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Incroci. Alinda Bonacci Brunamonti e Bevagna di Luigi M. Reale

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Incroci

I

questioni ereditarie, che procurano molta amarezza ad entrambi i coniugi, dal 1887 viene destinata alla villeggiatura la nuova casa di campagna (comunemente chiamata, come allora si usava dire,

senza maliziosa sovrapposizione e alterazione di signifi cato, il casino, ossia ‘la casetta’, ‘il villino’), edifi cata nel 1885 dal suocero sulla collina di Bevagna (in località Colleallodole), dove anche Pietro Brunamonti si spegne il 2 ottobre 1913, assistito dalla fi glia Beatrice e dal genero Luigi Tarulli2. Nel centro di Bevagna, in quel palazzo di Corso Matteotti 79, oggi Hotel Brunamonti, residenza appunto del suocero Angelo Brunamonti, Alinda avrà certamente soggiornato;

nelle sue memorie ne abbiamo tuttavia appena una labile traccia, dettata da circostanze sfavorevoli, nel brano Autunno malinconico (20 ottobre 1890 – MP VIII 5): “Passiamo dentro il paese di Bevagna l’intero autunno, perché sulla collina del nostro casino serpeggia il tifo”.

Notevole anche, seppure non riguardi personalmente la poetessa, questo inedito ricordo del 7 settembre 1882, quando il re d’Italia Umberto I di Savoia si fermò proprio sotto la fi nestra di Palazzo Brunamonti: “In questi giorni che il Re s’è trattenuto a Perugia per le grandi manovre sono cadute grandi piogge. Una notte diluviava. Seppe il Re che al campo tra Cannara

e Bevagna i poveri soldati stavan quasi sott’acqua e difettavano di provvisioni. Sotto l’acqua torrenziale è partito a cavallo per visitare e provvedere da sé. Pregato che volesse invece andare in carrozza

rispose: Soldato anch’io, posso e debbo sostenere quelle fatiche e quei disagi che sostengono là sotto la pioggia i miei buoni soldati. Alle 7 del mattino era a Bevagna. I cittadini

Alinda Bonacci

Brunamonti e Bevagna

di Luigi M. Reale

La prima casa in cui nel 1868, giovane sposa di Pietro Brunamonti, viene accolta Maria Alinda Bonacci non è quella di Bevagna, ma la villa di Trevi, nella frazione La Pigge, vicino alle sorgenti del Clitunno.

A Trevi trascorre ogni anno con il marito la villeggiatura autunnale e compone quattro dei suoi più ispirati carmi – Il Clitunno e Un autunno in villa (ottobre 1870), Il terremoto ossia Le forze della natura e del pensiero (“Canzone scritta in una villa sul Clitunno poco dopo

che vi s’intese un terremoto, il 16 ottobre 1871, alle 9 di sera”), Ad Andrea Maffei (29 maggio 1874) – che si leggono nella silloge dei Versi pubblicata nel 1875 a Firenze dall’editore Le Monnier, nonché la lirica Due cieli (ottobre 1877), nel volume dei Nuovi Canti pubblicato nel 1887 a Città di Castello dall’editore Scipione Lapi.

In quest’ultimo, Bevagna è appena evocata menzionandola con il nome latino Mevania, nell’ampio componimento dell’aprile 1880 dedicato ai Paesi umbri: “colà dove Mevania, / d’anfi teatro e statue e pavimenti / istoriati di mosaico adorna, / s’irrorava di nebbie nella valle”. Numerose sono invece le notizie, di cui ci avvaliamo quindi nel presente articolo, desumibili dal diario che la poetessa scrive lungo l’arco di venticinque anni dal 1875 al 1900, ordinato sotto il titolo Memorie e pensieri1. Nella villa sul Clitunno i Brunamonti torneranno fi no a quando, dopo la morte della suocera Chiara Parriani il 25 agosto 1877 (cfr. MP I 22-27), per

L’occasione del soggiorno a Bevagna è sempre gradita ad Alinda, che si effonde in deliziose descrizioni del paesaggio, vissuto

davvero e non

simbolicamente

enunciato

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sorpresi e ancora dormiglioni corsero inutilmente per radunare un po’

di concerto e far quattro evviva.

