Cultura e cultura
di Marco Maschietto
L
’anno nuovo per noi è sempre pseudocatastrofico: bilanci da stilare, analisi da elucubrare, progetti da fare ecc... C’è chi tira le somme con la fine di un anno. Noi no, perchè siamo scansa- fatiche e abbiamo preferito ingozzarci durante le feste dell’anima.Ora, un po’ appesantiti, ci siamo ritrovati e, ovviamente, abbiamo ricominciato a discutere. Potevamo mai per una volta essere pun- tuali e pragmatici? Giammai! Non sarebbe da noi. Suvvia, prendia- mola larga. E fu così che partimmo dalla genesi, salimmo sull’arca di Noè, scansammo Adamo ed Eva, sterminammo i dinosauri e, poco più tardi, l’uomo di Neanderthal, passammo poi per la Meso- potamia salutando i Sumeri, facemmo due discorsi con un paio di faraoni, ci soffermammo a lungo a corteggiare Cleopatra senza il minimo risultato, arrabbiati per essere andati in bianco vedemmo crollare l’impero romano, ci interrogammo sulla nascita del cristia- nesimo, incoronammo Carlo Magno, bevemmo vino e mangiammo selvaggina con sei feudatari, poi prendemmo a schiaffi l’emergere delle signorie, vedemmo per la prima volta l’America, sputammo sul Rinascimento e sulla peste, evviva l’età dei lumi e la Rivoluzione (francese), partecipammo con austerità al congresso di Vienna per poi sfociare in un mare di lacrime nel Romanticismo. Sul Novecento le vedute erano così eterogenee che quasi ci siamo presi a pugni.
Poi una vocetta esile, quasi divina, pronunciò il quesito mistico:
“fioi, ma cossa semo drio far?”. Attimi di terrore. “Scusa, non è che potresti ripetermi la domanda?”
(Certamente. Ho semplicemente chiesto cosa significa, ora, ades- so, in questo istante, fare cultura in Italia?)
Sticazzi. Ok. Partiamo dalle condizioni al contorno. Sì. Allora. Bhe.
Assumiamo, come base per srotolare il ragionamento, questa af- fermazione: nella contestualità diffusa italiana, sì, nulla ha sen- so, nulla ha significato. Tutte le cose più interessanti, i concetti
più belli vengono da fuori, sono extraterritoriali, extracomunitari clandestini o meno. E quindi dovremmo tentare di ridefinire la geografia terrestre. Quella italiana in particolare. Sì. Possiamo dire con estrema convinzione che il Mediterraneo comincia in Svizzera. Ma come non siete d’accordo? Dai, cazzo, per vivere qui uno si deve ogni santissima volta contorcere in faticosissi-
mi esercizi mentali. È difficile qui. Ovvio che tutti scappano.
Ed è ovvio che fuggendo si portano appresso anche il loro cervello. Mica lo possono lasciare a marcire qui. La “fuga dei cervelli” è legittima. Non solo legittima, ma neces-
saria per sopravvivere.
(E quindi lasciamo che la marcescenza diven- ga paradigma?)
Oh. Ma come cazzo parli? Smettila di fare il fico, che tanto non ti caga
nessuno.
No. Non dico questo.
Mica la voglio ab-
bando-
nare a se stessa questa povera Italia.
Ascolta: l’Italia cos’è se non una piccola, vecchia, aiuola?
Dico rispetto al giardino del mondo.
E quindi capisci che per ridargli vita devi curare il giardino intero. Mica puoi perderti a togliere ogni filo d’erba solo ed esclusivamente dalla tua aiuola. L’erba continuerà a crescere in conti- nuazione finchè esisterà in tutto il giardino.
(Bella metafora del cazzo. Complimenti!)
Maddai. Mi fa un po’ pena sta roba. Siamo il paese dei tossici contro la droga, dei bigotti contro il fondamentalismo religio- so, degli emigrati che odiano gli immigrati, della guerra demo- cratica e pacifica. L’Italia campione del mondo, l’Italia brava gente, l’Italia dei trentenni mammoni tutti in famiglia, l’Italia che andrà da Palermo a Londra in sei minuti netti, ma che se devi andare da Meolo a Padova ci metti minimo tre giorni, l’Italia che ha paura (soprattutto di se stessa), l’Italia che ha per ogni cor- po delle forze dell’ordine il suo bel telefilm, ne facessero uno anche sulla Mafia (che come forza dell’ordine non scherza)
(Hai finito?) ==> (No)
L’Italia dei misteriosi misteri e della giustizia ingiusta e sommaria, tipo che: “ciapa qua, magnate sta caramea e sta bon”, l’Italia che fa dei numeri statistici verità, ma che se avesse studiato statistica saprebbe che è tutta una fuffa, l’Italia che è sovrana ma c’è il Vati- cano e c’è pure il Cermis.
(Lascialo parlare, fra poco si spegne. Fa sempre così)
L’Italia della libertà, quella che puoi dire quello che ti pare, ma che sei ascoltato e controllato anche quando vai a pisciare, l’Italia ma- scolina dal cazzo duro, ma dillo piano che se ti sentono i preti..., l’Italia che soffoca nello smog, ma prova a far lasciare la macchina a casa che poi ci vediamo fuori.
(Bene. Ti sei sfogato?) ==> (Abbastanza) ==> (E se tornassi alla do- manda precedente?)
Ah. Scusatemi, mi sono lasciato prendere la mano. Sempre la rab- bia, mai che sia una bella figa.
Comunque, credo che qui entriamo in robe davvero grosse. Que- stioni intendo. Hai presente l’utopia? Ecco. E quindi? E quindi uno come fa? Come fa se il contesto in cui vive, se la terra dove poggia i piedi, è esattamente agli antipodi di quella che è la sua concezione ideale di territorio? E se le persone che lo circondano allontanano, con le loro azioni, con i loro atteggiamenti, ancor di più quello che è già utopico? Se abbassano di un ordine l’infinito rallentandone la velocità di convergenza?
(Varda che a questo ghe fa mal studiar).
Allora uno come fa? Cosa fa? Ci prova lo stesso? Ci prova, o no?, ad uscire da questa situazione? Prova a creare dei piccoli nuclei aspettando che s’accrescano?. Ecco! Questo vuol dire fare cultura oggi: proliferazione inconsulta di nuclei e accrescimento. La via di fuga va cercata con la consapevolezza che non esiste, e se esiste è probabilmente l’esodo in un nuovo pianeta.
(E il senso del provarci? Uno non rischia di rompersi – in tutti i sensi - ?)
