto tanto nell’ordine del beneficio e nell’ordine del non beneficio, istituisce la possibilità di non avere soltanto dei debiti nei confronti del padre, ma di poter avanzare anche dei crediti. L’inganno che essa ha subito (e a questo riguardo non fa differenza che essa lo ammetta oppure no) è proprio un tal credito. Allora, nella teoria secondo cui i propri rapporti con l’altro si possono contabilizzare in debiti e crediti, e in cui i crediti possono essere di tale natura, il credito risulta essere la fissazione. E mi sentirei di ipotizzare che la teoria nevrotica della paziente, la conduce ad alzare il credito nei confronti del padre allo scopo di pareggiare il debito immaginario da lei contratto, e di fissarsi al credito, come se dicesse: «Io non posso dichiarare conclusa questa partita; siccome tu mi hai dato tanto e siccome la mia teoria è quella che io devo sdebitarmi, io non posso fare altro che fissarmi al credito che ho nei tuoi confronti. Se fino ad oggi mi ha legato a te il debito, d’ora in avanti sarà il credito, che io non cesserò di rivendicare, che mi legherà». Questa è la fissazione. E questo è anche il punto nel quale, al momento, la paziente si trova.

La scoperta di un paziente

Il secondo spunto è fornito dalla riflessione compiuta da un paziente che, a più riprese, è tornato su di un passo che aveva letto in un libro trovato nella sala d’attesa. Il saggio che aveva interessato il paziente commentava alcuni brani dell’Autobiografia di Carl Gustav Jung. [3] La pagina era quella in cui l’autore

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rievocava un’esperienza compiuta da Jung all’età di dodici anni, che egli chiama «fatale» e che doveva imprimersi in lui definitivamente:

Un giorno un compagno gli dette uno spintone facendolo cadere e battere la testa contro lo spigolo del marciapiede. Rimase semisvenuto circa mezz’ora.

Segue la citazione del passo dell’Autobiografia in cui Jung stesso racconta la nevrosi infantile che ne seguì:

Nel momento in cui caddi mi balenò questo pensiero: «Adesso non andrai più a scuola». Da allora in poi cominciai ad avere crisi nervose ogni volta che dovevo tornare a scuola e quando i miei genitori mi ingiungevano di fare i compiti a casa. Rimasi assente per più di sei mesi: fu una piacevole vacanza.

Soprattutto potevo sognare per ore, andare dove volevo, nei boschi o vicino al lago, disegnare. Potevo finalmente immergermi nel mondo del mistero, del quale facevano parte gli alberi, uno specchio d’acqua, la palude, pietre, animali, ... e, forse quasi come un lapsus, [4] da ultimo cita ... la biblioteca di mio padre. Mi isolavo sempre più dal mondo, sprecavo il tempo oziando...

Finalmente, un certo giorno, ascolta il padre che, preoccupato per questa strana malattia che alcuni medici hanno considerato essere epilessia, confida a un amico che gli fa visita:

Sarebbe spaventoso che fosse inguaribile. Io ho perduto il poco che avevo e che sarà di mio figlio se non potrà guadagnarsi da vivere?

Allora Jung continua dicendo:

Fu come se mi avesse colpito il fulmine: «Ma allora bisogna che mi metta al lavoro», pensai. Era il brusco risveglio alla realtà. Da quel momento divenni un ragazzo serio. Sgusciai via e andai nello studio di mio padre, tirai fuori la grammatica latina e cominciai a imbottirmi la testa, concentrandomi intensamente. Dopo dieci minuti svenni e quasi caddi dalla sedia, ma in breve mi ripresi e continuai a lavorare. «Al diavolo! Non devo svenire» mi dissi e perseverai nel mio proposito. Questa volta passarono circa quindici minuti prima che giungesse il secondo attacco, ma anch’esso passò come il primo. «Adesso devi veramente metterti al lavoro» , continuai con insistenza...

Da quel giorno in poi mi misi al lavoro ogni giorno e dopo poche settimane tornai a scuola e non stetti più male. Tutto era finito per sempre. Imparai allora che cosa è una nevrosi. Un po’ alla volta mi tornò alla memoria com’era cominciata l’intera faccenda: la nevrosi diventò un altro dei miei segreti.