Non si fece in tempo, perché il Re non smontò neppure da cavallo ma si fermò a discorrere cogli uffi ciali dello stato maggiore di faccia alla porta del Municipio. La nostra casa è lì di prospetto.

Le persone di servizio gittarono sul balcone alcune coperte di seta rossa:allo sventolare

improvviso d’una coperta il cavallo del re s’adombrò un poco. Subito Umberto lo contenne;

e guardò in alto e sorrise vedendo la causa della paura del cavallo. Mio suocero era alla fi nestra e salutò e fu gentilmente dal Re risalutato.

Il generale...

alloggiava in casa nostra”

(MP I 134).

Curiosa coincidenza, esattamente dieci anni più tardi, nello stesso mese, il re tornerà a Bevagna e stavolta sosterà vicino alla villa, come apprendiamo dal brano delle memorie

intitolato Re Umberto nel prato del nostro casino (Settembre 1892 – MP IX 52): “Serbo qui il ricordo

che il dì 4 settembre si svolsero a forma di battaglia campale le grandi manovre sulle colline tra Bevagna e Montefalco. Re Umberto accompagnato dal Conte di Torino, e dai Generali Cosenz Pelloux e Pallavicini si fermò prima presso la Madonna della Rosa, ascese quindi

la collina fi no alla nostra villa e stette quasi un’ora a cavallo dietro i pagliai, sul prato dov’è la caccia delle allodole, guardando di là le fazioni delle truppe che assalivano il colle dei cappuccini e l’altura della Madonna delle Grazie circondata e difesa dalle artiglierie del partito nemico segnato.

Su quella radura dove si trattenne Re Umberto, porremo una colonnetta che ne serbi la memoria3”.

L’occasione del soggiorno a Bevagna è sempre gradita ad Alinda, che si effonde in deliziose descrizioni del paesaggio, vissuto davvero e non simbolicamente enunciato, come questa che intitola Mazzetto settembrino: “Stranamente

malinconica alla sera questa vallata

Ritratto fotografi co di Alinda Bonacci Brunamonti giovane (foto di Terenzio Brighi).

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stretta tra Foligno e Bevagna.

Molti insetti cantano alla notte tra le frescure delle acque con sibili e querele prolungate. Saranno grilli?

cavallette? o che altri animalucci?

Sotto la luna un nastro di nebbiette segue la linea del fi ume e i pioppi col fusto bianco s’affollano sulle acque fonde del mulino. Le siepi son cariche dei primi frutti autunnali.

[…] I cardi mandano via a fi occhi i loro semi impiumati. È l’ora che vadano a sperdersi e fondar nuove famiglie di triboli oziosi e dolorosi per tutte le ripe delle strade maestre.

Solo il somarello affamato, che ha poco cibo e nessuna gentilezza del padrone, gradisce abboccare quelle piante spinose, che ogni altra bestia rifi uta, e sa trarre dalle loro radiche una bontà di sapore aromatico. Le vedovelle violette odorano per tutto”

(12 settembre 1886 – MP II 214).

Nel somarello affamato si identifi ca senza dubbio il celebre asin bigio che rosicchia un cardo del congedo di Davanti San Guido del Carducci, pubblicato però nella raccolta Rime nuove del 1887. A Bevagna sembra ravvivarsi anche l’interesse della poetessa per le tradizioni popolari e il dialetto; così il 15 ottobre 1887 (MP IV 62-63) registra una serie di Bei modi di dire raccolti nel contado di Bevagna: “In quella stanza non abita veruno. – C’è una nebbia che non si scerne covelle. – È tanto buio che non ci si vede manco a ridere. – D’un tenero ulivo, chiuso tra spini, dicono:

è una rinserraglia, perché niuna bestia molesti l’ulivo giovenetto”;

e ancora, Frasi popolane (17 ottobre 1889 – MP VII 13): “Qui a Bevagna i contadini dicono: gire a prece invece d’andare a male. La frase viene diritta diritta dai nostri proavi latini: ire in præceps. Chiamano l’eco: la rimbombita”. Si soffermerà tre anni dopo anche su una piccola ricognizione etimologica, cercando di

spiegare l’origine della parola gaida, nel brano Gayda e Guaida (2 febbraio 1890 – MP VII 53-54): “La madre mia4, donna semplice, che parlando usava spesso le parole dialettali della sua gente marchigiana, diceva tagliar le gaide ad una camicia, o sgaidare una veste. La parola non c’è in nessun dizionario, neanche in quello della lingua parlata. Più volte sono rimasta sospesa in curiosità della sua origine. Le gaide erano per la mamma quello che i toscani chiamano gherone, e per sgaidare intendeva sgheronare, ossia tagliar a sghembo la stoffa perché s’adattasse a vestir la persona, scampanando in basso, e stringendo alla vita. Ora ecco che studiando le origini della lingua italiana per il mio discorso su Beatrice, mi capita inaspettata la parola che cercavo. Nelle cronache di Ottone Morena da Lodi del secolo XII è scritto: […] qui tunc vidisset mulieres parvulorum suorum alium in collo, alium in brachis suis deferentes; aliosque AD GAIDES vestium suarum tenentes, coeterosque post ea lugentes5 [...] Gayda così, non essendo neanche parola latina, m’ha il suono e l’aspetto d’una parola longobarda, che, raccolta dal cronista nel popolo, viva ancora e si conservi tra le donne d’alcuni paesi d’Italia, come un modesto oggetto d’antico uso adoprato dalle passate generazioni. Le donne sono per indole conservatrici, affezionate alle tradizioni di casa e al linguaggio degli avi. A Bevagna nei vecchi Istromenti notarili si chiamano Guaide le contrade6: e si dice in Guaida sant’Angelo, o in Guaida santa Maria. Longobarda parola anch’essa; e non potrebbe signifi care, come gayda, parte o lembo e quasi gherone di città?”.

Quello che più interessa è però il ricordo di una “accademia rustica”, una veglia serale in cui si recitano

Laurus Nobilis (da Fiori di campo, amici miei, Edizioni dell’Arquata)

“Il pozzo

medievale della Piazza antica vien demolito.

Tolte le prime

fi le di pietre

e di mattoni

si vede il foro

profondarsi

nella creta e

una foltissima

vegetazione di

capelveneri

molte volte

secolari”

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degli stornelli (10 ottobre 1888 – MP V 56-65; RV 348-58): “Un’Accademia rustica piacevolissima abbiamo avuto ier sera. Chiamato a veglia Angelino, un nostro giovane bifolco, ci ha detto una quantità di stornelli, dei quali ho preso appunto. Qui ne trascrivo i migliori, nel vero dialetto di

Bevagna. La cadenza villereccia del verso è fermata per lo più con certe pose particolari…”. Fra i numerosi esemplari di poesia popolare, la poetessa ne mette in evidenza uno, senza dubbio il più prezioso, che annota e commenta, ed è dedicato al borgo natìo: “Or ecco un rarissimo stornello: rarissimo perché è proprio paesano: qui inventato, non disceso da altri castelli. Né sono mai comuni nelle campagne nostre le canzoni che per qualche descrizione particolare si debbano attribuire al paese dove si cantano.

Bevagna è bella da le mura basse:

ier sera ci passò* con gran paura, pregò** la luna non m’illuminasse, lia che per pietà si fece scura***.

* Passai.

** Pregai.

*** È piacevolmente mutato in questo rispetto un altro bellissimo toscano raccolto dal Tigri: E l’altra sera me n’andiedi a veglia / presi la strada delle case basse, / e mi si

fece notte in una selva. / Pregai la luna che m’illuminasse. / O luna che t’accendi senza fuoco, / facciati buona e illuminami un poco.