Il senso è quello di ribaltare TUTTO. Capisci? Solo che si corre il
Punto G.
rivista di cultura e critica sociale a cura dell’associazione culturale Punto G.
Quest’opera è stata rilasciata sotto la licenza Creative Commons Attribuzione-NonCommerciale- StessaLicenza 2.5 Italia. Per leggere una copia della licenza visita il sito web http://creativecom- mons.org/licenses/publicdomain/
I numeri arretrati sono disponibili on-line sul sito www.puntogiovane.it/rivista Se vuoi scrivere sulla rivista, manda una mail a: [email protected]
Collettivo redazionale:
Responsabile editoriale: Stefano Radaelli
Federica Alfier, Alberto Boem, Serena Boldrin, Francesca Caselotto, Giovanni Lapis, Marco Maschietto, Lorenzo Monni, Alice Montagner, Ferdinando Morgana, Marta Muschietti, Marco Piovesan, Alessandro Rosengart, David Vian, Marco Zamuner Impaginazione e grafica: Marta Muschietti, Marika Tamiazzo, David Vian
supplemento alla testata “Radio San Donà” Iscrizione n°1084 trib di VE del 22.02.92 direttore responsabile: Andrea Landi
rischio di sfocare la dimensione immediata del desiderio; focalizzan- do invece quella, a lungo termine, delle sorti dell’umanità. Il che è giusto e nobile. Però ha senso solo ed esclusivamente in un contesto distrutto ma ancora dignitoso e decoroso. Ti sembra che l’Italia rientri in questo caso? A me NO.
(Comincio a non capirci più nulla. Cosa si fa? Ci uccidiamo tutti?) No. Ma, allora, vedi che l’esodo di cervelli comincia ad avere una spie- gazione chiara e limpida? Ma guarda che questo non significa un tra- sferimento necessariamente fisico. Pensa solo alla scena indipenden-
te, tipo quella musicale. Ci sei? Prendi un paio dei gruppi più noti, tipo Giardini di Mirò e Yuppie Flu. Due a caso. Ti sembra che loro scrivano le loro canzoni pensando al pubblico italiano? Che abbiano scelto la lingua inglese perchè è più melodica della nostra? Figuriamoci! E lo stesso vale per la letteratura e per tutto il resto.
Noi siamo vittime di un’ottica limitata e territoriale. Solo uscendo da questa concezione potremmo riprendere a fare cose interessanti. La rete ce lo consente. Il mondo è diventato piccolo. Sta a noi.
C
ontagiato, come gli altri ragazzi di oggi, dagli abbagli scintillan- ti delle nuove tecnologie di con- sumo, ho acquistato man mano una serie di trastulli che mi sembravano indispensabili. Il computer portatile dal quale sto scrivendo perché il fisso è scomodo, il lettore mp3 che ormai è irrinunciabile, il telefono di nuova generazione che altrimenti come fai a scattarefilmareconnettere… in-somma, i vari passe-partout che gli standard di vita moderna ci suggeriscono giorno per giorno.
Una triste mattina, un paio di settimane fa, ho ceduto alla ten-
tazione e, ispirato dai racconti mirabolanti del Casanova di turno, ho approfittato della prima spesa per comperare l’anello vibrante
“Durex”. Scettico su quello che avrei trovato, incuriosito e inca- pace di capire con quale “oggetto” mi stessi recando alla cassa, insomma mosso da mille curiosità e da decine di improbabili so-
spetti, mi sono diretto verso casa con il mio giocattolo.
Da allora sono passate tre settimane e all’apertura della plastica protettiva che celava questo improbabile giocattolo non è mai se-
guito l’uso. La mente mi si è aperta contemporaneamente a quel
“criiik” sintetico di carta plastificata recisa. E mi sono reso conto di come la diffusione strepitosa che sta conoscendo la tecnologia negli ultimi anni presenti una serie di corollari, alcuni ovvi e altri che così ovvi non sono.
Il plastificarsi e sintetizzarsi del corpo umano, delle emozioni, dei sogni ne è, ad esempio, conseguenza diretta e tutto sommato abbastanza spaventosa da meritare un atteggiamento guardingo.
Nell’analisi di tali questioni non sono mai stato mosso da cleri- cali istanze moralizzatrici, ma solo dai miei dubbi: è chiaro, ad
esempio, che sostituire la relazione personale con una chat può rappresentare un’opportunità o un rischio per la propria salute mentale; ascoltare miscellanee di mp3 anziché cercare il filo conduttore del classico vecchio disco in un gracchiante let-
tore (senza antishock) può essere un modo per creare un mondo musicale nuovo oppure causare una per-
dita di identità artistica nel- l’ascolto.
Tenere un myspace può essere una via per farsi conoscere ag- girando le logiche schizofreniche del mercato come può alienare e rinchiudere in una vita parallela, dove il virtuale e il reale si fondo- no in una nuova dimensione sen- za spazio vivo e senza contatto. Il sesso virtuale, invece, non riesco a sdoganarlo; nemmeno in nome di questo velocissimo neo-futu- rismo dal quale la mia agnostica generazione risulta pervasa. “Ses- so” e “virtuale” sono due categorie semantiche inconciliabili, perché una fa riferimento ad un mondo puramente sensibile e reale, l’altra ad un mondo per definizione artificiale, etereo, informatico. Volerle fondere è un esperimento che mi spaventa. Non vedo mondi erotici sconosciuti e possibili fra i tasti neri di un PC: non ci riesco. E sono, lo ammetto, spaventato e confuso di fronte a certi nuovi costumi, ai rapporti videofilmati, ai porno sul cellulare, al “sesso” via chat, ai deliri fantascientifici di qualche folle che propone, di tanto in tanto, tute ergonomiche e scafandri computerizzati con i quali simulare il sesso tramite calcolatore fra persone lontane e sconosciute. Sono dell’idea che il sesso debba restare un genuino “vedersi-piacersi-conoscersi-e poi eventualmente…”; è un gioco, un gioco vitale ma infinitamente uguale a se stesso, che attraversa epoche e millenni. Se vogliamo, una necessità primaria. Non diversa dal bere, uguale al respirare:
come si potrebbe mai informatizzarla?
Il “tutto subito” che l’epoca postmoderna ci propina con ogni mezzo sembra portarci in questa direzione: il futuro si avvicina sempre più, e l’oggi ci presenta l’antipasto al gusto di anellini “Durex”. Ma io NON mi voglio trasformare in un vibratore organico. Mi oppongo, con tutto me stesso.
L’ho pagato 7.40 €. Se qualcuno lo volesse, lo vendo a metà prezzo.