Leggendo queste pagine, il paziente resta colpito perché immediatamente si chiede: «Ma è proprio questa la nevrosi? E Jung è veramente guarito?». Ha ragionato su questa alternativa per qualche mese: ogni tanto tornava sulla guarigione intesa come svelamento, come penetrare un mistero e conservarne il segreto. Ma poi incomincia a notare che c’è qualcosa che non torna, non soltanto nella descrizione di questa presunta o supposta guarigione e di come sia avvenuta, ma persino nel racconto di che cosa sia avvenuto durante la malattia. Incomincia a notare che Jung descrive e considera la sua malattia come qualcosa che è avvenuto fra sé e sé, senza l’intervento di nessun altro. Nella malattia Jung può dedicarsi a vagare per i boschi, come se tutta la vicenda fosse irrelata, tanto che non si accorge neppure, quando decide di guarire, che la possibilità gli si apre per l’intervento di un altro, perché ha sentito suo padre confidare a un amico con toni accorati qualcosa che riguardava lui, il suo futuro e il loro rapporto.

È per questa via che si introduce la critica dell’idea di malattia e di guarigione sostenuta da Jung. In gioco non vi è soltanto cosa sia la nevrosi, ma ben di più: l’individuazione di quale sia la via attraverso cui ci si ammala per trovare la via attraverso cui si guarisce.

La conclusione che propone in una seduta è: «Ciò che io ho imparato dalla mia cura fino a questo momento è che io mi sono ammalato nella relazione con un altro — in questo caso un rapporto impostato in un certo modo da sua madre — e sto guarendo per la relazione con un altro». Dunque tutto questo ripropone l’evento malattia e guarigione non più come evento naturalistico, gnoseologico, del sapere o non sapere, dello scoprire o dell’arrivarci, ma lo ripropone esattamente nella dimensione giuridica del rapporto con l’altro. [5]

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5 NOTE AL TESTO

[1] La seduta si apre con la seguente introduzione di GIACOMO B. CONTRI: «Due appunti a partire dalla formulazione generalissima ma non vaga del titolo del Seminario:

1. La vita umana  presa come vita e storia individuale, filogenesi e ontogenesi  è la storia di dopo la caduta dalla vita psichica come vita giuridica: la «caduta», dunque, non rimanda alla storia religiosa o a quella del mito (io vi trovo anche implicazioni religiose, ma non sono partito da esse), ma è un parlare in cui tutto ciò che è detto, è detto e dicibile dall’osservabile e dal descrivibile.

2. Muoversi a rispondere a uno degli errori più ingenti del nostro mondo può servire a una resistenza: la credenza che esista «la psicologia». L’esistenza della psicologia infatti, ancora prima che essere oggetto di critica scientifica o filosofica, costituisce una credenza, e noi non ci occupiamo affatto di una tale disciplina. I corpi hanno leggi di moto che sono giuridiche, neppure morali, e non esistono leggi psicologiche distinte da altre leggi del moto del corpo».

[2] Mutatis mutandis, un timore simile è spesso dichiarato da pazienti che accusano di essere impauriti dalla sola idea di intraprendere una cura (per esempio iniziare un’analisi) e che pertanto se ne ritraggono o vi resistono dicendo che temono che ciò possa automaticamente «farli cambiare», indipendentemente da un proprio libero atto.

[3] Si tratta del saggio di Augusto Vitale intitolato «Dalla psicologia alla psiche», in Itinerari nella follia, a cura di P.R. Cavalleri, Liguori, Napoli 1992.

[4] Giacomo Contri osserva che il lapsus è buono: quando Freud si è trovato lui stesso di fronte alla possibilità di ragionare patologicamente in questa maniera, ha preso un’altra strada.

[5] In una lezione del Corso di Studium Cartello del 1994-95, avevo già accennato al dibattito affrontato da un’altra persona nel corso della propria analisi, che si domandava se l’origine del timore della morte fosse nel pensiero della morte stessa o nel pensiero nevrotico della castrazione e che aveva poi concluso che nulla, nella natura, fa ostacolo al pensiero della morte. Il timore nasce all’interno della relazione di cui l’alternativa fra castrazione e non-castrazione è uno dei capisaldi nella relazione con l’altro. Anche questo mi sembra che afferisca allo stesso tema, e cioè che ciò di cui stiamo parlando non è in nessun modo una storia naturalistica o della malattia, ma è la storia del processo giuridico attraverso cui una relazione è ammalante e una relazione è guarente.

Tutto questo è assonante a quella frase delle Scritture che dice che come il peccato è entrato nella vita dell’uomo per l’intervento di qualcuno, così anche la guarigione o la salvezza non può che essere il portato dell’accaduto di un qualcun altro.

TEMI E AUTORI

Casi clinici di nevrosi Guarigione

Fissazione Padre

C.G. Jung, Autobiografia

© Studium Cartello – 2007

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