È il racconto d’un amore combattuto.

Come chi camminasse saltando da un ponticello all’altro, bisogna qui raccogliere il senso spezzato ad ogni verso. L’amante ha la sua bella dalla parte delle mura: Bevagna è tutta girata da vecchie e basse muraglie medievali: intorno alla cinta del paese sono viottole campestri: per alcune di quelle vie cupe e nascoste va l’amante spiando forse qualche fi nestra illuminata nelle casette esterne. Se la luna torna a brillare nella sua chiarezza, i passi furtivi del giovane saranno scoperti. Così invoca nel canto un nuvoletto che ricopra la luna, fatta pietosa come sempre a servizio degli amanti e dei poeti cittadini o campagnoli classici o romantici o stornellanti. Insomma in questi canti raccolti a Bevagna, per quanto siano simiglianti alle canzoni di tutta la media Italia tra le province toscane e le romane, luoghi tutti dove si parla il nostro puro e bello idioma, pochissimo alterato dalle varie corruzioni del vernacolo, v’è anche una certa originalità paesana. Manca è vero la leggiadria armoniosa e il vezzo del pistoiese, manca la robustezza e la larghezza dei canti laziali; ma c’è l’umbra serenità, una mistica tendenza alla contemplazione più che al godimento dell’amore, e la lingua e la frase, tolte le poche alterazioni del gergo villereccio, appartiene al più schietto e lucido italiano”.

Nel 1891, durante alcuni lavori edili in una casa privata di Piazza Garibaldi, torna alla luce un mosaico romano; nell’autunno, la poetessa si reca a vederlo e così lo descrive nel brano del diario intitolato Mosaici romani a Bevagna (Novembre 1891–

MP VIII 224-25; RV 375-76): “La

Solo nella quiete estiva o autunnale della dimora campestre la poetessa può chiedere “una lezione dolce in solitudine al cielo stellato”

Particolare del mosaico delle Terme di Bevagna.

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scorsa estate s’è scoperto a Bevagna nella cantina d’una casuccia un pavimento grande e in parte ben conservato, a mosaici7. Un dio lacustre, o forse meglio fl uviale, tiene il centro, regge le briglie a un cavallo pesce ed

è coronato colle chele dei granchi.

La fi gura del dio e quella del suo cavallo è grande al vero, ma celata alquanto sotto un pilone non potuto rimovere per la sicurezza del piano superiore.

Alcuni bellissimi animali in giro, stupendamente disegnati e rilevati, tutti in nero sul bianco del fondo, ho disegnato per ricordo, e qui conservo. La donna che possedeva la casetta, dove s’erano scavati i mosaici, ci faceva ragione delle fi gure e del luogo, guastando i nomi che qualche archeologo di poca levatura le aveva fatto suonare all’orecchio ignaro e stupefatto. – Ecco, signora, diceva lei; questa

era una telma (terma), che vorrebbe dire una camera dove si facevano i bagni: noi semo ignoranti, ma vu’ queste cose le sapete bene. La camera è tutta sana, perché torno torno c’è la guernice (cornice). E qui

hanno voluto rappresentare un dio collo scheltro (scettro); e se dice che l’adoravano, perché tanti centinari d’anni fà ’ncô nun ereno cristiani come nu’ altri. Adoraveno anche le bestiacce e qui como vedete ce so’

certi serpi, c’è un gammero con tutte le squambe (squame) e c’è un cavallo che fi nisce como un pesce. Voleno di’ che vale molti denari, e nu’ speramo di ricapezzare un po’ de dotarella per la nostra fi glia. Stamo benuccio ché un boccon de pane non ce manca; e anche ci avemo certe bottarelle piene;

ché st’anno sì, magara Dio, la vellegna è andata bene per tutti”.