Occasione.
Mai usato.
Contattatemi.
vendo anello vibrante durex
(mai usato)
di Marco Zamuner
Una di quelle storie che solo Internet sa inventarsi
di Alessandro Rosengart
N
el web si possono trovare numerose storie come que- sta, dove fatti, nomi, per- sone o cose sono inven- tati e combinati in modo fantasioso da qualche burlone. Questa, in parti- colare, parla di un aspet-to della globalizzazione – lo sfruttamento dei paesi poveri – e l’ho notata tra le altre perché il protagonista che il suddetto burlone ha scelto è molto vicino a noi.
La United Colors of Benetton, da grande multinazionale qual è, non si è tirata indietro davanti alla prospettiva di guadagnare sulle spalle dei più deboli: in questo caso un popolo delle pampas argenti- ne, i mapuche. Il nome significa “popolo della terra” e vivono da
dodicimila anni nell’America del Sud. Sono seminomadi, vivono di caccia e pesca e l’agricoltura che praticano si basa sulla pro- prietà collettiva. Tuttavia sarebbe meglio dire “l’agricoltura che praticavano si basava sulla proprietà collettiva”, dal momento che la storia moderna dell’Argentina li ha travolti, lasciandoli privi di risorse.
I guai per i mapuche iniziarono nel 1872. Erano sopravvissuti agli Incas e ai Conquistadores spagnoli, ma quell’anno la neo- nata Repubblica Argentina promosse una campagna militare per unificare i territori meridionali nota come “campaña del desier- to”. Inizialmente “deserto” perché le pampas, nonostante i nu- merosi nativi che le popolavano, erano considerate disabitate;
ma si ridussero veramente a una landa desolata quando i militari trucidarono le famiglie dei Mapuche. Il generale che ordinò il ge-
nocidio si chiamava Julio Argentino Roca, e ora, in Argentina, è considerato un eroe nazionale.
I mapuche subirono altre sconfitte e altre beffe. Nella costitu- zione argentina originale, rimasta in vigore fino al 1994, non fu riconosciuta la presenza di nessun popolo nativo, per cui i territori che un tempo appartenevano a loro furono privatizzati.
Senza un luogo dove vivere alcuni emigrarono verso Ovest, nelle aspre montagne della cordigliera andina o in Cile.
I mapuche cileni, nel XX secolo, furono aiutati dal presidente Al- lende che donò loro 700.000 ettari di riserva. Ma con la dittatura di Pinochet il territorio fu ripreso, e i popoli sgomberati.
I mapuche rimasti in Argentina non furono meno sfortunati: la privatizzazione della pampa continuava ormai da un secolo, e nel 1994 il presidente Carlos Saúl Menem concludeva il più
“grande” affare di sempre con... sì proprio con l’azienda di Pon- zano di Treviso: la United Colors of Benetton. Ecco l’accordo: Me- nem avrebbe venduto 900.000 ettari della pampa più fertile alla Benetton, la quale avrebbe pagato 57 milioni di dollari. L’affare fu “grande” solo per l’estensione del territorio (più di un milione di campi da calcio) se si considera che, calcolatrice alla mano, il suo prezzo al metro quadrato fu di circa 0,006 centesimi di dol- laro. Veniva praticamente regalata l’unica fonte di sopravvivenza
dei mapuche.
Credo sia superfluo aggiungere che ora la Benetton in Argentina alleva 280.000 pecore producendo ogni anno 6.000 tonnella-
te di lana (il 10% del fabbisogno delle industrie) e che, nella loro proprietà, hanno scoperto anche giacimen-
ti mine- rari. Po- tevano essere la ricchezza dei nati- vi; ora, invece, sono il “rischio d’impre- sa” dei padroni.
Dopo la svendita del loro territorio, i mapuche furono costretti ad abitare i terreni limitrofi, i quali era- no tuttavia già stati privatizzati da aziende straniere: restavano quindi solo gli avanzi, i campi meno fertili, lontani dai corsi d’ac- qua, senza luce né gas. La caccia allo struzzo oggi viene con- trollata dai padroni dell’appezzamento più esteso, e allo stesso modo la pesca (buona parte del fiume Chubut è loro). L’unica possibilità è cercare lavoro nell’impianto di lavorazione della lana a Cosu-Lan (indovinate di chi è…) o emigrare nelle città.
Così fece la famiglia mapuche Curiñancos, trasferitasi ad Esquel (città lungo il fiume Chubut) per guadagnare un salario da fame nelle fabbriche locali: la loro storia è il chiaro esempio di come la United Colors abbia il controllo di ogni cosa.
Nel 2001 l’economia in Argentina collassò e questa famiglia si ritrovò, assieme ai molti altri disperati, in mezzo alla strada.
Chiesero al governo di poter tornare al loro vecchio podere di Santa Rosa, convinti che almeno con l’agricoltura sarebbero riusciti a sfamarsi. Inizialmente ottennero il consenso; rioccu- parono i campi e li coltivarono. Otto mesi dopo, però, giunse un ambiguo comunicato governativo in cui il lotto Santa Rosa era di- chiarato “zona commerciale riservata a progetti di micro-impre- sa”. Il chiarimento arrivò brutalmente il 30 agosto 2002, quando l’ufficio locale della United Colors dichiarava quel terreno sua proprietà; seguì una querela ai Curiñancos e un raid della polizia che li sgomberò e abbattè la casa appena costruita, costringen- doli a tornare ad Esquel. Il loro campo, da allora, giace abban- donato.
Il capofamiglia dei Curiñancos commenta: “noi siamo venuti a coltivare senza voler dare fastidio a nessuno. Noi non abbiamo tagliato recinzioni, non siamo entrati di notte, non ci siamo nascosti.
Abbiamo aspettato che qualcuno venisse e ci dicesse se qualcosa non andava bene, ci presentasse un documento dove ci fosse scritto che la terra apparteneva a qualcuno, ma nessuno si è mai presentato”.
Questa è la situazione dei Curiñancos e di tutti i mapuche che prova- no ad opporsi agli invasori. In queste battaglie vengono sconfitti e, peggio ancora, le loro storie rimangono nell’ombra.
Il mondo ignora le loro sventure e le multinazionali continuano, ric- che ed impunite, nel loro sfruttamento dei paesi poveri.
Feedback
www.puntogiovane.it [email protected]
www.myspace.com/puntogiovane
S
ono passati poco più di 5 anni dall’11 settembre 2001, il giorno in cui due aerei si schiantarono sulle Torri Gemelle del World Trade Center di New York e un terzo aereo si diresse contro una facciata del Pentagono. Ad oggi, circolano ancora molte ipotesi volte a sostenere una versione dei fatti diversa da quella ufficiale; versione secondo cui vi sarebbe un inequivocabile coinvolgimento del governo americano nella tragedia.Cosa c’è di vero in tutto ciò? Perché a distanza di anni si continua a parlare delle cause e della dinamica di un evento di tale entità? Per- ché nessuno fino ad ora è riuscito a dare una spiegazione del tutto convincente?
La questione è ben più complessa di quel che può apparire a prima vista, soprattutto da quando sono entrati nel dibattito alcuni perso- naggi denominati “cospirazionisti”, termine con cui si vuole intendere chi propone versioni dell’accaduto riguardanti la complicità dell’am- ministrazione Bush nell’accaduto.
Con questa serie di articoli ci proponiamo di presentare al lettore un panorama quanto più completo e chiaro della questione, pur nei li- miti di un normale articolo di giornale. La mole di documenti è infatti
talmente imponente da riempire volumi interi, la cui consultazione è peraltro liberamente disponibile via internet;
sarebbe da sconsiderati credere di poter riassumere tutto in po-
che righe.
Vogliamo inoltre sottolineare che le spiegazioni riportate in questo articolo proven-
gono da varie fonti, più o meno autorevoli, e che nessuna di esse pretende di rappresentare la verità ultima e indiscutibile. Si tratta semplicemente di obiezioni alle più comu-
ni tesi cospirazioniste, per cercare di eliminare la grande quantità di inesattezze e insensatezze circolanti su siti internet, programmi tv e quant’altro.
Cominciamo dunque il nostro breve riassunto trattando quello che è forse il tema di discussione più frequente: perché le Torri Gemelle sono crollate? Come fa un edificio in acciaio ad accartocciarsi su se stesso e a crollare come un castello di sabbia, a seguito dell’impatto con un Boeing 767 e ai vari incendi che ne sono seguiti?
Il WTC-1 e il WTC-2 (la denominazione ufficiale delle Torri Gemelle) avevano una struttura portante in acciaio (il cosiddetto core) definita
“tubolare”, ovvero un corpo quadrato centrale collegato al resto della struttura da colonne di sostegno in cemento armato. Effettuare para- goni tra le capacità di resistenza agli sforzi delle Torri Gemelle e altri grattacieli è dunque privo di senso, perché le strutture di base sono radicalmente diverse.
Nessuno allora aveva previsto il possibile impatto con un aeroplano civile, data anche la relativa vicinanza del complesso all’aeroporto?
Sì, i progettisti del WTC l’avevano previsto, ma erano stati evidente- mente troppo ottimisti. Ritenevano infatti possibile lo schianto di un (uno solo) Boeing 707 in atterraggio in condizioni di nebbia densa.
Facciamo però notare che un Boeing 767 è circa del 20% più grande di un 707, e, soprattutto, un aereo in atterraggio non prende la mira sulle Torri Gemelle a circa 800 km/h, tranciando di netto le colonne portanti in cemento e obbligando dunque il core in acciaio a reggere tutto il peso dei piani superiori.
Dunque l’impatto e l’incendio sono stati sufficienti a far crollare en- trambi gli edifici? Eppure altri grattacieli hanno bruciato per ore, a vol- te giorni, senza crollare. Ricordando la differenza fondamentale cui abbiamo accennato sopra, sottolineiamo anche che nessun grattacie- lo prima dell’11 settembre era stato colpito da un Boeing 767 a velo- cità di crociera. Abbiamo inoltre sentito più volte che il grande calore sviluppato dagli incendi ha causato la fusione dell’acciaio strutturale.
Questo è inesatto, oltre che impossibile. L’acciaio di cui erano com- poste le Torri Gemelle, a temperature superiori ai 600 °C, perde circa l’80% delle sue capacità di resistenza originaria. Il kerosene (il carbu- rante degli aerei di linea) in fiamme sviluppa calore per circa 800 °C.
Se questo non dovesse bastare, esiste un modo molto semplice per smantellare le teorie secondo cui vi sarebbe stata una demolizione controllata dell’edificio. Come si può vedere dagli innumerevoli filma- ti circolanti su internet, sono sì presenti degli sbuffi verso l’esterno in alcuni punti dei grattacieli, ma provate a confrontarli con filmati di demolizioni controllate accertate: noterete che gli sbuffi (in gergo squid) interessano tutto il perimetro dell’edificio, ed è ovvio che sia così, perché esplosioni isolate causerebbero un crollo asimmetrico della struttura, cosa decisamente inaccettabile per demolizioni che
Il crollo delle Torri Gemelle
di Dario Tuchetto
Inchiesta Da leggersi preferibilmente entro: FEBBraio 2007
9/11: CASO APERTO
IL MARINÒSCOPO di Gennaio
di LiliaGee
interessano edifici in centri urbani. Inoltre gli sbuffi sono visibili prima dell’inizio del crollo, non dopo: quelli delle Torri Gemelle sono visibili solo successivamente al crollo dei piani superiori, il che fa pensare a spaccature del cemento causate dalla pressioni dei piani superiori in caduta. Se tutto ciò non bastasse, ricordiamo che l’organizzazione di una demolizione controllata richiede molti giorni e uomini altamente specializzati per edifici di gran lunga più piccoli del WTC 1 e 2.
Nei video dei cospirazionisti si sentono più volte citare esperti come Steven Jones, David Ray Griffin, Kevin Ryan e altri. Ma chi sono vera- mente queste persone? Qualche breve ricerca in internet può aiuta- re.
Il professor Steven Jones è docente di fisica presso l’Università di Brigham Young, specializzato nei processi di fusione fredda. Le sue teorie sono state smentite dai suoi stessi colleghi, compresi i docenti di ingegneria civile. Il professor Jones sostiene inoltre che Cristo sia nato in Sud America. Il professor David Ray Griffin è un docente in pensione di filosofia della religione e teologia. Si è interessato in passato di parapsicologia e telecinesi.
Il professor James H. Fetzer insegna filosofia. Il dottor Kevin Ryan è impiegato presso gli Underwriters Laboratories nel settore del con- trollo della qualità dell’acqua. Come si può facilmente immaginare, queste persone non hanno le credenziali per poter discutere del crollo di edifici.
Questi sono solo alcuni succinti punti d’analisi sul crollo delle Torri Gemelle, veramente un granello di polvere in confronto alle discus- sioni ancora accese su svariati siti web. Invitiamo pertanto il lettore interessato a condurre in proprio ricerche d’approfondimento, e so- prattutto a non prendere ciecamente per buono questo articolo, così come qualsiasi altra fonte in cui possa imbattersi.