Notevole infi ne il ricordo della costruzione della fonte di piazza, che sostituisce l’antico pozzo medievale (15 novembre 1895 – MP XI 58; RV 382): “Il pozzo medievale della Piazza antica di Bevagna vien demolito, perché sovr’esso appunto sorgerà la nuova fontana di marmo per l’acqua potabile, che deve esser condotta in questi giorni da Foligno. Tolte al pozzo le prime fi le di pietre

e di mattoni, che ne sostengono il

Cardo di S. Maria (da Fiori di campo, amici miei, Edizioni dell’Arquata)

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parapetto, si vede il foro profondarsi nella creta: e su quella creta, che riceve oggi per la prima volta i raggi del sole, appare una vegetazione foltissima di capelveneri, certo molte volte secolari. Sono matasse o ciuffi verdi, che ignorarono la luce, il vento, il gelo nella loro quieta sotterranea penombra. Sono cespugli irrorati dallo

spruzzo delle secchie salienti:

cespugli simili a mazzi di piume carpite agli uccelli del paradiso, cespugli molli, ondulati, serici, lucenti. E questo pozzo, forse prima d’esser pozzo medievale, fu pozzo romano, e prima di

ricevere in

grembo le secchie da mani guelfe e ghibelline, riceveva in antichi secoli le anfore romane;

mentre sulla via Flaminia soprastante, forse tra le fanciulle succinte nei pepli e gli uomini togati, correvano i soavi distici di Properzio, il poeta paesano”.

Ma torniamo

alla villeggiatura nel casino di Colleallodole, che è il buen retiro di Alinda e Pietro Brunamonti.

Solo nella quiete estiva o autunnale della dimora campestre, la poetessa può chiedere “una lezione dolce in solitudine al cielo stellato, grande maestro di verità” (16 agosto 1889 –

MP VI 79). Purtroppo, il godimento dei graditi soggiorni bevanati dura poco più di un decennio: nel 1898 la poetessa è colpita da una malattia che ne mina il fi sico, indebolendo progressivamente anche le facoltà intellettive. L’ultimo ricordo di Bevagna è appunto quello del periodo di convalescenza successivo

al manifestarsi della malattia:

“Domani 5 ottobre andremo in campagna:

l’aria buona e la vita dei campi mi gioverà forse più che non mi abbiano giovato le medicine.

[...] Respiro la pien’aria sul prato quando è sereno rimanendo seduta fuori per molte ore.

[...] Da 20 giorni siamo in campagna e la mia salute se n’è straordinaria- mente

avvantaggiata.

Vivo all’aria aperta tutto il giorno e in quanto mi riesce senza eccessivamente stancarmi

cammino intorno al prato e mi nutro d’aria e di luce” (4 e 24 ottobre 1898 – MP XII 53-55).Ancor più nella drammatica contingenza che la impedisce, come quando era giovane la ristora “l’alito vivifi cante dei campi”: “Oh se potessi tornare una volta pei campi di giugno a saltar liberamente viottole e fossatelli per le

Da sinistra: Alinda fra il padre Gratiliano, lo zio Fausto e il marito Pietro Brunamonti.

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campagne di Bevagna, verso il bosco di Malcompare e per la salita della Madonna delle Grazie” (10 febbraio 1899 – MP XII 73). Con quanta nostalgia per quella “giovinetta” che, rientrata in casa da una passeggiata nei prati fi oriti, “odorava d’aria”!

(30 settembre 1884 – MP II 56-58) Negli anni successivi, forse, si sarà sentita di nuovo simile ad “un’anima chiusa dentro un fi asco”: “Dove prima respiravo l’aria pura e m’immergevo nelle correnti di soffi primaverili, oggi respiro l’aria morta di quella pancia di vetro non abbastanza tenebrosa per esser tomba, non abbastanza trasparente per esser cielo” (14 giugno 1892 – MP IX 32).