Consigli e avvertimenti da una che ne sa. A manetta, proprio...
Scegli la personalità più vicina alla tua e poi corri a consultare le dritte per un carnevale al top!
PERSONALITÀ
B
alena: dalla personalità esibizionista, siete però molto timidi e indeci- si... seh! Chi ci crede??S
gombro: in generale non riuscite a convincervi che è la terra a girare intorno al sole e non il contrario (perciò ammettete di non essere dei grandi studiosi di scienze e accettatevi per quello che siete – spassiona- tissimo consiglio personale).T
richeco: diciamo che scarpine di Gucci e berretti Fendi non fanno per voi. Ma allora perché c’è un Cayenne nel vostro garage?D
elfino: tendenti a burlarsi degli amici e ad assumere atteggiamenti goliardici nei confronti si superiori e istituzioni, siete ammirati per la vostra capacità nel risolvere i sudoku.O
rca: imponenti ed imperiosi, siete temuti un po’ da tutti. Inoltre siete sempre di fretta (in realtà la vostra malattia si chiama “ritardo cro- nico”; ma c’è il segreto professionale, non posso sputtanarvi così davanti a tutti!).DRITTE
B
alena: se Paris Hilton è il vostro modello estetico, Mercurio consiglia di rivolgervi a Shakira per un re-styling.S
gombro: le stelle vi impongono di fare il bilancio della vostra vita.Un laureato in economia sarà pronto ad aiutarvi – dietro compenso, ovviamente.
T
richeco: compiti per casa: scrivere 100 volte “so di essere uno sfigato, ma me ne faccio una ragione e vado avanti”. Aiuterà la vostra auto- stima.D
elfino: la luna è positiva e dice: la vita è un’autostrada da percorrere senza freni... che culo! Non dovete neanche fermarvi al casello per pagare!O
rca: Urano provocherà delle piccole sbucciature: comprate dei cerotti.In ogni caso, non allarmatevi: Venere curerà le vostre ferite. Volete il suo numero? Contattatemi qui: [email protected]
LINK D’APPROFONDIMENTO:
Rapporto finale della commissione d’inchiesta sull’11 settembre:
http://www.gpoaccess.gov/911/index.html
Pagine web della rivista Popular Mechanics sull’11 settembre:
http://www.popularmechanics.com/technology/military_
law/1227842.html?page=1 Ottimo blog sull’11 settembre:
http://undicisettembre.blogspot.com/
Sito del NIST (National Institute of Standards and Technology) sul WTC:
http://wtc.nist.gov/
Anteprime dal volume “Porto Marghera - La legge NON è uguale per tutti”
di Claudio Calia, edizioni Becco Giallo. Uscita prevista per la primavera 2007.
A Febbraio, sulla rivista Punto G., ulteriori approfondimenti in un’intervista con l’autore.
Nuvoleonline
Disegni, scritti, fumetti
http://nuvoleonline.splinder.com
Il pascolo
Io mi chiamo Giorgio, lei è Lisa rubrica critico-musicale di Lorenzo Monni
C
he bella giornata ieri. E pensare che era iniziata nel peggiore dei modi. Infatti la mattina avevo inforcato la cornetta del telefo- no per chiamare una nota ditta di onoranze funebri della zona.Dall’altro capo del telefono mi rispondeva una voce gentile e servile, chiedendomi in cosa potesse essermi d’aiuto. Io dicevo più o meno così: “Salve, sì, dovrei organizzare un funerale, perché è morta una mia cara amica e nessuno si è ancora preso la briga di darle una degna sepoltura”. “Condoglianze, mi comunichi i dati della persona decedu- ta”. “Musica”. “Come prego?”. “Musica, con la M maiuscola, senza cognome. Era l’unica a chiamarsi così”. “Cos’è, uno scherzo?”. “No, le assicuro che è morta. L’ho visto coi miei occhi”. “E come mai sarebbe morta?”. “La causa non la conosco con certezza, anche se la posso im- maginare. Le conseguenze sono sotto i nostri occhi. Gente che chiama col nome di ‘cantautori’ i vari Biagio Antonacci, Laura Pausini, Vasco Rossi... io c’ero affezionato alla figura del cantautore, alla quale asso- ciavo gente come De Andrè, Gaber, Tom Waits, Nick Drake, Bob Dylan, Tim Buckley…”. “Oh, ma io posso benissimo dimostrarle che la mu- sica è viva e vegeta. Uscendo dalla superficie delle sue dichiarazioni può rendersene sicuramente conto. Se vuole posso dimostrarglielo di persona. È libero stasera? Passo a casa sua per definire la questione cantautorato, così vedrà che non dovrà assiste-
re a nessun funerale della Musica”.
La sera il tipo con cui ho parlato al telefono sa- rebbe arrivato sul serio e avrebbe bussato alla mia porta. Si presenta sul portone una persona di una certa età, con i capelli vagamente arruf- fati, dal naso aquilino, “Salve, io sono Giorgio, le ho portato un paio di regali”. Tira fuori due compact disc e me li porge con sguardo sornio- ne, come fosse un gesto naturale. Guardo il pri- mo e scorgo il nome dell’autore, è una donna:
una certa Lisa Germano. “Ho visto sa, come ha guardato il disco. Lei è un maschilista”. “No, assolutamente... è che dal punto di vista mu- sicale... in effetti sì, sono un po’ prevenuto”.
“L’avevo capito. Lei è uno di quelli convinti che la donna sia coinvolta sessualmente in tutte le
vicende della vita, a volte persino nell’amore”. “No guardi, si sbaglia.
Ma si sieda pure, e parliamo di musica piuttosto”.
Così prendo il primo dei due cd, dal titolo Geek, the Girl, e lo inserisco nel lettore. Nel frattempo Giorgio interloquisce: “Lei deve essere un tipo a cui piace accusare la società d’oggi, immagino. L’ho capito da come pronunciava i nomi di quei cantanti moderni stamattina. E ma- gari continua ancora a prendersela con Sanremo. Anch’io a volte accu- so Sanremo e il mondo della canzone. Però, senta un po’: se le telefo- nassero un giorno quelli del festival, lei non accetterebbe comunque di partecipare?”. “Shht! Stia zitto, che sta cominciando il cd...”.
Il disco dell’italo-americana Lisa Germano si apre con una tarantella, che sembra essere trasmessa da una radio, tarantella che si ripeterà più volte in seguito, facendo da contrasto rispetto al resto della musi- ca e alla voce flebile di Lisa, talvolta lamentosa o volutamente infan- tile, tesa, estraniata, umana. Lei non è una tipa a cui piace apparire, per questo non è molto famosa ed è rimasta nel circuito indipendente americano, come mi spiega Giorgio, diventando però, per chiunque si avvicinasse alla sua musica, la maggiore cantautrice degli anni ’90.
Suonato e registrato a casa sua nel 1994 (lei suona quasi tutti gli stru- menti presenti nel disco) con l’aiuto del solo Malcom Burn, Geek, the Girl è considerato da molti il suo capolavoro. Il primo di una serie di
grandi dischi che arrivano fino all’ultimo, In the Maybe World, datato 2006. Geek the Girl è un album dalle atmosfere certamen- te sofferte, non accomodanti, talvolta spettrali. Ascoltando con attenzione mi è quasi sembrato che Lisa Germano in questo lavo- ro non parlasse a un ascoltatore, ma solo a se stessa, evocando disagi e paure, in ogni storia che racconta. Le sue composizioni si ergono nude, arrangiate con poche note sapientemente dosate, un violino qua, una chitarra là, un accenno di batteria. Ricordano a tratti i passaggi più oscuri dei lavori solisti di Nico, altre volte Joni Mitchell, altre volte ancora (quando sussurra) le atmosfere di Nick Drake.
Certamente non si tratta di un disco da suonare con la chitarra in mano insieme agli amici nella serate estive. È musica che va ascoltata da soli, più volte, senza fare altro, come piace a me e al mio ospite Giorgio. Nelle canzoni non ci sono ritornelli, semmai fi- lastrocche. Ci troviamo davanti alle confessioni di una donna indi- fesa, angosciata, risolte alla fine del cd, dove per la prima volta si intravede la speranza. Ma prima bisogna passare attraverso brani che indagano sulle inquietudini sessuali (Geek, the Girl), sul si- gnificato esistenziale del fallimento (A Guy Like You) e soprattutto
sull’impotenza della donna vittima di uno stupro in A Psychopath, pezzo dotato di un’armonia vagamente orientaleggiante e languida, dal ritmo incerto, oscillante tra momenti di puro minimalismo ed esplo- sioni dissonanti.
In effetti, a pensarci bene, non si tratta di canzoni, ma di epitaffi dal clima funereo, colmi di bellezza vitale, di preghiere can- tate, con un sottofondo talvolta folk-etnico, talvolta musica classica; o pop sperimenta- le, con accenni rivisitati della psichedelia colta di John Cale. Tra l’altro la strumentale Phantom Love dimostra quanto Lisa sia pri- ma di tutto una musicista dalla sensibilità unica, oltre che dalla voce penetrante.
E mentre arriva la canzone finale, Stars, piena di speranza e di redenzione, come se fossimo alla fine di una Messa, io mi rivolgo a Giorgio: “Certo, lo dovrò riascoltare con calma, però mi pare un po’ troppo da intellettuali”. “Ma che dici?
Questa non è roba da intellettuali. Gli intellettuali sono razionali, lucidi e imparziali, cercano sempre delle risposte, vogliono avere ragione. In questo disco non c’è la ragione, non c’è lucidità”. “Sì, però concorderai sul fatto che gli intellettuali fanno riflessioni, considerazioni piene di allusioni, e questo disco, sia nelle note che nelle parole mi sembra stracolmo di allusioni, di amarissime riflessioni”. “Più che riflessioni sono preghiere lievemente dispe- rate”. “Sai, penso che noi giovani d’oggi non siamo più abituati a gustarci un lavoro come questo, che rischia di entrarci dentro e schiacciarci in una solitudine fastidiosa. Perché la voce di Lisa Germano mi suggerisce questo: solitudine. Una solitudine mala- ta, folle”. “Ma la solitudine non è mica per forza pazzia, anzi io sono convinto che sia indispensabile per star bene in compagnia”.
“Sarà, ma ora sarei curioso di vedere anche l’altro disco…”.
Mentre dico quelle parole Giorgio mi interrompe e, dopo aver guarda- to l’orologio si alza furtivamente e si dirige verso la porta. Ha fretta:
“Oh, com’è tardi, scusami, ma io ora torno a casa mia”.
Almeno tu nell’universo
Rubrica di poetica “meccanica”
del cielo a bassissima velocità.
Con la somma incuria e incostanza di Marco Maschietto
O
hi!? Ma cosa vi è successo? Nemmeno una mail questo mese. Piango di un pianto disperato. Lacrime di frustrazione e struggimento. Sì. Io sono STRUTTO. (Certe volte rimango sbalordito dall’ilarità della lingua italiana). È tutta colpa vostra.Sappiatelo. Ascoltate questo mio personalissimo grido d’accusa.
Perché, perché mi avete abbandonato? Non è possibile che non vi sia rimbalzata nella testa nemmeno una preoccupazione, nemmeno una perplessità, nemmeno un maledettissimo dubbio. Non è POSSIBILE.
Non posso essere stato così chiaro. E quindi tento di farmene una ragione immaginando che anche la vostra panza si stia espandendo come l’universo e che questa sia la causa del vostro SILENZIO.
E dunque proseguo riprendendo il filo di un discorso a cui difficilmente riuscirò a dare una fine.
A dicembre ho sottolineato la “totalità” dell’universo, e, nel suo essere TUTTO, ho individuato, grazie alla complicità degli amici Hubble e Einstein, l’“assoluta” certezza che qualcosa si muova e stia crescendo in un’espansione che ha dell’incredibile.
Ora però rimane aperta una questione di non poco rilievo: quella del presente e del futuro.
A che punto d’espansione siamo arrivati? Questo processo continuerà?
Continuerà all’infinito? Si bloccherà? Imploderemo? Cosa ne sarà di noi? Boh...
Velocità di fuga (che è anche una bella metafora)
Nel periodo dell’adolescenza, con i suoi furori e le sue debolezze, ho conosciuto il desiderio d’evasione e di fuga. Con rabbia, spregiudicatezza, velocità e lentezza. L’unica cosa che mi ha ancorato fisicamente al suolo è stata la pesantezza della forza di attrazione gravitazionale e quella brutta forza peso di una semplicità matematica irritante:
F = mg
Stop. Quando ho scoperto che per vincerla, che per riuscire ad allontanarmi definitivamente dalla terra, avrei avuto bisogno di raggiungere alla partenza una velocità superiore agli 11 chilometri
che si ha fisicamente il destino piantato qui, per chiunque tenti di sopravvivere cavalcando l’infinito mondo dell’idealismo, risulta essere uno smacco drammatico. Piangete dunque se volete fuggire e se non riuscite a varcare quella soglia, di 11 chilometri al secondo, che gli scienziati chiamano “velocità di fuga” attribuendogli non pochi significati “metafisici”.