La vita e l’opera

Maria Alinda nasce a Perugia il 21 agosto 1841, primogenita di Gratiliano Bonacci, professore di estetica,

originario di Recanati, e Teresa Tarulli, nativa di Matelica. Esordisce quindicenne (1856) con una silloge di Canti di argomento sacro, offerti al Cardinale Gioacchino Pecci allora Arcivescovo di Perugia (e futuro papa Leone XIII). Nel 1860 compone dei carmi in onore di Vittorio Emanuele nostro Re e un inno Per le vittorie piemontesi, raccolti l’anno successivo nei Canti nazionali. Non rinuncia tuttavia all’ispirazione religiosa, come attestano i Canti alla Madonna pubblicati dallo zio Fausto Bonacci in occasione delle nozze con Pietro Brunamonti (1867). Presentata dal Ministro Francesco de Sanctis alla Regina Margherita come “la prima poetessa d’Italia”, con il volume dei Versi uscito a Firenze presso l’editore Felice Le Monnier nel 1875, grazie ai buoni uffi ci di Andrea Maffei, si afferma stabilmente nel panorama letterario della nuova Italia, seppure la critica – ad iniziare da Benedetto Croce – si ostini ad interpretarla

“Oh se potessi tornare una volta pei campi di

giugno a saltar liberamente viottole e fossatelli per le campagne di Bevagna”

1. Autografo in 12 volumi (Perugia, Biblioteca Augusta, Archivio Brunamonti). Gran parte dei brani sono trascritti nei Ricordi di viaggio pubblicati postumi a cura di Pietro Brunamonti (Firenze, Barbèra, 1905). Li citiamo rispettivamente con le sigle MP e RV.

2. Notizia riportata da “L’Unione Liberale. Corriere quotidiano umbro-sabino”, Perugia, a. XXXII, n. 230, 3-4 ottobre 1913, p. 3. A Villa Brunamonti è dedicata una scheda nel volume a cura di A. FALSACAPPA, G.

MARIOTTI, P. PORZI, Bevagna, gemma del piano, Spello, Dimensione Grafi ca Editrice, 2013, pp. 285-286.

3. Sulla pagina è incollato un ritaglio di giornale che riporta l’indicazione manoscritta Corriere della Sera 5-6 7bre 1992: “Le grandi manovre nell’Umbria esercitazione campale di ieri (per dispaccio al Corriere della Sera) Foligno, 4 settembre, sera”.

4. Teresa Tarulli, moglie di Gratiliano Bonacci, nata a Matelica nel 1814 e morta a Recanati il 6 giugno 1885.

5. Se ne fornisce la traduzione in italiano: “chi allora avesse visto le donne portare in grembo o tenere in braccio i bambini; e altri che s’aggrappavano ai lembi delle vesti, e altri che piangevano stando dietro alle madri...”.

6. A Bevagna si tiene ora nel mese di giugno il Mercato delle Gaite (che vale appunto a dire: dei quartieri).

7. C. TRABALZA, Il mosaico di Bevagna, Perugia, Tip. Umbra, 1907, che esordisce così dichiarando l’identità della padrona di casa: “Qualche anno fa la signora Angiolamaria Pagliochini, nello scavare un fontanile, nella cantina della sua casa posta in piazza Garibaldi, allo scopo di raccogliervi gli eventuali versamenti del vino delle botti, trovava, a circa un metro di profondità, uno strato di mosaico, in cui appariva fi gurata una parte del corpo di un animale”.

subordinandola alla “maniera di Giacomo Zanella”. Quando nel 1887 appaiono i Nuovi Canti, ci si rende però conto che questo giudizio fa torto ad un’ispirazione originale e robusta, confermata nei cento sonetti di Flora (1898), ultimo dono del suo ingegno prima della malattia che tristemente ne minerà il fi sico e l’intelletto.

Nel medesimo anno è pubblicato il volume dei Discorsi d’arte, che documenta gli assidui studi artistici e letterari. Ulteriore attestato di una cultura e sensibilità elevate sono i quaderni di Memorie e pensieri, il diario tenuto nel corso di venticinque anni (1875-1900).

Muore a Perugia il 3 febbraio 1903.

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