Se non fosse ancora chiaro, immaginate, ora, di essere una pietra.
Potete ben capire che se verrete gettati in aria ricadrete a terra schiantandovi a causa della forza di gravità terrestre. Quanto maggiore sarà l’“energia” con cui verrà impressa la forza che vi scaglierà, tanto più in alto salirete nel cielo prima di un’ineluttabile caduta. Ovvio. Ma se per qualche miracolo divino riuscirete, nel vostro slancio, a lasciare per sempre la terra e a dimenticarvi dell’esistenza della forza gravitazionale, beh, state pur certi che avrete superato la soglia di 11 chilometri al secondo, la velocità critica di lancio per i razzi o per ogni sostanza organica o inorganica che voglia partire senza ritornare.
Considerazioni del tutto simili si possono applicare a ogni sistema materiale in esplosione o in espansione ritardato dall’attrazione gravitazionale. Se l’“energia” del moto rivolto verso l’esterno è superiore a quella creata dall’attrazione gravitazionale, che è sempre attrattiva e quindi rivolta verso l’interno, l’oggetto supererà la velocità di fuga e continuerà ad espandersi. Viceversa, se l’attrazione che la gravità esercita fra le particelle che compongono l’oggetto in espansione è più forte, allora esso a un certo punto cesserà d’espandersi e comincerà una irrevocabile contrazione fino alla dimensione Zero (come fa la pietra sulla terra).
Ecco. Così avviene anche con gli universi in espansione come il nostro. E se la velocità d’espansione risultasse proprio essere uguale, dalla prima all’infinita cifra decimale, alla velocità critica?
Viaggiare sulla soglia dello spartiacque critico
Eh... c’è un mistero, che è forse uno dei più enormi in assoluto, perché sembra proprio che il nostro universo si stia espandendo ad una velocità incredibilmente vicina alla velocità critica. Così vicina (maledizione!) che non ci è possibile capire se siamo da una parte o dall’altra dello spartiacque. Impossibile, dunque, ogni tipologia di previsione a lungo termine. Anche il destino dell’universo è vittima dell’incertezza, la stessa che governa la vita della terra in quest’ultimo, effimero, brandello di tempo.
Per alcuni cosmologi la casualità non esiste, e facendosi forti di questa aprioristica convinzione, tentano da anni di dimostrare il fatto che l’enorme vicinanza alla soglia critica sia una caratteristica così peculiare da richiedere necessariamente una spiegazione. E questo è veramente un grossissimo rompicapo.
La situazione è questa: l’universo si sta espandendo da almeno quindici miliardi di anni, ma è ancora estremamente vicino allo spartiacque critico. L’unica causa che potrebbe spiegare questo dato di fatto, dopo che è passato un così lungo lasso di tempo, è che la “velocità di lancio” dell’universo fosse stata, in qualche modo,
“scelta”. Credetemi. Stiamo veramente parlando di bruscolini.
Il destino si gioca su di una frazione pari a 1 su 10 seguito da trentacinque zeri! Vi rendete conto della sfiga? Cristo santo! O sei di qua, o sei di là. Noi siamo in una situazione d’instabile centrismo.
Ecco: l’universo è dell’Udc.
Dopo questa ultima, terribile, constatazione, ho bisogno di prendermi un lungo periodo di riflessione. Lo spettro della Democrazia Cristiana mi impone di fermarmi e di aprire una seria valutazione sulla vita di questa rubrica.
Se volete salvarmi, in qualunque modo, scrivetemi a [email protected]
L
’ho fatto anche in aereo. Bella esperienza, pure se scomoda: spazi stretti, vuoti d’aria, quel certo senso di nausea che dà il non aver la terra sotto i piedi. Ho sempre trovato il modo di farlo in treno. L’ho fatto molte volte, molte volte davvero, e l’ho sempre trovato abbastan- za comodo. Certo, l’ho fatto in macchina, spesso, spessissimo, ma mai quand’ero alla guida, non ho necessità così impellenti. L’ho fatto ovvia- mente a letto, ma preferisco di gran lunga il divano. L’ho fato sui tappeti, e sui cuscini, ma alla lunga mi fa male la schiena. L’fo fatto una volta sola sul tavolo, così, per esotismo. Le sedie? Sì, anche sulle sedie. Sincera- mente non capisco come possa piacere farlo in piedi. Per carità, in caso di necessità anche in piedi va bene. Bisogna sapersi adattare, non sempre si può scegliere.L’ho fatto prima di addormentarmi, la sera, arrendendomi quand’ero trop- po stanco per continuare dignitosamente. L’ho fatto la mattina presto, al risveglio, con la mente ancora annebbiata, la bocca impastata, i capelli scompigliati, ma con la complicità del caldo delle coperte. La maggior parte delle volte, però, l’ho fatto di pomeriggio. Non riesco a farlo bene con la musica di sottofondo, non c’è niente da fare, mi deconcentra; molti dicono che concilia, aiuta, stimola, sprona, incoraggia. A me disturba e basta, finisco per innervosirmi. Invece, strano a dirsi, lo faccio benissimo davanti la tv. La tv mi piace, mi esalta, perché no, mi aiuta.
Lo faccio quasi sempre con la luce accesa, mi piace tenere tutto sotto con- trollo. A volte la penombra aiuta, e allora va bene, ho detto, facciamolo pure nella quieta discrezione della penombra. L’ho fatto subito dopo aver mangiato, ma non è mai stato un gran che. Devo dire che non l’ho mai fatto per lavoro, ma non si sa mai, magari un giorno potrebbe essere una prospettiva da prendere in considerazione. L’ho sempre fatto per puro e semplice diletto, ovvero come andrebbe fatto sempre, anche se ogni volta mi impegno come se non fosse uno svago ma un esercizio in cui mostrare rigore, durezza e mai impotenza.
L’ho fatto da sbronzo, o almeno credo. sapete meglio di me che di quei momenti poi non si ricorda davvero nulla. L’ho fatto al mare, e pure spes- so. Le giornate spese al mare conciliano, aiutano, sembrano fatte appo- sta per quello. L’ho fatto in montagna, sì anche nelle rarissime volte che sono andato in montagna, ho trovato un ritaglio di tempo per farlo. L’ho fatto pure al lago, anche se non molto spesso. Farlo in acqua mi rilassa,
ma devo dirlo, lo trovo abbastanza scomodo. Alcuni mi hanno detto che lo fanno legati, ma sinceramente non ho mai capito come.
In due è bellissimo, non c’è proprio nulla da dire, ma ad essere sinceri da quando mi è successo di farlo in molti, non sono più riuscito a smettere. Forse è per questo che quando posso cerco di farlo davanti a tutti, non importa se è una cosa spontanea in strada od organizzata per bene in un locale o a casa di amici. Va bene tutto purché si faccia, e si faccia bene, e ad alta voce.
Sì, mi piace farlo ad alta voce. E’ tutta un’altra cosa, tutta un’altra espe- rienza, tutto un altro tipo di passione; dovreste provare. La maggior parte delle volte però l’ho fatto in silenzio, senza dire nulla, senza lasciarmi scappare nulla di più di un sospiro ogni tanto. Molti lo fanno sussurrando qualche parola ogni tanto, ma no, non fa per me. Con le mie ex l’ho sem- pre fatto, e spesso, ma ora che sono single mi tocca farlo da solo.
Al liceo ancora non lo facevo, non lo avevo scoperto, e chissà, forse oggi lo faccio così tanto solo per rimettermi in pari col mio passato. Non serve dire quanto siano fondamentali i sentimenti, e certo influenzano molto il come e il perché lo faccio. Mi è capitato raramente di farlo da arrabbiato, spessissimo da innamorato, a volte l’ho fatto per una stupida ripicca, e lo confesso, a volte l’ho fatto per tradire. L’ho fatto anche per noia, magari per ammazzare il tempo di un’interminabile attesa alla stazione dei treni o degli autobus. L’ho fatto sempre con passione, quasi mai con freddez- za, lo faccio sempre per imparare qualcosa di nuovo sul mondo, sugli altri e soprattutto su me stesso. L’ho fatto con magnificenza, con miseria, l’ho fatto per beneficenza, per dimostrare un atto di democrazia, l’ho fatto per dimenticare, l’ho fatto per abbattere le differenze sociali, quelle cul- turali, per eliminare le distanze geografiche, per avvicinare qualcuno e a volte per allontanare qualcun’altro. Mi è capitato di farlo senza pensarci troppo, e a volte l’ho fatto scendendo a compromessi, l’ho fatto come se non ci fosse più un domani, come se fosse l’unica cosa che mi importava davvero fare in quel momento, l’ho fatto per eludere, per fuggire dalle mie responsabilità, per compromettermi, l’ho fatto anche per un certo tipo di riscatto morale, per un riscatto sociale. L’ho fatto perché a volte era un atto politico, l’ho fatto per non avere né rimpianti né rimorsi, l’ho fatto per abbandonarmi ad un atto di pura e semplice voluttà, l’ho fatto per avere un risarcimento da parte della vita, l’ho fatto perché è un atto poe- tico, perché è un vero atto d’amore nei confronti de mondo, l’ho fatto per arricchirmi, l’ho fatto perché suonava bene, l’ho fatto perché era gratis, l’ho fatto per darmi un tono. Mi è capitato di farlo per tutti questi motivi, per tutti i motivi contrari e soprattutto per tutti i motivi che devono ancora venire.
Sì, la cosa che mi piace fare di più nella vita è LEGGERE.
di Ferdinando Morgana
E
vadere. Scappare da questo letto, da questa casa, da queste ca- tene che arginano il flusso della mia fantasia. Sfuggire, correre via voltandosi indietro solo per controllare di non essere segui- ti, senza alcun rimpianto e nostalgia alcuna. Allontanarsi passo dopo passo, lasciare un’impronta sempre più leggera fino all’estasi. Librar- si in un cielo uggioso, in un mare di nubi e poi volare verso cieli più tersi. Cercare la fonte dell’eterna giovinezza, visitare la dimora degli dei e rubarne l’ambrosia. Giocare con le aquile, volteggiare piroet- tando, scorgere l’ombra del vento. Ondeggiare intorno al sole sulle orme di Icaro. Vicino e lontano. Alla deriva. Accudire come un neonato i propri sogni, accarezzare dolcemente le proprie fantasie, accredi- tare i propri desideri. Contemplare. Varcare la porta che introduce all’infinito. Trascendere da tutto. Cavalcare la doppia via della paz- zia: andare e tornare, essere e apparire, vagare e rimanere. Scandire scetticamente il tempo che passa, ore minuti secondi, aspettando il limite massimo per buttarsi. Prendere la rincorsa, posare un piede dopo l’altro, all’estremo saltare guardando gli altri con viso protervo e sfidare la vita con boria. Il cuore stranamente pimpante di vitalità, lo sguardo troppo a lungo spento rinvigorito, parole mordaci che rim- bombano nello spazio. Allargare le braccia per ricongiungersi all’uno,assaporarne il salto.
Ma poi qualcosa si spezza. Allora non è più volare liberi, fluttuare tra correnti amiche, è precipitare, fendere i venti, disturbare la quiete.
Competere con la forza di gravità e uscirne miseramente sconfitti.
Guardare avvicinarsi sotto di sé il termine ultimo, l’impatto, il suo- lo: la fine. Disperati, chiudere gli occhi continuando a ripudiare il fa- talismo e schiuderli al soffitto, mentre le tenebre avvolgono ancora gli animi. Di nuovo prigionieri di quelle coperte troppo calde, di una vita poco inerente. Come una farfalla in una ragnatela, una lepre tra gli artigli di un’aquila. Nessuna via di salvezza, destinati a protrarre giorno dopo giorno un’immobile esistenza. Simili a una palla che rim- balza avanti e indietro. Avanti e indietro. Avanti e indietro, come un pendolo ottocentesco. Moto perpetuo nell’immutabile, stoica rinasci- ta del mondo. Con l’illusione del mutamento, autoconvinzione nella speranza. Scintilla pronta a divampare ma subito smorzata, stronca- ta, schiattata da un pensiero. Prima lieve nebbia, poi macigno nella mente: nulla cambierà. Disagio ancestrale, dubbio primitivo, imba- razzo adolescenziale. Angoscia nel cuore, deficienza nel movimento, respiro mozzato, parole strozzate in gola. Fronte imperlata di su- dore, simboliche danze di ombre nella notte spenta. Con un’uni- ca luce. Necessità oggettivo, esigenza spirituale, realtà virtuale:
bisogno di scappare. Evadere.
Delirio mensile
di Francesca Caselotto